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PDL 1807

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1807



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

BURGIO, MIGLIORE, ZIPPONI, ROCCHI, DE CRISTOFARO, ACERBO, CACCIARI, CANNAVÒ, CARDANO, CARUSO, COGODI, DE SIMONE, DEIANA, DIOGUARDI, DURANTI, FALOMI, DANIELE FARINA, FERRARA, FOLENA, FORGIONE, FRIAS, GUADAGNO detto VLADIMIR LUXURIA, IACOMINO, KHALIL, LOCATELLI, LOMBARDI, MANTOVANI, MASCIA, MUNGO, OLIVIERI, PEGOLO, PERUGIA, PROVERA, ANDREA RICCI, MARIO RICCI, FRANCO RUSSO, SINISCALCHI, SMERIGLIO, SPERANDIO

Modifiche al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368,
in materia di contratti di lavoro a tempo determinato

Presentata l'11 ottobre 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - È noto come la legislazione sul lavoro entrata in vigore nel corso degli ultimi vent'anni sia stata contrassegnata da una marcata tendenza all'ampliamento dei contesti di utilizzo degli strumenti di «flessibilità». Tale processo è stato attuato dal legislatore attraverso l'introduzione di una pluralità di tipi di contratto riconosciuti dalla legge che vanno idealmente a collocarsi, secondo una gamma di tutele differenziate, in quella vasta area ricompresa tra il contratto d'opera di cui all'articolo 2222 e seguenti del codice civile e il contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato di cui all'articolo 2094 del medesimo codice. Nel novero di tali tipologie negoziali un ruolo di particolare rilievo, sia sul piano storico che su quello sociale e giuridico, rivestono i contratti di lavoro a tempo determinato.
      Sul piano storico, tali contratti furono introdotti con la legge 18 aprile 1962, n. 230, allo scopo di regolare le assunzioni per prestazioni d'opera «aventi carattere straordinario e occasionale». L'evoluzione
 

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della normativa è stata tuttavia informata dal progressivo allentamento dei vincoli di ammissibilità. In questo processo spiccano la legge 28 febbraio 1987, n. 56, che delega la definizione dei casi di ammissibilità ai singoli contratti collettivi, e soprattutto il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, che introducendo la massima «flessibilità» nei rapporti di lavoro, «liberalizza» il contratto a tempo determinato e - sortendo l'effetto di delineare un quadro molto simile a quello riguardante il lavoro interinale - ne estende il ricorso a tutti i casi in cui vengono addotte, da parte del datore di lavoro, «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» (articolo 1, comma 1).
      Sul versante delle conseguenze di tale legislazione, è ormai opinione acquisita in letteratura che essa abbia fortemente contribuito all'accentuazione dei tratti di «dualismo» del mercato del lavoro in Italia, con la polarizzazione tra il grosso degli occupati piuttosto stabile e una rilevante frazione degli stessi con storie lavorative accidentate, scandite da frequenti transizioni. Come risulta dai dati più recenti (confronta la «Rilevazione sulle forze di lavoro - II semestre 2006», ISTAT www.istat.it), tale frazione è valutabile, limitatamente all'ambito degli occupati dipendenti a termine, nella misura del 13 per cento. Vale la pena di sottolineare che, ove si considerasse l'insieme dei lavoratori dipendenti e «parasubordinati» atipici (a tempo parziale con contratti a tempo determinato o indeterminato, interinali, a progetto o con contratti di lavoro occasionale, eccetera), il totale dei soggetti interessati supererebbe le 2.900.000 unità su un totale di circa 23 milioni di occupati, registrando nel corso dell'ultimo decennio una crescita annua del 6,8 per cento.
      Non si è verificata quella evoluzione complessiva del mercato del lavoro in direzione di una organica dinamizzazione che era stata auspicata dai fautori della cosiddetta «flessibilità» quale supposta premessa di una accresciuta efficienza del sistema. Pur in un contesto contrassegnato da un generale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori dipendenti (ben riassunto dal trasferimento di risorse dal reddito da lavoro a quello di impresa pari a quasi 75 miliardi di euro nel corso dell'ultimo decennio - confronta Roberto Romano, «Politica dei redditi tra il 1993 e il 2005», allegato a «PubblicAzione 75, 2006, pagina 16), si è determinato piuttosto un ampliamento della «flessibilità al margine», con la conseguente netta divaricazione tra le posizioni relativamente protette (sia sul piano delle tutele normative che sul terreno salariale) e quelle più deboli (prevalentemente riferibili ai giovani, alle donne e ai residenti di recente immigrazione) proprie degli occupati con carriere lavorative instabili, maggiormente esposte all'incertezza, al ripetersi di episodi di occupazione temporanea (di norma caratterizzati da livelli retributivi modesti e da ancora più modesti benefìci previdenziali) e agli effetti di eventi congiunturali negativi.
      Al di là delle proclamazioni ideologiche, non vi è evidenza di una crescita nella probabilità di transizione da contratti a tempo determinato a contratti a tempo indeterminato. La tendenza è anzi nel senso opposto (confronta Tito Boeri - Andrea Brandolini, «The Age of Discontent: Italian Households at the Beginning of the Decade», in «Giornale degli Economisti e Annali di Economia», 63, 2004; Anna de Angelini, «Mobilità e percorsi di ingresso nel lavoro dei giovani», in Bruno Contini - Ugo Trivellato, a cura di, «Eppur si muove. Dinamiche e persistenze nel mercato del lavoro italiano», Il Mulino, Bologna 2005, pagine 392-393) e per centinaia di migliaia di lavoratori dipendenti la «flessibilità» si tramuta nella «trappola della precarietà». Lungi dal confermare gli effetti virtuosi che si vorrebbero associati a una più marcata «flessibilità» del mercato e dei rapporti di lavoro, le carriere lavorative di un circoscritto ma significativo settore del lavoro dipendente italiano appaiono segnate dal ripetersi di episodi di lavoro temporaneo inframmezzati da periodi di disoccupazione.
      Il panorama offerto dal mercato del lavoro italiano a seguito della legislazione
 

