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PDL 654

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 654



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

GRILLINI, AMICI, BAFILE, BANDOLI, BRANDOLINI, BUCCHINO, BUFFO, CALDAROLA, CARBONELLA, CHIAROMONTE, CIALENTE, CORDONI, DAMIANO, D'ANTONA, DATO, DE BRASI, DI SALVO, FASCIANI, FEDI, FIANO, FILIPPESCHI, FINCATO, FRANCESCATO, FRIGATO, GENTILI, GHIZZONI, GIULIETTI, GRASSI, LONGHI, LULLI, MANCINI, MARIANI, MARTELLA, META, MIGLIOLI, MOTTA, MUSSI, OTTONE, PECORARO SCANIO, PINOTTI, RAMPI, RANIERI, SASSO, SPINI, TOLOTTI, TRUPIA, TURCI, VELO, ZANOTTI, ZUNINO

Norme contro le discriminazioni fondate sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere

Presentata l'11 maggio 2006


      

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Onorevoli Colleghe e Colleghi! - La presente proposta di legge ha l'obiettivo di garantire l'attuazione delle direttive sulla parità di trattamento in maniera conforme alle disposizioni europee, con particolare riferimento alla direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e alla direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica. In presenza di un sistema giuridico in cui tuttavia diversi individui o gruppi sociali a rischio di discriminazione sono soggetti a forme di protezione differenziata, e sostanzialmente più debole per alcuni, la presente proposta di legge si propone altresì di assicurare che l'ordinamento protegga in modo sostanziale il principio di parità di trattamento garantendo un medesimo livello di protezione a tutti i cittadini e gruppi sociali, indipendentemente dai motivi di discriminazione.
 

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      Per questa ragione il capo I della presente proposta di legge rivolge la propria attenzione in particolare alle discriminazioni motivate dall'orientamento sessuale e dall'identità di genere, che per decenni sono state ignorate dal nostro sistema giuridico, di fatto negando a milioni di cittadini la garanzia del riconoscimento di quel principio di uguaglianza in senso formale e sostanziale che la Costituzione della Repubblica solennemente enuncia all'articolo 3.
      Per decenni l'ordinamento italiano ha omesso di garantire qualsiasi forma di protezione contro atti o comportamenti dettati dall'omofobia e dalla transfobia, nonché di prevedere un divieto di discriminazione fondata sull'orientamento sessuale e sull'identità di genere nonostante i numerosi richiami in tal senso delle istituzioni europee.
      L'Italia ha per anni sistematicamente ignorato la nota risoluzione del Parlamento europeo dell'8 febbraio 1994 sui diritti delle persone omosessuali, nonché le precedenti risoluzioni in materia antidiscriminatoria dello stesso Parlamento europeo, approvate fra il 1984 e il 1990, tra cui quella più dettagliata ed espressamente rivolta contro le discriminazioni fondate sull'orientamento sessuale, proposta dall'eurodeputata italiana Vera Squarcialupi e approvata il 13 marzo 1984, e tutte quelle che più sinteticamente ribadivano la necessità che venissero adottate legislazioni antidiscriminatorie in vari campi dagli Stati membri, che tenessero conto fra le altre, e allo stesso titolo, anche della discriminazione fondata sull'orientamento sessuale (risoluzioni D'Ancona 11 giugno 1986, Parodi 26 maggio 1989, Buron 22 novembre 1989, Ford 23 luglio 1990). Tali risoluzioni sono state il prologo all'inclusione nel Trattato istitutivo della Comunità europea (articolo 13) di una disposizione sulla produzione di normative comunitarie antidiscriminatorie, che pone sullo stesso piano le discriminazioni basate sulle «tendenze sessuali» (eccentrica versione italiana della locuzione «orientamento sessuale» che compare nei testi inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e danese del Trattato) e quelle fondate su sesso, razza, origine etnica, religione, opinioni, handicap fisici o età; e i loro princìpi sono stati poi ribaditi nella risoluzione «Sulla parità di diritti per gli omosessuali nell'Unione europea» approvata dal Parlamento europeo il 17 settembre 1998 e nelle risoluzioni in materia di diritti umani approvate tra il 1996 e il 2005. Di simile avviso si è espresso negli anni il Consiglio d'Europa, la cui Assemblea parlamentare approva già il 1o ottobre 1981 la raccomandazione n. 924 «Sulla discriminazione contro gli omosessuali». Ancora, il 26 settembre 2000, la stessa Assemblea ha approvato, con una maggioranza del 77 per cento, la raccomandazione n. 1474, che nuovamente invita tutti gli Stati membri a introdurre una legislazione antidiscriminatoria esaustiva (oltre che a riconoscere la parità di diritti per le coppie omosessuali e a includere un divieto esplicito di discriminazioni basate sull'orientamento sessuale nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali). Tale voto seguiva quello del 6 giugno, in cui la stessa Assemblea parlamentare aveva approvato un'analoga raccomandazione, con la quale si invitavano gli Stati membri a includere la persecuzione degli omosessuali fra le ragioni del riconoscimento del diritto di asilo nel proprio territorio e a garantire il diritto di immigrazione per i partner di coppie binazionali formate da persone dello stesso sesso. Infine, un esplicito divieto di discriminazioni fondate, tra l'altro, sull'orientamento sessuale è stato inserito nell'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
      Allo stesso modo, il legislatore italiano ha ignorato la risoluzione del Parlamento europeo sulla discriminazione contro le persone transessuali del 1989, che indicava, tra le altre cose, la necessità di misure antidiscriminatorie esplicite, con particolare riguardo al settore del lavoro, e il riconoscimento del diritto d'asilo per le persone a rischio di persecuzione nel Paese d'origine a motivo della propria identità di genere, così come la raccomandazione
 

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dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa n. 1117 del 1989 sulla condizione delle persone transessuali, che richiamava con forza il principio di non discriminazione stabilito dall'articolo 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
      Soltanto in seguito all'introduzione della direttiva 2000/78/CE sopra citata il legislatore italiano si è visto costretto a introdurre un divieto di discriminazione che includesse altresì l'orientamento sessuale. Così, per la prima volta nella storia del nostro ordinamento giuridico, il divieto di discriminazione fondato per l'appunto sull'orientamento sessuale è divenuto legge dello Stato. Tuttavia, non soltanto il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, attuativo della norma comunitaria ha scelto un approccio minimale, non cogliendo le opportunità e gli spunti che venivano offerti da una lettura complessiva delle due direttive «gemelle» sulla parità di trattamento, la 2000/78/CE e la 2000/43/CE, come invece avvenuto nella maggior parte degli Stati membri dell'Unione europea, inclusi i Paesi candidati, ma ha introdotto disposizioni in palese violazione della norma comunitaria, che potrebbero prima o poi venire sanzionate dalla Corte di giustizia delle Comunità europee. Il testo del decreto legislativo n. 216 del 2003, oltre a ignorare talune cruciali previsioni comunitarie, ha palesemente sfruttato in chiave restrittiva le «zone d'ombra» della direttiva 2000/78/CE, in particolare introducendo eccezioni generali e non circostanziate all'applicazione del principio di parità di trattamento: da ciò consegue il rischio che i princìpi contenuti nella direttiva restino lettera morta e che gli strumenti che erano stati determinati per garantire una protezione effettiva contro le discriminazioni siano inefficaci, soprattutto nei confronti di quegli individui o gruppi sociali che ancora sono vittime di stigmatizzazione sociale. Tale attuazione impropria e inadeguata non ha riguardato soltanto il decreto legislativo n. 216 del 2003, ma anche il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, relativo all'attuazione della direttiva sulla discriminazione razziale 2000/43/CE.
      Pertanto, nell'ambito della definizione di una disciplina antidiscriminatoria relativa all'orientamento sessuale e all'identità di genere adeguata agli standard stabiliti dalle istituzioni europee e introdotti ormai nella maggioranza dei Paesi dell'Unione europea (così come in numerosi altri Paesi, tra cui Canada, numerosi stati degli Stati Uniti, Australia, Repubblica Sudafricana, Nuova Zelanda, Messico), la presente proposta di legge, ai capi II, III e IV, intende ridefinire le norme di attuazione delle due direttive sulla parità di trattamento e di correggere le gravi omissioni e le stringenti limitazioni dei decreti legislativi nn. 215 e 216 del 2003.
      Come si è detto, il capo I la proposta di legge mira a introdurre specifiche misure antidiscriminatorie relativamente ai fattori dell'orientamento sessuale e dell'identità di genere. In particolare, l'articolo 1 punisce i delitti motivati dall'odio omofobico e transfobico, così come l'incitazione all'odio omofobico e transfobico, estendendo la protezione già prevista dalla legge italiana in relazione all'istigazione e ai delitti motivati dall'odio etnico, religioso e razziale, con riguardo alle norme del 1975 di ratifica della Convenzione per l'eliminazione della discriminazione razziale e della più recente «legge Mancino» contro il razzismo (decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205). Nei delitti motivati dall'odio contro minoranze oggetto di pregiudizi diffusi, e alle conseguenze dell'atto delittuoso, si aggiunge un chiaro intento, che va sanzionato, volto a terrorizzare e ad escludere dalla vita sociale un'intera categoria di individui. Il fatto stesso che la legge abbia escluso l'odio omofobico o transfobico dalla protezione garantita ad altri gruppi sociali, e approvato un generico quanto ineffettivo ordine del giorno che ammetteva il problema senza risolverlo, può essere pericolosamente avvertito come una forma di gerarchizzazione dei gruppi a rischio di discriminazione e di manifestazioni
 

