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PDL 1836

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1836



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

FEDI, RICARDO ANTONIO MERLO, NARDUCCI, BUCCHINO, GIANNI FARINA, BAFILE

Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza

Presentata il 18 ottobre 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - Le comunità degli italiani nel mondo, attraverso gli organismi di rappresentanza quali i Comitati degli italiani all'estero (Comites) e il Consiglio generale degli italiani all'estero (CGIE), tra le continue e più appassionate istanze, avanzano, da lungo tempo, la richiesta di riapertura dei termini per la presentazione della dichiarazione tesa ad ottenere il riacquisto della cittadinanza italiana, regolata dall'articolo 17 della legge 5 febbraio 1992, n. 91.
      Il termine, inizialmente stabilito entro due anni dalla data di entrata in vigore della stessa legge, è stato prorogato due volte, con la legge 22 dicembre 1994, n. 736, e successivamente, con l'articolo 2, comma 195, della legge 23 dicembre 1996, n. 662; l'ultima proroga è scaduta il 31 dicembre 1997.
      Gli obiettivi di piena integrazione e partecipazione, che hanno consentito alle nostre comunità di assumere posizioni di rilievo a livello professionale, economico, politico e istituzionale nelle società di accoglimento, hanno comportato, negli anni precedenti all'entrata in vigore della legge 5 febbraio 1992, n. 91, l'acquisizione per naturalizzazione della cittadinanza del Paese di residenza.
      In molti casi si è trattato di scelte condizionate dalla necessità di vedere riconosciuti e salvaguardati diritti civili come l'acquisto della propria abitazione o l'assunzione di un incarico politico oppure di un impiego pubblico.
      Le legislazioni nazionali in materia di cittadinanza hanno gradualmente accettato, negli anni, regolandolo con apposite norme, il principio della doppia cittadinanza o della cittadinanza plurima. Alcuni Paesi hanno introdotto norme relative alla doppia cittadinanza successivamente al 31 dicembre 1997.
 

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      L'aspirazione al riacquisto della cittadinanza italiana merita particolari attenzione e tutela. Si tratta di ex cittadini italiani che esprimerebbero, attraverso la presentazione di una dichiarazione, la volontà tesa al riacquisto di una cittadinanza che possedevano e alla quale sono stati costretti a rinunciare a causa di disposizioni di legge, per l'Italia precedenti all'entrata in vigore della legge 5 febbraio 1992, n. 91, per altri Paesi fino al 2002, che oggi non trovano più attuazione nelle più moderne legislazioni sulla cittadinanza.
      La questione si pone con urgenza anche per coloro i quali, nel periodo di vigenza del termine di cui al citato articolo 17 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, anche volendolo, non erano nelle condizioni di chiederla, pena la perdita della cittadinanza dello Stato di residenza.
      La riapertura dei termini risolve anche il problema posto dai minorenni, ex cittadini italiani, che hanno perso la cittadinanza italiana senza mai esprimere una precisa volontà a causa della naturalizzazione del padre.
      Sussistono oggi tutte le condizioni per richiedere la cittadinanza italiana senza perdere lo status civitatis del Paese dove ormai le nostre comunità italiane vivono e lavorano: ma non è possibile farlo perché il termine è prescritto.
      La riapertura dei termini per la presentazione delle dichiarazioni tese ad ottenere il riacquisto della cittadinanza italiana, prevista dalla proposta di legge attraverso una modifica all'articolo 17 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, non ha scadenza temporale rimanendo comunque limitata e circoscritta unicamente ed esclusivamente a coloro i quali, già cittadini italiani precedentemente alla data di entrata in vigore della legge 5 febbraio 1992, n. 91, l'avevano perduta per naturalizzazione.
      La modifica all'articolo 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, risponde all'esigenza di piena parità - agli effetti normativi sulla cittadinanza - tra uomo e donna. Esiste ancora oggi nell'ordinamento italiano una anacronistica disparità di trattamento tra cittadini, in contrasto palese con i dettami costituzionali che garantiscono pari dignità sociale e uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso (articolo 3 della Costituzione).
      Tale discriminazione giuridica si riscontra, in particolare, nei confronti di quelle donne che, emigrate all'estero nel secolo scorso, sono state private della cittadinanza per se stesse e per i propri figli, per effetto della legge sulla cittadinanza italiana 13 giugno 1912, n. 555, allora vigente.
      Il principio fondamentale per l'attribuzione originaria della cittadinanza italiana per nascita, cui era ispirato quel dettato legislativo, era quello dello jus sanguinis o diritto di sangue, non estendendo però il diritto di cittadinanza al figlio di madre italiana e di padre straniero, considerando quindi «la donna come giuridicamente inferiore all'uomo e addirittura come persona non avente la completa capacità giuridica» (si veda B. Nascimbene, Acquisto e perdita della cittadinanza. Una riforma auspicata: la nuova disciplina della cittadinanza, in «Il Corriere Giuridico», n. 5, 1992).
      Il figlio di madre italiana poteva considerarsi italiano solo se il padre era ignoto o apolide oppure se, in base alle leggi vigenti nello Stato di cui il padre era cittadino, non acquistava la cittadinanza di tale Stato. In pratica, tale disposizione normativa era impostata sul principio della prevalenza dell'unità della cittadinanza in seno alla famiglia e della «supremazia» della figura del padre-marito. Ciò ha comportato per decenni una profonda disparità di trattamento tra uomo e donna, ancora più evidente dopo l'introduzione nell'ordinamento italiano della legge 19 maggio 1975, n. 151, sulla riforma del diritto di famiglia, che ha affermato il principio di uguaglianza tra uomo e donna nell'ambito dei rapporti familiari. Ma nonostante questa fondamentale innovazione del nostro codice civile, si è dovuto ancora attendere perché questo principio fosse esteso anche alla legislazione sulla cittadinanza. Infatti, è solo del 28 gennaio 1983 la sentenza n. 30 della Corte costituzionale
 