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prodotta in materia di lavoro nel corso degli ultimi vent'anni appare, insomma, segnato da gravi distorsioni, da una marcata segmentazione e da un prevalente connotato di iniquità. Conviene in proposito riportare la sintetica conclusione di una recentissima analisi delle dinamiche del mercato del lavoro italiano ad opera di una riconosciuta équipe di studiosi: «L'evidenza empirica non nega una (moderata) associazione positiva tra flessibilità e occupazione, ma sono numerose le perplessità che tale evidenza genera. Disuguaglianze crescenti, esclusione sociale dei meno privilegiati, polarizzazione tra lavori buoni e lavori cattivi, segmentazione tra gruppi a cui si offrono prospettive di mobilità sociale e altri gruppi a cui tale offerta è preclusa, tra popolazioni nazionali e immigrati appaiono prezzi alti da pagare: soprattutto se le contropartite sono un modesto incremento dell'occupazione e un'inadeguata crescita economica» (Bruno Contini - Ugo Trivellato, «Dinamiche e persistenze nel mercato del lavoro italiano: una sintesi», in Bruno Contini - Ugo Trivellato, a cura di, «Eppur si muove. Dinamiche e persistenze nel mercato del lavoro italiano», citato, pagina 84).
      Pochi ulteriori dati bastano a documentare la fondatezza di tale quadro di sintesi per ciò che attiene ai rapporti di lavoro a termine.
      Stando alle ultime rilevazioni dell'ISTAT sulle forze di lavoro in Italia (II trimestre 2006), i lavoratori dipendenti con contratto a termine sono attualmente 2.214.000 (di cui 1.724.000 a tempo pieno e 490.000 a tempo parziale) pari, come si diceva, al 13 per cento del totale dei dipendenti (+0,6 per cento rispetto al II trimestre 2005). Benché il notevole incremento del lavoro a termine (+8,1 per cento rispetto al II trimestre 2005, pari a +166.000 unità) abbia riguardato entrambe le componenti di genere, tutte le aree geografiche (con particolare intensità per le regioni centrali del Paese) e tutti i settori produttivi (in specie l'agricoltura e i servizi, con percentuali di aumento pari rispettivamente al 10,2 e al 9,2 per cento rispetto al II trimestre 2005), i dati più significativi riguardano le donne (il 15,3 per cento di esse risulta coinvolto in contratti a termine, contro l'11,3 per cento dei maschi) e soprattutto i giovani (120.000 nuovi posti di lavoro a tempo determinato creati nel corso dell'ultimo anno hanno interessato lavoratori di età inferiore ai 50 anni, mentre l'occupazione a termine riguarda oltre il 21 per cento dei lavoratori sotto i 34 anni di età).
      Anche le prospettive confermano la crescente rilevanza del fenomeno. L'Istituto di studi e analisi economica (ISAE) prevede che alla fine del 2006 si attesterà sul 35,5 per cento dell'insieme di quelle che intendono assumere (contro il 43,4 per cento del 2005), con un calo più marcato nei servizi, dove la quota delle imprese che si orienteranno sul tempo indeterminato passerà dal 36 per cento al 26 per cento (ISAE, «Inchiesta sulle assunzioni effettuate dalle imprese nel 2005 e le previsioni per il 2006», www.isae.it/nota mensile marzo 2006, pagine XVIII-XIX). Il dato appare del tutto coerente con le previsioni contenute nel rapporto Excelsior-Unioncamere 2006, secondo cui nel corso del corrente anno il rapporto di lavoro a termine riguarderà il 41,1 per cento dei nuovi assunti (contro una percentuale del 37,8 per cento del 2005 e addirittura del 30,8 per cento nel 2001); per contro, la percentuale dei nuovi assunti a tempo indeterminato cadrà al 46,3 per cento nel 2006, contro il 50 per cento del 2005 e il 60 per cento del 2001 (Unioncamere, «Progetto Excelsior. Sistema informativo per l'occupazione e la formazione. Sintesi dei principali risultati - 2006», www.unioncamere.it, pagina 145).
      Come accennato, il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, ha rappresentato una tappa importante nella evoluzione legislativa sul mercato del lavoro italiano. Tale rilevanza discende dal fatto che la norma ha reso non più necessaria la mediazione del contratto collettivo e soprattutto «liberalizza» il contratto a tempo determinato estendendone il ricorso a tutti i casi in cui vengano addotte, da parte del datore di lavoro, «ragioni di
 

