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PDL 1982

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1982



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

GALANTE, BAFILE, BARATELLA, BELLILLO, BUCCHINO, BURTONE, CANCRINI, CESINI, CRAPOLICCHIO, CREMA, DE ANGELIS, DE ZULUETA, DILIBERTO, GIANNI FARINA, FEDI, FOGLIARDI, GRASSI, GRILLINI, LICANDRO, LOMAGLIO, LONGHI, META, NAPOLETANO, PAGLIARINI, FERDINANDO BENITO PIGNATARO, RAZZI, RIGONI, SASSO, SGOBIO, SOFFRITTI, TRANFAGLIA, VACCA, VENIER

Istituzione della «Giornata della memoria delle vittime del fascismo»

Presentata il 24 novembre 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - La partecipazione ad operazioni militari all'estero e la ricostituzione di Forze armate con funzioni offensive da parte di due delle potenze sconfitte nella seconda guerra mondiale, Germania e Giappone, suscitano molta più attenzione di quanto abbiano fatto le analoghe trasformazioni che hanno coinvolto, già da tempo, l'Italia. È come se il nostro Paese e la sua storia venissero considerati diversamente dalle altre due nazioni componenti il «Patto tripartito», che diede avvio all'ultimo conflitto mondiale, sebbene sia stata proprio l'Italia, culla del fascismo, a rompere, con l'aggressione all'Etiopia, lo status quo post-prima guerra mondiale e a dare avvio, con il massiccio intervento militare in Spagna, a quello che molti storici considerano il primo episodio del secondo conflitto mondiale. Tale atteggiamento è diffuso soprattutto in Italia, ed è determinato dalla rimozione di qualsiasi memoria del colonialismo e delle guerre di aggressione intraprese dall'Italia, prima e dopo l'avvento al potere del fascismo, che ha potuto contare sulla sostanziale reticenza degli storici [Enzo Collotti, Sulla politica di repressione italiana nei Balcani, in (a cura di) Leonardo Paggi, La memoria del nazismo nell'Europa di oggi, La Nuova Italia, Firenze, 1997]. Per non parlare della rimozione collettiva dei crimini e dei criminali di guerra italiani, la cui stessa esistenza è stata completamente cancellata dalla coscienza nazionale sin dalla fine del
 

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secondo conflitto mondiale. Chi ha provato a rompere il velo di indifferenza ed omertà, come lo storico Angelo Del Boca, è stato oggetto di minacce e di aspre critiche, che hanno coinvolto anche personaggi del calibro di Indro Montanelli, sebbene alla fine si sia riusciti ad affermare la verità storica su alcuni fatti, come, ad esempio, l'impiego sistematico delle armi chimiche nella campagna d'Etiopia (Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, Editori Riuniti, Roma, 1996). Molto rimane, però, da portare alla luce e da rendere palese alla coscienza nazionale.
      Alla evidenza della realtà storica del colonialismo e della permanente tendenza alla guerra dell'Italia post-unitaria si è voluto, invece, sostituire il mito degli «italiani brava gente», che presuppone una nostra diversità rispetto agli altri popoli occidentali, basata su un nostro presunto e innato umanitarismo. Si tratta, come afferma Davide Rodogno, in un suo studio sull'imperialismo fascista, di affermazioni gratuite, prive di fondamento scientifico (Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pagina 476). Anzi, il mito cominciò ad affermarsi proprio in occasione delle prime operazioni coloniali alla fine dell'800, in cui l'Italia, arrivata per ultima alla spartizione dell'Africa e delle altre aree extraeuropee, dove si erano formati i vasti possedimenti imperiali delle principali potenze, cercava di ritagliarsi uno spazio autonomo, sottolineando la propria diversità, rivendicando la propria umanità e generosità (Angelo Boca, Italiani brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2006, pagina 49). Il mito fu poi opportunisticamente ripreso nel corso della seconda guerra mondiale, proprio quando, invece, le repressioni italiane imperversavano nei Balcani. Si trattava di una sorta di strumento di «differenziazione competitiva» nei confronti dell'invadenza e della superiorità tedesca nei territori dei quali le due potenze alleate condividevano il controllo.
      Il mito degli «italiani brava gente» non corrisponde alla effettiva vicenda storica di un Paese che, nei primi quaranta anni del XX secolo, ha intrapreso più guerre di qualsiasi altra potenza europea o extraeuropea. Tali guerre sono state praticamente sempre di aggressione e molte hanno drammaticamente coinvolto anche le popolazioni civili dei Paesi aggrediti. L'Italia ha alcuni non invidiabili primati, come l'uso dell'aviazione, non solo in operazioni militari, in Libia, ma anche a scopo terroristico sulle popolazioni civili del «nemico», sempre in Libia e in Etiopia. Il primo teorico dell'uso strategico dei bombardamenti terroristici sui civili, e dell'arma aero-chimica per piegare la resistenza di uno Stato nemico, fu proprio un generale italiano, Giulio Douhet (Giulio Douhet, Il dominio dell'aria: saggio sull'arte della guerra, Stabilimento poligrafico per l'amministrazione della guerra, Roma, 1921, pagina 57; Giulio Douhet, La guerra integrale, Franco Campitelli Editore, Roma, 1936, pagina 326). L'Italia è stata la prima ad utilizzare, sempre in Etiopia, massicciamente e mediante l'arma aerea, gli strumenti della guerra chimica, come i gas asfissianti ed urticanti, predisponendo, su esplicito suggerimento di Mussolini, persino l'uso dell'arma batteriologica, per fortuna poi non impiegata (Giorgio Rochat, L'impiego dei gas nella guerra d'Etiopia, 1935-1936, in Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, opera citata, pagina 61). L'Italia introdusse tecniche utilizzate successivamente dai francesi nella lotta contro i patrioti algerini negli anni `60, e attualmente da Israele nei confronti dei palestinesi, come la costruzione in Libia, nel 1931, lungo il confine con l'Egitto, di un «muro» separatorio, che doveva segregare la popolazione indigena. Tale opera andava dalla costa fino al deserto ed era costituita da una rete di recinzione fatta di filo spinato, lunga 270 chilometri e larga 4 metri, sorvegliata da posti di guardia. Inoltre, l'Italia è stata la prima a introdurre i campi di concentramento, in Libia. Nei Balcani, è stata la prima a sperimentare l'odiosa pratica della «pulizia etnica», per sostituire gli abitanti autoctoni con individui di etnia italiana, che è stata tragicamente imitata in periodi più vicini a noi, proprio in quegli stessi territori. Massacri, saccheggi, spoliazioni sistematiche,
 

