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PDL 973

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 973



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

PEDRIZZI, SAGLIA, SALERNO

Disposizioni in materia di banche popolari

Presentata il 5 giugno 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - Nell'economia italiana, ove prevalgono di gran lunga le piccole e medie imprese, la presenza di banche con forte radicamento territoriale quali le banche popolari, naturale interfaccia dell'imprenditoria minore, è fattore essenziale e determinante di sviluppo economico.
      In questi ultimi anni il sistema bancario italiano ha vissuto un periodo di profonde trasformazioni, sia giuridiche sia strutturali. Molte banche, incapaci di competere nel nuovo scenario concorrenziale, sono scomparse. Nell'intento di dotare il nostro Paese di alcune aziende di credito di dimensioni adeguate al mercato europeo e «globale» sono state realizzate tutta una serie di fusioni, acquisizioni, incorporazioni, e sono nati poderosi gruppi bancari.
      Anche il sistema delle banche popolari è stato tra i protagonisti di questo profondo rinnovamento.
      Le banche popolari cooperative, infatti, da cento che erano agli inizi degli anni '90, sono oggi trentasette.
      Due cose però vanno subito sottolineate. In primo luogo, che il processo di consolidamento è avvenuto quasi esclusivamente all'interno della categoria. Cioè, banche popolari, anche di non piccola dimensione, sono state assorbite o si sono fuse con altre banche popolari, a riprova di una specificità e di uno spirito comune
 

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di appartenenza alla realtà e alla cultura del credito cooperativo.
      Inoltre, pur nel corso di questo grande processo di ristrutturazione che ha visto scomparire oltre il 60 per cento delle banche popolari cooperative esistenti in poco meno di tre lustri, il sistema delle banche popolari, preso nel suo insieme, ha fortemente accresciuto la presenza sul territorio e ha sensibilmente aumentato la sua quota di mercato.
      In altre parole, la contrazione del numero delle banche popolari cooperative è stata accompagnata da un'espansione del numero degli sportelli e da un forte incremento delle masse complessivamente intermediate, in termini sia di depositi sia di impieghi. Secondo autorevoli opinioni è stata proprio l'ulteriore espansione territoriale delle banche popolari e delle loro controllate ad aver evitato quei fenomeni negativi di «razionamento del credito» alle minori imprese che con la fusione dei vari istituti creditizi difficilmente avrebbe potuto altrimenti essere evitata.
      Alcuni dati confermano inoppugnabilmente quanto sopra esposto. Nel 1996, infatti, le province in cui la quota di sportelli delle banche popolari superava il 25 per cento erano ventiquattro, in diciassette tale quota superava il 30 per cento, e infine in nove il 40 per cento.
      Ebbene, il numero di province in cui tali percentuali, riferite alle banche popolari e alle loro controllate, sono state raggiunte, nel 2005, è salito rispettivamente a quarantanove, a trentatre e a diciassette.
      La percentuale di attivo di bilancio delle banche popolari e delle loro controllate rispetto a quello totale del sistema è salita parallelamente dall'inizio del 1996 alla fine del 2005: dal 16,4 al 41,9 per cento nelle banche interregionali; dal 36,7 al 54,8 per cento per quelle regionali e dal 26,1 al 39,0 per cento per le banche interprovinciali.
      Già la forte espansione conseguita dal sistema delle banche popolari in un mercato che si è fatto sempre più concorrenziale è evidente riprova della loro capacità competitiva e della validità economica della loro struttura. Ma anche i parametri sull'efficienza e sulla redditività confermano questa considerazione, come testimoniano i dati ufficiali più recenti oggi disponibili. Il rapporto tra sofferenze e impieghi (indice di efficienza nell'allocazione del credito) al 30 giugno 2005 era di 2,7 per cento per il credito popolare nel suo complesso e di 3,7 per cento per la totalità del sistema bancario. Analogamente la redditività (espressa dal rapporto tra risultato lordo di gestione e il totale dell'attivo), nel quadriennio 2001-2004, risulta costantemente superiore a quella media del sistema bancario. Risultati che risultano ancor più significativi ove si tenga presente che sono stati conseguiti in condizioni di assoluta parità concorrenziale, poiché le banche popolari cooperative non godono di alcun beneficio fiscale, data la loro natura di cooperativa a mutualità non prevalente legislativamente riconosciuta.
      La natura cooperativa delle banche popolari, che ne fa soggetti e strumenti di democrazia economica, non è dunque un anacronismo da cancellare, ma una caratteristica preziosa da difendere, a salvaguardia di uno sviluppo economico diffuso sul territorio e di un'allocazione efficiente del credito. In tutti i Paesi sviluppati, d'altronde, e particolarmente in Europa, la struttura cooperativa viene considerata la forma più efficace ed efficiente di banca locale. In Francia la privatizzazione delle casse di risparmio è stata realizzata trasformandole in banche cooperative, così che in quel Paese la quota di mercato delle banche cooperative ha superato significativamente il 50 per cento. Ma pur senza arrivare a quei livelli, negli altri Paesi europei la quota di mercato delle banche locali (popolari e altre banche cooperative) è in genere superiore a quella che si registra in Italia, che nel 2005 risultava del 27,8 per cento (media della somma di depositi e impieghi).
      È stato posto il problema della non scalabilità delle banche popolari quotate, intesa come un limite penalizzante, da superare con nuove norme che eliminino o attenuino i vincoli che rendono non
 

