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PDL 1732

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1732



 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

d'iniziativa del deputato DEIANA

Modifica all'articolo 54 della Costituzione in materia di ottemperanza agli obblighi costituzionali

Presentata il 28 settembre 2006


      

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Onorevoli Colleghe!
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Onorevoli Colleghi! - La Costituzione repubblicana del 1948 ci ha consegnato una grande idea della democrazia, ispirata a quei valori di libertà, di uguaglianza, di giustizia che, in Italia, affondano le loro radici nella lotta antifascista e nella Resistenza e si ispirano ai princìpi universalistici fondativi della democrazia moderna. È una democrazia fondata sul primato del potere legislativo del Parlamento e strutturata secondo una netta divisione e un sapiente equilibrio dei poteri dello Stato. Nel quadro garantito dalla Costituzione repubblicana, le lotte democratiche di massa del dopoguerra hanno potuto sviluppare positivamente le promesse di libertà, uguaglianza, giustizia, così nitidamente espresse dai princìpi del 1948, colmando, in maniera spesso significativa, la distanza che sempre esiste tra costituzione formale e costituzione materiale. La legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) è in tale senso un esempio quanto mai emblematico e significativo. Essa infatti ha avuto la forza di definire un contesto di più compiuta cittadinanza per gli uomini e le donne del lavoro dipendente, sottraendoli all'arbitrio dell'impresa fino ad allora, nel nostro Paese, dominante in forma pressoché monocratica. In particolare, ha avuto questo significato l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il quale afferma che non si può licenziare senza giusta causa, cioè senza
 

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un argomentato motivo e con le prescritte procedure tra le parti. Il che significa che il lavoratore ha la possibilità - il potere - di dimostrare con le sue organizzazioni, legge alla mano, davanti alla magistratura se c'è o non c'è giusta causa, potendo essere automaticamente reintegrato laddove il motivo del licenziamento non sussista. La giusta causa nel licenziamento invera il fondamento costituzionale del diritto al lavoro e attribuisce un più compiuto statuto di cittadinanza a chi lavora, altrimenti ridotto a variante dipendente dall'arbitrio dell'impresa, a inerte accessorio del sistema produttivo.
      Su un altro versante, la legge n. 194 del 1979 (interruzione volontaria della gravidanza), riconoscendo il primato femminile in materia di procreazione e conferendo alle donne il diritto alla responsabilità del proprio corpo, ha introdotto nella giurisdizione il riconoscimento di un'asimmetria tra donne e uomini sul versante dell'habeas corpus. Sull'habeas corpus si fonda la cittadinanza moderna, ma alle donne è restato - e resta al fondo - interdetto l'accesso a questa disponibilità di sé, in ragione del peso intrinseco e soverchiante che la cultura patriarcale continua ad avere nei rapporti sociali e nella rappresentazione simbolica del mondo. Il controllo del corpo femminile, della sessualità e della capacità procreativa delle donne è infatti alla base di questo sistema. Il principio dell'autodeterminazione femminile in materia di procreazione costituisce quindi un passaggio importante, ancorché non esaustivo, di una più compiuta e responsabile cittadinanza delle donne e contribuisce a quel processo di civilizzazione delle relazioni tra i due sessi che ha conosciuto un rinnovato impulso proprio grazie alle lotte delle donne.
      Ma è fin troppo chiaro che senza il quadro di riferimento definito in maniera così fulminante e perentoria dall'articolo 3 della Costituzione, in quel principio di uguaglianza là affermato senza incertezze, ma insieme capace di accogliere positivamente le differenze - di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali - che un universalismo astrattamente definito potrebbe non vedere, ignorandone quindi ragioni, aspirazioni, bisogni sia intrinseci sia specifici; senza un tale quadro, conquiste e avanzamenti così importanti per la convivenza civile e per la democrazia non vi sarebbero stati o sarebbero stati molto più difficili da conseguire. La Costituzione, infatti, stabilendo la natura e la qualità della democrazia, stabilisce anche la legittimità degli strumenti validi per la sua piena attuazione. Non a caso, quindi, nella Costituzione trovano posto, come legittimi, veri e propri strumenti di democrazia, il conflitto sociale, il dissenso e la battaglia politica. Il principio rappresentativo inteso come principio di rappresentazione di un equilibrio sociale sempre in fieri, attraverso compromessi e negoziazioni sociali continue, è stato alla base dello sviluppo e del consolidamento della democrazia repubblicana in Italia.
      A quasi sessanta anni di distanza, la consapevolezza della grande ricchezza democratica racchiusa nella Costituzione si è però molto appannata e rischia, se non si attivano processi in controtendenza, di disperdersi ulteriormente, con la conseguenza di guasti irreversibili nel tessuto democratico del nostro Paese. Tra democrazia e Costituzione c'è infatti un nesso indissolubile, che va rigorosamente riaffermato e al cui rispetto va richiamata la responsabilità dei pubblici poteri e insieme quella di ogni cittadino e cittadina. La Costituzione è la legge suprema, che racchiude un nucleo di princìpi immodificabili posti alla base dei diritti inviolabili della persona e delle regole della democrazia partecipativa. Il Parlamento, sede di esercizio del potere, e il Governo, che al Parlamento risponde, devono non solo rispettare ma garantire e promuovere il primato della Costituzione come perno e bussola della democrazia. L'idea della democrazia maggioritaria e il primato della governabilità, affermatisi con virulenza negli anni novanta del secolo scorso, hanno via via depotenziato il valore del dettato costituzionale, mentre si è andata affermando un'idea diversa della democrazia,
 