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distruzione di intere economie, riduzione delle popolazioni conquistate in vere «riserve indiane» sono state le pratiche usuali del colonialismo italiano. Tali pratiche, sperimentate con successo nelle colonie africane, sono state estese alle popolazioni europee dei territori occupati, durante la seconda guerra mondiale. L'elemento in comune, che giustificava i trattamenti accennati, era che gli africani, come gli slavi ed i greci, erano considerati dagli italiani appartenenti al novero delle «razze inferiori». Il razzismo, infatti, non fu una tarda imitazione da parte del fascismo del nazismo, ma il prodotto di una elaborazione autonoma, che, secondo le parole di Mussolini, doveva far coincidere razza, nazione e Stato (Davide Rodogno, opera citata, pagina 322).
      Sarebbe scorretto, però, se vogliamo veramente fare i conti con la nostra storia e con la nostra coscienza di italiani, tracciare «crocianamente» una netta cesura tra i fatti precedenti e quelli successivi all'affermazione del fascismo. In realtà, esiste una continuità, ben rappresentata dal colonialismo e dalla tendenza alla guerra, tra lo Stato liberale e quello fascista. Del resto, proprio la non completa fascistizzazione di quel regio Esercito, che qualitativamente, come rilevano molti storici, si comportò nei confronti delle popolazioni sotto occupazione esattamente come la Wehrmacht, oltre a smentire il carattere generalmente umanitario dell'italiano, dimostra la continuità tra le istituzioni liberali e quelle fasciste (Davide Rodogno, opera citata, pagina 493). Scrive, al proposito, Rodogno: «Nella pratica della repressione, la fenomenologia e la tipologia delle azioni concrete previste e realizzate dalle forze italiane non furono diverse da quelle riscontrabili nella Wehrmacht, nelle forze delle SS e delle forze di polizia tedesca coinvolte in azioni analoghe» (Davide Rodogno, opera citata, pagina 398).
      L'aggressività verso Paesi più deboli ed arretrati caratterizza la storia post-unitaria, avendo come sostrato un imperialismo industriale che, già prima dello scoppio della prima guerra mondiale, si rivolgeva verso l'area del Mediterraneo, in particolare verso i Balcani e il nord Africa, e verso il Corno d'Africa (Richard A. Webster, L'imperialismo industriale italiano, Einaudi, Torino, 1974). Lo sviluppo dell'industria pesante trovò sostegno nello Stato e nello stretto collegamento di questo con i principali gruppi del capitale finanziario, alimentandosi proprio con le continue guerre d'aggressione e con le operazioni coloniali (Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Città del Sole, Napoli, 2000). Una definita politica di potenza fu stilata immediatamente prima dell'entrata in guerra, nel 1914, dal gruppo dei «nazionali-liberali», che dichiaravano di volere «una Italia potente negli armamenti e nella politica estera, non soltanto ai fini della difesa, ma di una necessaria espansione» (Giovanni Amendola, La crisi dello stato liberale, citato in Aldo A. Maiola, L'imperialismo italiano, Editori Riuniti, Roma, 1980, pagina 42).
      Il fascismo ha rappresentato solo il continuatore più conseguente e coerente di una tendenza già affermata e rinforzata dalla terribile prova della prima guerra mondiale. Il fascismo, però, non si limitò a continuare l'attività coloniale dell'Italia liberale, ma cercò di organizzarla in un progetto imperiale, in cui le province occupate andavano a costituire lo «spazio vitale» della nazione, secondo un piano che Rodogno definisce come «nuovo ordine mediterraneo». In questo tentativo, portato avanti anche in concorrenza con lo strapotere dell'alleato tedesco, il fascismo e l'Italia esercitarono una violenza che, rispetto a quella dei nazisti, era inferiore solo per disponibilità di mezzi, denaro e tecnologie. Il controllo sui territori occupati, anche in Europa, venne esercitato scartando le soluzioni di compromesso, attraverso il ricorso continuo al terrore come metodo privilegiato di pacificazione (Giorgio Rochat, L'attentato a Graziani, pagina 184).
      Gli esordi coloniali dell'Italia, sin dagli anni ottanta e novanta dell'800, nella sua prima colonia, l'Eritrea, furono già significativi dell'esercizio disinvolto della violenza e della brutalità. Si faceva ricorso a
 