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che dichiara incostituzionale l'articolo 1 della legge n. 555 del 1912, laddove non riconosce come cittadino italiano per nascita anche il figlio di madre cittadina, sancendo che anche i figli di madre italiana sono italiani.
      Sentenza fondamentale e «apripista» della legge n. 123, approvata nell'aprile dello stesso anno 1983, che consentiva la trasmissione della cittadinanza italiana ai figli anche per via materna, introducendo il principio di uguaglianza morale e giuridica tra uomo e donna nell'ordinamento italiano, con riguardo alla trasmissibilità di questo diritto ai figli.
      Ma la citata sentenza n. 30 del 1983 della Corte costituzionale ha lasciato inalterate alcune situazioni discriminatorie, consentendo in pratica l'attribuzione della cittadinanza italiana «solo ai figli di madre italiana e di padre straniero nati dopo il 1o gennaio 1948» (si veda H. Guillen, Lo jus sanguinis e la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Suprema Corte di cassazione, in «Semplice», anno III, n. 3 marzo 2006, Demografici associati).
      In base al parere n. 105 del 15 aprile 1983 del Consiglio di Stato, la retroattività della incostituzionalità dell'articolo 1 della legge n. 555 del 1912 non può andare oltre il momento in cui si è verificato il contrasto tra la norma di legge (o di atto avente forza di legge) - anteriore all'entrata in vigore della Costituzione - dichiarata illegittima e la norma o il principio della Costituzione. In tempi più recenti, la legge n. 91 del 1992 ha recepito definitivamente il principio della parità di trattamento, ammettendo l'attribuzione della cittadinanza italiana ai figli di padre o di madre italiani. La legge, tuttavia, non avendo effetti retroattivi, ha lasciato inalterata la situazione - perpetuando il trattamento discriminatorio - per il periodo che va dal 1912 al 1948, sia tra le donne e gli uomini italiani emigrati, sia tra gli stessi fratelli, figli della stessa madre italiana, ma nati prima e dopo il 1948 che, rebus sic stantibus, non godono dello stesso diritto di cittadinanza.
      Nel 1996, la Corte di cassazione, con sentenza n. 6297 del 10 luglio 1996, emessa dalla prima sezione civile, ha ridato fiducia a tanti cittadini figli di donne italiane emigrate nel secolo scorso. Infatti, modificando radicalmente l'orientamento espresso in altre pronunce, la Cassazione ha deciso di accogliere il ricorso presentato da un cittadino argentino figlio di madre italiana contro il Ministero dell'interno, che aveva rigettato la sua richiesta di attribuzione della cittadinanza per linea materna, appunto perché nato prima del 1948.
      Tuttavia, la successiva circolare del Ministero dell'interno del 10 dicembre 1996, sostenendo che la decisione della Suprema Corte si pone in contrasto con tutta la precedente giurisprudenza, ha ritenuto che la stessa costituisce un «caso isolato», che non può estendersi a tutti i casi analoghi, anche se consente di sperare in un esito positivo per ogni singolo ricorso.
      Non vi è dubbio che, malgrado i tentativi finora compiuti non si è ancora giunti a una definizione della materia che possa considerarsi soddisfacente sotto il profilo del dettato costituzionale, ma anche sotto quello delle norme internazionali: norme internazionali come la Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata dall'Assemblea generale a New York il 18 dicembre 1979 e resa esecutiva dall'Italia dalla legge 14 marzo 1985, n. 132, con la quale gli Stati parte della Convenzione si sono impegnati a «perseguire, con ogni mezzo appropriato e senza indugio, una politica tendente ad eliminare la discriminazione nei confronti della donna». Ecco perché oggi, con la presente proposta di legge che, modificando l'articolo 1 della legge n. 91 del 1992, estende il diritto di cittadinanza anche ai figli di madre italiana nati anteriormente al 1o gennaio 1948, proponiamo un intervento legislativo volto a eliminare una volta per tutte la disparità di trattamento tra cittadini, tuttora presente nel nostro ordinamento, che ha finora mantenuto viva la discriminazione tra uomo e donna.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Modifica all'articolo 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91).

      1. Dopo il comma 1 dell'articolo 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sono inseriti i seguenti:

      «1-bis. È cittadina la donna che è stata cittadina per nascita e ha perduto la cittadinanza in quanto coniugata con cittadino straniero, anche quando il matrimonio è stato contratto prima del 1o gennaio 1948.
      1-ter. È cittadino il figlio della donna di cui al comma 1-bis nato anteriormente al 1o gennaio 1948».

Art. 2.
(Modifica all'articolo 17 della legge 5 febbraio 1992, n. 91).

      1. Il comma 1 dell'articolo 17 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è sostituito dal seguente:

      «1. Chi ha perduto la cittadinanza in applicazione degli articoli 8 e 12 della legge 13 giugno 1912, n. 555, o per non aver reso l'opzione prevista dall'articolo 5 della legge 21 aprile 1983, n. 123, la riacquista se effettua una dichiarazione in tale senso a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge».

Art. 3.
(Norma finanziaria).

      1. Dall'attuazione delle disposizioni dei commi 1-bis e 1-ter dell'articolo 1 e del comma 1 dell'articolo 17 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, rispettivamente introdotti e modificato dagli articoli 1 e 2 della presente legge, non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.


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