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PDL 701

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 701



 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

d'iniziativa del deputato PISICCHIO

Modifica all'articolo 2 della Costituzione in materia di riconoscimento e tutela del diritto al benessere

Presentata il 15 maggio 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - La caduta delle ideologie, l'inveramento di un'egemonia delle categorie economiche significano dunque «fine della politica»? Ancora: qual è lo scopo della politica oggi, deprivata della sua proiezione teleologica, indissolubilmente connessa alla dimensione ideologica?
      L'ideologia, infatti, forniva una ragione alla politica, gettando su ogni azione compiuta in suo nome un cono di luce che ne caratterizzava l'intero disegno, ricomponendo nella teleologia della società rinnovata o rivoluzionata la ragione ultima dell'agire politico. La consumazione del fine ideologico rischia dunque di lasciare orfana di senso la politica.
      Le equazioni correnti tra tecnicalità e politica, la riduzione, cioè, di quest'ultima a somma di saperi tecnici e perciò stesso neutri e dunque fungibili a qualsiasi esperienza di governo, rappresenta l'estremo esito della mancanza di ancoraggio ideologico e della riduzione della ragione di ogni agire politico a pura autoreferenzialità. A ben vedere, però, non dovrebbe essere così: anzi la consumazione di ogni sovrastruttura ideologica consegna la politica alla funzione che le è più connaturata, quella, cioè, della ricerca di risposte plausibili ai bisogni dell'uomo, considerato sia nella sua dimensione di singolo che nella sua dimensione sociale.
      Dunque il nuovo tempo ridisegna l'assoluta politicità dei bisogni umani. La questione, semmai, è nel discernimento tra bisogni autentici e desideri effimeri, prodotti dall'industria del consumo. L'affastellamento degli eventi, la caduta alluvionale di episodi e frammenti di realtà spesso contraddittori fra loro, l'implosione dei sistemi, delle ermeneutiche, dei valori del passato e la loro sostituzione con situazioni nuove dal segno ancora indecifrabile
 

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sono tutti elementi che concorrono a creare un effetto di straniamento e di alterazione della percezione della storia, che certamente non aiutano a rendere più chiara la gerarchia dei bisogni umani e a riallocare la politica nel binario della modernità.
      È chiaro, tuttavia, che non saranno certamente le lenti deformanti degli ideologismi dei secoli scorsi a consentire una più nitida lettura dei nostri bisogni. Un ideologismo che ci consegnava una visione dell'uomo a due dimensioni soltanto, quella economicistica e quella giuridicistica, per governarne l'agire in un consorzio sociale in cui era del tutto bandita la dimensione della felicità, intesa come soddisfazione dei bisogni materiali, ma anche spirituali, come il bisogno d'amore.
      Del resto come avrebbe potuto trovare cittadinanza all'interno di una cultura politica volta a sublimare i bisogni insoddisfatti, un carica vitale, eversiva e insofferente ad ogni tentativo di razionalizzazione entro governabili categorie giuridico-economiche, come l'amore, pulsione «rivoluzionaria» per definizione? La felicità, dunque, sfugge alle categorie della vecchia politica perché essa ha lo sguardo rivolto al passato, a un conflitto tra codici e procedure ideologiche incapaci oggi di interpretare la realtà e i bisogni dell'uomo alla luce anche di una modernità che si costruisce sulla nuova scienza e sulle nuove tecnologie.
      Un nuovo Marx che nascesse oggi, infatti, non potrebbe scrivere il suo Capitale senza tener conto delle scoperte della genetica, della psicanalisi, della fisica, della cibernetica, con gli influssi destabilizzanti sull'universo arcaico dell'operaismo della prima rivoluzione industriale. Né potrebbe trascurare la valutazione degli esiti funesti del marxismo e la sua definitiva estinzione.
      Il nuovo tempo, dunque, assegna compiti più rischiosi alla politica, fuori dai rassicuranti e usati binari dell'ideologismo: favorire il compimento della rivoluzione che le nuove tecnologie, la nuova organizzazione del lavoro e del tempo libero, la nuova forma della distribuzione di ricchezza hanno avviato, per offrire le risposte più soddisfacenti ai bisogni dell'uomo che hanno al fondo un'unica impellente e ineludibile domanda: l'ottenimento della massima felicità possibile nella società complessa che la modernità allestisce per ognuno di noi.
      Se la felicità è il movente della politica, deve allora potersi coniugare con una dimensione pubblica, in cui il «privato», luogo necessario per la ricerca e l'affermazione del bonheur personnel, possa interagire con il «collettivo». Perché se «il personale è politico» come, con forte suggestione, affermavano i contestatori del sessantotto promuovendo finalmente il privato al rango di urgenza della politica, è vero pure che la vocazione della politica si versa per sua stessa natura nello spazio pubblico.
      Uno spazio descritto da Hannah Arendt come unica dimensione plausibile della libertà, intesa come «diritto di essere partecipi del governo». Per la Arendt addirittura politico e privato sono collocati in posizioni antitetiche in un immaginario asse cartesiano dei valori. Ma, a ben vedere, l'incitamento che la Arendt rivolge ad ogni uomo è a riversare nella sfera pubblica la tensione e l'impegno capitalizzati nella dimensione privata. Rinunciare all'impegno significherebbe essere «privati» di qualcosa: perdere la politica e la sua attitudine a farsi strumento di partecipazione al destino collettivo.
      L'antitesi arendtiana pubblico/privato, se c'è, riguarda il ripiegamento sulle piccole felicità domestiche inteso come appagamento del «poco» e come rinuncia all'impegno nobile della politica. La politica, allora, è lo strumento per la costruzione della storia collettiva dei popoli che non può non avere come fine la felicità. Dunque la politica, in una versione attualizzata dell'Etica Nicomachea di Aristotele, in quanto attività umana che tende a un fine, oggi recupera la sua dimensione mettendo al centro del suo agire la felicità individuale che prende corpo e consistenza non come gamma infinita di risposte possibili alla crescita esponenziale dei desideri.
      Sarebbe questa una visione riduzionista che persino il nichilismo nicciano avrebbe
 