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scalabili le banche popolari e che derivano dalla loro natura di cooperative.
      Tali vincoli sono, com'è noto, il voto capitario (ogni socio un voto), il limite al possesso di azioni (ogni socio non può detenere più dello 0,5 per cento del capitale), il limite alle deleghe (ogni socio non può essere portatore di più di dieci deleghe) e infine la clausola di gradimento per l'ingresso di nuovi soci. Va osservato in primo luogo che la scalabilità non è un valore in sé, ma lo strumento per allocare più efficacemente la proprietà delle imprese più deboli. Ma le banche popolari già ora sono più efficienti del resto del sistema bancario; renderle aggredibili attraverso offerte pubbliche di acquisto (OPA) non significa affatto renderne più efficiente la proprietà, ma piuttosto correre il rischio di una concentrazione di potere economico oligarchico nelle economie locali e di una unificazione tra controllo delle imprese e controllo del credito che è potenzialmente foriera di pericolose distorsioni allocative.
      Non è un caso, perciò, se nell'ambito dell'Unione europea la banca popolare non è scalabile e se il regolamento sulla società cooperativa europea stabilisce che di regola «ogni membro della società cooperativa europea dispone di un voto, quale che sia il numero delle quote che egli detiene».
      La quotazione in borsa d'altronde non muta affatto la natura cooperativa delle banche popolari che vi hanno fatto ricorso e il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, e il testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, riconoscono, per lo svolgimento dell'attività bancaria, piena legittimità sia alla società per azioni sia alla società cooperativa.
      Sulla base di queste considerazioni, la presente proposta di legge parte dal presupposto che la regolamentazione riguardante le banche popolari può essere resa più flessibile e in qualche punto migliorata, ma che non debba assolutamente essere snaturata la loro forma cooperativa, che è il fondamento della loro maggiore efficienza, garanzia di democrazia economica e strumento d'eccellenza per attivare sul territorio il circolo virtuoso tra risparmio delle famiglie e sviluppo dell'economia. In questo spirito la presente proposta di legge mira, in primo luogo, a rendere più agevole e più garantito l'investimento nelle banche popolari da parte degli investitori istituzionali di natura non speculativa, quali ad esempio i fondi pensione, le compagnie di assicurazione sulla vita, le fondazioni. Per gli investitori istituzionali di tale tipo, fermo restando il voto capitario, il limite al possesso azionario può essere elevato al 3 per cento del capitale sociale. Tale quota appare adeguata alle necessità operative degli investitori e nello stesso tempo non è di entità tale da poter determinare, con l'ipotesi del disinvestimento, eventuali pressioni sugli amministratori della banca.
      In secondo luogo, la proposta di legge mira a rendere più controllabile, per gli investitori istituzionali, l'attività della banca popolare quotata di cui siano soci, attribuendo ad essi il sindaco di minoranza. Nelle cooperative infatti, e quindi anche nelle banche popolari, il voto capitario e la parità di condizioni per ciascun socio rendono non pertinenti le distinzioni tra «maggioranza» e «minoranza» valide nelle società per azioni, e che peraltro nelle società per azioni non raramente vengono aggirate.
      La proposta di assegnare agli eventuali investitori istituzionali il sindaco di minoranza supera questa difficoltà concettuale e nello stesso tempo vuole essere ulteriore strumento di trasparenza e di democrazia economica.
      Agli stessi fini di democrazia economica, attraverso la maggior partecipazione possibile dei soci alle decisioni assembleari, mira infine la norma che attribuisce agli organi di vigilanza il compito di fissare un limite minimo alle deleghe che ciascun socio può avere. Sinora infatti la normativa sulle cooperative fissa solo il limite massimo, che come già detto, è di dieci deleghe. Ma a volte, mancando l'obbligatorietà
 