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metodi repressivi spicci, come «l'abuso costante di tribunali militari straordinari, le fucilazioni sommarie, le repressioni segrete (...), le deportazioni in Italia, il mancato rispetto per le stesse leggi vigenti in colonia» (Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, opera citata, pagina 74). Vi furono fatti eclatanti come la strage di 800 abissini già assoldati dal Governo italiano della colonia eritrea e sospettati di voler disertare, azione per cui i colpevoli furono assolti e lo scandalo soffocato. Particolarmente disumana era la condizione dei detenuti nelle carceri coloniali, tra cui spiccava quello dell'isola di Nocra, al largo di Massaua, dove venivano rinchiusi i detenuti politici che non accettavano la dominazione italiana. Inoltre, anziché condurre la lotta allo schiavismo, avanzata come giustificazione del colonialismo europeo, sotto il dominio italiano in Somalia gli schiavi venivano regolarmente comprati e venduti con il beneplacito delle autorità. La tragica sconfitta di Adua nel 1896, la prima sconfitta di un esercito europeo ad opera di uno africano, costata più morti di tutte le guerre d'indipendenza, non servì da lezione e la politica coloniale non si arrestò. Nel 1900 l'Italia partecipò alla missione delle potenze colonialiste in Cina contro la rivolta dei Boxer, che si opponevano allo sfruttamento del loro Paese. Nonostante la costante preoccupazione di apparire diversi dagli altri partecipanti, «il contingente italiano prese parte, con altri contingenti, a stragi, a saccheggi, a incendi di interi abitati, alla decapitazione pubblica di boxer oppure presunti tali» (Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, opera citata, pagina 100). Agli italiani toccarono come quota del bottino 26.000 dollari. L'ultima rapina ai danni della Cina fu l'imposizione di un indennizzo per le spese sostenute di cui spettarono 99.813.168 lire all'Italia, cui fu riconosciuta anche la concessione di Tianjin.
      Il colonialismo italiano riprese in grande stile nel 1912 con l'invasione della Libia, all'epoca parte dell'impero turco. Contrariamente a quanto previsto dalla propaganda colonialista dei nazionalisti, mirante a presentare gli italiani come benefattori e liberatori, gli arabi si schierarono in combattimento dalla parte dei turchi. La rappresaglia contro il «traditore» arabo provocò 4.000 morti e la moltiplicazione delle forche per le impiccagioni collettive. Altri 4.000 libici, compresi alcuni bambini, spesso arrestati senza la minima prova di colpevolezza, furono deportati nelle Tremiti e ad Ustica, dove morivano a centinaia per la denutrizione e il colera. Dopo la firma del trattato di pace con la Turchia, che assegnava la Libia all'Italia, il 90 per cento del territorio rimaneva, però, fuori dal controllo italiano e percorso dalla guerriglia, contro la quale si ricorse all'erogazione di centinaia di sentenze capitali. Incapaci a vincere la resistenza araba, e costretti a ripiegare sulla costa, gli ufficiali italiani si lasciarono andare a «cose sbalorditive: arabi trovati feriti gravemente ed inondati di benzina e bruciati; altri gettati in pozzi e chiusivi dentro; altri fucilati senza altra ragione che quella di un feroce capriccio. Vi sono ufficiali che si incaricano personalmente di simili esecuzioni. Altri che depredano sistematicamente paesi non ribelli» (Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, opera citata, pagina 120). L'analogia con quanto il nostro Paese ha dovuto subire nel corso dell'occupazione nazista viene spontanea.
      Lo sconvolgimento della prima guerra mondiale non attenuò la volontà di espansione e di dominio, anzi la esacerbò, sull'onda del mito della «vittoria mutilata» diffuso dai nazionalisti, che costituirono la base di affermazione del fascismo. La nomina del quadrumviro De Vecchi a governatore della Somalia destabilizzò una colonia fino a quel momento tranquilla, che venne percorsa da colonne che la misero a ferro e fuoco e la trasformano in un campo di battaglia. Particolarmente efferati furono la repressione e il bombardamento della moschea di Eli Hagi. Parteciparono alla repressione gli squadristi fascisti che erano anche i proprietari terrieri del comprensorio di Genale, dove 7.000 contadini lavoravano come schiavi in condizioni tanto miserevoli che molti morivano di stenti.
 

