Frontespizio Relazione Progetto di Legge

Nascondi n. pagina

Stampa

PDL 1275

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1275



 

Pag. 1

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

RAISI, GARAGNANI

Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sull'esodo degli italiani dall'Istria, dalla Slovenia e dalla Dalmazia e sugli eccidi delle foibe carsiche, nonché sulla violenza politica nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale

Presentata il 4 luglio 2006


      

torna su
Onorevoli Colleghi! - Nella scorsa legislatura, la Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti (istituita dalla legge 15 maggio 2003, n. 107) ha avuto l'incarico di fare luce sulle cause delle archiviazioni provvisorie, sul contenuto dei fascicoli e sulle ragioni per cui essi sono stati ritrovati a Palazzo Cesi, sulle cause che avrebbero portato all'occultamento dei fascicoli e sulle eventuali responsabilità, nonché sulle cause della eventuale mancata identificazione o del mancato perseguimento dei responsabili di atti e di comportamenti contrari al diritto nazionale e internazionale. Lo stesso processo di revisione storica, che negli ultimi anni ha ricevuto impulso dalla caduta del comunismo e dall'apertura (ancorché parziale) degli archivi nei Paesi dell'Europa orientale, ha già prodotto risultati significativi. Altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l'indagine storica sui fatti accaduti nella Venezia Giulia e nelle terre d'Istria e Dalmazia tra il 1941 e il 1945: i massacri di molte migliaia di italiani senza distinzione di fede politica, sesso, età, accomunati dalla sola «colpa» di essere italiani. Migliaia di persone gettate, molte ancora vive, in voragini carsiche note come «foibe».
      Per decenni, considerazioni di natura strettamente politica commiste a vari problemi d'ordine pratico hanno impedito una rigorosa ricerca storica inerente i massacri perpetrati dalle truppe titine a danno degli italiani. Durante i lavori della predetta Commissione parlamentare di inchiesta,
 

Pag. 2

e soprattutto nelle missioni svolte, sia in Italia sia all'estero (in particolare presso gli archivi della National Archives and Records Administration di Washington, e i National Archives di Londra), si è avuto modo di verificare la presenza di numerosi incartamenti relativi al periodo di occupazione della Jugoslavia nelle terre di confine durante l'ultimo conflitto mondiale e nel primo dopoguerra, documentazione che era già stata visionata, poiché si era dato corso a una tesi rilevante, ovvero che la mancata celebrazione dei processi per i crimini nazisti era il «rovescio della medaglia» per evitare il giudizio relativo ai presunti criminali italiani, con particolare riguardo ai delitti compiuti nel periodo 1941-1943 in Jugoslavia dall'Italia fascista.
      La tesi sarebbe stata sostenuta in primo luogo sulla base della documentazione reperita dall'ONU sull'attività della United Nations War Crimes Commission (UNWCC): presso tale Commissione il rappresentante jugoslavo aveva infatti chiaramente posto all'attenzione dell'organo delle Nazioni Unite la questione dei crimini di guerra commessi dagli italiani fin dal 1944. In realtà, la questione relativa alla vicenda jugoslava e alle denunce all'ONU si svolgevano in quel periodo secondo linee ben più complesse e articolate.
      Da un lato, la documentazione di sostegno alle accuse presentata all'UNWCC risultava tutt'altro che precisa e affidabile come, da più di un documento consultato, emerge chiaramente. Nella riunione del 5 dicembre 1946, a proposito di una serie di denunce nei confronti di italiani, veniva affermato infatti che: «On some of such sects of facts, or "counts", the information so far produced by the Yugoslav National Office was not considered sufficient and the decision on some counts has accordingly been adjourned until additional information is forthcoming». Inoltre, per ulteriore contezza in proposito, si ricordano le accuse inviate all'UNWCC per due casi specifici nell'agosto 1945 in cui, nelle stesse parole usate nel rapporto jugoslavo, si parla in questi termini degli elementi raccolti: «investigation [...] is so far incomplete», ma tanto basta, sempre secondo il rapporto, per dare un'idea delle atrocità commesse dagli italiani per snazionalizzare la Jugoslavia. Conferma indiretta della scarsa attendibilità delle denunce slave trapela anche nelle istruzioni sulle modalità con cui le nostre competenti autorità avrebbero dovuto effettuare le denunce del caso all'UNWCC, per consentire l'accertamento degli elementi prima facie, funzionali all'iscrizione nelle liste delle Nazioni Unite dei nominativi proposti e all'eventuale successiva fase processuale vera e propria. Nella spiegazione di queste istruzioni dell'UNWCC si consiglia l'opportunità di attenersi alla precisione delle denunce inoltrate dalla Gran Bretagna rispetto alle denunce presentate da alcuni governi balcanici che «sono formulate in termini assai generici ed imprecisi».
      Del resto, non meno indicativo di imputazioni e di liste, tutt'altro che esaurienti e attendibili, è il fatto che negli elenchi jugoslavi risultava menzionato il Ministro del lavoro Achille Marazza, che era stato uno dei membri dei Comitato di liberazione nazionale dell'Alta Italia e non poteva essere sospettato né per indole né per storia personale del compimento di alcun crimine in Jugoslavia. In merito, di fronte alla citata Commissione parlamentare di inchiesta, il senatore a vita Giulio Andreotti (audito in data 16 febbraio 2005) ha dichiarato che «vi era una certa sfiducia nei confronti del sistema di Tito. Si trattava non di dare qualcuno alla magistratura anglosassone ma di dare qualcuno ad un sistema da prendersi con le molle. Non c'era certamente il desiderio di coprire qualcosa, però ricordo che persone assolutamente non sospettabili, persone che avevano fatto la guerra in quell'area consigliavano di avere una grandissima prudenza. Era un momento in cui la lotta politica forse prevaleva sui desideri di giustizia; però, nel caso specifico, era indicato Marazza, persona di una mitezza tale che vederlo tra i responsabili di atti di violenza e sterminio sembrava assurdo. Si chiedevano, quindi, adeguate documentazioni
 

