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PDL 595

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 595



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato LUCCHESE

Modifica all'articolo 21 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, in materia di precedenza nel trasferimento di sede per le persone handicappate

Presentata il 10 maggio 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - Sulla materia in oggetto, al fine di integrare una norma che può esporsi ad interpretazioni differenziate da parte dei vari organi di giurisdizione, innescando gravi disparità di trattamento, come peraltro è già avvenuto, sono già state presentate nel corso delle passate legislature diverse proposte di legge (atto Camera n. 3326 della XII, atto Camera n. 2956 della XIII e atto Camera n. 650 della XIV legislatura).
      Considerata l'importanza della materia disciplinata con la legge n. 104 del 1992, la matrice costituzionale del diritto tutelato, la portata generale della norma nonché l'alto valore umanitario e sociale che la stessa riflette; considerata inoltre l'urgenza di eliminare ogni e qualsiasi possibilità di discriminazione nell'applicazione della stessa norma, nonché la modesta spendita di tempo che tale opera di giustizia sociale comporta, ripropongo alla vostra sollecita attenzione, discussione e approvazione la proposta di legge in argomento, facendo proprie e sottoscrivendo le motivazioni espresse dai colleghi deputati che la presentarono originariamente e che qui, di seguito, si riproducono integralmente.
      L'articolo 21 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, stabilisce:

      «1. La persona handicappata con un grado di invalidità superiore ai due terzi [...] assunta presso gli enti pubblici come vincitrice di concorso o ad altro titolo, ha diritto di scelta prioritaria tra le sedi disponibili.
      2. I soggetti di cui al comma 1 hanno la precedenza in sede di trasferimento a domanda».

      L'articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, dedicato alle «agevolazioni» a favore dei suindicati soggetti, prescrive al comma 6: «La persona handicappata maggiorenne

 

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in situazione di gravità può usufruire alternativamente dei permessi di cui ai commi 2 e 3, ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferita in altra sede, senza il suo consenso».
      Non v'è dubbio che si tratti di un diritto di matrice costituzionale, di portata generale, in quanto espressione diretta della salvaguardia della salute e della dignità umana garantita dai princìpi fondamentali della nostra Costituzione (articoli 2 e 3), nonché del dovere inderogabile di solidarietà sociale (articolo 3 della Costituzione).
      Tale diritto non può pertanto tollerare eccezioni né compressioni se non, esclusivamente, di fronte ad esigenze imperative ed altrettanto generali, quali quelle della sicurezza nazionale, dell'ordine pubblico e della morale comune.
      Ciononostante, è ancora vivo il ricordo dell'episodio, già denunciato nelle citate proposte delle scorse legislature, per cui è stata respinta l'istanza di un docente universitario, dializzato trisettimanalmente, volta ad ottenere il trasferimento ad un posto disponibile presso università vicina al proprio domicilio, in base all'opinione che la disciplina di tutela dell'handicappato non possa trovare applicazione nel caso di trasferimento di professori universitari in quanto:

          a) pregiudiziale al loro trasferimento è l'espressione del gradimento da parte della facoltà di destinazione, stante il requisito di autonomia di cui godono le università;

          b) le università non possono essere ricomprese tra gli enti pubblici ai quali si riferisce la legge 5 febbraio 1992, n. 104.

      A parte la speciosità dei convincimenti espressi allora dal Ministero dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica (e, quel che è più grave, avallati con molta leggerezza dal Consiglio di Stato in sede consultiva), qui si tratta di valutare quale dei due princìpi, quello del diritto alla salute di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna, e quello dell'autonomia universitaria, prevalga in caso di ipotesi di conflittualità.
      La Corte costituzionale ha già avuto modo di esprimersi al riguardo, con molta avvedutezza, allorquando ha considerato che quella delle università non è «un'autonomia piena ed assoluta, ma un'autonomia che lo Stato può accordare in termini più o meno larghi, sulla base di un apprezzamento discrezionale che, tuttavia, non sia irrazionale» (Corte costituzionale 14 maggio 1985, n. 145). Orbene, sarebbe «irrazionale» la previsione di un'autonomia tale (in materia di trasferimenti di docenti, cui la legge riconosce il titolo idoneo all'insegnamento di una determinata materia in tutte le università della Repubblica) da inibire l'applicazione di disposizioni di legge che costituiscono princìpi di riforma economico-sociale della Repubblica e che trovano ineludibile radicamento nei princìpi fondamentali della Costituzione.
      Peraltro, non risponde neanche a verità incontrovertibile che il trasferimento dei professori universitari sia sempre e comunque subordinato all'espressione di gradimento della facoltà di destinazione. Questo infatti viene meno ogni qualvolta il bene tutelato rifletta interessi di più ampia e decisa pregnanza, quale quello del superiore ordine degli studi, dell'imparzialità della pubblica amministrazione, del giusto contemperamento tra diritti individuali e interessi collettivi. D'altronde, è lo stesso ordinamento universitario ad offrire evidenti ed inequivocabili esemplificazioni di cedevolezza del meccanismo del «gradimento» di fronte ad esigenze di ordine superiore: nell'articolo 3, secondo comma, del decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 238, che subordina la legittimità del «gradimento» alla tutela del superiore interesse degli studi, alla mancanza di manifesta ingiustizia e alla completezza e non contraddittorietà della motivazione di «gradimento».

