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PDL 1372

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1372


 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato ANGELA NAPOLI

Disposizioni in favore della maternità

Presentata il 13 luglio 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - A circa ventotto anni dall'applicazione della legge 22 maggio 1978, n. 194, occorre riflettere sul se e come i propositi proclamati al primo comma dell'articolo 1 della legge («Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio») abbiano trovato concreta realizzazione:

          1) gli aborti «clandestini», cavallo di battaglia per la legalizzazione dell'interruzione volontaria di gravidanza, non solo non sono diminuiti, ma sono aumentati (fonte AIED: 70-100 mila nel 1986; 87 mila nel 1987; intorno agli 80.000 nel 1990);

          2) nel 1986 il 27,2 per cento delle gestanti che hanno abortito aveva già fatto ricorso all'aborto in precedenza almeno una volta, nel 1990 il 28,9 per cento: una «recidività» così diffusa conferma il carattere meramente propagandistico proprio del compito dichiarato di rendere «cosciente» e «responsabile» la procreazione;

          3) si registra una pratica abortiva capillare che non è spiegata da situazioni eccezionali, da pericoli seri o reali per la salute o da difficoltà economiche familiari: dalla relazione ministeriale del 1990 si deduce che le donne che abortiscono sono in gran parte coniugate (62,5 per cento), in età compresa fra i 20 e i 39 anni (63,9 per cento), con sufficiente livello di istruzione (75,3 per cento), e con non più di due figli (81,3 per cento); aumentano tuttavia i dati riferiti alle donne nubili (33,3 per cento) che nel nord raggiungono il 40 per cento; l'aborto è diventato cioè una scelta di cultura;

          4) è mancata qualsiasi tutela per le «maternità difficili»: i consultori pubblici si limitano, nella maggior parte dei casi, a

 

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rilasciare la certificazione per abortire e a smistare le donne verso i centri a ciò abilitati;

          5) la legge n. 194 del 1978, ha contribuito a incrementare il terribile calo della natalità e ad aggravare, quindi, i problemi ad esso connessi: immigrazione dai Paesi del sud-Mediterraneo, aumento della popolazione anziana, eccetera;

          6) l'aspetto più grave: posto che i dati scientifici attestano inconfutabilmente che il nascituro è «un essere umano» fin dal momento del concepimento, tanti anni di aborto «legale» in Italia hanno significato milioni di omicidi «legali» e sovvenzionati con il denaro pubblico.

      Da queste schematiche considerazioni, dobbiamo dedurre che occorre ristabilire con fermezza e senza ambiguità il principio che l'aborto è da ritenersi illecito e che lo Stato deve prevenirlo con tutti i mezzi, creando strutture di sostegno alla famiglia ed incoraggiando la maternità.
      La discussione parlamentare del giugno 1988 delle «mozioni sul diritto alla vita» è stata illuminante, sotto questo aspetto, perché ha evidenziato una serie di posizioni politiche, alcune chiare e coerenti, altre ambigue e di compromesso. Un dato è certo: il caso-aborto non può essere considerato definitivamente archiviato; la stessa legge, con l'articolo 16, lo impedisce. L'articolo 16, infatti, nel prevedere la relazione annuale del Ministro della sanità e del Ministro della giustizia, non risponde secondo noi ad una sorta di curiosità del Parlamento, ma impone a questo di riflettere sui dati, evidentemente per assumere, poi, decisioni conseguenti.
      La drastica affermazione di quanti sostengono che «la legge non si tocca», si pone allora al di fuori di ogni logica, specialmente se si tiene conto del fatto, assai rilevante, che nel momento in cui si dibatte - con onestà intellettuale, ci pare - sull'opportunità di modificare addirittura il dettato costituzionale, sarebbe quanto meno anomalo che non ci si dovesse accingere a por mano a eventuali modifiche legislative motivate da una serie di circostanze che si sono verificate nell'arco di quasi trent'anni.
      Lo si voglia o no, è cambiata la qualità del dibattito, ed è cambiata anche sulla scorta dell'esperienza fatta attraverso l'attuazione della vigente legislazione. La passata scarsa attenzione per il fattore umano cede oggi il posto ad un dibattito che potremmo a giusta ragione definire esistenziale, dibattito generato in gran parte dalle riflessioni sulla denatalità e sulla disgregazione della famiglia.
      I valori di comunicazione e di solidarietà incominciano a prevalere sulla società dei singoli, dalle caratteristiche così lontane dalla reale natura dell'essere umano. La denatalità, con tutte le sue implicazioni di carattere etico, economico, culturale e sociale, è tema al quale non si può continuare ad accostarsi attraverso articoli di stampa o tavole rotonde, ma è tema degno della più profonda ed accurata analisi da parte di uno Stato che ha affermato, nella conferenza demografica mondiale tenutasi a Città del Messico nell'agosto 1984, insieme agli Stati Uniti d'America e ad alcuni Paesi del terzo mondo, di essere nettamente contrario al controllo delle nascite, ed in particolare alle pratiche abortive come metodo per limitare e contenere la crescita della popolazione mondiale.
      Ancora più urgente si pone allora per noi, per questo Parlamento, una riflessione sul tipo di società nella quale viviamo: una società attraversata da mille inquietudini, travagliata da mille mali, una società che rifugge dal dolore e che tendenzialmente rifiuta la rinuncia, il sacrificio e l'abnegazione come parametri di riferimento comportamentale o decisionale, una società che non sa affrontare i problemi e cerca di superare la sua incapacità attraverso una sorta di decisionismo irriflessivo e non ponderato che le consente in qualche modo di superare il problema stesso per la scorciatoia, come direbbe Corrado Guerzoni, attraverso cioè l'assunzione di metodi radicali. Sicché nel caso specifico dell'aborto, ad esempio, non si potenzia la via dell'educazione, della crescita culturale, dell'aiuto alla famiglia, ma si procede