Pag. 3

a base delle richieste, che erano estremamente generiche».
      Con lettera del 15 marzo 1947 del Ministero degli esteri, inviata alle ambasciate italiane a Washington, Londra, Parigi e Mosca e, per conoscenza, al Ministero della guerra, si affermava infatti che per il Governo italiano «non sarà tralasciata alcuna possibilità per evitare la consegna di cui trattasi [per i presunti crimini di guerra italiani in Jugoslavia] [...] in linea pregiudiziale non potremmo consentire la consegna di persone di nazionalità italiana i cui nomi siano contenuti su liste presentate dalla parte interessata e senza che si conoscano e si vaglino in sede giudiziaria le imputazioni loro addebitate, com'è normale in ogni procedimento di estradizione. Allo stato attuale del funzionamento della giustizia jugoslava, inoltre, nessun affidamento può farsi sull'imparzialità delle Corti che fossero chiamate a giudicare i nostri presunti criminali di guerra», anzi, se così non fosse «per molti italiani, dati i metodi della giustizia jugoslava, significava morte certa».
      Dall'altra parte, poi, gli jugoslavi, che tanto mostravano di fare affidamento sull'UNWCC, della quale in ogni modo non si sarebbe mai del tutto chiarito l'insieme delle prerogative detenute ed esercitate effettivamente a sostegno dell'azione degli Stati, la scavalcavano con una politica giudiziaria del tutto autonoma. Infatti il Ministero degli esteri, scrivendo all'ambasciata italiana a Washington in data 10 ottobre 1945 rilevava che: «Sino ad ora infatti l'apposita Commissione delle Nazioni Unite, residente a Londra, non aveva stabilito norme precise e gli stessi tribunali militari inglesi e americani hanno proceduto indipendentemente e ciascuno con criteri propri alla ricerca e alla posizione di criminali di guerra. In modo ancor più indipendente hanno poi proceduto jugoslavi ed albanesi, attraverso procedure e giudizi che possono qualificarsi sommari e di cui furono vittima parecchi italiani». Pertanto la Jugoslavia usava strumentalmente l'UNWCC, come una sorta di grancassa, agendo poi in modo sostanzialmente autonomo e svincolato da ogni tipo di garanzia e certezza del diritto che essa voleva salvaguardare.
      Quest'ambivalenza appare emblematicamente percepibile proprio nel maggio 1945.
      Infatti, mentre in quel momento la rappresentanza jugoslava insisteva con forza in seno all'UNWCC, sostenuta dal delegato cecoslovacco, per la creazione di un'agenzia specifica per il caso italiano, con l'obiettivo di indagare e di avviare la punizione di quegli italiani che si fossero macchiati di crimini di guerra nel 1941-1943, le truppe titine avanzavano in Venezia Giulia fino ad occupare Trieste (1o maggio-12 giugno 1945), dando piena giustificazione ai timori italiani richiamati dal senatore Andreotti. Da un lato, infatti, la Jugoslavia usurpava terre che non erano state occupate dal fascismo con l'attacco del 1941, ma che appartenevano allo Stato italiano secondo precisi legami prima spirituali e culturali che politici e, comunque, territorialmente definiti ben prima del 1939.
      Ulteriore aggravante in questo senso derivava, poi, dal fatto che, dopo il 25 luglio 1943, il Governo del sud era diventato cobelligerante degli Alleati e quindi non più nemico, ma alleato anche delle stesse truppe titine, in funzione antinazista. In questo senso va ricordato che decine di migliaia di soldati italiani - circa 40.000 - combatterono, dopo il 25 luglio 1943, a fianco degli slavi contro i nazisti. Inoltre, segnali ben tangibili di un certo modus operandi dei titini erano pervenuti, già nel novembre 1944, al Governo italiano, quando si era venuto a sapere che il 15 agosto dello stesso anno le truppe titine avevano fucilato tre ufficiali della divisione Garibaldi accusati di essere stati «squadristi» e dell'arresto di altri undici ufficiali dello stesso reparto accusati di crimini di guerra (Episodio tratto da Asmae, Pem 1951-54, 15.2, 10599, sf. 3 Stato maggiore generale Ufficio affari vari a Pres. Cons. Ministri Gabinetto, prot. 106305/av 9 novembre 1944 e riportato in Filippo Focardi, I mancati processi ai criminali
 