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d'odio e un chiaro segnale di disinteresse da parte dell'ordinamento a proteggere un gruppo sociale che può, proprio per questo, determinare un incremento di episodi di odio nei confronti del gruppo escluso. Sono noti i numerosi casi di omicidi, in particolare a danno delle persone transgender, motivati esclusivamente dalla loro identità di genere, verificatisi anche nel nostro Paese, come in altri, dell'Unione europea. Inoltre, la particolare violenza e incitazione all'odio omofobico da parte di forze di estrema destra in Italia, così come in altri Paesi europei, ha indotto il Parlamento europeo ad approvare il 18 gennaio scorso, a grande maggioranza, con voto favorevole di gran parte dei membri del partito popolare, una risoluzione sull'omofobia in Europa che paragona l'omofobia e la transfobia al razzismo, al sessismo e all'antisemitismo e invita gli Stati membri a prendere misure di carattere penale proprio per contrastare tali fenomeni e misure antidiscriminatorie alla stregua di quelle già previste per altre forme di discriminazione, che non si limitino pertanto alla sola parità di trattamento relativa all'occupazione ed alle condizioni di lavoro.
      L'articolo 2 si rivolge in particolare alla protezione degli studenti rispetto a prassi o comportamenti discriminatori, di intolleranza o di semplice dileggio nell'ambito delle attività didattiche o dei corsi di informazione ed educazione sessuale, considerato il particolare impatto traumatico che tali atti possono avere nella fase evolutiva di giovani e adolescenti. L'omofobia e la transfobia, in un ambiente che non favorisce il dialogo sulle diverse identità sessuali e di genere, rappresentano infatti problemi sociali che possono essere causa di suicidio in soggetti in fase evolutiva, come risulta da studi sociologici e psicologici effettuati, tra cui si può citare quello di Luca Pierantoni su «Il tentato suicidio negli adolescenti omosessuali».
      L'articolo 3 stabilisce l'illiceità di ogni riferimento e di ogni indagine relativi all'orientamento sessuale dell'assicurato o dell'assicurando nei contratti di assicurazione sanitaria e nel loro procedimento di formazione, e la nullità dei patti tendenti a rendere più oneroso per l'assicurato il contenuto di tali contratti in dipendenza del suo orientamento sessuale. In tale caso, il contratto è tuttavia valido (la precisazione potrebbe essere necessaria, dato che la nullità della clausola discriminatoria, colpendo la determinazione dell'entità del premio e/o dell'entità della controprestazione, rischierebbe di fare considerare indeterminato il contenuto) e la sua durata è anzi automaticamente prorogata a tempo indeterminato nell'interesse dell'assicurato; è anche prevista la sospensione della prescrizione dell'azione tendente a ottenere la restituzione di quanto pagato in eccesso per tutta la durata del rapporto fino alla sua cessazione (in modo che la ripetizione possa sempre essere richiesta per intero, anche da eventuali eredi, qualora condizionamenti sociali impedissero all'assicurato di far valere i propri diritti in vita), o fino a che non sia richiesto l'accertamento giudiziale della nullità delle clausole discriminatorie.
      L'articolo 4 intende garantire il diritto d'asilo al cittadino straniero perseguitato nel Paese d'origine a motivo del proprio orientamento sessuale o dell'identità di genere. Tale prassi è in vigore in diversi Paesi europei, e vi sono a riguardo decisioni favorevoli da parte della giurisprudenza italiana. Si tratta pertanto di garantire tale diritto per legge, così come il divieto di espulsione, considerato che in otto Paesi del mondo gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso sono puniti con la pena di morte, e le attività sessuali appena citate costituiscono ancora fattispecie di reato in oltre ottanta Paesi del mondo, ove le organizzazioni internazionali per la protezione dei diritti dell'uomo, così come gli special rapporteurs delle Nazioni Unite, denunciano torture, pene e trattamenti inumani, degradanti e umilianti, esecuzioni extragiudiziali e sommarie, detenzioni illegali e arbitrarie nei confronti di gay, lesbiche, transgender.
      L'articolo 5 si propone invece di estendere la protezione prevista dal decreto legislativo n. 216 del 2003, come modificato
 