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      La repressione italiana raggiunse livelli sistematici, degni delle operazioni naziste in Russia, durante la «riconquista della Libia», iniziata dai governi liberaldemocratici e proseguita con un ritmo più accelerato dal fascismo, sotto il comando di Graziani. Questi, prima schiacciò il Fezzan, bombardando e mitragliando con gli aerei le popolazioni in fuga verso l'Algeria, poi si rivolse alla Cirenaica. Qui, per piegare le popolazioni, ricorse alla deportazione in massa nei campi di concentramento di 100.000 libici, cifra equivalente allo sgombero totale del Gebel Achdar e della Marmarica e pari alla metà degli abitanti della Cirenaica. Gli abitanti di questa area diminuirono, tra il 1911, data del censimento turco, e il 1931, quando fu effettuato il censimento italiano, di 60.000 unità, di cui 20.000 fuggiti in Egitto e 40.000 deceduti per i rigori della guerra, della deportazione e della prigionia, facendo raggiungere le dimensioni di un vero genocidio. La vita nei lager era caratterizzata da fame, epidemie, violenze sessuali sulle donne, esecuzioni pubbliche. Alla deportazione, come accennato, gli italiani aggiunsero la segregazione della Libia dall'Egitto con un lungo muro di filo spinato che da Porto Bardia arrivava a Giarabub. Quella portata avanti in Libia fu la distruzione di una intera società, a partire dalla sua economia, quella tradizionale degli allevatori del Gebel, allo scopo di trasformare questi ultimi in una riserva di manodopera a basso costo sempre disponibile per i grandi proprietari agricoli italiani. La popolazione fu espulsa dalle terre migliori e respinta verso quelle aride e steppose vicino al deserto, condannandola ad una nomadismo ai limiti della sussistenza (Davide Rodogno, opera citata, pagina 399). Riconquistata la Libia, l'Italia, presa in un vortice espansivo, si imbarcò nel 1935 in una nuova guerra, ancora più impegnativa, contro l'Etiopia, un Paese più popolato e con una struttura statuale più forte, senza curarsi dell'aumento enorme delle spese militari, che determinava l'espansione incontrollata del debito pubblico, impoverendo la massa dei cittadini e arricchendo al contempo i grandi gruppi dell'industria pesante, che rifornivano le Forze armate. Questa guerra si caricò, inoltre, di un valore aggiunto di violenza per il significato attribuitogli di vendetta della sconfitta di Adua, il cui ricordo era ancora vivo e cocente negli ambienti nazionalisti e colonialisti. In sette mesi l'esercito di invasione italiano, comandato da Badoglio, schiacciò le armate etiopiche, conducendo una guerra «con il doppio o il quadruplo dei mezzi necessari (...) da nazione moderna, industriale. Una guerra d'annientamento, che deve chiarire, una volta per tutte, che gli italiani tenuti per troppo tempo lontani dalla torta africana non hanno tempo da perdere» (Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, II. La conquista dell'impero, Mondadori-Laterza, Roma-Bari, 2002, pagina 554). Quando anche i mezzi da nazione industrializzata (aerei, carri armati, mezzi motorizzati), usati contro un esercito arretrato, non davano i frutti attesi nei tempi sperati, si ricorse ad un uso sistematico delle armi chimiche rivolto non solo contro i combattenti, non importa che fossero in fuga o meno, ma esteso anche alle popolazioni civili, i cui villaggi erano già oggetto di bombardamenti incendiari, alle mandrie, ai campi, perché bisognava fiaccare col terrore la resistenza della nazione etiope. Interi territori, compresi fiumi e laghi, vennero irrorati dall'alto mediante diffusori montati sui velivoli (Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, opera citata, pagine 129-130), e, del resto, «Lo zelo di Badoglio nel trasformare la guerra coloniale nel genocidio di un popolo è di continuo alimentato dagli interventi di Mussolini che lo sollevano da ogni responsabilità» (Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, opera citata, pagina 488). Tutto ciò malgrado l'Italia fosse firmataria di un trattato internazionale, ratificato nel 1928, contro l'impiego di armi chimiche e batteriologiche. Mussolini ordinò anche di non rispettare i contrassegni della Croce Rossa, permettendo la distruzione di diciassette installazioni mediche, e favorì lo scatenamento dell'odio religioso delle truppe musulmane libiche contro i cristiano-copti
 

