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PDL 1793

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1793



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

PEDRIZZI, LEO, GERMONTANI, GIANFRANCO CONTE

Modifica all'articolo 110 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, in materia di deduzione di spese derivanti da operazioni tra imprese italiane e imprese domiciliate in Stati aventi regimi fiscali privilegiati

Presentata il 9 ottobre 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - L'articolo 10, comma 10, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986 (TUIR), prevede l'indeducibilità delle spese e delle altre componenti negative derivanti da operazioni commerciali intercorse tra imprese residenti in Italia ed imprese fiscalmente domiciliate in Stati o territori non appartenenti all'Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati.
      Tale assoluta indeducibilità, prevista dal citato comma 10, può essere superata (comma 11) solo quando si fornisce la prova dell'effettività dell'attività commerciale svolta dall'impresa estera ovvero del fatto che, le operazioni sono conseguenza diretta di un reale interesse economico e hanno avuto concreta esecuzione.
      Si torna, però (ultimo periodo del comma 1), alla indeducibilità assoluta ed insuperabile nel caso di mancata separata indicazione in dichiarazione delle spese dedotte.
      Al proposito, in primis si fa notare l'infelice tecnica espositiva del comma 11, che solo nell'ultimo rigo, quasi fosse una residuale specificazione normativa, espone, invece, la parte più importante e penalizzante, in caso di errore e/o inosservanza, della norma.
      Considerando, infatti, che la mancata esposizione in dichiarazione rende indeducibili i costi ed inutile dimostrare sia
 

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l'effettività dell'operazione sia la sua concreta esecuzione o la convenienza economica della stessa, forse sarebbe stato più corretto esporre tale pregiudiziale vincolo assoluto ed insuperabile all'inizio del comma, proprio perché pregiudiziale, onde mettere in guardia il lettore/contribuente delle gravissime conseguenze dovute alla mancata separata indicazione di tali dati nel modello unico.
      Si ritiene poi necessario precisare che le operazioni intercorse con Paesi a fiscalità privilegiata possono assumere varia natura ed è, con evidenza, eccessivamente afflittivo prevedere l'inutilità della prova che le operazioni siano reali ed effettive, e conseguentemente disconoscere tali costi quando, anche solo per mera dimenticanza, se ne è omessa la separata indicazione nella dichiarazione unica.
      Quella in esame è, con evidenza, una della molte norme varate per contrastare l'uso dei «paradisi fiscali» al fine di evitare l'imposizione in Italia.
      Bisogna però sottolineare che la legislazione di cui ai citati commi 10 e 11 dell'articolo 110 del TUIR, relativa alle sole operazioni commerciali, deriva, pressoché integralmente, da quella temporalmente precedente relativa alle controlled foreign companies (CFC) indicata al comma 7 dello stesso articolo.
      Pertanto la norma di contrasto ai rapporti con Paesi a fiscalità privilegiata è nata per colpire i rapporti tra imprese italiane che avevano rapporti di controllo e collegamento con imprese domiciliate in Paesi a fiscalità privilegiata, poi individuati come «black list», i cui movimenti, però, erano solo contabili e non comprovati da transito di merci.
      Solo per tali fattispecie la mancata separata indicazione determina un oggettivo ostacolo all'azione di controllo degli organi preposti.
      L'estensione delle citate norme anche alle operazioni commerciali, avvenuta nel 2001, non ha considerato, per esempio, che il transito fisico delle merci in dogana le rende note ed evidenti a prescindere dalla loro separata indicazione nella dichiarazione unica.
      Infatti, nei numerosi accessi mirati, i militi della guardia di finanza sono sempre già in possesso di tabulati con indicazione precisa ed analitica delle operazioni intercorse ovvero delle merci transitate (appurate) in dogana.
      Appare quindi non così dannosa all'azione di controllo, e quindi solo formale, la mera dimenticanza dell'indicazione dei citati costi, in cui sono incorsi numerosi contribuenti «distratti».
      Tale dimenticanza ha, però, determinato una sanzione così onerosa da mettere in pericolo la stessa prosecuzione delle attività coinvolte in controlli o ispezioni.
      Se l'infrazione commessa è formale è in tal modo che andrebbe sanzionata.
      A tali contribuenti, secondo la norma, è preclusa ogni possibilità di porre rimedio alla dimenticanza, né mediante dichiarazione integrativa - che l'Amministrazione, dopo un intervento a parziale correzione delle sue precedenti più restrittive posizioni, ora concede si possa inviare, ma solo per chi non ha ancora ricevuto controlli o ispezioni (risoluzione n. 12 del 17 gennaio 2006) - né in altro modo.
      Tale asserita preclusione nei confronti di chi ha già ricevuto la visita degli organi verificatori determina un'ulteriore anomalia, che è in contrasto sia con il concetto di emendabilità della dichiarazione tributaria quale «diretto corollario della natura della dichiarazione quale atto di scienza e non di volontà» (risoluzione n. 12 del 17 gennaio 2006), sia soprattutto, con quanto previsto dalla norma stessa, e cioè dall'articolo 2 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 322 del 1998.
      Infatti il comma 8 di tale articolo testualmente recita:

      «Salva l'applicazione delle sanzioni, le dichiarazioni dei redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti d'imposta possono essere integrate per correggere errori od omissioni mediante successiva dichiarazione da presentare, secondo le disposizione di cui all'articolo 3, utilizzando modelli conformi a quelli approvati per il periodo d'imposta cui si riferisce la dichiarazione, non oltre

 

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i termini stabiliti dall'articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni».

      Non vi è alcuna menzione della preclusa emendabilità nel caso di inizio di ispezioni o verifiche, e pertanto non si capisce il perché della citata restrizione non prevista dalla legge. Bisogna dire che l'Amministrazione finanziaria sta cercando di correggere alcuni «buchi» del TUIR, e fra questi era già stato individuato nel marzo 2006 quello qui segnalato, per il quale, oltre ad una modifica della legge, sembrava concretizzarsi la possibilità di un sanatoria, per i numerosi contribuenti, meno fortunati, alle prese con le verifiche.
      A seguito, però, della consultazione elettorale l'intento di correzione è stato sospeso.
      D'altronde l'indeducibilità dei costi, a prescindere dalla loro effettività, desta qualche perplessità in ordine ai princìpi costituzionali in materia di determinazione del reddito, e tale aspetto non può sfuggire ad un lettore attento della norma.
      In particolare, essendo sottoposto ad imposizione il reddito quale differenza aritmetica tra ricavi e costi non appare conforme al principio costituzionale della capacità contributiva disconoscere un costo «solo» per la sua mancata separata indicazione nel modello unico.
      In altre parole, se un costo è stato sostenuto, è transitato nelle scritture contabili e nel conto economico ed è confluito nella dichiarazione dei redditi, tramite la sua partecipazione al risultato di esercizio, appare forzato disconoscerlo solo per non averne evidenziato a parte natura ed importo, soprattutto se si è nelle condizioni di poterne dimostrare l'effettività.
      Sembra di tornare a confrontarsi con delle «sanzioni improprie» che alterano i criteri normativi di quantificazione del tributo, ampliando in modo fittizio la base imponibile.
      I criteri guida stabiliti dal principio di capacità contributiva fanno riferimento ad una concreta forza economica dalla quale viene prelevata l'imposta con criteri ragionevoli.
      Diversamente si assiste ad una sanzione che condanna «a morte» le imprese e l'occupazione degli addetti.
      Nel dettaglio, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, la subordinazione della deduzione dei costi all'osservanza di obblighi è corretta solo quando si tratti di obblighi mediante i quali il contribuente prova l'esistenza di fatti a sé favorevoli.
      In particolare, con la sentenza n. 186 del 1982, proprio in tema di sanzioni improprie (costi non annotati su apposite scritture, come il libro dei cespiti), la Corte ha rilevato come la norma (si trattava dell'articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica n. 597 del 1973 che prevedeva l'indeducibilità di componenti negativi non riportati nelle scritture contabili e nel conto profitti e perdite), avendo carattere meramente probatorio, operava in modo razionale e senza determinare situazioni di ingiustificata disparità di trattamento, e senza violare il principio sostanziale della capacità contributiva, in quanto è in potere e dovere del contribuente di precostituire agevolmente la prova legale prevista dalla norma tributaria, che stabilisce come e quando debbano essere registrati costi ed oneri nelle adeguate scritture contabili.
      L'obbligo in questione appare, in via generale, già imposto dalle disposizioni dell'articolo 109, che prevedono la deduzione per i componenti imputati a conto economico o comunque in base ad elementi certi e precisi.
      Diversamente, la norma in esame (articolo 110 del TUIR) non ha carattere probatorio, bensì informativo, perché si propone di segnalare al fisco le situazioni potenzialmente lesive degli interessi erariali e di consentire di verificare la corretta determinazione del tributo.
      Vi è, quindi, uno scopo difforme da quello originariamente previsto dal vecchio articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica n. 597 del 1973.
      La conseguenza negativa che il legislatore collega all'omessa indicazione di tali componenti negative, in quanto commisurata all'imposta, appare essere una «sanzione