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dalla presente proposta di legge, alla discriminazione fondata sull'identità di genere, per garantire alle persone transessuali e transgender lo stesso livello di protezione estesa che, in seguito alle modifiche introdotte dal presente provvedimento, sarebbero offerte agli altri fattori di discriminazione. Allo stesso modo ci si propone di aggiungere l'identità di genere al divieto di discriminazione previsto dall'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il cosiddetto «Statuto dei lavoratori».
      Il capo II, come anticipato, modifica le disposizioni del decreto legislativo n. 216 del 2003 di attuazione della direttiva 2000/78/CE.
      Se l'articolo 6 ed il comma 1 dell'articolo 7 precisano e migliorano rispettivamente lo scopo della norma e la definizione del principio di parità di trattamento, il comma 2 dell'articolo 7 include nella definizione di discriminazione diretta e indiretta l'atto di ritorsione nei confronti di chi si sia opposto, mediante un'azione, non necessariamente di carattere giudiziale, a un comportamento, un atto o una prassi discriminatori, rafforzando in questo senso quanto disposto dal legislatore al comma 6 dell'articolo 4 del decreto legislativo n. 216 del 2003.
      L'articolo 8 si pone in primo luogo il proposito di uniformare la disciplina interna di attuazione alla norma comunitaria. In tal senso il comma 1 precisa quanto omesso dal legislatore italiano in riferimento all'ambito di applicazione del principio di parità di trattamento. I commi 4 e 6, invece ridefiniscono la nozione di eccezione allo stesso principio di parità di trattamento in relazione ai cosiddetti «requisiti occupazionali», rimuovendo un'eccezione prevista dal legislatore italiano relativa alle attività delle Forze armate, di polizia, penitenziarie e di soccorso che non soltanto non era contemplata dalla direttiva, ma era in palese violazione della stessa, oltre che contraria alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di discriminazione fondata sull'orientamento sessuale nelle Forze armate nei casi Lustig-Prean and Beckett contro Regno Unito e Smith and Grady contro Regno Unito. Il comma 5 ridefinisce la norma relativa agli accertamenti di idoneità la cui formulazione contenuta nell'articolo 3, comma 3, del decreto legislativo n. 216 del 2003, appare di dubbia interpretazione, e che pare al contrario aprire la strada a una generica eccezione al principio di parità di trattamento. Il comma 7, nel determinare in modo conforme alla direttiva le circostanze in cui disposizioni, criteri e prassi non costituiscono forme di discriminazione indiretta, abroga il riferimento ai reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile, che oltre a non aggiungere nulla alla disciplina già vigente in materia, nulla ha a che vedere con il decreto in oggetto, ma pare perseguire l'obiettivo di associare la pedofilia all'omosessualità, rafforzando il pregiudizio anziché combattere la discriminazione. I commi 2 e 3 si pongono un obiettivo diverso, ovvero l'ampliamento della protezione sulla parità di trattamento con riferimento all'assistenza sanitaria, alla protezione sociale, all'istruzione, all'erogazione di beni e servizi, incluso l'alloggio, ai fattori di discriminazione previsti dalla direttiva 2000/78/CE; in altri termini attraverso questi commi si garantisce una identica protezione contro le discriminazioni a tutti gli individui, indipendentemente dal motivo della discriminazione. L'introduzione di norme di maggior favore, già stabilite dalla direttiva 2000/43/CE in riferimento all'origine etnica e razziale, è stata effettuata in diversi Paesi europei, nonché ribadita dal Parlamento europeo nella risoluzione contro l'omofobia del gennaio scorso, e la stessa Commissione europea sta valutando un ampliamento della protezione della direttiva 2000/78/CE in tal senso.
      L'articolo 9 riforma alcune delle disposizioni inerenti alla tutela giudiziale prevista dal decreto legislativo n. 216 del 2003, in particolare introducendo al comma 1 quella che è stata una delle più significative e clamorose omissioni del provvedimento di attuazione della norma comunitaria, ovvero l'assenza di previsioni
 

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relative all'inversione dell'onere della prova: il comma in oggetto si propone di introdurre la disciplina già prevista al riguardo dalle norme in materia di pari opportunità. Il comma 3 introduce una misura, anch'essa prevista dalla legge 10 aprile 1991, n. 125, sulle azioni positive in materia di pari opportunità tra uomo e donna, volta a garantire l'efficacia tempestiva del provvedimento del giudice finalizzato alla cessazione del comportamento discriminatorio e alla rimozione dei suoi effetti.
      L'articolo 10 interviene a sanare un'altra situazione di palese violazione della norma comunitaria, prevedendo che le associazioni e le organizzazioni portatrici di interessi specifici siano legittimate all'azione in giudizio, come richiesto dalla direttiva 2000/78/CE.
      L'articolo 11 mira a introdurre una previsione relativa al dialogo sociale e con le organizzazioni non governative che era richiesto dalla norma comunitaria e non considerato dal legislatore nazionale: in particolare il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con gli altri Ministeri competenti, le regioni e gli enti locali, è chiamato a farsi carico di attività di consultazione, monitoraggio, elaborazione di codici di comportamento e buone pratiche.
      Agli stessi enti viene riconosciuto inoltre, dall'articolo 12, un ruolo nella diffusione di informazioni relative alle norme in materia di parità di trattamento, come già richiesto dal legislatore comunitario.
      L'articolo 13 rende esplicito che tutte le norme contrattuali contrarie al principio della parità di trattamento sono considerate nulle.
      All'articolo 14 ci si propone di sanare una ulteriore violazione della direttiva introdotta dall'articolo 10 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, il quale conteneva un'eccezione indiscriminata al principio di parità di trattamento con riferimento al divieto di indagini da parte delle agenzie per il lavoro, andando a indebolire uno dei momenti più delicati del rapporto di lavoro, ovvero l'accesso al lavoro.
      Il capo III istituisce e configura una Autorità per la lotta alle discriminazioni. L'obbligo di istituire una autorità indipendente è prevista dalla direttiva 2000/43/CE con il solo riferimento alla discriminazione etnica e razziale. Il decreto legislativo n. 215 del 2003 di attuazione della direttiva stessa aveva istituito un Ufficio per il contrasto delle discriminazioni, abrogato dall'articolo 22 della presente proposta di legge, interno al Ministero per le pari opportunità e disciplinato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Tale configurazione violava evidentemente il requisito dell'indipendenza dell'organismo richiesto dalla direttiva.
      Inoltre, laddove la grande maggioranza dei Paesi europei, inclusi i Paesi di recente adesione, avevano esteso le competenze dell'organismo di parità a tutti i motivi di discriminazione, sia quelli previsti data direttiva 2000/43/CE che dalla direttiva 2000/78/CE, il legislatore italiano aveva optato per una soluzione modesta e minimale, che costituisce quasi un unicum in Europa. Gli articoli da 15 a 21 intervengono su tale questione, istituendo una autorità collegiale indipendente, formata da quattro componenti eletti dai due rami del Parlamento a garanzia dell'indipendenza dell'organismo su modello delle autorità garanti già previste dall'ordinamento italiano. E proprio alle norme che configurano il Garante per la protezione dei dati personali si ispira l'articolo 15 nel delineare la figura, i diritti e i doveri dell'Autorità.
      L'articolo 16 individua i compiti della nuova Autorità, sia basandosi sui requisiti previsti dalla direttiva 2000/43/CE rispetto agli organismi di parità, sia ispirandosi alle autorità indipendenti già istituite in Europa, tra cui l'Alta autorità per la lotta contro le discriminazioni francese, l'Ombudsman svedese contro la discriminazione fondata sull'orientamento sessuale, la Commissione generale per la parità di trattamento olandese, l'Autorità per la parità irlandese: l'Autorità italiana avrebbe pertanto simili funzioni di monitoraggio, di diffusione delle informazioni, di formulazione di raccomandazioni e pareri,
 