 

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con metodi di assai rapido impiego. E così di seguito, per l'eutanasia o per la droga, quando si propone di liberalizzarla invece di impedirne il diffondersi.
      Diciamo pure, e con coraggio, che viviamo in una società sopita verso i valori morali, una società che più che protesa ad evitare l'insorgere e l'affermarsi della violenza tende a giustificare, con fuorvianti motivazioni di carattere sociologico, la violenza stessa. La realtà è che è difficile intervenire ormai su un tessuto sociale che assorbe tutto: gli scandali, la violenza sui minori, sulle donne e sugli anziani, l'eutanasia, il razzismo emergente nelle sue forme palesi e nei suoi aspetti più sofisticati (attraverso, per esempio, le manipolazioni genetiche), il riaffiorante terrorismo, la delinquenza comune, la prostituzione minorile, la pornografia, la violenza della disoccupazione, la violenza dell'immagine.
      È difficile intervenire, ma è nostro compito farlo, prima che sia troppo tardi. Non è mai tardi, comunque, per una società che ha necessità di risorgere soprattutto nella sua espressione giovanile, alla quale noi, proprio noi, non siamo stati in grado di fornire certezze, di tutelarla, di difenderla, di trasmettere valori.
      È proprio dai giovani che viene la sollecitazione maggiore ad intervenire per evitare che l'egoismo continui a prevalere sul bene collettivo. È soprattutto da loro che derivano la volontà di affermare il coraggio della verità nell'analisi della situazione attuale e la forza del giudizio morale sulla realtà.
      Non possiamo più assistere colpevolmente inerti al calpestamento quotidiano del diritto fondamentale della persona alla vita e, ancor più, ad una degna qualità della vita; non possiamo neppure trovare giustificazioni alle trappole insidiose che vengono tese alle libertà dei singoli ed alle istituzioni, prima fra tutte la famiglia che, a nostro avviso, dev'essere una volta per tutte tutelata con adeguati interventi.
      Non possiamo, quindi, ridurre la nostra attenzione alla decisione di mantenere, non mantenere o modificare la legge n. 194 del 1978; dobbiamo invece partire dal suo esame, dopo ventotto anni di applicazione, per chiederci che senso abbia, alla luce dell'analisi dei dati contenuti nella relazione del Ministro, mantenere così com'è una legge che, lungi dall'eliminare quella che fu definita la «piaga dell'aborto clandestino», si viene a collocare in una società profondamente segnata dalla denatalità, dall'incalzante sterilità, da un alto tasso di mortalità giovanile, dalla droga e dall'AIDS; una società popolata da anziani ma soprattutto ormai tendenzialmente non più avvezza a difendere il valore «vita»; una società ricca di contraddizioni: pronta a marciare per la pace ma intimamente razzista, pronta ai cortei in difesa della qualità della vita e dell'ambiente ma disponibile alle tangenti dei «palazzinari», pietosamente - e a giusta ragione - protesa ad eliminare la vivisezione, ma abortista; una società in una parola forse soltanto amaramente e dolorosamente ipocrita.
      A che cosa serve, allora, questo tipo di legge, se non a mascherare di ipocrisia quello che potrebbe essere un gesto finalmente e seccamente rivoluzionario: dare la vita?
      La legislazione vigente, così com'è impostata, e soprattutto nella sua pratica attuazione, non tutela, come qualcuno si ostina a sostenere, le fasce più emarginate, più povere, socialmente e culturalmente meno evolute; lo si legge dai dati. Ne fruiscono soprattutto - lo riportiamo tra virgolette - «donne dai trent'anni in su, con uno o più figli, e con un livello di istruzione medio», come dice il Ministro della sanità. L'aborto, cioè, è proprio il male della media borghesia, volta al consumismo, al benessere economico, inquinata dalla cultura utilitaristica, lontana ormai anni luce dal concetto di amore. Non perdiamo, allora, l'occasione di riflettere su uno strumento legislativo che abbiamo tutti il dovere di rendere adeguato ad una società priva di orientamento, che richiede certezze con sempre maggiore insistenza.
      L'impegno del nostro gruppo non nasce oggi: non abbiamo avuto ripensamenti improvvisi; fin dal 1981 ci siamo impegnati
 