Pag. 4

di guerra italiani
, in Giudicare e Punire, L'ancora del Mediterraneo, 2005).
      Dall'altro lato, i sistemi titini si rivelavano in tutta la loro disumanità nella politica di sistematica soppressione di migliaia di italiani, attuata con il metodo delle foibe durante quest'avanzata, secondo una chiara volontà di snazionalizzazione di queste terre italiane. Dunque le generiche accuse, probabilmente, vanno inquadrate nel tentativo di legittimare questa politica altamente ostile nei confronti del nostro Paese e di acquisire nuovi meriti e prerogative rispetto agli italiani, non soltanto sconfitti ma criminali di guerra, così da ottenere ulteriori concessioni al Tavolo della pace.
      Difatti, il Trattato sottoscritto il 10 febbraio 1947 dall'Italia (un Trattato che andò a premiare il criminale operato dei comunisti di Tito che, con le foibe, gli eccidi, il terrore di massa, realizzarono la «pulizia etnica» degli italiani, in qualche modo anticipatrice di quelle «pulizie» che, decenni dopo, segneranno la dissoluzione della Jugoslavia), venne subito firmato senza alcuna possibilità di negoziazione. Se Trieste (dopo quaranta giorni liberata dai titini e, attraverso la costituzione di uno Stato cuscinetto tra Italia e Jugoslavia, definito «Territorio libero di Trieste», affidata alla tutela dell'ONU) fu risparmiata, con il territorio ad essa immediatamente limitrofo e una piccola parte dell'Istria, dall'annessione a Belgrado, Zara, Fiume e gran parte dell'Istria furono definitivamente perse (300.000 italiani lasciarono l'Istria e la Dalmazia dopo aver pagato purtroppo un prezzo pesantissimo di sangue durante l'occupazione jugoslava di Trieste e di parte della Venezia Giulia, nel periodo dal 1o maggio al 12 giugno 1945).
      Ora, a prescindere dal fatto che il destino di Trieste fu comunque deciso in seguito e in maniera definitiva con il Trattato di Osimo e che la questione delle foibe potrebbe essere materia di una Commissione parlamentare di inchiesta ad hoc (o, almeno, auspicabilmente in un prossimo futuro costituirne l'oggetto, quale pagina dolorosa ed allo stesso tempo ineludibile per la riappropriazione di una memoria condivisa della storia del nostro Paese), certamente non può sottovalutarsi che queste erano tra le motivazioni che hanno indotto Alcide De Gasperi a rifiutare l'estradizione di imputati indicati con estrema genericità. Specialmente nel momento in cui, in una lettera del 9 aprile 1946, proprio il Presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, in relazione agli eccidi jugoslavi (in danno di uomini, donne e bambini italiani) e all'assoluta mancanza di elementi di garanzia e di civiltà giuridica offerti da Tito, manifesta agli Alleati l'assoluta contrarietà italiana a concedere l'estradizione dei presunti criminali italiani alla Jugoslavia (documento agli atti della citata Commissione parlamentare di inchiesta). Difatti, De Gasperi, scrivendo all'ammiraglio americano Ellery W. Stone (Capo della Commissione alleata), rilevava che «ogni giorno pervengono notizie molto gravi su veri e propri atti di criminalità compiuti dalle autorità jugoslave a danno di Italiani e dei quali sono testimoni i reduci dalla prigionia e le foibe del Carso e dell'Istria» e ciò «susciterebbe nel Paese una viva reazione e una giustificata indignazione» e, per quanto riguarda l'assoluta mancanza di elementi di garanzia e di civiltà giuridica offerti da Tito, dichiarava che «sono poi ormai ben noti i metodi attualmente in uso nei Tribunali jugoslavi, metodi che non danno alcuna garanzia di osservanza delle più elementari norme di giustizia». Del resto, diversamente dalle profonde contraddizioni e dalle inquietanti ambivalenze jugoslave, l'Italia non voleva salvare dei criminali, ma garantire che fossero svolti degli accertamenti reali, non politicizzati e in una cornice di civiltà giuridica che nella Jugoslavia titina erano impensabili.
      La posizione espressa da De Gasperi, contro l'estradizione ma non per l'impunibilità, era del resto supportata da tutto lo schieramento dei partiti antifascisti, da Nenni e i socialisti agli stessi comunisti, pure vicini a livello di affinità ideologiche alla Jugoslavia comunista, ma fedeli innanzitutto ai valori democratici e garantisti,
 