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di elaborazione di riforme legislative, di promozione di studi e ricerche, di definizione ove necessario di azioni positive, di assistenza alle vittime della discriminazione, di comunicazione al Parlamento e al Governo in merito all'attuazione del principio di parità di trattamento, di decisione sul ricorso amministrativo istituito dalla presente proposta di legge.
      L'Autorità è dotata di un ufficio, definito dall'articolo 17, il cui funzionamento, proprio allo scopo di garantire piena indipendenza, è disciplinato da un regolamento approvato dall'Autorità stessa, sul modello delle autorità garanti. Le norme della presente proposta di legge in materia di disciplina del personale sono allo stesso modo ispirate alle disposizioni già in vigore con riguardo alle autorità garanti, ivi inclusa la possibilità di avvalersi della consulenza di esperti.
      L'articolo 18 definisce un nuovo strumento di tutela extragiudiziale per la vittima della discriminazione, rappresentato dal ricorso all'Autorità. L'idea del ricorso si ispira a quanto previsto dalle direttive 2000/78/CE e 2000/43/CE, che indicavano l'opportunità di introdurre strumenti di tutela giudiziale e amministrativa. Con il ricorso all'Autorità si rimedierebbe alla lacuna del legislatore italiano in proposito.
      Come specificato all'articolo 19, il ricorso prevede requisiti minimi di forma ed è alternativo al ricorso giudiziale (fatta salva la possibilità di agire in giudizio in opposizione al provvedimento dell'Autorità o al rigetto del ricorso stesso). Allo stesso modo, il procedimento è caratterizzato da particolare speditezza (il ricorso si ritiene rigettato nel caso in cui l'Autorità non provveda entro quarantacinque giorni) e consente alle parti di addivenire a una soluzione concordata, su proposta del ricorrente e con accettazione della controparte. In assenza di accordo, l'Autorità è investita dei poteri che consentono di svolgere accertamenti e perizie e di sentire le parti, allo scopo di addivenire a un provvedimento che, come indicato in precedenza, è impugnabile innanzi al tribunale, ma, in assenza di opposizione, è obbligatorio per le parti (l'inosservanza è punita con sanzione amministrativa ed è impugnabile innanzi al tribunale). Ove necessario, l'Autorità può assumere provvedimenti temporanei allo scopo di far cessare o rimuovere gli effetti della discriminazione.
      In relazione ai poteri dell'Autorità, l'articolo 20 determina le modalità di esecuzione degli accertamenti e delle indagini, sul modello dei poteri a riguardo già previsti per il Garante per la protezione dei dati personali.
      Infine, il capo IV della presente proposta di legge si propone di uniformare le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 215 del 2003 sulla discriminazione etnica e razziale a quelle del decreto legislativo n. 216 del 2003. Il legislatore italiano ha infatti seguito uno schema pressoché identico nel delineare i due decreti di attuazione delle direttive comunitarie, con talune differenze, per lo più relative all'ambito di applicazione e all'organismo di parità, che la presente proposta di legge intende rimuovere. A tale fine, pertanto, gli articoli da 22 a 29 riprendono in modo pressoché speculare le disposizioni previste dal capo II della presente proposta allo scopo di garantire che la disciplina sulla parità di trattamento sia pienamente uniforme, indipendentemente dal motivo della discriminazione. Occorre notare che questo è l'orientamento che progressivamente stanno assumendo tutti i Paesi dell'Unione europea e che in un futuro non lontano diverrà con tutta probabilità un obbligo a cui comunque il legislatore italiano si dovrà uniformare con l'evolvere del diritto comunitario.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Capo I
NORME IN MATERIA DI DISCRIMINAZIONE FONDATA SULL'ORIENTAMENTO SESSUALE E L'IDENTITÀ DI GENERE

Art. 1.
(Delitti motivati dall'odio).

      1. All'articolo 3, comma 1, lettera a), della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, le parole: «o religiosi» sono sostituite dalle seguenti: «, religiosi o fondati sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere».
      2. All'articolo 3, comma 1, lettera d), della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, le parole: «o religiosi» sono sostituite dalle seguenti: «, religiosi o fondati sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere».
      3. All'articolo 3, comma 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, le parole: «o religiosi» sono sostituite dalle seguenti: «, religiosi o fondati sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere».
      4. La rubrica dell'articolo 1 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, è sostituita dalla seguente: «Discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o fondati sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere».
      5. All'articolo 3, comma 1, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, le parole: «o religioso» sono sostituite dalle seguenti: «, religioso o motivato dall'orientamento sessuale o dall'identità di genere».

 

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Art. 2.
(Rispetto per le minoranze nella scuola).

      1. Nelle scuole di ogni ordine e grado, nell'ambito dei corsi di informazione o di educazione sessuale che si svolgono, anche a titolo sperimentale, e nel corso dello svolgimento della normale attività didattica, è vietata ogni manifestazione di intolleranza, dileggio, disprezzo, discriminazione o colpevolizzazione fondata sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere, in quanto traumatica o dannosa per lo sviluppo della personalità di scolari o studenti, nonché idonea a favorire il perpetuarsi di pratiche e di atteggiamenti discriminatori o intolleranti.
      2. Salvo che il fatto non costituisca reato, la vittima dei fatti previsti al comma 1 può agire in giudizio per il risarcimento dei danni patrimoniali e morali eventualmente subiti. La tutela giurisdizionale si svolge nelle forme previste dall'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, come da ultimo modificato dall'articolo 9 della presente legge.
      3. Del danno risponde direttamente l'istituzione scolastica nella quale i fatti si sono verificati, in solido con l'autore dell'atto, comportamento o prassi discriminatori.

Art. 3.
(Assicurazioni sanitarie).

      1. Nell'offerta di contratti di assicurazione sanitaria, nell'invito a proporne la stipulazione e nella loro negoziazione e conclusione sono vietati tutti i riferimenti, anche indiretti, e ogni indagine relativi all'orientamento sessuale o all'identità di genere dell'assicurando o dell'assicurato, qualora ne consegua un aumento dell'entità dei premi o una limitazione delle prestazioni assicurative rispetto a quanto generalmente praticato.
      2. La violazione del divieto di cui al comma 1 è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 50.000 euro.

 

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      3. Ai sensi del comma 2 dell'articolo 7-bis del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, introdotto dall'articolo 13 della presente legge, sono nulle le clausole dei contratti di assicurazione sanitaria che facciano dipendere, anche indirettamente, dall'orientamento sessuale o dall'identità di genere dell'assicurato un aumento dell'entità dei premi o una limitazione delle prestazioni assicurative rispetto a quanto generalmente praticato. La nullità di tali clausole non comporta l'invalidità dei contratti che le contengono, la cui durata è prorogata di diritto a tempo indeterminato, salvo recesso o disdetta da parte dell'assicurato. La prescrizione dell'azione per la ripetizione di quanto corrisposto in eccesso dall'assicurato per l'intera durata del rapporto rimane sospesa fino al momento della cessazione del rapporto o fino alla presentazione della domanda di accertamento giudiziale della nullità delle clausole discriminatorie.

Art. 4.
(Diritto di asilo e divieto di espulsione).

      1. Allo straniero che possa essere perseguitato nel proprio Paese a motivo del proprio orientamento sessuale o dell'identità di genere lo Stato italiano riconosce il diritto di asilo nei termini e alle condizioni previste dalla legislazione vigente in materia.
      2. All'articolo 19, comma 1, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo le parole: «di religione,» sono inserite le seguenti: «di orientamento sessuale,
di identità di genere,».

Art. 5.
(Discriminazione fondata sull'identità di genere).

      1. Le disposizioni di cui al decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, come da

 

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ultimo modificato dalla presente legge, si applicano altresì alla discriminazione fondata sull'identità di genere.
      2. All'articolo 15, secondo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, dopo le parole: «orientamento sessuale» sono inserite le seguenti: «, sull'identità di genere».

Capo II
MODIFICHE AL DECRETO LEGISLATIVO 9 LUGLIO 2003, N. 216

Art. 6.
(Oggetto).

      1. All'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, le parole: «disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione» sono sostituite dalle seguenti: «disponendo le misure necessarie per la lotta alla discriminazione fondata sui citati fattori».

Art. 7.
(Nozione di discriminazione).

      1. All'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, l'alinea è sostituito dal seguente: «Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall'articolo 3, commi da 3 a 6, il principio di parità di trattamento comporta che a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:».
      2. Il comma 4 dell'articolo 2 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:

      «4. L'ordine di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali, dell'handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale e la ritorsione a

 

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una precedente azione giudiziale ovvero l'ingiusta reazione a una precedente attività del soggetto leso volta a ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento sono considerati discriminazioni ai sensi del comma 1».

Art. 8.
(Ambito di applicazione).

      1. All'articolo 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale».
      2. All'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, dopo la lettera d) sono aggiunte le seguenti:

          «d-bis) protezione sociale, comprese la sicurezza sociale e l'assistenza sanitaria;

          d-ter) prestazioni sociali;

          d-quater) istruzione;

          d-quinquies) accesso ai beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l'alloggio».

      3. All'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, la lettera b) è abrogata.
      4. Il comma 3 dell'articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:

      «3. Nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività d'impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le differenze di trattamento basate su caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all'handicap, all'età o all'orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale, e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima, purché

 

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la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».