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etiopici. Secondo fonti italiane, la guerra si concluse con circa 9.000 morti, dalla parte italiana, e con un numero di morti tra 55.000 e i 70.000, dalla parte abissina. Secondo fonti di Addis Abeba, invece, i morti abissini furono 275.000, comprendendo però nel computo anche i civili (Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, opera citata, pagine 719-720).
      Dopo l'ingresso ad Addis Abeba, rimasero da occupare i due terzi del Paese, dove era diffusa la guerriglia. A sostituire Badoglio venne chiamato Graziani, che procedette a continue esecuzioni sommarie, rappresaglie con l'uso dei gas, incendi di villaggi e chiese, deportazioni di intere comunità in campi di concentramento. I capi catturati, compreso il genero dell'imperatore, non vennero considerati prigionieri di guerra, ma passati immediatamente per le armi. Il tentativo di spezzare l'esistenza stessa della nazione etiopica portò a cercare di eliminare tutta l'élite etiopica, impartendo l'ordine di fucilazione per tutti i «giovani etiopici», i cadetti della scuola militare di Olettà ed i giovani laureati all'estero, precedendo in questo i sistematici massacri dell'élite intellettuale e politica russa, intrapresi dai nazisti nel corso dell'invasione dell'Unione Sovietica (Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, opera citata, pagina 209). In questo clima di esasperazione ebbe luogo, il 19 febbraio 1937, l'attentato contro Graziani, che vi rimase ferito. L'avvenimento diede avvio a una repressione e a massacri di ampiezza incredibile. Il giorno stesso dell'attentato, secondo testimonianze oculari raccolte da Del Boca, «Tutti i civili che si trovavano ad Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e sbarre di ferro accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada (...) Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara ed innocente (...)». Alla mattanza parteciparono non solo soldati e camicie nere, ma anche persone comuni, che mai fino ad allora si sarebbero dette capaci di esprimere una tale violenza, e che «In genere davano fuoco ai tucul con la benzina e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi» (Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, opera citata, pagina 211). Con la scusa dell'attentato, Graziani eliminò gran parte dell'intellighenzia etiopica. Secondo i giornali occidentali dell'epoca, le vittime oscillarono tra le 1.400 e le 6.000. Secondo gli etiopici si arrivò a 30.000 uccisi, cifra che comprende, secondo Del Boca, tutte le uccisioni seguite all'attentato. Particolarmente efferata fu la distruzione della città conventuale di Debrà Lebanos, falsamente accusata di essere la base degli attentatori, ad opera di una colonna italiana che nel suo percorso distrusse decine di migliaia di tucul, tre chiese e un convento. Arrivata a Debrà Lebanos la colonna sterminò tutto il clero cristiano-copto, circa 2.000 tra monaci, sacerdoti e studenti di teologia furono fucilati. «Mai, nella storia dell'Africa» - conclude Del Boca - «una comunità religiosa aveva subito uno sterminio di tali proporzioni» (Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, opera citata, pagina 221). Senza che la situazione in Etiopia si fosse del tutto stabilizzata, nonostante le perdite ed i costi subiti e le violenze inflitte, il fascismo si rivolse immediatamente a un'altra avventura. In Spagna, nel 1936, appoggiò il colpo di Stato militare di Franco contro il legittimo Governo repubblicano, inviando circa 150.000 uomini e mezzi in abbondanza. Importante fu il contributo dell'aviazione fascista, sul cui operato si è però osservato, per decenni, il più stretto riserbo. Famoso è rimasto il violento bombardamento aereo terroristico di Barcellona, il giorno 28 gennaio 1938, allo scopo di piegare lo spirito di resistenza degli abitanti. Ciano annotò sui suoi diari: «Non ho mai letto un documento così realisticamente terrorizzante: eppure erano soltanto 9 S. 79 e tutto il raid è durato un minuto e mezzo. Palazzi polverizzati, traffico interrotto, panico che diventa follia: 500 morti e 1.500 feriti» [sito web dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia (ANPI)]. Da notare anche i fatti avvenuti nell'isola di Maiorca, dove lo
 