Pag. 5

di rispetto dei diritti umani, che animavano l'Italia dell'immediato dopoguerra. Tali ritrovamenti (ma solo una limitata parte di questi è stata acquisita) sul tema dei criminali di guerra jugoslavi, resisi responsabili di eccidi, stragi nei confronti di italiani, civili, donne e bambini, hanno rivelato che per il Governo italiano le notizie erano via via scarseggiate fino ad una riunione interministeriale dell'estate 1961 alla quale partecipò, oltre a rappresentanti del Ministero della difesa, anche un rappresentante della Procura militare generale. Tale riunione (11 settembre 1961) aveva il compito di trattare la questione dei criminali di guerra jugoslavi. Alcuni anni dopo, con decreto presidenziale del 5 aprile 1965, avvenne la concessione della grazia per 63 cittadini jugoslavi condannati (presumibilmente in contumacia) per crimini di guerra contro italiani. Tale situazione ha riaperto un dibattito sul problema delle foibe, sulle sue cause, sulla sua portata: e pressoché tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento hanno concordato sulla necessità di portare alla luce fino all'ultimo documento conservato negli archivi, onde evitare che l'analisi critica e la comprensione di tale vicenda restino avvolte nella nebbia o si prestino a strumentalizzazioni di parte. La stessa relazione finale della predetta Commissione di inchiesta della scorsa legislatura auspicava l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta in riferimento «al calvario di oltre trecentomila italiani che lasciarono l'Istria e la Dalmazia, dopo aver pagato un pesantissimo prezzo di sangue per l'eliminazione nelle foibe carsiche di tanti loro cari; delitti perpetrati dai sostenitori di Tito, sui quali, purtroppo, non si è mai indagato». Una vicenda che, come scrisse monsignor Antonio Santin, arcivescovo di Trieste e di Capodistria, colpì gli italiani di ogni indirizzo politico e, come ogni fenomeno scatenato da passioni violente, fu un rigurgito di pura bestialità. Questo sfogo feroce non fu opera del popolo slavo, ma di gruppi violenti di fanatici.
      Per questa vicenda alla città di Trieste è stata concessa la medaglia d'oro al valor militare. Molte sono le motivazioni su cui si fonda il riconoscimento del Presidente della Repubblica: tra le principali, l'aver subìto «con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe». In territorio italiano constano dislocate le seguenti foibe, da cui sono state recuperate salme di vittime: foiba di Gropada n. 54 VG, foiba di S. Lorenzo n. 605 VG, foiba di Brestovizza, grotta 149 VG nella zona di Opicina, grotta di Ternovizza n. 242 VG, abisso Plutone n. 23 VG, grotta n. 1328 VG a nord di Trebiciano, Staerka Jama n. 61 VG, grotta in località Dolina (S. Croce-Trieste), Pipenca Jama n. 1076 VG-abisso di Grussevizza, grotta di Goriano e Volci n. 509, Jelenca Jama, grotta presso S. Daniele del Carso n. 511 VG, grotta n. 2703 nei pressi di Rupinpiccolo, Antro dei colombi in località Uttoglie, Pozzo dei cane n. 161 VG, caverna a nord di Trebiciano n. 1328, Voragine di S. Lorenzo n. 294 VG, pozzo presso la stazione ferroviaria di Villa Opicina n. 8 VG, pozzo di Borgo Grotta n. 131 VG, abisso presso Villa Opicina n. 149 VG, grotta Cibic (Prosecco) n. 3251 VG, Jama Kerzice n. 3 VG, grotta n. 248 VG, foiba di Monrupino, foiba di Basovizza. Il 6 giugno 1986, l'allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga scrisse nel messaggio ufficiale rivolto al Comitato per le onoranze ai caduti delle foibe: «Con commossi sentimenti partecipo al pietoso omaggio reso oggi, alla foiba di Basovizza, alla memoria delle innumerevoli vittime della primavera del 1945. Il ricordo di questo atroce episodio della nostra storia sia per tutti motivo di profonda riflessione sui guasti fatali dell'intolleranza e dell'odio in una ritrovata prospettiva di fraternità, di comprensione, di pace». Successivamente, con decreti del Presidente della Repubblica, rispettivamente, in data 24 luglio 1993 e in data 11 settembre 1992, le foibe di Monrupino e di Basovizza (Trieste) sono state formalmente riconosciute «monumento nazionale». Con la legge 30 marzo 2004, n. 92, recante istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell'esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai
 