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nel referendum concernente la legge sull'aborto. Nel 1983, in sede parlamentare, nella mozione sulle donne, ripresentata e purtroppo mai discussa, avevamo già posto il problema dei consultori (e della revisione della legge n. 405 del 29 luglio 1975), che svolgono un intervento squisitamente sanitarizzato e che sono, quindi, volutamente ed intenzionalmente privati degli strumenti che avrebbero dovuto sostenerli nell'attuazione dei loro fini istituzionali. Una proposta di modifica della legge n. 405 è stata da noi nuovamente avanzata nella XI legislatura. Abbiamo presentato una specifica mozione sulla legge n. 194 del 1978, e sulla sua attuazione già negli anni passati, come pure una risoluzione in Commissione sanità; nel 1986 un ordine del giorno, in parte accolto dal Governo, contenente una richiesta di riqualificazione della spesa anche attraverso una analisi attenta della politica dei servizi sociali. L'8 marzo 1988, abbiamo avanzato la proposta di istituire una Commissione di inchiesta sulla condizione della donna e della famiglia. Vi sono state altre analoghe proposte inerenti, in modo specifico, al diritto alla vita. Del 29 aprile 1988 è la proposta di legge per una Commissione di inchiesta parlamentare sulla violenza verso i minori.
      Tuttavia nessuna decisione concreta è stata assunta in questa sede. Non solo non è stato considerato alcuno dei documenti citati, ma neanche, per esempio, la proposta di Maria Eletta Martini, di istituire una Commissione bicamerale sul funzionamento dei consultori: una proposta che nella IX legislatura è andata avanti nel suo iter legislativo ma che inspiegabilmente non è stata successivamente ripresentata, proprio nel momento in cui da altra parte politica si sostiene - secondo un'ottica naturalmente ben diversa e diametralmente opposta alla nostra - che vanno rifinanziate le leggi per il funzionamento dei consultori e per la piena attuazione della legge n. 194.
      La discussione avvenuta nel giugno 1988 e la conseguente decisione (ma quale poi?) - è amaro constatarlo - scaturiscono da una necessità sinceramente avvertita di discutere, con serenità ed impegno, su una legge che nel panorama legislativo italiano si delinea come fortemente datata. Ma essa, proprio perché datata, necessita di una attenta rilettura, che deve avvenire in un ambiente ormai, lo si voglia o no, culturalmente diverso. Intendiamo dire che in tale ambiente i nodi delle stridenti differenziazioni ideologiche vengono al pettine giornalmente; è lo stesso ambiente in cui - per esempio in tema di scuola - si discute attraverso la discriminante fra qualità e quantità del lavoro. In tema di ora di religione e norme concordatarie occorre assumere posizioni chiare ed inequivocabili. In tema di aborto si deve scegliere tra una impostazione - legittima, sia chiaro, per chi ne è convinto - materialistica ed edonistica ed un'altra esattamente opposta.
      Ormai siamo al redde rationem. Anche chi ha creduto a una cultura nichilista, e di essa si è alimentato, deve concludere che è fallita e che occorre ricostruire subito un sistema di valori. Crediamo anche alla buona fede di quanti, laici, operarono per l'approvazione della legge n. 194 del 1978 nell'intento di approntare un provvedimento che evitasse l'aborto clandestino - fu l'argomento maggiore di propaganda che si agitò in favore di quella legge - e rendesse più responsabili padre e madre nella loro scelta di essere genitori. Tuttavia la legge è fallita.
      Lo stesso Gozzini - non appartenente certo all'area della destra: tutt'altro! - affermava che l'interruzione volontaria della gravidanza burocratizzata ed analizzata è usata come mezzo di regolamentazione delle nascite, cioè contra legem. Gozzini in ciò si distingueva dalla Turco e dalla Golfanelli, ma forse si avvicinava molto a Natta il quale, in un'intervista, pure ammise la possibilità - a suo tempo - di una revisione della legge.
      Giglia Tedesco ha invitato a non assumere più vecchie e «passatiste» posizioni e a far dispiegare alla legge «tutte le sue potenzialità positive»; il che è in linea con alcune richieste della sinistra di rifinanziare le leggi n. 194 del 1978 e n. 405 del 1975. Ma si pensa onestamente di poter
 