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squadrista Bonaccorsi, inviato da Mussolini per stroncarvi la resistenza repubblicana, fra il settembre 1936 e il marzo 1937, al comando dei «dragoni della morte», mise a morte 3.000 persone, per lo più senza processo.
      La spinta aggressiva e imperialista dell'Italia trovò la sua massima espressione nella seconda guerra mondiale, del cui scoppio il nostro Paese fu tra i maggiori responsabili. L'Italia attaccò alle spalle la Francia, già messa in ginocchio dai nazisti, partecipò al bombardamento delle città inglesi nel '41, inviando diversi stormi aerei, e aggredì Grecia e Jugoslavia, per poi partecipare all'invasione nazista dell'Unione Sovietica. I metodi sperimentati con tanto successo contro i civili in Africa e in Spagna vennero applicati nei Paesi europei occupati, che andavano ridotti, secondo i progetti del fascismo, a vere e proprie colonie, nelle quali la popolazione indigena doveva essere sostituita o completamente subordinata alla nuova razza di padroni che il fascismo si vantava di aver prodotto. Particolarmente feroce fu la politica di occupazione condotta nei Balcani e soprattutto in Slovenia e in Dalmazia. Qui il generale Roatta, comandante della 2a Armata, scrisse esplicitamente che la guerra era di tipo coloniale e che andava combattuta anche con mezzi sproporzionati rispetto agli obiettivi. Famosa è rimasta la circolare 3C del 1o dicembre 1942, sul trattamento da usare nei confronti delle popolazioni e dei partigiani nel corso delle operazioni. In essa, al capitolo II della parte seconda, recante «Misure precauzionali nei confronti della popolazione», si prevedeva l'internamento di famiglie e di intere popolazioni rurali, si prescriveva alle truppe italiane di prendere ostaggi, si ordinava di considerare corresponsabili gli abitanti di case nelle cui vicinanze venivano compiuti attentati, internandoli, confiscando il bestiame e distruggendo le loro case, si incitava a passare per le armi gli ostaggi in caso di aggressioni ad italiani. Si assicuravano, infine, i membri dell'Armata che «gli eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti», riassumendo che il trattamento da fare ai partigiani non dovesse essere sintetizzato dalla formula «dente per dente», ma da quella «testa per dente». Comunque, la circolare 3C non fu un episodio circoscritto determinato da un comandate particolarmente fedele al fascismo, ma misure analoghe furono adottate anche in Francia, Montenegro, Grecia e Albania (Davide Rodogno, opera citata, pagina 415). Il lavoro sporco che in Africa veniva spesso delegato alle truppe coloniali eritree e alle bande galla, nei Balcani fu svolto direttamente dagli italiani. Numerosi furono i villaggi croati e dalmati annientati dalle colonne delle divisioni del regio Esercito, che si diedero ad esecuzioni sommarie, incendi, razzie, saccheggi e stupri. Ciononostante, il generale Robotti, alle dipendenze di Roatta al comando dell'XI Corpo d'armata, avvertiva i suoi subordinati che «si ammazza troppo poco» e, contro ogni convenzione internazionale, i medici civili, che prestassero cure a feriti senza denunciarli ai carabinieri, venivano minacciati di morte (Ufficio operazioni, P. M.: 46, 21 luglio 1942 - XX, Oggetto: favoreggiamento all'attività dei ribelli). A questo si aggiunsero le deportazioni di massa e lo sgombero di intere regioni della Slovenia. Secondo fonti slovene 35.000 persone, il 10 per cento della popolazione della provincia di Lubiana, furono deportate in pochi mesi. Molti furono i campi di concentramento, 24 quelli sotto il controllo della 2a Armata, tra cui quello famigerato di Arbe, dove c'era un tasso di mortalità del 19 per cento, ovvero da campo di sterminio, superiore persino a quello di Buchenwald, che era del 15 per cento, e dove morirono tra le 3.500 e le 4.500 persone (Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, opera citata, pagina 243). Il numero totale degli jugoslavi internati oscillò tra i 100.000 ed i 150.000, molti dei quali deportati anche in Italia (Davide Rodogno, opera citata, pagina 417). Campi di concentramento furono istituti in ogni Paese occupato dall'Italia, in Albania, Montenegro, Grecia, Corsica e Francia. Come sostiene Del Boca, in Slovenia si mise in atto una vera e propria «pulizia etnica», successivamente
 

