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PDL 1972

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1972



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato D'IPPOLITO VITALE

Introduzione dell'articolo 610-bis del codice penale, concernente il delitto di violenza morale in ambito lavorativo

Presentata il 22 novembre 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - È noto come il termine «mobbing» (dall'inglese «to mob», che si traduce in «assalire» o «aggredire in massa») abbia derivazione etologica e sia stato impiegato per la prima volta da Konrad Lorenz per definire il comportamento di certi animali sociali, come ad esempio i lupi, che a un certo momento, per ragioni non sempre spiegabili, si coalizzano contro un loro simile, appartenente al loro stesso branco, e iniziano a sottoporlo a una serie di sistematiche vessazioni che lo costringono, infine, ad abbandonare il gruppo.
      È questo un fenomeno di segno fortemente negativo, diffuso probabilmente da sempre anche nella specie umana, ma sul quale si vanno soffermando da tempo, con sempre maggiore insistenza e attenzione, i sociologi per porne in evidenza, quanto all'ambito specificamente lavorativo, i molteplici profili densi di disvalore non solo sul piano etico-sociale, ma anche su quello prettamente economico.
      È noto, infatti, che di regola il mobbizzato finisce con il cadere in situazioni psicotiche di depressione, molte volte sfocianti in vere e proprie malattie nervose, con pesanti ricadute negative in primo luogo sul nucleo familiare che lo ha in carico, in secondo luogo sul servizio sanitario nazionale che lo deve curare e, in terzo luogo, sulla stessa struttura produttiva, privata o pubblica, nella quale è inserito, che deve sopportare il suo calo di rendimento, o la sua completa mancanza di rendimento nei casi più gravi, dovuti al suo cattivo stato di salute.
      Una ricerca dell'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL) aveva verificato che nel nostro Paese, con riferimento al giugno 2000, vi erano circa 1.500.000 lavoratori dipendenti vittime del «mobbing», e che, tenendo conto del numero medio dei componenti
 

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della famiglia italiana, si doveva stimare in circa 4 milioni il numero delle persone colpite annualmente, direttamente o indirettamente, dalle conseguenze dannose di queste pratiche.
      Nei Paesi dell'Unione europea la situazione non è dissimile, anche se non esistono dati statisticamente certi. Nella «Terza indagine sulle condizioni di lavoro», eseguita dall'International Labour Office (ILO), si rilevava che - sempre con riferimento all'anno 2000 - circa l'8 per cento (12 milioni) di lavoratori in Europa era stato vittima di vessazioni sul luogo di lavoro.
      In questo quadro, sicuramente allarmante, nella legislazione di molti Paesi europei, tra cui la Germania, i danni da invalidità psicologica prodotti dalle pratiche di «mobbing» sono considerati una vera e propria malattia professionale, assimilata agli infortuni sul lavoro, e sono liquidati con i medesimi criteri impiegati per il risarcimento del danno biologico. La legislazione svedese ha addirittura inserito già da alcuni anni tra le ipotesi criminose i comportamenti di «mobbing». L'elevazione a reato di tali condotte fu il risultato di una ricerca medico-legale che aveva accertato come circa il 15 per cento dei suicidi verificatisi annualmente in quel Paese presentavano quale causa efficiente la sottoposizione del soggetto a pratiche vessatorie dei superiori o dei colleghi nei luoghi di lavoro.
      Non esistono nel nostro ordinamento disposizioni di legge che definiscano esattamente il «mobbing», che è dunque allo stato figura juris elaborata dalla giurisprudenza (a tale proposito, nella sentenza n. 8438 del 4 maggio 2004, le sezioni unite civili della Corte di cassazione individuano il «mobbing» in ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi, per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro).
      Le corti e i tribunali si sono trovati infatti più volte costretti a individuare la fattispecie quando sono stati chiamati a definire controversie nelle quali il fenomeno in questione veniva prospettato come causa di patologie produttive di un danno biologico di cui era richiesto il risarcimento, ovvero quale causa di risoluzione del rapporto di lavoro per condotte datoriali dolose o colpose.
      La Corte costituzionale, nella sentenza n. 359 del 19 dicembre 2003, dichiarando la illegittimità costituzionale della legge della regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 (Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del «mobbing» nei luoghi di lavoro) per contrasto con l'articolo 117, secondo comma, della Costituzione, ha ritenuto di configurare, in un dettagliato obiter dictum, gli elementi essenziali della fattispecie, evidenziando che essi debbano consistere in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione e di emarginazione, finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.
      A prescindere dalla giurisprudenza della Consulta, quel che occorre sottolineare è che le prassi giurisprudenziali, di merito e di legittimità, si fondano, in ogni caso, su un sistema di princìpi consolidati e chiari, riposanti su norme ordinarie, costituzionali e comunitarie. Basta in proposito accennare agli articoli 32 e 41 della Costituzione, che postulano, rispettivamente, la salute come diritto fondamentale dell'individuo e il divieto per l'iniziativa economica privata di svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umane; all'articolo 2087 del codice civile, che obbliga l'imprenditore ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro; all'articolo 2103, sempre del codice civile, che vieta il «demansionamento»; alla risoluzione del Parlamento europeo 2001/2339(INI) del 20 settembre 2001, avente come oggetto il «mobbing sul posto di lavoro», nella quale, al punto 13, si esorta
 