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carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» (articolo 1, comma 1). Con l'entrata in vigore di questo decreto legislativo sono tuttavia sorti, sia in giurisprudenza sia in dottrina, numerosi contrasti interpretativi sulla portata e sul reale significato della riforma dei contratti a termine introdotta con la norma in discussione. In particolare, i dubbi interpretativi si sono incentrati su cinque questioni.
      In primo luogo, ci si chiede se, sotto la vigenza del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, il rapporto tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e contratto di lavoro a tempo determinato si sia trasformato, nel quadro del più generale fenomeno di favore per le forme di «flessibilità» del lavoro (vedi legge n. 30 del 2003 e decreti legislativi attuativi), in una vera e propria coesistenza di modelli negoziali alternativi, dotati ciascuno di pari dignità; o se invece tale rapporto possa essere ancora ricondotto - secondo quanto avveniva in precedenza (sotto la vigenza della legge 18 aprile 1962, n. 230) e dovrebbe avvenire in ottemperanza a quanto previsto nel programma elettorale de L'Unione - allo «schema regola/eccezione» (in base al quale il rapporto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la norma, derogare alla quale presuppone la sussistenza di circostanziate e comprovate motivazioni). Il dubbio è sorto in quanto l'articolo 1 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, non propone una disposizione analoga a quella contenuta nel comma 1 dell'articolo 1 della legge 18 aprile 1962, n. 230, in base al quale «il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate».
      Per risolvere in modo univoco tale grave e persistente dubbio interpretativo si ritiene indispensabile ristabilire espressamente il rapporto regola/eccezione tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e contratto di lavoro a tempo determinato, nonché assicurare la natura essenzialmente contingente e circostanziata delle esigenze aziendali sottese all'apposizione del termine, escludendo l'ammissibilità di esigenze ordinarie e continuative (da soddisfare a mezzo di assunzioni a tempo indeterminato). L'introduzione di provvedimenti normativi che muovano in tale senso appare necessaria e urgente al fine di dare attuazione a precisi impegni assunti in materia di lavoro dall'attuale maggioranza di Governo. Ricordiamo in proposito che a più riprese il programma de L'Unione ribadisce come il lavoro a tempo indeterminato - il solo in grado di consentire ai lavoratori di «costruirsi una prospettiva di vita e di lavoro serena» - costituisca «la normale forma di occupazione» («Per il bene dell'Italia. Programma di governo 2006/2011», capitolo [XI], «Lavoro, diritti e crescita camminano insieme») e debba pertanto tornare ad essere la forma normale del rapporto di lavoro dipendente. Accanto a considerazioni di ordine politico, ne sussistono tuttavia altre, non meno stringenti, di ordine giuridico.
      Appare opportuno, al riguardo, sottolineare gli effetti che la presente proposta di legge sortirebbe ai fini dell'armonizzazione normativa rispetto alla legislazione comunitaria richiamata nel titolo del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo-quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall'UNICE e dal CEEP). Nella misura in cui risolverebbe cruciali questioni interpretative sorte dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, riportando i livelli di tutela delle centinaia di migliaia di lavoratori a termine ad una situazione analoga a quella (certamente più garantista) che sussisteva sotto la vigenza della legge 18 aprile 1962, n. 230, la proposta di legge appare in primo luogo coerente con la citata direttiva 1999/70/CE che recepisce l'accordo-quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato. Tale accordo (in particolare nelle considerazioni generali n. 6 e n. 7) ribadisce infatti il rapporto regola/eccezione, precisando che «i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento», e che «l'utilizzazione
 