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fare una cosa del genere di fronte ad una situazione che evidenzia il fallimento di fondo della legge?
      Il fatto è che l'equivoco è iniziale: dobbiamo sapere chi intende salvare solo la dignità della donna, e come, e chi intende salvaguardare l'esistenza dell'essere umano, donna o feto che sia, in quanto tale. Si ritiene che la dignità della donna sia salva soltanto per il fatto che certi problemi si affrontano alla luce del sole? Anche qui ci permettiamo di chiedere come si spiega che persistono gli aborti clandestini, soprattutto per le minorenni, cioè, per chi, evidentemente, vuole tutelare il suo privato sempre e comunque come colpa da nascondere.
      Crediamo, allora, che quell'obiettivo sia fallito e che il vero obiettivo debba essere quello di invitare alla vita, di creare le condizioni per viverla, di operare per una crescita culturale in virtù della quale si comprenda che concepire un essere umano è l'unico vero atto che giustifica l'esistenza stessa dell'uomo. Ciò che bisogna stabilire, dunque, è come far compiere responsabilmente quell'atto, come rendere tutti consapevoli del grande compito che ha l'essere umano.
      Che significato, allora, può assumere l'affermazione secondo la quale quella legge «non si tocca»? Il Parlamento ha il dovere di rivedere una legge i cui obiettivi non siano assolutamente stati conseguiti. Non dovremmo allora rivedere nessuna delle leggi precedenti, nonostante il loro fallimento? Dovremmo ostinarci, per esempio, ancora sulla legge n. 180 del 13 maggio 1978 o mantenere le aziende sanitarie locali così come sono? Non dovremmo andare a riguardare l'intera politica dei servizi sociali, con la contestuale riqualificazione della spesa per gli enti locali? Si tratta di servizi sociali della cui validità, peraltro, non siamo affatto convinti.
      D'altro canto, dicevamo, il cedimento politico della DC all'epoca del varo della legge n. 194 del 1978 fu legato, fra l'altro, alla garanzia che la legge avrebbe avuto un controllo e una verifica annuali: è questo l'elemento contenuto nell'articolo 16 della legge stessa, in virtù del quale ogni anno dovremmo discutere sui contenuti della relazione, non per il gusto di discuterne, ma per il dovere di assumere poi decisioni conseguenti.
      Possiamo dire che i consultori funzionano, che le équipes dimostrano professionalità, che le regioni si sono date da fare per creare professionalità e specialisti; che vi sono psicologi, che vi sono realmente assistenti sociali, che il consultorio risponde effettivamente al suo fine istituzionale che è quello di tutelare e incentivare la famiglia?
      Possiamo dire che il personale scelto in virtù delle leggi regionali risponde all'esigenza proclamata dalla legge n. 194 del 1978, all'articolo 1? Oppure esso è ormai impegnato soltanto nel lavoro di routine, di rilascio di certificati per l'aborto? L'aborto può essere un atto moralmente indifferente, se si intende realmente rispettare e tutelare la vita umana?
      Abbiamo avuto una serie di perplessità ma anche l'approdo a certezze sui convincimenti che nel tempo abbiamo maturato. Si tratta di una serie di certezze che sono state avallate proprio dal dibattito così acceso che si è svolto a seguito dell'ordinanza (non della sentenza) della Corte costituzionale. Intorno ad essa vi è stato un gran parlare, tant'è che anche i mass-media hanno avvertito la necessità di chiarire quello che in fin dei conti avevamo capito tutti quanti, cioè che la Corte costituzionale ha preferito comportarsi come fece a suo tempo, nel momento in cui talune forze politiche e il Movimento per la vita presentarono due proposte di referendum (una minimale, l'altra massimale) della quale la Corte accettò la minimale, per cui dei dieci referendum proposti dal partito radicale ne ammise cinque. La Corte costituzionale ancora una volta non volle esprimersi sull'articolo 5, forse per quell'atteggiamento un po' «pilatesco» che Carlo Casini già aveva evidenziato nel libro Gli anni di Erode pubblicato alcuni anni addietro. Il problema della scelta di chi deve abortire e di come debba farlo non ci sembra possa essere ricondotto alla sfera del personale. Anche
 