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la Commissione ad «esaminare la possibilità (...) di elaborare una nuova direttiva quadro, come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie, nonché come meccanismo di difesa del rispetto della dignità della persona del lavoratore (...)».
      Appare dunque giunto il momento, per la vastità, la diffusione e la plurioffensività del fenomeno, che incide in primis sulla libertà morale e sulla salute dell'individuo, ma pone, anche e contestualmente, a rischio l'interesse pubblico alla sicurezza dei luoghi di lavoro e al corretto e proficuo esercizio dell'iniziativa economica, di introdurre anche nella nostra legislazione il «mobbing» o, traducendolo, la violenza morale in ambito lavorativo, tra le ipotesi di reato. È innegabile infatti che la sanzione penale rimanga, sotto molti aspetti, strumento insostituibile per contrastare con la massima efficacia possibile un fenomeno così diffuso e devastante sotto il profilo dell'allarme e del danno sociali.
      Precisamente in relazione all'interesse di maggior rilievo che la disposizione penale intende essenzialmente tutelare, rappresentato dalla libertà e dalla dignità del lavoratore nel luogo e nell'ambiente di lavoro in cui opera, la norma, ovvero l'articolo 610-bis del codice penale, è stata inserita nel libro II («Dei delitti in particolare»), titolo XII («Dei delitti contro la persona»), capo III («Dei delitti contro la libertà individuale»), sezione III («Dei delitti contro la libertà morale»), del medesimo codice. Ciò in quanto i comportamenti di «mobbing», peraltro non tipizzabili (potendo anche consistere in una serie di atti o condotte che, considerati singulatim e isolati dal più ampio contesto vessatorio, potrebbero anche apparire leciti e legittimi), vengono ad incidere, all'evidenza e in primo luogo, sulla capacità del soggetto preso di mira di autodeterminarsi spontaneamente, costringendolo in una situazione di soggezione a condizioni di lavoro insopportabili, in termini di umiliazione e di sofferenza, e lesive dei suoi diritti o interessi.
      L'elemento oggettivo del reato consiste in più atti o comportamenti protratti nel tempo, compiuti da chi presta lavoro in un dato ambito, pubblico o privato, in pregiudizio di altri, appartenente allo stesso ufficio o alla stessa azienda, e che può essere un subordinato ma anche un pari grado dell'agente.
      Comportamenti che devono apparire come oggettivamente caratterizzati da ostilità nei confronti del destinatario e adeguati ad umiliarne la dignità alla stregua dell'id quod plerumque accidit, non potendosi attribuire, altrimenti, rilievo penale a situazioni di sofferenza individuale fondate sulla particolare e abnorme sensibilità personale del soggetto. Si tratta dunque di un reato proprio (può essere commesso solo da chi riveste un ruolo all'interno di un gruppo di lavoro e a carico di chi opera nel medesimo ambito) e abituale o a condotta plurima. È del tutto evidente, infatti, che per l'esistenza dell'estremo oggettivo delle «pratiche vessatorie» occorre una serie di atti o di comportamenti persecutori anche di carattere omissivo (come nell'esempio del capo che trascura sistematicamente di assegnare compiti lavorativi al dipendente lasciandolo nell'inattività e umiliandone la dignità) che durano nel tempo e sono sintomatici, perciò, di un preciso disegno di discriminazione e di emarginazione. Condotte che possono esercitarsi sia «sul luogo di lavoro» sia «nell'ambiente di lavoro», potendo accadere che il soggetto passivo sia vittima di diffamazioni sistematiche e di calunnie, dirette a delegittimarlo, anche fuori dall'azienda o dall'ufficio ma sempre tra coloro che fanno parte del suo stesso gruppo di lavoro.
      Si è inteso stabilire la procedibilità a querela di parte per il reato-base, al fine di favorire, quando possibile, il recupero di normali relazioni interpersonali sui luoghi di lavoro, nella previsione che l'agente o gli agenti, una volta querelati, possano astenersi dal perseverare nella loro illecita condotta restituendo tranquillità al soggetto preso di mira, il quale avrebbe, a sua volta, la possibilità di interrompere l'esercizio dell'azione penale.
      L'elemento soggettivo è configurato come dolo specifico, nel senso che l'agente
 

