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PDL 304

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 304



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

BUONTEMPO, BRIGUGLIO

Introduzione dell'articolo 602-bis del codice penale concernente lo sfruttamento del lavoro reso in condizioni di schiavitù

Presentata il 29 aprile 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - Nessuno dubita che il crimine della riduzione in schiavitù al fine dello sfruttamento del lavoro debba essere sanzionato in modo severo e combattuto con ogni mezzo. Purtroppo però le misure adottate per fronteggiare il fenomeno non appaiono sufficienti a contrastare efficacemente lo sfruttamento di persone che sono ridotte in stato di schiavitù, decine di migliaia di individui privati della loro libertà personale, della loro dignità e perfino, spesso, del proprio nome.
      In particolare, l'ordinamento vigente, nonostante gli interventi in materia apportati negli ultimi anni, non prevede tra le fattispecie criminose quella specifica di chi si avvale del lavoro o comunque delle prestazioni di chi versa in condizioni di schiavitù; gli strumenti offerti non permettono al giudice di inquadrare sempre e con chiarezza i termini della violazione di legge. Infatti il codice penale prevede, all'articolo 600, il reato della riduzione in schiavitù - che pur ha suscitato molte incertezze interpretative - e all'articolo 601 quello della tratta e commercio di schiavi; resta non disciplinata la condotta di chi, pur conoscendo o potendo conoscere le condizioni di schiavitù cui è ridotto un individuo, si avvale del suo lavoro e del prodotto del suo lavoro. Viene dunque sanzionato il comportamento di chi riduce una persona in schiavitù, di chi la mantiene in tale stato, di chi la trasporta e di chi la possiede come una cosa, la compra o la vende, ma nulla si dice sul caso di coloro che rappresentano la «domanda» di lavoro coatto. La ragione d'essere di chi riduce in schiavitù e di chi mantiene in schiavitù o trasporta la vittima è l'individuo che versa denaro per usufruire della persona ridotta a cosa che produce lavoro; è l'utilizzatore degli schiavi, colui che gode del frutto del loro
 

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lavoro, che ne crea il commercio. Invece la nostra legislazione non osserva il caso di chi «prende in affitto» la persona ridotta a cosa per sfruttarne il lavoro, magari solo per un periodo determinato di tempo e paga non la persona che lavora, ma coloro che tengono sotto minaccia di violenza o di morte la persona stessa o i suoi cari.
      Le persone che entrano in contatto con gli schiavi spesso sanno benissimo che la condizione di questi non è quella di libertà, e anche nei pochi casi che utilizzino saltuariamente le prestazioni degli schiavi, possiamo immaginare solo casi marginali in cui non possa sorgere il sospetto che non ci si trovi su un piano di rapporto di libera determinazione dell'altro; non è pensabile che si possa avere un rapporto con una persona, senza curarsi del suo stato di libertà. Si consideri che la legge punisce l'incauto acquisto di un bene di cui si possa sospettare la provenienza furtiva: è possibile che la legge preveda l'obbligo di preoccuparsi della legittima proprietà di un bene e non dello stato di libertà di una persona?
      Si rende, dunque, necessario ridefinire meglio i termini della lotta allo schiavismo, rendendoli più aderenti alla realtà del fenomeno, invero multiforme e sfuggente alle vigenti definizioni di legge.
      Il quadro che appare dalle notizie relative allo sfruttamento del lavoro coatto in Italia è sconcertante. Le mafie cinese e albanese, tanto per citare quelle maggiormente dedite a questo tipo di aberrante attività, sfidano la legge, nonostante le pene severe - mai abbastanza! - previste per gli schiavizzatori perché hanno il loro ricco tornaconto.
      Esemplare è il caso di Prato, dove i lavoratori cinesi, quasi tutti irregolari, lavorano forzatamente in condizioni al limite dell'umano e del vivere civile per riscattare un debito contratto con aguzzini che minacciano la loro vita e quella dei loro familiari.
      Con la presente proposta di legge si intende, dunque, introdurre, tra le fattispecie criminose previste dal codice penale, quella di chi si avvale del lavoro o dei servizi di schiavi, o comunque sfrutta o utilizza i prodotti del loro lavoro.
      Chi domanda una prestazione lavorativa in genere non può, infatti, sottrarsi alle proprie responsabilità, semplicemente dichiarandosi ignaro dello status della persona di cui intende avvalersi; ognuno deve farsi parte diligente per non incorrere in situazioni riconosciute come fattispecie criminose che vanno severamente punite.
      Queste previsioni rispondono peraltro alla logica già accettata dalla Camera dei deputati che nella passata legislatura approvò l'ordine del giorno Buontempo 9/1255/5 con il quale si impegnava il Governo a intraprendere celermente le iniziative opportune contro «chi conoscendone la condizione si avvale di prestazioni lavorative o sessuali da parte di una persona ridotta in schiavitù». Si auspica, dunque, una tempestiva approvazione della presente proposta di legge.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Dopo l'articolo 602 del codice penale è inserito il seguente:

      «Art. 602-bis. - (Sfruttamento del lavoro reso in condizioni di schiavitù). Chiunque si avvale, conoscendone o potendone conoscere la condizione, di prestazioni lavorative o di servizi resi da persone che si trovano in stato di schiavitù è punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa da 10.000 a 75.000 euro».


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