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alla quale gli italiani avrebbero dovuto sostituire gli slavi nell'occupazione di quel territorio. Ciò è confermato anche da quanto scrive Rodogno: «L'internamento di massa e la politica della terra bruciata furono dettati dall'esigenza di sbalcanizzazione e di bonifica etnica e, almeno per quanto riguarda i territori annessi, obbedirono allo scopo di un imminente colonizzazione italiana. (...) L'operazione oltrepassò chiaramente gli obiettivi di mantenimento dell'ordine e di repressione del movimento ribelle, sembrò piuttosto voler preparare il terreno per l'imminente colonizzazione di una provincia che nulla aveva di italiano» (Davide Rodogno, opera citata, pagine 401-403). La deportazione degli sloveni ricalcò le condizioni della deportazione già sperimentata da Graziani con i libici. L'italianizzazione forzata dei territori sloveno e dalmata, inoltre, prevedeva anche l'espulsione di tutti i funzionari slavi, la scuola differenziata per etnia, in un modello tipicamente da apartheid. È sulla base di questi presupposti, massacri, devastazioni e deportazioni, perpetrati dall'Italia, Paese aggressore - non va dimenticato -, che va inquadrata la tragedia delle «foibe». In tempi recenti ci si è riferiti alla tragedia delle «foibe» isolandola dal tempo e dallo spazio in cui è avvenuta. In questo modo, si è voluta cancellare la memoria delle cause profonde che l'hanno generata: la snazionalizzazione antislava e l'annessione della Jugoslavia del nord ovest, con le conseguenti violenze di ogni genere, perpetrate sistematicamente dall'imperialismo fascista contro uomini, donne e bambini di quelle terre.
      Ai crimini perpetrati in Jugoslavia vanno aggiunti quelli denunciati dalla Grecia nel 1945 a carico dell'Italia. In primo luogo, i bombardamenti terroristici contro numerose città greche al momento dell'aggressione; poi la denazionalizzazione delle isole jonie, l'inquadramento militare delle minoranze presenti in territorio greco contro la popolazione greca, la politica del massacro e l'azzeramento delle distinzioni tra civili e gruppi combattenti, che portarono alla distruzione di 400 villaggi e ad eccidi come quelli di Domenikon e Neapolis, la costruzione del campo di concentramento di Larissa, riempito di ostaggi e rastrellati e dove ci furono 1.000 fucilati (Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco, Mondadori, Milano, 2006, pagine 106-107). L'Italia, applicando una politica di razzia e saccheggio di tutte le risorse alimentari, fu responsabile, insieme alla Germania, della grave carestia che nel 1941 si abbatté su Atene e che provocò circa 100.000 vittime (Davide Rodogno, opera citata, pagina 313). In Macedonia occidentale e in Kosovo, l'Italia favorì l'albanizzazione forzata, che condusse a esecuzioni sommarie di massa e all'esercizio della «pulizia etnica» da parte degli albanesi a danno dei serbi e degli slavi. La politica di razzia e di rapina, basata sul sequestro illegale della produzione industriale, fu estesa anche alla Francia, che non beneficiò di alcun trattamento di favore rispetto ai Balcani, essendo entrambi considerati parte dello stesso «spazio vitale» (Davide Rodogno, opera citata, pagine 310 e 322).
      Alla fine della guerra, la Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra (UNWCC) inviò al Governo di Roma la lista dei presunti criminali da estradare e da sottoporre a processo. La documentazione più abbondante venne presentata dalla Jugoslavia, ma non mancarono richieste anche dalla Grecia e dall'Albania. Nella lista dell'UNWCC, 111 nominativi vennero presentati dalla Grecia, 142 dall'Albania, 729 dalla Jugoslavia, 863 dagli alleati (30 dalla Francia), per un totale di 1.857, di cui 997 solo per i crimini contro i civili, il che fornisce una misura evidente di quanto avvenuto, soprattutto nei Balcani, nel corso dell'occupazione italiana (Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco, opera citata, pagina 35). A questi si aggiunsero 12 criminali richiesti dal Governo sovietico, che non aderiva all'UNWCC, per «fucilazioni sommarie, torture, incendi, saccheggi, distruzioni di ospedali e riduzione alla fame di intere città. Già in Unione Sovietica erano stati processati e condannati per crimini di guerra sette militari italiani» [Costantino Di Sante (a
 