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deve non solo rappresentarsi e volere i fatti descritti nella norma incriminatrice («le pratiche vessatorie»), ma altresì agire «al fine di danneggiare» il mobbizzato. Scopo della condotta che sta, dunque, al di fuori del fatto costitutivo del reato, che viene a consumazione a prescindere dalla causazione in concreto del divisato danno alla vittima.
      Il secondo, il terzo e il quarto comma dell'articolo 610-bis si riferiscono alle ipotesi, per nulla infrequenti nella pratica, che la personalità del soggetto preso di mira risulti ancora più intensamente offesa, come accade in tutti i casi in cui il «mobbing» abbia avuto come conseguenza la lesione della salute della vittima cagionandole una malattia nel corpo o nella mente.
      In tale caso sono previste la perseguibilità d'ufficio e l'applicazione della reclusione sino ad un anno.
      Se la malattia è grave o gravissima o se dal fatto deriva la morte della vittima (come accade quando questa, per lo stato di disperazione e di totale ottundimento delle proprie capacità morali, giunge a suicidarsi), le pene sono fortemente aumentate, in conformità a quanto previsto dal secondo comma dell'articolo 572 del codice penale per il delitto di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli.
      Sembra evidente che le ipotesi per ultimo accennate, configurate nel secondo, nel terzo e nel quarto comma dell'articolo 610-bis del codice penale, vengono a costituire altrettanti reati aggravati dall'evento, in cui la malattia o la morte della vittima sono poste a carico dell'agente per il solo fatto che traggono origine dal suo comportamento illecito. Fattispecie - codesta - da sempre nota a quasi tutte le legislazioni penali del mondo e anche alla nostra.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Dopo l'articolo 610 del codice penale è inserito il seguente:

      «Art. 610-bis. - (Violenza morale in ambito lavorativo). - Chiunque, nel luogo o nell'ambiente di lavoro, con condotte anche omissive protratte nel tempo, sottopone altri a pratiche vessatorie al fine di danneggiarlo è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione sino a sei mesi o con la multa sino ad euro 15.000.
      Se dal fatto deriva una malattia nel corpo o nella mente si procede d'ufficio e si applica la reclusione sino ad un anno.
      Se la malattia pone in pericolo la vita della persona offesa, o cagiona l'indebolimento permanente di una funzione organica o intellettiva, la reclusione è da quattro ad otto anni; è da sette a quindici anni se la malattia è certamente o probabilmente insanabile, ovvero produce la perdita di una funzione organica o intellettiva.
      Se dal fatto deriva la morte della persona offesa, si applica la reclusione da dodici a venti anni».


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