 

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impropria», che il sistema non può che vedere con sfavore.
      Questa conclusione può essere corroborata dalla sentenza n. 103 del 1967 della Corte costituzionale, che aveva ad oggetto la verifica di legittimità di una norma che maggiorava il reddito in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.
      In quel caso era stata stabilita l'illegittimità della disposizione, perché essa aumentava la base imponibile per il calcolo dell'imposta sui redditi sulla base di un presupposto sganciato da ogni «elemento concreto o indice impositivo».
      Inoltre veniva censurata l'impossibilità probatoria in cui si veniva a trovare il contribuente e si concludeva: «La norma denunciata preclude al contribuente di dimostrare di aver realizzato un reddito inferiore a quello iscritto a ruolo ed è del tutto irrazionale estendere tale preclusione all'aumento del 10 per cento. Per la parte in discussione la norma va quindi dichiarata costituzionalmente illegittima in riferimento all'articolo 53 della Costituzione».
      Ecco l'identità con la fattispecie in esame: rendere indeducibile un costo equivale a tassare un reddito superiore non prodotto. Oppure a tassare i ricavi senza tener conto dei costi che hanno contribuito a produrli.
      Di conseguenza, il contribuente che rispetta tutti gli altri requisiti previsti dall'articolo 110 commi 10 e 11 del TUIR, e che comunque la norma prevede debbano essere verificati, ma non espone il costo nel rigo appropriato del modello dichiarativo, rischia una sanzione irrazionale e sproporzionata rispetto alla gravità della violazione.
      Insomma, il contribuente che rispetta i requisiti dell'articolo 110 del TUIR ed è in grado di dimostrare il sostenimento del costo risulta comunque sanzionabile se omette di segnalare la presenza delle operazioni nella dichiarazione dei redditi, anche se ciò non impedisce all'Amministrazione di esserne a conoscenza (tabulati doganali).
      La misura della sanzione, pertanto, così come articolata, determina la tassazione di una capacità contributiva inesistente e fittizia, con tutte le conseguenze immaginabili sulla continuazione dell'attività.
      Ammesso che la omessa indicazione separata in dichiarazione dei redditi rende più difficoltosa l'individuazione dei soggetti che hanno effettuato operazioni a rischio, di certo non si può negare, anche in considerazione dei numerosi accessi mirati, che ciò non impedisce la corretta ricostruzione del fatto.
      È una questione che deve essere risolta in ambito sanzionatorio e non ripercuotersi nella misurazione dell'imposta.
      Insomma, la norma che sanziona con l'indeducibilità del costo l'omessa indicazione separata del costo stesso in dichiarazione dei redditi appare avere gli estremi dell'incostituzionalità, poiché la violazione dell'obbligo non manifesta alcuna capacità contributiva ulteriore da colpire ed è assolutamente sproporzionata, se intesa in chiave sanzionatoria, rispetto all'entità della violazione ed al pericolo per l'erario.
      Ulteriore considerazione da fare sulla norma in esame è che non tiene in nessun conto le specificità commerciali di alcuni Paesi inseriti nell'elenco «black list».
      Tale difetto deriva proprio dall'aver integralmente trasferito, sic et simpliciter, la normativa sulle CFC (comma 7 dell'articolo 110) alle transazioni commerciali, non considerando, per esempio, che acquistare petrolio in Oman o componenti elettronici ad Hong Kong non possono essere considerate operazioni sospette a prescindere da ogni altra verifica, in quanto, per esempio, già dal 1970 ad Hong Kong si sono concentrate le maggiori multinazionali del settore elettronico (Philips, Toshiba eccetera) ed è di fatto attualmente il migliore, se non l'unico, mercato mondiale per l'acquisto di componenti elettronici. Si possono comprare in modo conveniente e concorrenziale solo lì.
      Tenere conto di tali caratteristiche dei mercati è necessario, al fine di evitare situazioni immotivatamente onerose per i contribuenti.
      Della questione qui sollevata si è anche occupata, nella scorsa legislatura, una l'interrogazione
 