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di contratti di lavoro a tempo determinato basata su ragioni oggettive è un modo di prevenire gli abusi».
      La presente proposta di legge appare in secondo luogo coerente con l'orientamento della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 41 del 7 febbraio 2000, aveva rigettato una richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, tra l'altro, dell'articolo 1, comma 1, della legge n. 230 del 1962 (ossia della norma sopra citata che poneva il rapporto regola/eccezione) con la motivazione che i princìpi e l'impostazione della legge n. 230 del 1962 costituivano attuazione anticipata della direttiva comunitaria 1999/70/CE. «Qualora si consideri la lettera e lo spirito della direttiva in questione [recita la sentenza], l'ordinamento italiano risulta anticipatamente conformato agli obblighi da essa derivanti. Infatti, proprio la legge n. 230/1962 assoggettata a referendum [...] ha da molto tempo adottato una serie di misure puntualmente dirette ad evitare l'utilizzo della fattispecie contrattuale del lavoro a tempo determinato per finalità elusive degli obblighi nascenti da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato». Alla luce di tale sentenza della Suprema Corte, è agevole comprendere come la modifica qui proposta contribuirebbe a porre il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, al riparo da qualsivoglia censura di violazione della clausola n. 8 (di «non regresso dei livelli di tutela») dell'accordo-quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (la quale stabilisce che «L'applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso»).
      Alla prima, cruciale questione testé trattata sono strettamente connesse le altre questioni interpretative che la presente proposta di legge intende affrontare. Ci si chiede innanzitutto su chi (datore di lavoro o lavoratore) incomba, nel processo del lavoro, «l'onere probatorio circa la sussistenza delle ragioni volte a giustificare l'apposizione del termine». Più precisamente, ci si domanda se al lavoratore possa ragionevolmente richiedersi di dimostrare l'insussistenza di tali ragioni (producendo una prova «diabolica» poiché finalizzata a dimostrare, attraverso indizi necessariamente presuntivi, un fatto «negativo»); o se invece - come appare ben più logico nonché del tutto coerente con l'affermazione della eccezionalità del rapporto a termine e con il principio di vicinanza o disponibilità della prova da ultimo pure sancito dalla Corte di cassazione, sezioni unite, con sentenza n. 141 del 10 gennaio 2006 - la prova «positiva» della sussistenza di siffatte ragioni stia (come avveniva sotto la vigenza della legge n. 230 del 1962) a carico del datore di lavoro.
      La questione interpretativa è sorta in quanto il comma 2 dell'articolo 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, nel riprodurre il vecchio testo dell'articolo 3 della legge 18 aprile 1962, n. 230, che poneva espressamente tale onere probatorio in capo al datore di lavoro, ne ha limitato la portata alle sole ipotesi di «proroga» del contratto di lavoro a tempo determinato, omettendo l'inciso «sia l'apposizione di un termine al contratto di lavoro sia», e limitandosi a disporre che «L'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano l'eventuale proroga del termine stesso è a carico del datore di lavoro». In sostanza, allo stato, la norma in questione pone a carico del datore di lavoro esclusivamente l'onere della prova delle ragioni volte a giustificare la «proroga» del termine, ma non l'onere della prova delle ragioni tese a giustificare l'«apposizione del primo termine».
      Appare senz'altro coerente con la reintroduzione del rapporto regola/eccezione porre a carico del datore di lavoro che intenda ricorrere allo strumento «eccezionale» del contratto a termine l'onere di provare la sussistenza delle ragioni che ne giustificano l'impiego.
      Ci si chiede inoltre come si configurino il regime delle conseguenze giuridiche e, in definitiva, la stessa sorte del contratto di lavoro, nell'ipotesi di omessa prova (da parte del datore di lavoro) a
 