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che si vorrebbe, a parole, più democratica e «vera» ma che contiene in sé il rischio di un'involuzione antidemocratica e autoritaria. Si tratta della cosiddetta «democrazia di investitura», non più mediata, si sostiene, dalle oligarchie partitocratriche e dai trasformismi parlamentari, non più impacciata - si invoca - dai contro-poteri burocratici o dall'autonomia di «ordini» non elettivi come la magistratura, non più inceppata dai lacci e lacciuoli del confronto con le parti sociali. Il costituzionalismo inteso come teoria della limitazione del potere (a partire da quello democraticamente legittimato dal voto popolare), dell'equilibrio tra i poteri, e quindi della democrazia strettamente collocata in questo ambito di realizzazione, è messo oggi in discussione. Si va realizzando una pericolosa dissociazione tra democrazia e costituzionalismo, e la democrazia tende a essere interpretata in chiave plebiscitaria, ridotta all'espressione della volontà popolare tramite voto, con un restringimento di fatto della sua sede di realizzazione nelle mani della maggioranza parlamentare e del Governo che, in questo modo, vengono proiettati in una zona di comando sottratta ai vincoli previsti dalla Costituzione.
      La vittoria del «no», al referendum confermativo della riforma costituzionale approvata nella XIV legislatura relativa alla parte seconda della Carta ha fatto emergere un positivo attaccamento popolare allo spirito della Costituzione.
      Tuttavia, non c'è adeguata comprensione di quello che sta avvenendo, dei processi sotterranei e dei fatti evidenti che minano alle radici lo spirito della Costituzione, banalizzandone i princìpi ispiratori ad accorgimenti del tutto ininfluenti o variamente e diversamente interpretabili a seconda dei casi. La complessa intelaiatura istituzionale che la Costituzione pone a base della legittimità dei poteri e dell'esercizio del potere è stata via via depotenziata, negli anni che abbiamo alle spalle, in nome del principio di governabilità come bene assoluto e dell'astratta sovranità popolare, cioè di un popolo indistinto e reso anonimo dall'unico potere che gli compete, quello di esprimere una preferenza nel segreto dell'urna. Il principio rappresentativo, inteso come principio di rappresentazione di un equilibrio sociale in fieri, da realizzare attraverso il gioco politico delle forze e dei soggetti interessati, da valorizzare, rendere visibile, fare agire come principio di democrazia e strumento di controllo democratico del popolo sovrano attraverso le sue rappresentanze, si è trasformato in un principio di legittimazione assoluta che rischia di fare carta straccia dell'equilibrio costituzionale complessivo.
      Il lungo duello tra magistratura e ceto politico sta emblematicamente ad indicare quanto intorno alla giustizia si sia consumato il passaggio dalla forma costituzionale della democrazia italiana a una sua forma plebiscitaria, in cui il principio della sovranità popolare in questo modo inteso è sganciato dal principio di legalità ed anzi giocato contro di esso.
      La sospensione in occasione di manifestazioni pubbliche (a Napoli, il 17 marzo del 2001, a Genova, nel luglio dello stesso anno) delle garanzie costituzionali, fino alla messa in mora di quel principio fondativo della democrazia che è l'habeas corpus, così puntigliosamente affermato e tutelato dalla nostra Costituzione, deve rappresentare un vero e proprio campanello di allarme, essendo emerso in occasioni come queste il conflitto tra i poteri dello Stato, il tentativo del potere politico di creare un clima di condizionamento e autolimitazione del potere giudiziario e di considerare le Forze di polizia come strumento d'ordine a servizio del potere politico e non come istituzione dello Stato al servizio di tutti i cittadini.
      Il «primato della politica» sulla giurisdizione nel governo della società e la rivendicazione di un privilegio dei politici rispetto alla legalità costituzionale rischiano di aprire un solco incolmabile tra la Costituzione e la vicenda politico-istituzionale del nostro Paese, con gravissimo detrimento della democrazia. L'idea che la Costituzione vada difesa contro un malinteso primato della politica ha accompagnato il dibattito sull'elaborazione delle Carte fin da quella del 1789 francese. E
 

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alla Commissione della Costituzione Giuseppe Dossetti proponeva un articolo - poi non accolto - che recitava così: «La resistenza, individuale e collettiva, agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto-dovere di ogni cittadino». Analogo è il contenuto dell'articolo 21 della Costituzione francese del 19 aprile 1946.

      L'articolo 54 della nostra Costituzione già prevede meccanismi che obbligano alla salvaguardia e alla difesa del suo spirito e dei suoi princìpi fondamentali: nell'obbligo fatto ai cittadini di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi, nel dovere in tal senso richiesto a tutti/e coloro cui sono affidate funzioni pubbliche e nel giuramento previsto nei casi stabiliti dalla legge. L'inserimento nella Costituzione di un nuovo comma all'articolo 54, in analogia a quanto stabilito dall'articolo 20, comma 4, della Costituzione della Repubblica Federale di Germania, che riconosca il diritto-dovere di ciascun cittadino e cittadina a resistere e a disobbedire ai pubblici poteri quando violino la Costituzione, ha il chiaro intento di richiamare l'attenzione sulla posta in gioco, di responsabilizzare donne e uomini con atti concreti di resistenza e disobbedienza civile nel caso di violazioni, restituendo alla sovranità popolare il suo ancoraggio democratico che risiede appunto in primis nell'ottemperanza agli obblighi costituzionali.
 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

      1. All'articolo 54 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma:

      «Qualora i pubblici poteri vìolino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, laddove non siano azionabili altri rimedi previsti dall'ordinamento, la disobbedienza civile, individuale e collettiva, è un diritto e un dovere di ogni cittadino e cittadina».


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