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al riguardo esiste una contraddizione tra quanti da un lato vorrebbero ricondurre il tutto alla sfera personale, dall'altro hanno chiesto la procedibilità d'ufficio (per esempio, in materia di violenza sessuale): occorre coerenza per dare un indirizzo alla società!
      Noi pensiamo che la normativa esistente debba essere rivista e si debbano adottare nuovi interventi a sostegno delle maternità difficili, ivi compresa la condizione delle ragazze madri, delle quali non si parla mai. Non si è adeguatamente affrontato lo spinoso problema di chi intende assumersi fino in fondo la responsabilità di una situazione che oggi forse è meno difficile da affrontare, ma che tale era certamente fino a qualche tempo addietro.
      Occorre creare le condizioni per ricondurre la società nella sua interezza al rispetto della vita e al rifiuto della violenza nelle sue varie espressioni, palesi ed occulte; promuovere una impegnata azione educativa (è questa che manca essenzialmente), coinvolgendo la scuola, gli organi di informazione e tutte le strutture territoriali; disegnare, con un preciso raccordo fra enti locali, ASL e consultori, una rete di strutture socio-assistenziali che siano anche di supporto economico alla famiglia o alla donna che voglia accogliere una nuova vita.
      Avevamo chiesto, inascoltati, nel giugno 1988, che lo stesso Governo promuovesse, entro novanta giorni dalla votazione sulle mozioni parlamentari, una conferenza nazionale sul diritto alla vita, a nostro avviso propedeutica rispetto agli interventi da adottare. Qualunque dibattito si svolga in Parlamento, infatti, non è necessariamente quello che la società vuole in realtà. La nostra è una società in evoluzione, profondamente cambiata, molto più riflessiva rispetto a dieci, quindici, vent'anni addietro: perché non coinvolgerla, prima che il Parlamento continui ad assumere ostinatamente posizioni già prese, o ne assuma di nuove, irriflessive o fortemente ideologizzate?
      In tal senso abbiamo presentato negli anni scorsi nuovamente una proposta di risoluzione che, anche a seguito del vivace dibattito sul caso della clinica Mangiagalli, e delle diverse posizioni assunte all'interno dei partiti di Governo, ci auguravamo potesse essere accolta: nulla!
      Avvertiamo, intanto, il dovere di presentare la presente proposta di legge, con cui chiediamo che venga sancito un principio irrinunciabile: l'illiceità della pratica abortiva.
      Con ciò risulta subito evidente come sia completamente ribaltato l'impianto della legge n. 194 di cui, peraltro, con l'articolo 11 si chiede l'abrogazione.
      Con l'articolo 1 si elimina l'ambiguità intorno all'«inizio della vita umana», chiarendo che esso va inteso «dal momento del concepimento». I commi 2 e 3 dello stesso articolo 1 individuano nell'intervento sinergico di Stato, regioni ed enti locali l'impegno all'assistenza delle donne, nel periodo antecedente e successivo al parto, e del neonato. Gli articoli 2 e 3 sono infatti, più chiaramente specificati rispettivamente per gli interventi speciali a carattere sanitario e socio-assistenziale e per gli interventi di sostegno economico e familiare.
      I compiti dei consultori sono puntualmente definiti all'articolo 4: ad essi sono conferiti altri compiti, oltre a quelli previsti dalla legge n. 405 del 1975, in rapporto alle tipologie di intervento ipotizzate nei precedenti articoli 2 e 3.
      I consultori sono sottratti alla loro attuale caratterizzazione di strutture troppo sanitarizzate.
      Gli articoli 6, 7 e 8 definiscono una chiara casistica in merito ai casi di interruzione della gravidanza di donna non consenziente, di donna consenziente o di interruzione colposa. Le cause di non punibilità, riferite al solo «grave pericolo per la vita o la salute della donna» (che dovrà comunque essere consenziente) sono contemplate nell'articolo 9, nel quale è compreso il caso previsto dall'articolo 54 del codice penale. All'articolo 10 è, in maniera chiara, definita la possibilità della obiezione di coscienza.
      Un procedimento snello, che rimette ordine e chiarezza in una normativa (quella
 