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rifiutato ricorrendo alla parabola della «vogliuzza» («una vogliuzza per il giorno, un vogliuzza per la notte, ferma restando la salute. Noi abbiamo inventato la felicità, dicono i piccoli uomini e strizzano l'occhio»). Ma la felicità individuale si afferma compiutamente solo all'interno del consorzio umano: non si può godere di una felicità piena in una dimensione di estraneità dal sistema delle relazioni interpersonali. La felicità individuale, pertanto, ha bisogno di situarsi in un contesto umano il più possibile felice, condizione stessa della sua affermazione.
      E se la politica non può di per sé generare felicità (al più predisporre le condizioni affinché la felicità collettiva e dunque individuale possa più agevolmente annidarsi, rimuovendo gli ostacoli, assicurando la godibilità della natura, garantendo i diritti fondamentali dell'uomo, la sua sicurezza, l'esigenza di estetica, di salute, di benessere di cui ognuno è portatore), la felicità come diritto di ognuno alla ricerca del proprio eudamon, deve restare l'utopia di cui la politica, scarnificata dall'ideologismo dei secoli passati, andrà a nutrirsi. Utopia come modello ideale cui tendere, misura dell'azione, orma su cui condurre il passo della nostra storia.

La stagione delle Costituzioni illuministe

      L'inserimento della felicità tra i diritti individuali codificati in un corpus costituzionale ha una singolare genesi che merita di essere rammentata. Come è largamente risaputo, risale all'intuizione di Jefferson il celebre riconoscimento del diritto di tutti gli uomini (dunque non solo dei «cittadini» di «quel» particolare Stato) alla «vita, alla libertà e al perseguimento della felicità», che fa splendida mostra di sé nella «Dichiarazione dei diritti» americana del 1776. Ciò che è meno noto, e che è interessante raccontare, è che quel valore orientò generosamente le opere di codificazione settecentesche in coppia con un altro principio.
      Gli ordinamenti giuridici del mondo moderno, infatti, a partire dalla seconda metà del settecento, si misurarono consuetudinariamente con la nozione di «bene comune» e di «felicità», quali approdi teleologici dell'organizzazione politica. La diade «bene comune» e «felicità pubblica» ha, anzi, rappresentato un elemento caratterizzante il costituzionalismo del XVIII secolo, inteso come codificazione di sistemi di regole e di percorsi organizzativi della politica discendenti dalle dichiarazioni dei diritti (o Carte dei diritti), figli della cultura illuminista. Alle Carte dei diritti venivano riconosciute una anteriorità logica e una primazia morale sulle costituzioni, chiamate, invece, ad offrire una forma concreta e storicamente determinata all'organizzazione del potere. Se la «felicità» secondo le Costituzioni illuministe è, dunque, lo scopo dell'umanità, il «bene comune» rappresenta l'insieme delle condizioni e delle garanzie predisposte alla sua realizzazione.