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suffragio delle ragioni addotte per l'apposizione del termine.
      Sotto la vigenza del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (in assenza di una esplicita disciplina e per effetto della insufficiente determinazione del rapporto regola/eccezione), si è venuto affermando un orientamento interpretativo che, nella ipotesi di carenza di ragioni giustificative, tende a considerare come «essenziale» la clausola appositiva del termine e quindi - per l'effetto - a inficiare (in base all'articolo 1419, primo comma, del codice civile) l'intero contratto di lavoro, in spregio a qualsivoglia principio di conservazione del contratto («utile per inutile non vitiatur»).
      La reintroduzione del rapporto regola/eccezione consentirebbe, invece, di introdurre senza contraddizione alcuna, ma anzi in piena coerenza con la premessa, una norma di legge finalizzata a circoscrivere e a limitare l'inefficacia alla sola clausola appositiva del termine, con la conseguenza di salvaguardare la persistenza del rapporto di lavoro (ricondotto alla configurazione normale di contratto a tempo indeterminato).
      Quest'ultima osservazione comporta una puntuale determinazione del quadro di riferimento delle considerazioni in atto, nella misura in cui queste evocano disposizioni tese a trasformare i rapporti di lavoro a termine dei quali si sia verificata la carenza di motivazioni in rapporti a tempo indeterminato. Inevitabilmente tale finalità implica l'esclusione del pubblico impiego dall'ambito interessato dall'intervento normativo qui proposto, atteso che, per esigenze di pianificazione della spesa pubblica e di coerenza con le superiori norme attinenti all'accesso alle piante organiche della pubblica amministrazione mediante concorso (ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione), il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, stabilisce (articolo 36, comma 2) che «In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione». Con tutta evidenza deriva da tale disposizione una clausola limitativa in base alla quale tutte le questioni su cui verte la presente proposta di legge non coinvolgono il pubblico impiego.
      Occorre ora affrontare un'ulteriore materia - la disciplina della proroga del termine - al fine di restituire centralità al tempo indeterminato.
      In tema di proroga la precedente normativa contemplava tassative limitazioni. L'articolo 2 della legge 18 aprile 1962, n. 230, ammetteva la proroga «eccezionalmente» e solo per esigenze contingenti ed imprevedibili. Rovesciando tale impianto in direzione di una estrema genericità, il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (articolo 4, comma 1) ammette la proroga «a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive». Con tutta evidenza, legittimando il ricorso a proroghe anche in presenza di ragioni conosciute e pianificate a priori dall'azienda, tale norma presta il fianco a gravi abusi dello strumento della proroga (quale surrettizio surrogato del contratto a tempo indeterminato). Si impone pertanto la necessità di reintrodurre precise condizioni, che vincolino la concessione di proroghe a circostanze eccezionali, contingenti e non prevedibili da parte del datore di lavoro.
      La scelta di privilegiare il rapporto di lavoro a tempo indeterminato e in generale le forme che garantiscono, comunque, la massima stabilità dell'occupazione suggerisce, infine, di intervenire in materia di diritto di precedenza al fine di assicurarne la piena esigibilità.
      La legge 28 febbraio 1987, n. 56 (articolo 23), riconosceva al lavoratore un diritto di precedenza nell'assunzione presso la stessa azienda con la medesima qualifica. In un quadro normativo in cui le ipotesi di assunzione a tempo determinato erano - come si è osservato - tassativamente specificate dal legislatore o dai contratti collettivi, coerentemente la norma limitava il diritto di precedenza ai soli lavoratori che avessero prestato attività lavorativa con contratto a termine nelle ipotesi previste dall'articolo 8-bis del
 