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della legge n. 194) che, a distanza di tanti anni, ha chiaramente mostrato la inadeguatezza e la inefficacia.
      La mistificazione della eliminazione dell'aborto clandestino ha fatto il suo tempo. La cultura della vita, cui sentiamo di ispirarci con totale convinta adesione, impone paternità e maternità responsabili, ma impone altresì che per il conseguimento di tale obiettivo convergano più forze istituzionali e sociali che offrono elementi di certezza al nascere delle nuove famiglie.
      L'aborto fa parte di una visione rozza della vita, del rapporto fra gli individui, e dell'individuo con se stesso: all'uomo ed alle donne, in particolare del duemila, è richiesto con forza ed urgenza, il recupero della dignità di essere uomo. Aver rispetto per se stessi è un ottimo inizio per imboccare la strada del vivere civile.
      Aver paura di stabilire norme chiare che ripristinino la sacralità della vita, non è certo un passo indietro per quanti, dopo una sbornia di progresso, intendano riprendere la via della civiltà.
      È quanto avrebbero dovuto comprendere quei colleghi cattolici e, fra essi, quei democristiani, fra cui Carlo Casini, che in passato negarono alla nostra parte politica la possibilità di discutere con urgenza il provvedimento.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Princìpi generali).

      1. Lo Stato riconosce e tutela la vita umana fin dal suo inizio, cioè dal momento del concepimento; protegge e promuove la maternità come valore ed evento di grande rilevanza personale e sociale.
      2. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, ciascuno nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, attuano tutte le iniziative e gli interventi necessari per assistere la donna in attesa di un figlio, onde rimuovere le difficoltà, anche di ordine economico, che possono turbare il decorso della gravidanza.
      3. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, ciascuno nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, garantiscono alla donna dopo il parto e al neonato gli aiuti che si rendono necessari per superare le difficoltà, anche di ordine economico, in qualunque modo dipendenti dalla nascita.

Art. 2.
(Interventi speciali a
carattere sanitario e socio-assistenziale).

      1. La donna che, durante la gravidanza, sia afflitta da serie difficoltà, in qualunque modo ricollegabili alla gestazione, di carattere medico, economico, sociale, familiare, ovvero nutra timori per le condizioni del nascituro o per l'avvenire proprio o del suo nucleo familiare, ove tali difficoltà non possano essere superate mediante le prestazioni sociali, assistenziali e sanitarie offerte dalle strutture pubbliche o convenzionate presenti nel territorio, ha diritto a fruire di interventi sanitari e socio-assistenziali speciali.
      2. Gli interventi speciali a carattere sanitario sono disposti dall'azienda sanitaria locale competente per territorio,

 