Pag. 6

congiunti degli infoibati, il nostro Paese ha riconosciuto il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.
      Orbene, dopo la dissoluzione della Jugoslavia nel 1992, dopo i crimini commessi durante i quattro anni di guerra che l'hanno insanguinata, crimini che assomigliano molto a quelli commessi quarant'anni fa contro gli italiani di Trieste, Istria e Dalmazia, dopo l'avvio del processo di associazione di Slovenia (Paese che nei mesi scorsi avrebbe fornito un elenco di circa 1.200 italiani vittime delle ricordate stragi) e Croazia all'Unione europea, è giunto il momento di dare un nome certo ai fatti accaduti in quegli anni bui e ai loro responsabili; non per ricercare vendette o per fomentare nuovi odi, ma per richiamare la memoria comune su vicende moralmente e umanamente atroci.
      Con l'istituzione della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi delle foibe, infatti, non si richiede l'apertura di procedimenti giudiziari, non si chiedono condanne penali o incarcerazioni (a questo proposito grande merito va dato, e vogliamo qui ricordarlo, a quei magistrati italiani che, anche recentemente, si sono prodigati per acquisire testimonianze e individuare, per quanto possibile, eventuali responsabili ancora viventi onde chiamarli a rispondere dei loro crimini): il Parlamento, le sue Commissioni di inchiesta non possono sostituirsi al giudice nel perseguire i reati, ma hanno il dovere, in quanto espressione diretta dell'Italia tutta, di costituirsi parte diligente nella ricerca della verità, ponendosi a garanzia dell'universalità della stessa, attraverso l'utilizzo di tutti i necessari strumenti tecnici e politici. Un impegno che il Parlamento italiano è chiamato a svolgere con serena obiettività, con lo spirito indicato dall'arcivescovo Antonio Santin che, il 2 novembre 1959, alla cerimonia per la copertura e la benedizione delle foibe di Basovizza e Monrupino, disse: «questo Calvario, col vertice sprofondato nelle viscere della terra, costituisce una grande cattedra, che indica nella giustizia e nell'amore le vie della pace». Ma i carnefici di questa pulizia etnica o, meglio, l'ideologia che li contraddistingueva, non si fermavano in quelle terre ma permearono tutto il territorio del Nord Italia, quel triangolo definito da molti storici «il triangolo della morte», nel quale trovarono la morte centinaia - se non migliaia - di italiani colpevoli di essere stati non solo fascisti o vicini al fascismo, ma anche borghesi, cattolici, sacerdoti e combattenti della liberazione non allineati alla fede comunista.
      La lotta di liberazione, sul finire della Seconda guerra mondiale, non è stata, come qualcuno ancora racconta, un fenomeno prevalentemente ed esclusivamente proprio delle formazioni comuniste. Difatti, a riportare l'Italia in condizioni di democrazia fu un movimento molto più esteso, composto anche da cattolici, da liberali, da socialisti, da militari dell'esercito italiano, e con il contributo decisivo dei militari alleati, in particolare americani e inglesi. Ciononostante, una parte dei partigiani comunisti finì per far coincidere la guerra di liberazione con il progetto di lotta di classe, cioè con l'inizio di una rivoluzione tendente ad affermare nel nostro Paese la dittatura comunista. Un progetto con cui ci si voleva impadronire dell'Italia con la violenza, tanto che parte integrante di questo progetto fu un programma pianificato di epurazioni (oltre ventimila vittime, i cui cadaveri spesso non furono mai ritrovati).
      Questa componente di partigiani comunisti che fecero coincidere la fine della guerra con l'inizio della lotta di classe fu particolarmente forte in Emilia-Romagna, soprattutto nelle zone tra Modena e Reggio Emilia. Nel marzo del 1991, in seguito a una segnalazione anonima, è stata scoperta a Campagnola (Reggio Emilia) una delle tante fosse comuni scavate dai partigiani comunisti nell'Italia del nord alla metà degli anni quaranta e riempite con i resti di persone assassinate prima o dopo
 