      5. Il comma 4 dell'articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:

      «4. Sono, comunque, fatte salve le disposizioni che prevedono la possibilità di trattamenti differenziati in relazione all'età, riguardanti gli adolescenti, i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, dettati dalla particolare natura del rapporto di lavoro e dalle legittime finalità di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale».

      6. Il comma 5 dell'articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:

      «5. Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell'ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività. Le differenze di trattamento di cui al presente comma non possono comunque giustificare una discriminazione basata su altri motivi».

      7. Il comma 6 dell'articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:

      «6. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera b), le disposizioni, i criteri o le prassi che siano giustificati oggettivamente da finalità legittime e perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari».

 

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Art. 9.
(Tutela giurisdizionale dei diritti).

      1. Il comma 4 dell'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:

      «4. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o di comportamenti discriminatori in base alle caratteristiche di cui all'articolo 1, spetta al convenuto l'onere della prova sulla insussistenza della discriminazione».

      2. Il comma 6 dell'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è sostituito dal seguente:

      «6. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 5, che l'atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione o ingiusta reazione previste ai sensi del comma 4 dell'articolo 2».

      3. Dopo il comma 8 dell'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è aggiunto il seguente:

      «8-bis. L'inottemperanza ai provvedimenti giudiziali di cessazione del comportamento discriminatorio e di rimozione degli effetti della discriminazione comporta il pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo, da versare a favore dell'Autorità per la lotta alle discriminazioni».

Art. 10.
(Legittimazione ad agire).

      1. L'articolo 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

      «Art. 5. - (Legittimazione ad agire). - 1. Fatte salve le misure più favorevoli previste dalla legge, le rappresentanze locali

 

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delle organizzazioni nazionali comparativamente più rappresentative a livello nazionale e le organizzazioni e le associazioni che hanno un interesse specifico a intervenire in giudizio in ragione degli interessi che rappresentano sono legittimate ad agire ai sensi dell'articolo 4, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, in forza di delega rilasciata per iscritto, a pena di nullità, o a suo sostegno, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l'atto discriminatorio.
      2. Le rappresentanze sociali, le organizzazioni e le associazioni di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva, anche nei casi in cui non siano individuabili in modo immediato e diretto le persone lese dalla discriminazione».

Art. 11.
(Dialogo sociale e con le organizzazioni non governative).

      1. Dopo l'articolo 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, come sostituito dall'articolo 10 della presente legge, è inserito il seguente:

      «Art. 5-bis. - (Dialogo sociale e con le organizzazioni non governative). - 1. Allo scopo di sostenere il principio di parità di trattamento, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con gli altri Ministri competenti, promuove la consultazione delle parti sociali e delle organizzazioni e delle associazioni di cui all'articolo 5.
      2. Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di intesa con le parti sociali e con le organizzazioni e le associazioni di cui all'articolo 5, promuove altresì il monitoraggio delle prassi nei luoghi di lavoro, delle norme contenute nei contratti collettivi di lavoro e nei codici di comportamento, nonché ricerche o scambi di esperienze e di buone pratiche, e adotta le misure necessarie per assicurare in tali ambiti il rispetto dei requisiti minimi previsti dal presente decreto.

 

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      3. Le regioni, in collaborazione con le province, i comuni e le associazioni di cui all'articolo 5, ai fini dell'attuazione delle norme del presente decreto e dello studio del fenomeno, predispongono centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale per le vittime delle discriminazioni fondate su religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale».

Art. 12.
(Diffusione delle informazioni).

      1. Dopo l'articolo 5-bis del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, introdotto dall'articolo 11 della presente legge, è inserito il seguente:

      «Art. 5-ter. - (Diffusione delle informazioni). - 1. Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con gli altri Ministri competenti e di intesa con l'Autorità per la lotta alle discriminazioni e con le parti sociali e le organizzazioni e le associazioni di cui all'articolo 5, adotta le iniziative necessarie alla diffusione delle informazioni sul territorio nazionale, anche mediante campagne informative in particolare sui luoghi di lavoro, allo scopo di assicurare che le disposizioni di cui al presente decreto siano portate all'attenzione dei soggetti interessati.
      2. Le iniziative di cui al comma 1 sono altresì adottate dalle regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, tramite i centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale previsti dal comma 3 dell'articolo 5-bis».

Art. 13.
(Disposizioni finali).

      1. Dopo l'articolo 6 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, è inserito il seguente:

      «Art. 6-bis. - (Disposizioni finali). - 1. Sono nulle tutte le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento di

 

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cui al presente decreto contenute nei contratti collettivi di lavoro, nei regolamenti aziendali, nei codici di comportamento e nei codici deontologici.
      2. Sono altresì nulle, ai sensi dell'articolo 1418 del codice civile, le clausole contrattuali contrarie alle disposizioni del presente decreto».

Art. 14.
(Modifica dell'articolo 10 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276).

      1. L'articolo 10 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e sostituito dal seguente:

      «Art. 10. - (Divieto di indagini sulle opinioni e trattamenti discriminatori). - 1. È fatto divieto alle agenzie per il lavoro e agli altri soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati di effettuare qualsivoglia indagine o comunque trattamento di dati ovvero di preselezione di lavoratori, anche con il loro consenso, in base alle convinzioni personali, alla affiliazione sindacale o politica, al credo religioso, al sesso, all'orientamento sessuale, all'identità di genere, allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, all'età, all'handicap, alla razza, all'origine etnica, al colore della pelle, all'ascendenza, all'origine nazionale, al gruppo linguistico, allo stato di salute nonché ad eventuali controversie con i precedenti datori di lavoro.
      2. Non costituiscono atti di discriminazione le differenze di trattamento basate sulle caratteristiche di cui al comma 1 qualora, per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato.
      3. È fatto divieto di trattare dati personali dei lavoratori che non siano strettamente attinenti alle loro attitudini professionali e al loro inserimento lavorativo.
      4. Le disposizioni di cui al presente articolo non possono in ogni caso impedire

 

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ai soggetti di cui al comma 1 di fornire specifici servizi o azioni mirate per assistere le categorie di lavoratori svantaggiati nella ricerca di una occupazione».

Capo III

ISTITUZIONE DELL'AUTORITÀ PER LA LOTTA ALLE DISCRIMINAZIONI

Art. 15.
(Autorità per la lotta alle discriminazioni).

      1. È istituita l'Autorità per la lotta alle discriminazioni, di seguito denominata «Autorità». L'Autorità opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione.
      2. L'Autorità è istituita allo scopo di promuovere la parità di trattamento e di rimuovere le discriminazioni fondate sulla razza, sull'origine etnica, sulla religione, sulle convinzioni personali, sull'handicap, sull'età, sul sesso, sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere, con funzioni di controllo e garanzia della parità di trattamento e dell'operatività degli strumenti di tutela a tale fine preposti, e ha il compito di svolgere, in modo autonomo e imparziale, attività di promozione della parità e di rimozione di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulle cause sopra menzionate, anche in un'ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini.
      3. L'Autorità è organo collegiale costituito da quattro componenti, di cui due eletti dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica con voto limitato. I componenti sono scelti tra persone che assicurano indipendenza e riconosciuta competenza nelle materie giuridiche o nelle problematiche inerenti la parità di trattamento, garantendo la presenza di entrambe le qualificazioni.
      4. I componenti eleggono nel loro ambito il presidente, il cui voto prevale in caso di parità. Eleggono altresì il vicepresidente, che assume le funzioni del presidente in caso di sua assenza o impedimento.