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senza oneri per la gestante ed il suo nucleo familiare. Gli interventi sono disposti con procedura d'urgenza dall'azienda sanitaria locale.
      3. Gli interventi speciali a carattere socio-assistenziale competono ai comuni, mediante delega alle aziende sanitarie locali ed al loro servizio sociale. La regione assegna i fondi occorrenti e provvede a rimborsare sollecitamente quanto sia stato necessario anticipare in via d'urgenza.
      4. L'azienda sanitaria locale attua gli interventi speciali attraverso le strutture sanitarie pubbliche, o private convenzionate, o private e di volontariato anche non convenzionate, nonché attraverso le strutture socio-assistenziali pubbliche, o convenzionate, o private e di volontariato anche non convenzionate.
      5. Gli interventi speciali sono disposti dalle istituzioni competenti su segnalazione del servizio sociale, o del consultorio familiare, o di strutture sanitarie pubbliche o private, o del medico di base. Tali segnalazioni sono fatte anche dagli organismi privati o di volontariato, agenti senza scopo di lucro e col fine statutario dell'accoglienza e della tutela della vita nascente e della maternità, che operano sul territorio e che hanno richiesto e ottenuto dalla regione l'iscrizione ad uno speciale albo, che deve essere tenuto a cura dell'assessorato all'assistenza.
      6. La gestante e il suo nucleo familiare hanno diritto di scegliere le modalità di attuazione e di fruizione degli interventi speciali.

Art. 3.
(Interventi speciali
di sostegno economico e familiare).

      1. Nel caso in cui le serie difficoltà di cui all'articolo 2, comma 1, siano di carattere economico o familiare, la donna ha diritto di fruire di aiuti economici per il periodo della gravidanza e dell'allattamento e, in caso di necessità, anche dopo il periodo dell'allattamento e fino a che la necessità sussista.

 

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      2. Ricorrendo le serie difficoltà di cui al comma 1, i comuni hanno l'obbligo di sostenere, ove non esistano nel comune di residenza della gestante asili nido comunali o non vi sia in essi possibilità di accogliere il neonato, la spesa per la frequenza di asili nido gestiti da altri enti pubblici o da privati.
      3. Gli aiuti economici di cui al comma 1 devono essere congrui rispetto alle necessità della donna e del suo nucleo familiare, in modo da assicurare alla donna ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
      4. Ricorrendo le serie difficoltà di cui al comma 1, i comuni hanno l'obbligo di garantire una idonea assistenza domiciliare per la gestante o la sua famiglia.
      5. La regione assegna ai comuni i fondi occorrenti per gli interventi speciali di sostegno economico e familiare e provvede a rimborsare sollecitamente quanto sia stato necessario anticipare in via d'urgenza.

Art. 4.
(Compiti dei consultori).

      1. I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, oltre ai compiti previsti da tale legge, forniscono ogni assistenza e sostegno alla donna in stato di gravidanza ed in particolare hanno l'obbligo di:

          a) informare la donna sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio;

          b) informare la donna sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante;

          c) segnalare alle istituzioni competenti la necessità degli interventi speciali, sia di carattere sanitario e assistenziale, sia di carattere economico e familiare, di cui agli articoli 2 e 3;

 

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          d) attuare ogni intervento, che si renda necessario d'urgenza, per consentire la soluzione dei problemi, di ordine sanitario o socio-assistenziale, che siano prospettati dalla donna.

      2. I consultori, sulla base di appositi regolamenti o convenzioni, possono avvalersi, per i fini previsti dalla presente legge, della collaborazione degli organismi, privati o di volontariato, agenti senza scopo di lucro e col fine statutario dell'accoglienza e della tutela della vita nascente e della maternità, di cui all'articolo 2, comma 5, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita.

Art. 5.
(Norma finanziaria).

      1. Lo Stato assegna annualmente, a decorrere dall'anno 2007, alle regioni, in proporzione alla popolazione residente, la somma di un miliardo di euro per l'adempimento degli oneri previsti dalla presente legge al fine della protezione e della promozione della maternità.
      2. All'onere finanziario derivante dall'attuazione del comma 1, pari a un miliardo di euro annui, a decorrere dall'anno 2007, si provvede annualmente con la legge finanziaria.

Art. 6.
(Interruzione della gravidanza
di donna non consenziente).