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cura di), Italiani senza onore, Ombre Corte, Verona, 2000, pagina 27].
      I criminali di guerra italiani richiesti da questi Governi non furono puniti. Ad esempio, nel processo che vide Graziani come imputato, mancò qualsiasi riferimento ai crimini commessi in Africa e la richiesta di estradizione presentata dall'Etiopia fu respinta. Roatta venne fatto evadere di prigione, dove era stato rinchiuso non per i crimini in Jugoslavia ma per i metodi impiegati quando era capo dei servizi segreti fascisti. Fuggì nella Spagna franchista e vi rimase fino a quando, amnistiato, poté ritornare in Italia. Significativo anche il caso del generale Taddeo Orlando che, al comando della XXI divisione granatieri di Sardegna, si distinse per ferocia nei rastrellamenti. Orlando, anziché essere consegnato agli jugoslavi, fu nominato segretario generale del Ministero della difesa, dopo essere stato comandante generale dell'Arma dei carabinieri. Nel 1951 i procedimenti a carico dei «presunti criminali di guerra italiani» vennero definitivamente archiviati.
      Questo l'elenco delle cifre e dei fatti dell'orrore; che è solo parziale, dato lo stato arretrato degli studi, ad esempio riguardo alla campagna di Russia. Basta, comunque, a porre l'Italia nel novero delle nazioni europee e non europee che si sono macchiate, nel corso dell'espansione colonialista e delle guerre del '900, di crimini e di massacri. Sarebbe inutile fare una graduatoria, anche se la voracità e l'aggressività italiane, tra la fine dell'800 e il 1943, sono state certamente superiori ai mezzi tecnici modesti, in rapporto ad altre potenze, messi in campo e che l'imperialismo italiano non è stato per nulla «straccione» nella sua capacità di infliggere sofferenze alle «razze inferiori». Sicuramente, però, in una cosa gli italiani si sono distinti, vale a dire, come rileva Del Boca, «per il continuo ricorso allo strumento autoconsolatorio, il mito degli italiani brava gente, che ha coperto, e continua a coprire, tante infamie» (Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, opera citata, pagina 294).
      Gelosamente tesi a difendere queste prerogative, anche dopo la seconda guerra mondiale, i Governi italiani non accolsero le richieste di estradizione. Anzi, si cercò di evitare a tutti i costi ogni pubblicità sulla questione, per difendere l'immagine internazionale di un Paese che, sebbene aggressore e responsabile dello scoppio della guerra, era riuscito in qualche modo a riscattarsi con la cobelligeranza e la Resistenza. Ma il danno vero, che si cercò di evitare, fu quello che sarebbe stato inferto al processo di normalizzazione interna. Mettere sotto processo alti ufficiali italiani avrebbe voluto dire mettere sotto accusa una parte di quella classe dirigente che era ancora al potere. Una parte cospicua di quei vertici delle Forze armate e della burocrazia statale che, non epurata, permetteva il mantenimento di una linea di continuità tra l'apparato statuale dell'epoca fascista e quello dell'epoca repubblicana. Pensiamo, ad esempio, che Roatta e Ambrosio, protagonisti del «colpo di Stato» reale che portò il 25 luglio all'arresto di Mussolini, verranno destituiti da Badoglio, dai rispettivi incarichi di capo di stato maggiore delle Forze armate e dell'Esercito, solo su pressione degli Alleati a loro volta sollecitati dagli jugoslavi. Significative furono le indicazioni espresse subito dopo la guerra dall'ambasciatore a Mosca, Quadroni, al Ministero degli esteri italiano non solo sulla possibilità concreta delle estradizioni e dei processi, ma anche sul pericolo costituito dall'avanzare richieste di estradizione nei confronti di ufficiali tedeschi che si fossero macchiati di crimini in Italia. Tali richieste, infatti, avrebbero legittimato e autorizzato le stesse richieste da parte degli jugoslavi, rispetto alle quali invece il Governo italiano opponeva resistenza (Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, opera citata, pagine 18-21). Da qui l'origine del «baratto» tra i criminali italiani e quelli nazisti, e la vicenda amara dell'«armadio della vergogna», in cui vennero custodite e occultate tutte le denunce contro i criminali nazisti.
      Oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, è finalmente ora di fare i conti con la nostra storia e con le nostre «marzabotto»,
 

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riconoscendo che gli italiani non sono, per una loro innata natura, immuni da razzismo, violenza, spirito di rapina e di saccheggio. Ciò è tanto più importante nel momento in cui le Forze armate italiane sono continuativamente impiegate all'estero e in condizioni operative delicate che le portano a contatto con le popolazioni civili straniere. Del resto, pur in un contesto profondamente mutato, e senza voler fare alcun parallelismo storico, non sono mancate situazioni che hanno portato i soldati italiani a partecipare a combattimenti, in cui sono stati coinvolti anche civili, come nel corso della battaglia al check point «Pasta» il 2 luglio 1993. E, sempre in Somalia, non sono mancate denunce sul comportamento dei soldati italiani verso i civili. Istituire una giornata dedicata specificamente al ricordo dei crimini del fascismo italiano e delle sue vittime può essere di aiuto nel rafforzare nei cittadini italiani, specie in quelli più giovani, una coscienza civica democratica e basata sul rispetto tra etnie diverse, che contribuisca ad impedire che quanto accaduto nel passato possa un giorno ritornare, anche se sotto altre vesti e insegne. Nello stesso tempo, una giornata della memoria può aiutare a ristabilire o a rafforzare i rapporti di amicizia che devono legare la Repubblica nata dalla Resistenza con i Paesi che hanno subìto le violenze del colonialismo e dell'aggressione italiani, e che attendono da anni dei segni concreti ancorché simbolici in riparazione di quanto avvenuto. Abbiamo voluto scegliere come giornata simbolo della memoria delle vittime del fascismo, il 10 giugno, la data del rapimento e dell'assassinio, su mandato di Benito Mussolini, del deputato socialista Giacomo Matteotti, per individuare nella affermazione della violenza del fascismo in Italia il punto d'inizio del suo scatenamento anche a livello internazionale.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. La Repubblica riconosce il 10 giugno, anniversario del rapimento e dell'omicidio del deputato Giacomo Matteotti, quale «Giornata della memoria delle vittime del fascismo».
      2. In occasione della «Giornata della memoria delle vittime del fascismo», le istituzioni pubbliche promuovono e organizzano manifestazioni e cerimonie ufficiali per commemorare tutte le vittime dei crimini fascisti, favorendo, in particolare, la realizzazione di convegni, mostre e pubblicazioni nelle scuole di ogni ordine e grado.


Frontespizio Relazione Progetto di Legge
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