Pag. 7

la fine della guerra. Quel ritrovamento, grazie anche al processo di revisione storica e culturale innescato dal crollo del comunismo su scala mondiale, ha riaperto in Italia la questione (mai affrontata fino in fondo perché coperta dal mito della Resistenza) degli italiani uccisi durante e dopo la guerra civile e del rapporto fra quelle stragi e la Resistenza in Italia. In questo modo, alla fine della guerra e nel dopoguerra, tra Reggio Emilia, Ferrara e Bologna, fu versato non solo il «sangue dei vinti», come ha recentemente scritto Giampaolo Pansa, ma anche il «sangue dei vincitori», per impedire che potessero portare il contributo della loro fede, delle loro idee di libertà, delle loro opere di solidarietà alla costruzione della nuova Italia democratica. Come correttamente ha rilevato Pansa, non fu Resistenza, ma non fu neanche una guerra civile, furono due guerre civili. La prima terminò il 25 aprile del 1945, la seconda iniziò il 26 aprile del 1945 e durò alcuni anni. Anni di omicidi mirati, di processi sommari e di altri efferati crimini non fine a stessi, ma tesi a porre le basi per la rivoluzione comunista. La volontà, cioè, di eliminare il parroco scomodo (furono 130 i sacerdoti uccisi in Italia dai comunisti tra la fine della guerra e gli anni successivi fino al 1947, soprattutto in Emilia-Romagna e nella zona di Gorizia e dell'Istria di Tito: erano sacerdoti che avevano sempre difeso i propri fedeli e che spesso avevano anche rischiato la vita per ospitare o curare i partigiani), il piccolo proprietario terriero, l'industriale, l'ex partigiano «bianco», sindacalisti cattolici, i quali vennero massacrati, a guerra finita, dai partigiani comunisti. È questa una storia che deve essere approfondita per fare definitivamente i conti con il «passato che non vuole passare». È un elenco lungo, quello dei sacerdoti e dei cattolici uccisi dai comunisti nel decennio 1945-1955, frutto di un clima avvelenato che oggi stentiamo a immaginare e che può essere ricostruito grazie alle cronache delle parrocchie emiliane, sui cui registri venivano annotate testimonianze come quelle della parrocchia di Rivalta: «Sono i tempi nuovi che si avanzano con la nuova barbara civiltà del sangue fraterno sparso pel capriccio folle dei vantati pionieri dell'ordine nuovo» (17 maggio 1945); «Cristo e la Chiesa sono il grande ostacolo da superare con la tattica della finzione e della menzogna di una propaganda addirittura diabolica. L'odio contro il prete schizza dagli occhi di troppi, anche fanciulli» (13 marzo 1947). Le stesse preoccupazioni angosciavano gli altri parroci emiliani: a Meletole veniva tolto il crocifisso dalle scuole e sospeso l'insegnamento religioso; nella parrocchia di S. Croce, il registro del 1946 si concludeva con queste osservazioni: «Anno di delitti, di violenze continue ed illegali pressioni contro la libertà individuale di molte persone; tutto nascosto sotto la parvenza delle libertà democratiche, riacquistate dai peggiori elementi sovvertitori della società civile». Lo stesso vescovo Beniamino Socche, trasferito nel 1946 dalla diocesi di Cesena a quella di Reggio Emilia, interveniva energicamente sin dal giorno del suo ingresso solenne, quando denunciò «l'odio che divide e uccide: incredibili episodi di crudeltà si vanno ripetendo in ogni parte d'Italia e il brigantaggio che imperversa» e che imperverserà ancora per molti anni, dato che ancora nel 1955 il vescovo denunciava l'assassinio di due militanti dell'Azione cattolica e il ferimento di altri due avvenuta la sera del 26 marzo: «Siamo andati - scriveva il vescovo - a visitare i feriti e le salme degli innocenti e a pregare per loro, e abbiamo sentito molti domandarsi: ma, allora, che non sia venuto il tempo di mettere finalmente fuori legge il comunismo?». Parole oggi impensabili, perché impensabili sono i fatti di sangue che fino alla fine degli anni cinquanta (l'ultima fucilata viene sparata nel 1961!) caratterizzarono il clima dello scontro politico nell'Italia centrale.
      La lunga serie di omicidi politici non lascia adito a dubbi sulle reali intenzioni dei partigiani comunisti, per i quali «la guerra non è finita», come scrivevano nei loro proclami ufficiali. Ecco un sommario e parziale martirologio: il 10 maggio 1945, a Bomporto fu ucciso a raffiche di mitra il dottor Carlo Testa, membro del Comitato
 

Pag. 8

di liberazione nazionale per la Democrazia cristiana; il 18 maggio 1945 venne assassinato Confucio Giacobazzi, agricoltore e partigiano non comunista; il 24 maggio 1945 fu freddato a colpi di pistola don Giuseppe Preci, parroco di Zocca; il 26 maggio 1945 viene fatto sparire don Giuseppe Tarozzi, parroco di Riolo, che non sarà mai più ritrovato; il 2 giugno 1945 fu sequestrato e ucciso a Nonantola il partigiano democristiano Ettore Rizzi; il parroco di Lama Mocogno, don Giovanni Guicciardi venne ucciso a colpi di pistola il 10 giugno 1945; don Luigi Lenzini, parroco sessantenne di Crocette di Pavullo, fu svegliato la notte del 21 luglio 1945 da un gruppo di «garibaldini» che lo sequestrarono per torturarlo: il suo cadavere fu seminascosto nella vigna, e dovranno passare alcuni giorni prima che qualcuno avesse il coraggio di seppellirlo; il 27 luglio 1945 fu colpito da raffiche di mitra l'impiegato democristiano di Nonantola Bruno Lazzari. Gli omicidi continuarono anche gli anni successivi: il 15 gennaio 1946 don Francesco Venturelli, parroco di Carpi, venne ucciso a colpi di arma da fuoco, dopo che la «Voce del partigiano», organo dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, lo aveva accusato di aiutare i fascisti; il 19 maggio 1946 venne assassinato a colpi di pistola, mentre stava andando a messa, il dottor Umberto Montanari, medico condotto a Piumazzo ed ex-partigiano cattolico; la sera del 17 novembre 1948 un uomo fece irruzione nella canonica della parrocchia di Freto e uccise Angelo Casolari e Anna Ducati, membri del consiglio parrocchiale. E l'elenco potrebbe continuare a lungo.
      Molti responsabili di questi omicidi non saranno mai neppure cercati, mentre parecchi condannati riuscirono a fuggire nei Paesi dell'est - soprattutto in Cecoslovacchia e in Jugoslavia - grazie all'apparato comunista che garantì aiuto e impunità.
      Con l'istituzione della Commissione parlamentare di inchiesta prevista dalla presente proposta di legge, non vogliamo fare luce su quegli avvenimenti per spirito di rivalsa, bensì per un serio e legittimo desiderio di riconciliazione. Ma la riconciliazione non è cancellazione, non è rimozione di quanto avvenuto, perché chi rimuove, in qualche modo, continua a uccidere. La riconciliazione chiede un giudizio sulla realtà, chiede che si indichino il bene e il male così che si possa chiedere perdono del male commesso e fare tesoro nella memoria del bene avvenuto.
 