L'impostazione lavorista della Costituzione italiana

      Non si rintraccia un solo cenno dell'aspirazione illuministica alla felicità nella Costituzione italiana. Nemmeno delle sue declinazioni più soft, quali il benessere o la qualità della vita. Non nella Costituzione e neppure nel dibattito che la precedette e la accompagnò nell'Assemblea costituente e nella sterminata pubblicistica dell'epoca.
      Non v'è felicità nella Costituzione vigente: l'incipit, perentorio e austero, è una dichiarazione programmatica che impregnerà di sé l'intero impianto insistendo sulla diade «democrazia e lavoro». Articolo 1: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». In verità, se il carattere «democratico» della Repubblica si svolge già in territorio giuridico, per essere poi completato dall'articolo 5 (il riferimento dello Stato democratico è alla Repubblica parlamentare, una e indivisibile, che si articola nelle autonomie locali), più difficile appare il conferimento di una rilevanza giuridica all'inciso «fondata sul lavoro». Definizione pregna di sapore politico,

 

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sociale, storico, economico, perfino. Ma non giuridico.
      Spiegherà l'autore della formula, approvata poi dall'Assemblea, un giovanotto di nome Amintore Fanfani: «(...) dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui».
      Il principio trova suo coerente completamento con l'articolo 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Più incalzante ancora è il secondo comma che ripropone la dimensione del lavoro vista, però, dal lato del dovere: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». È ancora Fanfani, attivissimo nell'impegno di proposta in tema di rapporti economici, ad illustrare la portata dell'inserzione in capo ai princìpi fondamentali della norma programmatico-teleologica sul diritto-dovere del lavoro: «(...) affermazione del dovere di ogni uomo di essere quello che ciascuno può in proporzione dei talenti naturali, sicchè la massima espansione di questa comunità potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato (...) il massimo contributo alla prosperità di tutti». Gli articoli 1 e 4 non sono che gli esiti testuali di una complessa mediazione tra posizioni che, dal lato della cultura marxista (che non era precisamente irrilevante nella Costituente), proponeva di assumere come unità fondamentale dell'ordinamento democratico il «lavoratore» piuttosto che il cittadino (si vedano gli emendamenti Amendola, Laconi, Iotti, Grieco e poi Basso, Nenni, Togliatti «L'Italia è una Repubblica democratica di lavoratori»).
      Gli emendamenti comunisti furono respinti con una motivazione spiegata dall'onorevole Gronchi, a nome della DC, e relativa al sapore «classista» del termine lavoratore. Ma restò l'opzione Fanfani: «Repubblica fondata sul lavoro». Una sola voce, in verità, si levò a sostegno di una visione più incline a raccogliere echi di suggestioni liberaldemocratiche: un emendamento presentato da La Malfa e sottoscritto tra gli altri da Gaetano Martino, Codignola e Silone, proponeva la più moderna formula «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro». Ma fu respinta. Negli altri emendamenti, respinti, ritirati, decaduti od assorbiti, non v'è traccia alcuna di riferimenti esulanti dal concetto di lavoro o di giustizia sociale quali ragioni fondanti della Repubblica (Cortese: «ha per fondamento il lavoro»; Fabbri: «alla parola "il lavoro" sostituire "la giustizia sociale"»; Russo Perez: «la Repubblica ha per fondamento essenziale il lavoro e (...) i lavoratori del braccio e della mente» eccetera).
      A ben vedere, però, l'articolo 2, che nel progetto originario recava il numero 6, avrebbe potuto opportunamente integrare la norma-principio contenuta nell'incipit delle nostra Costituzione, laddove soprattutto chiama in causa i «diritti inviolabili dell'uomo», riconoscendoli e garantendoli uti singuli e uti collettivi.
      Ma, a parte la pronta evocazione del sinallagma «adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà» che si rintraccia nella seconda parte dell'articolo, a rammentare ruvidamente che la possibilità di fruizione dei diritti è sempre mazzinianamente correlata all'assolvimento dei doveri, l'area stessa dei diritti è definita anche questa volta da un concetto metagiuridico.
      Il lungo dibattito nella I Sottocommissione aveva portato all'individuazione di una vasta area di diritti «fondamentali», solo in parte riconosciuti ed espressamente definiti dai successivi articoli della Costituzione, ma è chiaro che nell'espressione «diritti inviolabili» non possono non ricadere quelli che vengono accolti dalla tradizione giuridica come «diritti naturali», dal diritto alla vita, al diritto all'onore, al diritto di formarsi una famiglia, eccetera.
      La facies dei doveri naturali viene poi definita per contrasto: il dovere di rispettare la vita, il dovere di onorare l'altrui, eccetera.
      Credo, tuttavia, che riassuma con molta efficacia l'intento che animava la I Sottocommissione
 