 

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      5. Il presidente e gli altri componenti durano in carica quattro anni e non possono essere confermati per più di una volta; per tutta la durata dell'incarico il presidente e gli altri componenti non possono esercitare, a pena di decadenza, alcuna attività professionale o di consulenza né essere amministratori o dipendenti di enti pubblici o privati né ricoprire cariche elettive.
      6. All'atto dell'accettazione della nomina il presidente e gli altri componenti sono collocati fuori ruolo se dipendenti di pubbliche amministrazioni o magistrati in attività di servizio; se professori universitari di ruolo, sono collocati in aspettativa senza assegni ai sensi dell'articolo 13 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, e successive modificazioni. Il personale collocato fuori ruolo o in aspettativa non può essere sostituito.
      7. Al presidente compete una indennità di funzione non eccedente, nel massimo, la retribuzione spettante al primo presidente della Corte di cassazione. Ai componenti compete un'indennità non eccedente nel massimo, i due terzi di quella spettante al presidente. Le predette indennità di funzione sono determinate in misura tale da poter essere corrisposte a carico degli ordinari stanziamenti di bilancio.
      8. Alle dipendenze dell'Autorità è posto l'Ufficio dell'Autorità di cui all'articolo 17.

Art. 16.
(Compiti).

      1. L'Autorità, anche avvalendosi dell'Ufficio di cui all'articolo 17 e in conformità alla presente legge, ha il compito di:

          a) fornire assistenza, nei procedimenti giurisdizionali intrapresi, alle persone che si ritengono lese da comportamenti discriminatori, anche secondo le forme di cui all'articolo 425 del codice di procedura civile;

          b) svolgere, nel rispetto delle prerogative e delle funzioni dell'autorità giudiziaria, inchieste al fine di verificare l'esistenza di fenomeni discriminatori;

 

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          c) promuovere l'adozione, da parte di soggetti pubblici e privati, in particolare da parte delle organizzazioni e delle associazioni portatrici di interessi legittimi, di misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o compensare le situazioni di svantaggio connesse alle cause di discriminazione di cui al comma 2 dell'articolo 15;

          d) diffondere la massima conoscenza possibile degli strumenti di tutela vigenti anche mediante azioni di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul principio della parità di trattamento e la realizzazione di campagne di informazione e comunicazione;

          e) formulare raccomandazioni e pareri su questioni connesse alle cause di discriminazione di cui al comma 2 dell'articolo 15, nonché proposte di modifica della normativa vigente;

          f) redigere una relazione annuale per il Parlamento sull'effettiva applicazione del principio di parità di trattamento e sull'efficacia dei meccanismi di tutela, nonché una relazione annuale al Presidente del Consiglio dei ministri sull'attività svolta;

          g) promuovere studi, ricerche, corsi di formazione e scambi di esperienze, in collaborazione anche con le associazioni portatrici di interessi legittimi, con le altre organizzazioni non governative operanti nel settore e con gli istituti specializzati di rilevazione statistica, anche al fine di elaborare linee guida in materia di lotta alle discriminazioni;

          h) denunciare i fatti configurabili come reati perseguibili d'ufficio, dei quali viene a conoscenza nell'esercizio o a causa delle sue funzioni;

          i) esaminare le segnalazioni e provvedere sui ricorsi presentati dagli interessati o dalle associazioni che li rappresentano;

          l) esprimere pareri nei casi previsti.

      2. Il Presidente del Consiglio dei ministri e ciascun Ministro consultano l'Autorità all'atto della predisposizione delle norme regolamentari e degli atti amministrativi

 

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suscettibili di incidere sulle materie di competenza dell'Autorità stessa.
      3. Fatti salvi i termini più brevi previsti per legge, il parere dell'Autorità è reso nel termine di quarantacinque giorni dal ricevimento della richiesta. Decorso tale termine, l'amministrazione può procedere indipendentemente dall'acquisizione del parere. Quando, per esigenze istruttorie, non può essere rispettato il termine di cui al presente comma, tale termine può essere interrotto per una sola volta e il parere deve essere reso entro venti giorni dal ricevimento degli elementi istruttori da parte delle amministrazioni interessate.

Art. 17.
(Ufficio dell'Autorità).

      1. All'Ufficio dell'Autorità, al fine di garantire la responsabilità e l'autonomia ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, si applicano i princìpi riguardanti l'individuazione e le funzioni del responsabile del procedimento, nonché quelli relativi alla distinzione fra le funzioni di indirizzo e di controllo attribuite agli organi di vertice e le funzioni di gestione attribuite ai dirigenti.
      2. All'Ufficio dell'Autorità è preposto un segretario generale scelto anche tra magistrati ordinari o amministrativi.
      3. Il ruolo organico del personale dipendente dell'Ufficio dell'Autorità è stabilito nel limite di novanta unità.
      4. Con propri regolamenti pubblicati nella Gazzetta ufficiale, l'Autorità definisce:

          a) l'organizzazione e il funzionamento dell'Ufficio anche ai fini dello svolgimento dei compiti di cui all'articolo 16, tenuto conto delle specifiche esigenze relative alle singole cause di discriminazione;

          b) l'ordinamento delle carriere e le modalità di reclutamento del personale secondo le procedure previste dall'articolo 35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni;

 

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          c) la ripartizione dell'organico tra le diverse aree e qualifiche;

          d) il trattamento giuridico ed economico del personale, secondo i criteri previsti dall'articolo 1 della legge 31 luglio 1997, n. 249, e successive modificazioni, e, per gli incarichi dirigenziali, dagli articoli 19, comma 6, e 23-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, tenuto conto delle specifiche esigenze funzionali e organizzative. Nelle more della più generale razionalizzazione del trattamento economico delle autorità indipendenti, al personale è attribuito il medesimo trattamento economico del personale dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali;

          e) la gestione amministrativa e la contabilità, anche in deroga alle norme sulla contabilità generale dello Stato, l'utilizzo dell'avanzo di amministrazione nel quale sono iscritte le somme già versate nella contabilità speciale, nonché l'individuazione dei casi di riscossione e utilizzazione dei diritti di segreteria o di corrispettivi per servizi resi in base a disposizioni di legge secondo le modalità di cui all'articolo 6, comma 2, della legge 31 luglio 1997, n. 249.

      5. L'Ufficio può avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivi compresi magistrati e avvocati dello Stato, in posizione di comando, aspettativa o fuori ruolo. Si applicano l'articolo 56, settimo comma, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e articolo 17, comma 14, della legge 15 maggio 1997, n. 127.
      6. In aggiunta al personale di ruolo, l'Ufficio può assumere direttamente dipendenti con contratto a tempo determinato, in numero non superiore a venti unità ivi compresi il personale di cui al comma 5 e gli esperti e i consulenti di cui comma 8.
      7. Si applicano le disposizioni di cui all'articolo 30 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni.
      8. Nei casi in cui la natura tecnica o la delicatezza dei problemi lo richiedono, l'Autorità

 

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può avvalersi di esperti e consulenti esterni, i quali sono remunerati in base alle vigenti tariffe professionali ovvero sono assunti con contratti a tempo determinato, di durata non superiore a due anni, che possono essere rinnovati per non più di due volte.
      9. Gli esperti e i consulenti di cui al comma 8 sono scelti tra soggetti, anche estranei alla pubblica amministrazione, dotati di elevata professionalità nelle materie giuridiche, nonché nei settori della lotta alle discriminazioni, dell'assistenza materiale e psicologica ai soggetti in condizioni disagiate, del recupero sociale, dei servizi di pubblica utilità, della comunicazione sociale e dell'analisi delle politiche pubbliche.
      10. Il personale addetto all'Ufficio dell'Autorità e i consulenti sono tenuti al segreto su ciò di cui sono venuti a conoscenza, nell'esercizio delle proprie funzioni, in ordine ad atti o circostanze che non devono essere divulgati.
      11. Il personale dell'Ufficio dell'Autorità addetto agli accertamenti di cui all'articolo 20 riveste, in numero non superiore a cinque unità, nei limiti del servizio cui è destinato e secondo le rispettive attribuzioni, la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria.
      12. Le spese di funzionamento dell'Autorità sono poste a carico di un fondo stanziato a tale scopo nel bilancio dello Stato e iscritto in apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze. Il rendiconto della gestione finanziaria è soggetto al controllo della Corte dei conti.