Pag. 9


torna su
PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. È istituita, ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione, una Commissione parlamentare di inchiesta, di seguito denominata «Commissione», con il compito di:

          a) accertare i nominativi dei cittadini italiani, militari e civili, che per cause comunque connesse al conflitto mondiale risultano, nel periodo 1941-1945, deceduti o dispersi nei territori delle province di Trieste e di Gorizia e nei territori successivamente ceduti dall'Italia alla Jugoslavia;

          b) accertare i nominativi dei cittadini italiani che risultano, dagli attuali dati ufficiali, essere stati assassinati nelle foibe carsiche nel periodo di cui alla lettera a);

          c) accertare i nominativi dei cittadini italiani che, a seguito delle indagini esperite dalla Commissione stessa, risulteranno essere stati assassinati nelle foibe carsiche;

          d) accertare, relativamente alle stragi delle foibe carsiche, le responsabilità dei cittadini italiani e stranieri, quelle di organismi politici, quelle di bande armate e quelle di singoli, riconducibili a vendette e rappresaglie personali;

          e) reperire tutta la documentazione sulle stragi delle foibe carsiche, esistente presso gli uffici pubblici della Repubblica, con particolare riferimento alla documentazione esistente presso l'Archivio storico diplomatico del Ministero degli affari esteri;

          f) reperire tutta la documentazione sulle stragi delle foibe carsiche, esistente presso gli uffici pubblici nel Regno Unito, in Austria, in Germania, negli Stati Uniti d'America e nelle Repubbliche della ex Jugoslavia;

 

Pag. 10

          g) procedere all'audizione di quanti effettuarono le ricognizioni e i recuperi nelle foibe carsiche, nonché di quanti sono in possesso di notizie utili alle indagini della Commissione sui fatti di cui alla lettera a);

          h) procedere, ove possibile, a ispezioni all'interno delle foibe carsiche situate nel territorio nazionale; richiedere l'autorizzazione alle Repubbliche della ex Jugoslavia al fine di procedere a ispezioni dirette all'interno delle foibe carsiche, situate nei territori soggetti alla loro sovranità;

          i) verificare l'opportunità e la fattibilità tecnica di procedere alla riapertura di alcune foibe carsiche;

          l) richiedere alle Repubbliche della ex Jugoslavia di consentire il recupero e il rimpatrio delle salme dei numerosi italiani giacenti nel loro territorio e in particolare:

              1) le salme degli ottantacinque bersaglieri del I battaglione - VIII reggimento, trucidati presso Tolmino (Slovenia);

              2) le salme dei centosessanta italiani catturati e uccisi, per motivi ignoti, in territorio sloveno nel periodo di cui alla lettera a);

          m) richiedere alle Repubbliche della ex Jugoslavia di fornire l'indicazione dell'ubicazione di tutte le foibe carsiche nelle quali vi sono salme di italiani, civili e militari, affinché si possa procedere al loro recupero e dare loro degna sepoltura in Italia;

          n) accertare le motivazioni che portarono all'emanazione del decreto del Presidente della Repubblica 5 aprile 1965, che ha previsto la concessione della grazia per sessantatre cittadini jugoslavi condannati per crimini di guerra contro italiani;

          o) accertare i nominativi dei cittadini italiani, militari e civili, nonché degli appartenenti alle milizie della Repubblica sociale italiana e alle truppe di liberazione che per cause comunque connesse al conflitto mondiale risultano, nel periodo

 