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nel concordare un progetto di articolo che non ebbe poi grande discussione in Assemblea, un ordine del giorno Dossetti che, in capo alla individuazione dei caratteri che il nuovo articolo sui diritti inviolabili dovrà avere pone, prima ancora del principio antitotalitario, quello anti-individualistico.
      Così, infatti, recita l'ordine del giorno Dossetti: «La Sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell'uomo, esclude quella che si ispiri ad una visione soltanto individualistica». E come poteva trovare asilo all'interno di un impianto così nettamente vocato alla declinazione sociale dell'uomo, quel bene così tremendamente immateriale, così indeflettibilmente soggettivo, così irrimediabilmente refrattario a misurazioni «oggettive», così dichiaratamente individualista (anche se «naturalmente» alimentato da una dimensione «sociale») che anche ai tempi della Costituente si chiamava felicità?
      No che non poteva, in quella stagione difficile, in cui il benessere andava consumato in morigerato silenzio, al riparo dagli occhi dell'altro, per non offendere i troppi che si agitavano nell'ordinario mal-essere, perché anche una risata troppo fragorosa poteva apparire blasfema.

Una nuova ispirazione

      Il fine della politica: la felicità. Ma anche il principio ispiratore dell'intero impianto costituzionale che potrà accettare come preambolo l'affermazione jeffersoniana dichiarativa dei diritti che l'uomo riceve per natura: la vita, la libertà e la ricerca della felicità. In un'accezione moderna il riferimento alla felicità può agevolmente tradursi nell'affermazione del benessere, inteso come «salute globale» dell'individuo, come insieme, cioè, di condizioni materiali e psicologiche, di situazioni concrete e di volizioni dello spirito, che, secondo la peculiare sensibilità e i particolari bisogni di ognuno, e all'interno di un contesto sociale orientato verso gli stessi obiettivi, realizzi il più alto e duraturo stato di felicità possibile.
      Porre in capo alla Costituzione tale principio, capovolge la prospettiva valoriale su cui è costruito l'ordinamento, provocando un ribaltamento etico che però non modifica assolutamente la gerarchia né la struttura delle norme-principio, ma fornisce una nuova luce al titolo I, togliendo al diritto al lavoro l'incomodo di caratterizzare, con tutta l'enfasi sacrificale di cui l'articolo 1 è generosamente portatore, l'intero assetto della nostra Costituzione. Essa sarà così informata al principio post-ideologico del diritto individuale alla ricerca del benessere (nel perimetro, s'intende, assegnato a ogni ricerca umana dalle democrazie liberali, con un limite precisamente segnato nel diritto dell'altro) e non a quello, ormai superato dalla coscienza popolare, del sacrificio come fine ultimo dell'agire individuale e collettivo.

 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

      1. Al secondo comma dell'articolo 2 della Costituzione, dopo le parole: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo» sono inserite le seguenti: «e tra essi il diritto alla ricerca del benessere».


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