      Per altro verso, il Consiglio di Stato ha avuto modo di pronunciarsi in merito alla cedevolezza del requisito dell'autonomia

 

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delle università, nella specie della loro potestà di cooptare e di prescegliere il docente mediante chiamata, di fronte al meccanismo concorsuale a cattedra o per trasferimento: «l'istituzione universitaria, nel momento in cui chiede il concorso, deve essere consapevole che la richiesta di concorso si deve intendere fatta per incerta persona e non per un candidato predeterminato, sicché la scelta del docente è in ultimo affidata al meccanismo di soluzione concorsuale», restando pertanto superato «ogni eventuale legame fiduciario tra la singola facoltà e il candidato vincitore» (Consiglio di Stato, Sez. II, 7 aprile 1993, n. 1165/92).
      Ma soprattutto elementari considerazioni di mera logica conducono a non poter ritenere intangibile il meccanismo del «gradimento» quale necessario corollario del principio di autonomia universitaria: se avesse valore esclusivo il gradimento della facoltà, non avrebbe alcun senso bandire concorsi a cattedra o per trasferimento, in quanto su qualsiasi titolo presentato dai candidati risulterebbe prevalente, sempre e comunque, la posizione del candidato che, ancorché evidentemente più debole, avesse ottenuto il «qualificato gradimento» della facoltà, fermo restando, peraltro, che il mancato gradimento nei confronti del docente handicappato potrebbe essere stato originato proprio dalla consapevolezza della facoltà che le condizioni di menomazione fisica del docente consentono a questi un impegno lavorativo ridotto rispetto agli altri docenti in buone condizioni di salute.
      Sicché, l'ipotetico conflitto tra norme (quelle sull'autonomia universitaria e quelle sul diritto alla tutela della salute per tutti i cittadini) va risolto avuto riguardo alla differente pregnanza costituzionale delle stesse come al rispettivo radicamento nella coscienza sociale e nel diritto umanitario.
      A tale proposito va rilevato che l'Italia ha inteso assumere una serie di impegni di carattere internazionale che presiedono alla integrale tutela della persona umana, in generale, e della salute, in specie.
      Tale il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali che, all'articolo 12, impegna gli Stati sottoscrittori a riconoscere «ad ogni individuo», senza eccezioni, la possibilità «di godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di conseguire» (il Patto è stato ratificato dall'Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, ed è entrato in vigore per il nostro Paese il 15 dicembre 1978). Alla stessa stregua, la Carta sociale europea riconosce all'articolo 11, senza alcun condizionamento, «ad ogni persona il diritto di beneficiare di tutte le misure che consentano di godere del miglior stato di salute che esse possano raggiungere» (la Carta sociale europea è stata ratificata dall'Italia con legge 3 luglio 1965, n. 929, ed è entrata in vigore il 21 novembre 1965).
      Entrambi tali atti internazionali prevedono che gli Stati sottoscrittori possano fare dichiarazioni di eccezione o apporre riserve all'atto dell'adesione o della ratifica.
      L'Italia non solo non ha inteso apporre alcuna riserva, ma all'atto della ratifica della Carta sociale europea ha inteso esprimere ex verbis l'integrale accettazione degli obblighi sottoscritti: «Le Gouvernement italien accepte l'intégralité des engagements decoulant de la Charte». Con ciò, conferendo rilievo anche internazionale al proprio dovere inderogabile di solidarietà sociale sancito dall'articolo 3 della Costituzione.
      È peraltro notorio e ormai saldamente conclamato quale sia il valore di supremazia che gli accordi internazionali assumono nel nostro ordinamento per effetto della norma sulla produzione giuridica contenuta nell'articolo 10 della Costituzione, che prescrive l'obbligo costituzionale di adeguamento del nostro ordinamento alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.
      È del pari notorio che tra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute v'è la norma fondamentale pacta sunt servanda, che sancisce l'obbligatorietà costituzionale delle norme di natura pattizia.
 

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      Risulta evidente che, se fosse consentito ad una semplice «norma di regime» (qual è quella che fonda la specialità ratione materiae della disciplina dei trasferimenti dei professori universitari) porsi in deroga a «princìpi di struttura» dell'ordinamento (quali sono quelli del dovere inderogabile di solidarietà sociale dello Stato e quello dell'osservanza degli accordi internazionali), oltre che risultare agevolmente conculcabili diritti inalienabili della persona umana, risulterebbe consentita la violazione di norme internazionali con il conseguente insorgere della responsabilità dello Stato italiano sul piano internazionale.
      Sulla base delle considerazioni che precedono è agevole ritenere che, se la Corte costituzionale fosse investita del problema della legittimità costituzionale della normativa speciale sui trasferimenti dei professori universitari handicappati alla stregua del diritto degli stessi di ottenere il trasferimento a posti disponibili vicini al proprio domicilio, non avrebbe esitazioni in ordine alla affermazione della prevalenza delle norme che garantiscono la tutela dell'handicappato.
      Tuttavia, dati i meccanismi che nel nostro ordinamento consentono l'intervento dell'organo di legittimità costituzionale, si corre il consistente rischio che il giudice di merito adito non valuti necessario tale ricorso alla Corte costituzionale e ritenga fondata la propria competenza a decidere nel merito senza sollevare il problema di legittimità.
      La conseguenza più macroscopica sarebbe quella della possibilità di giudizi e valutazioni diversi a seconda del giudice adito, con una discriminatoria quanto esecrabile differenziazione di soluzioni giudiziarie.
      Ciò non può essere tollerato.
      Si impone pertanto l'intervento del legislatore, il quale con una semplice e lapidaria norma integrativa possa fugare ogni ragionevole dubbio e ogni perplessità ermeneutica.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Il comma 2 dell'articolo 21 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, è sostituito dal seguente:

      «2. I soggetti di cui al comma 1 hanno la precedenza in sede di trasferimento a domanda in qualsiasi ente pubblico, ivi compresi gli enti ad ordinamento autonomo e gli enti decentrati sul territorio, sempreché non vi ostino motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico».


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