      1. Chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da sei a dodici anni. Si considera come non prestato il consenso quando sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, o carpito con inganno, ovvero quando provenga da una donna minore degli anni sedici o inferma di mente.
      2. La stessa pena di cui al comma 1 si applica a chiunque cagiona l'interruzione

 

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della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna.
      3. La pena è diminuita fino alla metà se dalle lesioni deriva l'acceleramento del parto.
      4. Se dai fatti previsti dai commi 1 e 2 deriva la morte della donna, si applica la pena della reclusione da dieci a venti anni; se ne deriva il pericolo di morte o un grave pregiudizio alla salute della donna, si applica la pena della reclusione da otto a sedici anni.
      5. Le pene stabilite dal presente articolo sono aumentate fino a un terzo se la donna è minore degli anni diciotto.

Art. 7.
(Interruzione della gravidanza
di donna consenziente).

      1. Chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza con il consenso della donna, è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni.
      2. Il giudice può astenersi dall'infliggere la pena nei confronti della donna, se essa, al momento del fatto, si trovava in una situazione di speciale difficoltà per ragioni di salute, fisica o psichica, per ragioni economiche o familiari, ovvero per timori in ordine al decorso della gravidanza e alle condizioni di vita del nascituro.
      3. Si applica la pena della reclusione da tre a sei anni se l'agente cagiona, per colpa, il pericolo di morte per la donna o un altro grave pregiudizio alla sua salute. Se cagiona, per colpa, la morte della donna si applica la pena della reclusione da quattro a otto anni.
      4. Si applica la pena della reclusione da due a cinque anni se il fatto è compiuto su donna di età compresa tra i sedici e i diciotto anni, o che si trovi in condizioni di deficienza psichica.
      5. Nei casi previsti ai commi 3, primo periodo, e 4, la donna non è punibile.
      6. La donna che si procura l'interruzione della gravidanza è punita con la pena della reclusione fino a tre anni. Il giudice può astenersi dall'infliggere la

 

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pena per le stesse ragioni indicate al comma 2.

Art. 8.
(Interruzione colposa della gravidanza).

      1. Chiunque cagiona ad una donna, per colpa, l'interruzione della gravidanza è punito con la pena della reclusione da due a tre anni.
      2. Chiunque cagiona ad una donna, per colpa, un parto prematuro è punito con la pena della reclusione fino a un anno.
      3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2, se il fatto è commesso con la violazione delle norme poste a tutela del lavoro, la pena è aumentata fino a un terzo.

Art. 9.
(Cause di non punibilità).

      1. Non è punibile l'interruzione della gravidanza quando è necessaria per evitare un grave pericolo per la vita o la salute della donna e il pericolo non è altrimenti evitabile. Deve in ogni caso sussistere il consenso della donna.
      2. La sussistenza del grave pericolo di cui al comma 1 deve essere accertata da due medici del servizio ostetrico-ginecologico dell'ente ospedaliero in cui deve praticarsi l'intervento, che ne forniscono idonea certificazione. I medici possono avvalersi della collaborazione di specialisti. I medici sono tenuti a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la loro certificazione al direttore sanitario dell'ospedale per l'intervento da praticarsi immediatamente.
      3. Qualora l'interruzione della gravidanza si renda necessaria per l'imminente pericolo per la vita della donna, l'intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure previste dal comma 2. Il medico in tali casi deve dare informazione dell'intervento al direttore sanitario dell'ospedale o, se l'intervento è praticato al di fuori della struttura pubblica, all'organo responsabile dell'azienda

 

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sanitaria locale competente per territorio e trasmettere tutta la certificazione attinente all'intervento praticato.
      4. Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, il fatto non è punibile soltanto se ricorrono i requisiti previsti dall'articolo 54 del codice penale.

Art. 10.
(Obiezione di coscienza).

      1. Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di interruzione della gravidanza non punibili ai sensi dell'articolo 9, quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione, che può essere comunicata in ogni momento all'organo responsabile dell'azienda sanitaria locale o al direttore sanitario dell'ospedale o della casa di cura da cui dipende.
      2. La dichiarazione di obiezione di coscienza, una volta formulata, è revocabile con le medesime modalità della sua proposizione.

Art. 11.
(Abrogazione).

      1. La legge 22 maggio 1978, n. 194, è abrogata.


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