Pag. 11

1945-1948, essere stati assassinati o risultano dispersi in Italia;

          p) accertare, relativamente ai fatti di cui alla lettera o), le responsabilità dei cittadini italiani e stranieri, quelle di organismi politici, quelle di bande armate, quelle di singoli riconducibili a vendette e rappresaglie personali;

          q) reperire tutta la documentazione sui fatti di cui alla lettera o), esistente presso gli uffici pubblici della Repubblica, con particolare riferimento alla documentazione esistente presso l'Archivio di Stato, ovvero presso uffici pubblici stranieri;

          r) procedere all'audizione di quanti sono in possesso di notizie utili alle indagini della Commissione sui fatti di cui alla lettera o);

          s) accertare le cause della eventuale mancata individuazione o dell'eventuale mancato perseguimento dei responsabili di atti e di comportamenti contrari al diritto nazionale e internazionale, relativamente ai fatti di cui al presente articolo.

Art. 2.

      1. La Commissione è composta da quindici senatori e da quindici deputati nominati, rispettivamente, dal Presidente del Senato della Repubblica e dal Presidente della Camera dei deputati, in proporzione al numero dei componenti dei gruppi parlamentari, comunque assicurando la presenza di un rappresentante per ciascun gruppo esistente in almeno una delle due Camere.
      2. Con gli stessi criteri e la stessa procedura di cui al comma 1 si provvede alle eventuali sostituzioni in caso di dimissioni o di cessazione del mandato parlamentare di uno o più membri della Commissione.
      3. L'ufficio di presidenza, composto dal presidente, da due vicepresidenti e da due segretari, è eletto a scrutinio segreto dalla Commissione tra i suoi componenti. Nella

 

Pag. 12

elezione del presidente, se nessuno riporta la maggioranza assoluta dei voti, si procede al ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti. In caso di parità di voti, è proclamato eletto o entra in ballottaggio il più anziano di età.
      4. La Commissione conclude i propri lavori entro due anni dalla sua costituzione e comunque non oltre la fine della XV legislatura, con la presentazione di una relazione finale sulle risultanze delle indagini svolte.

Art. 3.

      1. La Commissione procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria. Per le testimonianze rese davanti alla Commissione si applicano le disposizioni degli articoli da 366 a 384-bis del codice penale.
      2. La Commissione può ottenere, anche in deroga a quanto stabilito dall'articolo 329 del codice di procedura penale, copie di atti o documenti relativi a procedimenti o inchieste in corso presso l'autorità giudiziaria. L'autorità giudiziaria provvede tempestivamente e può ritardare con decreto motivato, solo per ragioni di natura istruttoria, la trasmissione di copie degli atti e documenti richiesti. Il decreto ha efficacia per trenta giorni e può essere rinnovato. Quando tali ragioni vengono meno, l'autorità giudiziaria provvede senza ritardo a trasmettere quanto richiesto.
      3. Alla Commissione, limitatamente all'oggetto dell'indagine di sua competenza, non possono essere opposti il segreto di Stato, d'ufficio e professionale. Tuttavia i documenti trasmessi dal Governo sotto il vincolo del segreto possono essere declassificati solo previo accordo tra il Governo e la Commissione. È sempre opponibile il segreto tra il difensore e il proprio assistito nell'ambito del mandato professionale.

 

Pag. 13

Art. 4.

      1. L'attività e il funzionamento della Commissione sono disciplinati da un regolamento interno approvato dalla Commissione stessa prima dell'inizio dei lavori. Ciascun componente può proporre la modifica delle norme regolamentari.
      2. Per l'espletamento delle sue funzioni la Commissione fruisce di personale, locali e strumenti operativi messi a disposizione dai Presidenti delle Camere, di intesa tra loro, e può avvalersi, a sua scelta, dell'opera e della collaborazione di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria nonché di qualsiasi altro pubblico dipendente, di consulenti e di esperti.

Art. 5.

      1. La Commissione delibera di volta in volta quali sedute o parti di esse sono pubbliche e se e quali documenti possono essere pubblicati nel corso dei lavori, anche in relazione ad esigenze attinenti ad altri procedimenti o inchieste in corso.
      2. Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 1, i membri della Commissione, i funzionari addetti all'ufficio di segreteria e ogni altra persona che collabora con la Commissione stessa o compie o concorre a compiere atti di inchiesta o ne ha comunque conoscenza sono obbligati al segreto per tutto ciò che riguarda gli atti medesimi e i documenti acquisiti. Devono in ogni caso essere coperti dal segreto gli atti e i documenti attinenti a procedimenti giudiziari nella fase delle indagini preliminari.
      3. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la violazione del segreto di cui al comma 2 è punita ai sensi dell'articolo 326 del codice penale.

Art. 6.

      1. Le spese per il funzionamento della Commissione sono poste per metà a carico del bilancio interno del Senato della Re

 

Pag. 14

pubblica e per metà a carico del bilancio interno della Camera dei deputati.

Art. 7.

      1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.


Frontespizio Relazione Progetto di Legge
torna su