Art. 18.
(Tutela dinanzi all'Autorità).

      1. L'interessato, persona fisica o giuridica, può rivolgersi all'Autorità mediante ricorso allo scopo di:

          a) rappresentare una violazione della disciplina in materia di parità di trattamento;

 

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          b) sollecitare un controllo da parte dell'Autorità sulla disciplina medesima;

          c) far valere i propri diritti in via alternativa a quella giurisdizionale, ottenere la cessazione della violazione della disciplina in materia di parità di trattamento e la rimozione degli effetti.

Art. 19.
(Ricorso).

      1. Il ricorso di cui all'articolo 18 contiene:

          a) l'indicazione per quanto possibile dettagliata dei fatti e delle circostanze su cui si fonda e delle disposizioni che si presumono violate;

          b) gli estremi identificativi del ricorrente, dell'eventuale procuratore speciale e della controparte, ove sia nota;

          c) le misure richieste.

      2. Il ricorso è presentato dall'interessato o dalle rappresentanze sociali, organizzazioni o associazioni cui la legge riconosce la legittimazione ad agire in giudizio e reca in allegato la documentazione utile ai fini della sua valutazione, nonché l'eventuale procura, e indica un recapito per l'invio di comunicazioni anche tramite posta elettronica, telefax o telefono.
      3. Il ricorso all'Autorità non può essere proposto se, per il medesimo oggetto e tra le stesse parti, è stata già adita l'autorità giudiziaria.
      4. Il ricorso è validamente proposto solo se è trasmesso con plico raccomandato, oppure per via telematica osservando le modalità relative alla sottoscrizione con firma digitale e alla conferma del ricevimento prescritte dalla legge, ovvero presentato direttamente presso l'Ufficio dell'Autorità.
      5. Il ricorso è inammissibile:

          a) se proviene da un soggetto non legittimato ai sensi del comma 2;

 

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          b) in caso di inosservanza delle disposizioni di cui al comma 3;

          c) se difetta di taluno degli elementi indicati al comma 1 salvo che sia regolarizzato dal ricorrente o dal procuratore speciale anche su invito dell'Ufficio dell'Autorità, entro quattordici giorni dalla data della sua presentazione o della ricezione dell'invito. In tale caso, il ricorso si considera presentato al momento in cui il ricorso regolarizzato perviene all'Ufficio.

      6. Fuori dei casi in cui è dichiarato inammissibile o manifestamente infondato, il ricorso è comunicato alla controparte entro tre giorni a cura dell'Ufficio dell'Autorità, con invito ad esercitare entro dieci giorni dal suo ricevimento la facoltà di comunicare al ricorrente e all'Ufficio la propria eventuale adesione spontanea.
      7. In caso di adesione spontanea è dichiarato non luogo a provvedere. Se il ricorrente lo richiede, è determinato in misura forfettaria l'ammontare delle spese inerenti al ricorso, poste a carico della controparte o compensate per giusti motivi anche parzialmente.
      8. Esaurita l'istruttoria preliminare, se il ricorso non è manifestamente infondato e sussistono i presupposti, l'Autorità, anche prima della definizione del procedimento, prende i provvedimenti necessari per la cessazione del comportamento o della prassi discriminatoria, ovvero finalizzati alla revisione delle disposizioni che violano il principio di parità di trattamento.
      9. Nel procedimento dinanzi all'Autorità, la controparte e l'interessato hanno il diritto di essere sentiti, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, e hanno facoltà di presentare memorie o documenti. A tal fine l'invito di cui al comma 6 è trasmesso anche al ricorrente e reca l'indicazione del termine entro il quale la controparte e l'interessato possono presentare memorie e documenti, nonché della data in cui tali soggetti possono essere sentiti in contraddittorio anche mediante idonea tecnica audiovisiva.
      10. Nel procedimento il ricorrente può precisare la domanda nei limiti di quanto chiesto

 

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con il ricorso o a seguito di eccezioni formulate dalla controparte.
      11. Assunte le necessarie informazioni, anche mediante l'espletamento di perizia, l'Autorità, se ritiene fondato il ricorso, ordina alla controparte, con decisione motivata, la cessazione del comportamento illegittimo, indicando le misure, anche a titolo di risarcimento, necessarie a tutela dei diritti dell'interessato e assegnando un termine per la loro adozione. La mancata pronuncia sul ricorso, decorsi quarantacinque giorni dalla data di presentazione, equivale a rigetto.
      12. Se vi è stata previa richiesta di taluna delle parti, il provvedimento che definisce il procedimento determina in misura forfettaria l'ammontare delle spese inerenti al ricorso, posti a carico, anche in parte, del soccombente o compensati anche parzialmente per giusti motivi.
      13. Il provvedimento espresso, anche provvisorio, adottato dall'Autorità è comunicato alle parti entro dieci giorni presso il domicilio eletto o risultante dagli atti. Il provvedimento può essere comunicato alle parti anche mediante posta elettronica o telefax.
      14. In caso di mancata opposizione avverso il provvedimento che determina l'ammontare delle spese, o di suo rigetto, il provvedimento medesimo costituisce, per questa parte, titolo esecutivo ai sensi degli articoli 474 e 475 del codice di procedura civile.
      15. Avverso il provvedimento espresso o il rigetto tacito di cui al comma 11, le parti possono proporre opposizione con ricorso innanzi al tribunale. L'opposizione non sospende l'esecuzione del provvedimento.
      16. Il tribunale provvede nei modi di cui al decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216.
      17. In caso di inosservanza del provvedimento adottato dall'Autorità, il ricorrente o l'Autorità stessa, in nome e per conto, o a sostegno dell'interessato, possono adire il tribunale, che provvede nei modi di cui al comma 16.
      18. Chiunque, essendovi tenuto, non osserva il provvedimento adottato dall'Autorità, è punito con la sanzione amministrativa
 

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del pagamento di una somma da 4.000 euro a 24.000 euro.

Art. 20.
(Accertamenti e controlli).

      1. Per l'espletamento dei propri compiti l'Autorità può richiedere alle parti, o anche a terzi, di fornire informazioni e di esibire documenti.
      2. L'Autorità può disporre accessi a banche dati, archivi o altre ispezioni e verifiche nei luoghi ove si sono verificati gli atti, i comportamenti, le prassi discriminatori, o nei quali occorre effettuare rilevazioni comunque utili al controllo del rispetto della disciplina in materia di parità di trattamento.
      3. I controlli di cui al comma 2 sono eseguiti da personale dell'Ufficio dell'Autorità. L'Autorità si avvale anche, ove necessario, della collaborazione di altri organi dello Stato.
      4. Gli accertamenti di cui al comma 2, se svolti in un'abitazione o in un altro luogo di privata dimora o nelle relative pertinenze, sono effettuati con l'assenso informato del soggetto interessato, oppure previa autorizzazione del presidente del tribunale competente per territorio in relazione al luogo dell'accertamento, il quale provvede con decreto motivato senza ritardo, al più tardi entro tre giorni dal ricevimento della richiesta dell'Autorità quando è documentata l'indifferibilità dell'accertamento.
      5. Il personale operante, munito di documento di riconoscimento, può essere assistito ove necessario da consulenti tenuti al segreto ai sensi del comma 10 dell'articolo 17. Nel procedere a rilievi e ad operazioni tecniche può altresì estrarre copia di ogni atto, dato e documento, anche a campione e su supporto informatico o per via telematica. Degli accertamenti è redatto sommario verbale nel quale sono annotate anche le eventuali dichiarazioni dei presenti.
      6. Ai soggetti presso i quali sono eseguiti gli accertamenti è consegnata copia