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decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79, ossia nelle ipotesi di assunzione a termine per lo svolgimento di attività lavorative a carattere stagionale. Non sussistendo più, a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, le ipotesi tassative predeterminate dalle predette fonti, è tuttavia venuta meno, anche sotto un profilo di logicità e di coerenza interna del sistema, la ragione della limitazione del diritto di precedenza a una singola ipotesi. Al fine di rendere effettivamente esigibile il diritto di precedenza in un quadro normativo coerente con la restituita centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, appare al contrario indispensabile estendere il diritto di precedenza a tutti i lavoratori assunti con contratti a termine (indipendentemente dal settore produttivo o dalle ipotesi - oggi «liberalizzate» - di assunzione), sopprimere qualsiasi termine di estinzione e conferirgli la tutela della norma imperativa, sottraendone il riconoscimento all'alea inerente alla contrattazione tra le parti.
      L'articolo 1 della presente proposta di legge stabilisce il principio che il contratto di lavoro si intende a tempo indeterminato, salva la possibilità di apposizione di un termine esclusivamente per comprovate ragioni temporanee di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Al fine di risolvere in modo univoco i gravi e persistenti dubbi interpretativi concernenti il legittimo ricorso al rapporto di lavoro a termine, la norma ristabilisce espressamente il rapporto regola/eccezione tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e contratto di lavoro a tempo determinato, e sottolinea la natura essenzialmente limitata (sul piano causale e temporale) delle esigenze aziendali sottese all'apposizione del termine.
      L'articolo 2 modifica la disciplina della proroga, con particolare riguardo alla parte relativa all'onere della prova. Si stabilisce infatti che l'onere di dimostrare l'obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano l'apposizione del primo termine e la sua eventuale proroga ricade sul datore di lavoro e che, accertata la mancanza delle ragioni addotte a giustificazione, l'apposizione del termine è priva di effetto.
      L'articolo 3 stabilisce per i lavoratori il diritto di precedenza nell'assunzione a tempo indeterminato presso l'azienda dove hanno prestato lavoro con contratto a tempo determinato, a condizione che manifestino la volontà di esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. In questo modo si estende per legge l'effettività di tale diritto a tutti i lavoratori (indipendentemente dal settore produttivo e dalle ipotesi di assunzione) senza termini di estinzione.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Condizioni per l'apposizione del termine).

      1. All'articolo 1 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) il comma 1 è sostituito dai seguenti:

      «1. Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salva la possibilità di apposizione di un termine nei casi indicati al comma 1-bis.

      1-bis. È consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato esclusivamente a fronte di comprovate ragioni temporanee di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo»;

          b) al comma 2, le parole: «le ragioni di cui al comma 1» sono sostituite dalle seguenti: «le ragioni di cui al comma 1-bis».

Art. 2.
(Disciplina della proroga).

      1. L'articolo 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, è sostituito dal seguente:

      «Art. 4. - (Disciplina della proroga) - 1. Il termine del contratto a tempo determinato può essere eccezionalmente prorogato, con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto è inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni contingenti e imprevedibili, e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a tempo determinato non può essere superiore a tre anni.

 

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      2. L'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano sia l'apposizione di un termine al contratto di lavoro, sia l'eventuale proroga del termine stesso è a carico del datore di lavoro.
      3. L'apposizione del termine è priva di effetto quando risulta accertato che non ricorrono le ragioni addotte al fine di giustificare l'apposizione del termine o la sua eventuale proroga».

Art. 3.
(Diritto di precedenza).

      1. All'articolo 10 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) il comma 9 è sostituito dal seguente:

      «9. I lavoratori che hanno prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato hanno diritto di precedenza nell'assunzione a tempo indeterminato presso la stessa azienda, con la medesima qualifica, a condizione che manifestino la volontà di esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro»;

          b) il comma 10 è abrogato.


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