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parlamentare n. 5-04959 del 15 novembre 2005, presentata dall'onorevole Maurizio Leo) alla quale il sottosegretario Daniele Molgora, anche con alcuni elementi contraddittori, ha dato una risposta non soddisfacente, tanto che, nel manifestare la preoccupazione verso i molti contribuenti già interessati da verifiche in corso, l'onorevole Leo si riservava di assumere ulteriori iniziative per la correzione della norma.
      Anche la stampa ha cominciato ad occuparsi, se pur solo nel 2006, dei pericolosi e perversi effetti della norma. Al proposito, si segnala l'articolo di Raffaello Lupi, a pagina 32 del Sole 24 Ore del 9 gennaio 2006, intitolato «Ma la sanzione deve scattare solo se c'è malafede», in cui sostiene che non possono essere trattati alla stessa maniera i «furbetti» che tentano la sorte ed i contribuenti corretti anche se distratti, e si auspica, pertanto, che gli uffici tengano conto dell'assenza di malafede «in virtù di quei principi di trasparenza e collaborazione cui si richiamava la stessa risposta del Ministro» (il riferimento è all'interrogazione n. 5-04959 sopra richiamata). Nella stessa pagina del Sole 24 Ore, un articolo di Dario Deotto sottolinea l'assoluta legittimità alla presentazione della dichiarazione integrativa anche in presenza di verifiche già avviate.
      Dello stesso tenore è anche l'articolo del 3 aprile 2006, a pagina 29 del Sole 24 Ore, a firma di Alessandro Bampo e di Alberto De Luca, nel quale si sottolinea, tra l'altro, che per le operazioni commerciali l'effettività della transazione è comprovata dai documenti doganali. È come se da un lato l'Amministrazione attestasse che la merce è regolarmente transitata in dogana, rilasciandone certificazione, e subito dopo, dall'altro, negando se stessa, non ne riconoscesse il costo, come se l'appena certificato transito non fosse avvenuto.
      L'assurdità è evidente.
      Ancora dello stesso tenore è l'articolo a firma di Dario Deotto pubblicato il 1o marzo 2006, a pagina 24 del Sole 24 Ore, nel quale dopo il rammarico per la mancata annunciata sanatoria, si ribadisce la piena legittimità a presentare la dichiarazione integrativa anche a verifica iniziata.
      Le norme in esame determinano, addirittura l'inimmaginabile assurdità sancita dalla risoluzione n. 46/E del 2004, nella quale si precisa che, anche nel caso di interpello preventivo favorevole, se il costo non viene separatamente indicato, lo stesso non può essere riconosciuto. La contraddizione è evidente: prima si consente di dare esecuzione alla compravendita e poi se ne disconosce l'effettività se l'importo della stessa non viene separatamente indicato nella dichiarazione unica.
      Pertanto, al fine di evitare conseguenze devastanti alla prosecuzione delle attività aziendali delle società incappate nella citata dimenticanza, si ritiene opportuno modificare il comma 11 dell'articolo 110 del TUIR, prevedendo che la subordinazione della deducibilità alla separata dichiarazione non si applichi ai beni il cui valore sia stato appurato in dogana all'atto dell'importazione. Potrebbe valutari anche l'opportunità riconoscere anche ad ispezioni avviate la possibilità di presentare dichiarazioni integrative oppure prevedere una sanatoria, ovviamente lasciando invariati i poteri di verifica degli organi preposti.
      Sarebbe opportuno, poi, che la sanzione per la mancata indicazione nella dichiarazione unica fosse realmente proporzionata alla violazione che è di carattere meramente informativo e quindi formale.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Al comma 11 dell'articolo 110 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «La subordinazione della deducibilità alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi delle spese e degli altri componenti di cui al comma 10 non si applica ai beni il cui valore sia stato appurato in dogana all'atto dell'importazione».


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