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di un limite minimo, alcuni statuti di banche popolari limitano a una sola la possibilità di delega del voto a un altro socio. Un'anomalia, questa, che la presente proposta di legge vuol eliminare attribuendo alla Banca d'Italia e alla Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), all'atto dell'approvazione degli statuti, la facoltà di stabilire il limite minimo di deleghe, nel caso in cui lo statuto non vi abbia provveduto.
      Onorevoli colleghi, quelle illustrate possono sembrare modifiche di poco conto. In realtà, esse s'ispirano alla saggia considerazione per cui non si cambia un sistema vincente. E le banche popolari indubbiamente lo sono.
      Obbediscono inoltre all'ammonimento mazziniano: «Poche e caute leggi». Un legiferare continuo e stravolgente rischia di creare più problemi di quanti non ne riesca a risolvere.
      Ma soprattutto la proposta di legge mira a proteggere e salvaguardare gli strumenti e i protagonisti locali dello sviluppo economico, e tali sono indubbiamente le banche popolari, ampliando nel contempo gli spazi di trasparenza e di democrazia economica, nello spirito di un'economia partecipata e diffusa.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Le banche popolari sono società private ad azionariato popolare, diffuso e frazionato, costituite in forma di società cooperativa per azioni.
      2. Le banche popolari sono disciplinate dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, e dalla presente legge.
      3. Le banche popolari sono società cooperative rette dalle disposizioni del codice civile sulla società cooperativa e da quelle sulla società per azioni nei limiti e secondo le compatibilità stabiliti dall'articolo 150-bis, del citato testo unico di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385.

Art. 2.

      1. Fermo restando per gli altri soci il limite al possesso azionario di cui all'articolo 30, comma 2, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, nelle banche popolari quotate nei mercati regolamentati, per gli investitori istituzionali a carattere non speculativo, che gestiscono cautelativamente risparmi di lungo periodo o proprie disponibilità patrimoniali, tale limite è elevato al 3 per cento, salvo limiti più ridotti previsti dallo statuto della banca o dalla disciplina che regola ciascun investitore istituzionale.

Art. 3.

      1. Le banche popolari quotate nei mercati regolamentati riconoscono ai soci investitori

 

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istituzionali la facoltà di designare il sindaco o i sindaci di minoranza.

Art. 4.

      1. Fermo restando il limite massimo di dieci deleghe conferibili a ciascun socio, nelle banche popolari quotate nei mercati regolamentati la Banca d'Italia e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), nella valutazione e approvazione dello statuto, indicano il limite minimo di deleghe conferibili a un socio, onde assicurare la più vasta partecipazione alle assemblee societarie.
    


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