 

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dell'autorizzazione del presidente del tribunale, ove rilasciata. I medesimi soggetti sono tenuti a farli eseguire e a prestare la collaborazione a tal fine necessaria. In caso di rifiuto gli accertamenti sono comunque eseguiti e le spese in tal caso occorrenti sono poste a carico del titolare con il provvedimento che definisce il procedimento, che per questa parte costituisce titolo esecutivo ai sensi degli articoli 474 e 475 del codice di procedura civile.
      7. Gli accertamenti, se effettuati presso la controparte, sono eseguiti dandogliene informazione. Agli accertamenti possono assistere persone indicate dalla controparte stessa.
      8. Se non è disposto diversamente nel decreto di autorizzazione del presidente del tribunale, l'accertamento non può essere iniziato prima delle ore sette e dopo le ore venti, e può essere eseguito anche con preavviso quando ciò può facilitarne l'esecuzione.
      9. Le informative, le richieste e i provvedimenti di cui all'articolo 19 ed al presente articolo possono essere trasmessi anche mediante posta elettronica e telefax.
      10. Quando emergono indizi di reato si osserva la disposizione di cui all'articolo 220 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

Art. 21.
(Disposizioni finali).

      1. Gli articoli 7 e 8 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, sono abrogati.
      2. L'Ufficio per il contrasto delle discriminazioni istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per le pari opportunità è soppresso con effetto dalla data di inizio del funzionamento dell'Autorità, cui sono trasferite le competenze dell'Ufficio stesso.
      3. Alla destinazione del personale dell'Ufficio di cui al comma 2 si provvede con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.

 

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Capo IV
MODIFICHE AL DECRETO LEGISLATIVO 9 LUGLIO 2003, N. 215

Art. 22.
(Oggetto).

      1. All'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, le parole: «disponendo le misure necessarie affinché le differenze di razza o di origine etnica non siano causa di discriminazione» sono sostituite dalle seguenti: «disponendo le misure necessarie per la lotta alla discriminazione fondata sulla razza o sull'origine etnica».

Art. 23.
(Nozione di discriminazione).

      1. All'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, l'alinea è sostituito dal seguente: «Ai fini del presente decreto, il principio di parità di trattamento comporta che a causa della razza o dell'origine etnica non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:».
      2. Il comma 4 dell'articolo 2 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, è sostituito dal seguente:

      «4. L'ordine di discriminare persone a causa della razza o dell'origine etnica, e la ritorsione a una precedente azione giudiziale ovvero l'ingiusta reazione a una precedente attività del soggetto leso volta a ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento sono considerati discriminazioni ai sensi del comma 1».

Art. 24.
(Ambito di applicazione).

      1. All'articolo 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 9 luglio 2003,

 

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n. 215, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale».
      2. Il comma 3 dell'articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, è sostituito dal seguente:

      «3. Nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività d'impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le differenze di trattamento basate su caratteristiche connesse alla razza o all'origine etnica di una persona, qualora, per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».

      3. Il comma 4 dell'articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, è sostituito dal seguente:

      «4. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera b), le disposizioni, criteri o le prassi che siano giustificati oggettivamente da finalità legittime e perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari».

Art. 25.
(Tutela giurisdizionale dei diritti).

      1. Il comma 3 dell'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, è sostituito dal seguente:

      «3. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o di comportamenti discriminatori in base alle caratteristiche di cui all'articolo 1, spetta al convenuto l'onere della prova sulla insussistenza della discriminazione».

 

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      2. Il comma 5 dell'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, è sostituito dal seguente:

      «5. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 4, che l'atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione o ingiusta reazione previste ai sensi del comma 4 dell'articolo 2».

      3. Dopo il comma 7 dell'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, è inserito il seguente:

      «7-bis. L'inottemperanza ai provvedimenti giudiziali di cessazione del comportamento discriminatorio e di rimozione degli effetti della discriminazione comporta il pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo da versare a favore dell'Autorità per la lotta alle discriminazioni».

Art. 26
(Legittimazione ad agire).

      1. L'articolo 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, è sostituito dal seguente:

      «Art. 5. - (Legittimazione ad agire). - 1. Fatte salve le misure più favorevoli previste dalla legge, le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali comparativamente più rappresentative a livello nazionale e le organizzazioni e le associazioni che hanno un interesse specifico a intervenire in giudizio in ragione degli interessi che rappresentano sono legittimate ad agire ai sensi dell'articolo 4, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, in forza di delega rilasciata per iscritto, a pena di nullità, o a suo sostegno, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l'atto discriminatorio.
      2. Le rappresentanze sociali, le organizzazioni e le associazioni di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva, anche nei casi in cui non siano individuabili

 

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in modo immediato e diretto le persone lese dalla discriminazione».

      2. L'articolo 6 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, è abrogato.

Art. 27.
(Dialogo sociale e con le organizzazioni non governative).

      1. Dopo l'articolo 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, come sostituito dall'articolo della presente legge, è inserito il seguente:

      «Art. 5-bis. - (Dialogo sociale e con le organizzazioni non governative). - 1. Allo scopo di sostenere il principio di parità di trattamento, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con gli altri Ministri competenti, promuove la consultazione delle parti sociali e delle organizzazioni e delle associazioni di cui all'articolo 5.
      2. Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, d'intesa con le parti sociali e con le organizzazioni e le associazioni di cui al comma 1, promuove altresì il monitoraggio delle prassi nei luoghi di lavoro, delle norme contenute nei contratti collettivi di lavoro, nei codici di comportamento nonché ricerche o scambi di esperienze e di buone pratiche e adotta le misure necessarie per assicurare in tali ambiti il rispetto dei requisiti minimi previsti dal presente decreto».

Art. 28.
(Diffusione delle informazioni).

      1. Dopo l'articolo 5-bis del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, introdotto dall'articolo 27 della presente legge, è inserito il seguente:

      «Art. 5-ter. - (Diffusione delle informazioni). - 1. Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con gli altri Ministri competenti e di intesa con l'Autorità per la lotta alle discriminazioni e

 

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con le parti sociali e le organizzazioni e le associazioni di cui all'articolo 5, adotta le iniziative necessarie alla diffusione delle informazioni sul territorio nazionale, anche mediante campagne informative in particolare sui luoghi di lavoro, allo scopo di assicurare che le disposizioni di cui al presente decreto siano portate all'attenzione dei soggetti interessati.
      2. Le iniziative di cui al comma 1 sono altresì adottate dalle regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, tramite i centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale previsti dal comma 12 dell'articolo 44 del testo unico».

Art. 29.
(Disposizioni finali).

      1. Dopo l'articolo 7 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, è inserito il seguente:

      «Art. 7-bis. - (Disposizioni finali). - 1. Sono nulle tutte le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento di cui al presente decreto contenute nei contratti collettivi di lavoro, nei regolamenti aziendali, nei codici di comportamento e nei codici deontologici.
      2. Sono altresì nulle, ai sensi dell'articolo 1418 del codice civile, le clausole contrattuali contrarie alle disposizioni del presente decreto».

      2. All'articolo 17, primo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382, come sostituito dall'articolo 26 della legge 24 dicembre 1986, n. 958, dopo le parole: «o sindacali» sono inserite le seguenti: «e all'orientamento sessuale».


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