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PDL 2320

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 2320



 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

d'iniziativa dei deputati

BUEMI, VILLETTI, BOSELLI, LA MALFA, BARANI, CALDAROLA, NUCARA, ANTINUCCI, BELTRANDI, BUGLIO, CAPEZZONE, CREMA, DEL BUE, D'ELIA, DI GIOIA, MANCINI, MELLANO, ANGELO PIAZZA, PORETTI, SCHIETROMA, TURCI, TURCO

Modifica degli articoli 104, 105, 106 e 107 della Costituzione. Istituzione di una magistratura giudicante e di una magistratura requirente, reciprocamente autonome

Presentata il 2 marzo 2007


      

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Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge ha lo scopo di adeguare finalmente l'ordinamento italiano ai princìpi della democrazia liberale, istituendo una magistratura giudicante e una magistratura requirente, reciprocamente autonome.
      Quanto avvenuto nella scorsa legislatura e quanto sta avvenendo in quella corrente in tema di riforma della giustizia, e in particolare riguardo alla cosiddetta «separazione delle carriere», ha mostrato come sia difficile intervenire su questa materia ma, allo stesso tempo, quanto sia necessario farlo. In realtà, le ragioni a favore di una vera separazione delle carriere di giudice e di pubblico ministero sono molte e di notevole rilievo sia processuale sia, soprattutto, politico-costituzionale. Dato che da varie parti si è sostenuta l'impossibilità di procedere in questa direzione senza una modifica costituzionale, sono qui formulate alcune proposte in merito.

Le ragioni della separazione sono diverse.

      La prima ragione, anche se forse non in ordine di importanza, è la costituzionalizzazione del modello accusatorio di processo introdotta dalla modifica dell'articolo 111

 

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effettuata con la legge costituzionale n. 2 del 1999. In realtà, gli ultimi decenni hanno visto una tendenza verso l'adozione di forme processuali accusatorie non solo in Italia, ma anche in Paesi che tradizionalmente facevano affidamento su forme inquisitorie. Le ragioni di questa tendenza sono svariate. Fra queste ci sono certamente la ricerca di una maggiore libertà di azione per il pubblico ministero - e così una maggiore efficienza del sistema processuale - e di una migliore tutela delle libertà di coloro che sono sottoposti ad indagine e anche la volontà di introdurre un contrappeso al potere giudiziario. Soprattutto, un assetto accusatorio sembra tutelare meglio l'imparzialità del giudice.
      Alla base di questa tendenza vi è quindi una minore considerazione dei sistemi inquisitori dell'Europa continentale. In realtà, anche se i sistemi processuali dei Paesi di civil law possono essere considerati, più che inquisitori, misti, nel senso che al loro interno si può distinguere una fase inquisitoria - di solito quella istruttoria - ed una accusatoria - il dibattimento -, è l'elemento inquisitorio che vi tende a prevalere. Sono, infatti, assetti che si basano su un ruolo giudiziario piuttosto attivo: si pensi, ad esempio, al giudice istruttore della tradizione francese, che anche in Italia ha avuto un ruolo importante fino alla riforma del 1988. Il ruolo del pubblico ministero appare qui di regola poco differenziato da quello del giudice, connotato in misura significativa da caratteri quali la neutralità o l'imparzialità. Spesso giudice e pubblico ministero svolgono compiti simili, almeno nella fase istruttoria, e anche in seguito si instaura una sorta di divisione del lavoro, che però li vede agire entrambi «a fini di giustizia», cioè con lo stesso obiettivo. In questa situazione, per proteggere l'imparzialità del giudice - ed in particolare la sua immagine, messa in pericolo dal suo attivismo inquisitorio e dalla sua vicinanza al pubblico ministero - si ricorre per lo più a strumenti che tentano di ancorare i suoi comportamenti e le sue decisioni a norme giuridiche. Si pensi all'uso molto esteso dell'appello o all'importanza che spesso assume in questi sistemi il controllo gerarchico da parte di giudici superiori. Così, la legittimità del decisore si basa prevalentemente sul richiamo a norme giuridiche, la cui osservanza viene gerarchicamente controllata. Dato che queste norme sono di solito emanazione di organi politicamente responsabili, si ha anche l'ulteriore vantaggio di conseguire una forma di legittimazione politica, particolarmente importante in un sistema democratico. Gli ultimi decenni, in Italia e non solo, hanno però visto mettere in discussione l'efficacia e la legittimità dei controlli gerarchici, considerati - non senza ragione - una potenziale fonte di interferenza per l'indipendenza del giudice. Inoltre, il declino dell'efficacia della norma giuridica come strumento di controllo dell'operato dei magistrati requirenti (e inquirenti) è ormai emerso più o meno nettamente in tutti i contesti. Il garantismo inquisitorio, accompagnato magari dalla cosiddetta «personalizzazione delle funzioni», è sembrato sempre meno capace di limitare eccessi e abusi.
      Un assetto accusatorio presenta invece degli indubbi vantaggi. La sua configurazione chiaramente triangolare permette di proteggere in modo molto più efficace l'imparzialità del giudice e di favorire così un'effettiva risoluzione delle controversie. Inoltre, un assetto accusatorio introduce all'interno del processo penale il principio della divisione del potere, concepita come separazione fra istituzioni reciprocamente autonome. A questo riguardo una rapida considerazione dei classici del pensiero costituzionale è sempre istruttiva. Già Montesquieu denunziava lo stato delle repubbliche dell'antichità dove «il y avait cet abus, que le peuple était en même temps et juge et accusateur». Invece, dove c'è separazione, le libertà del cittadino-imputato si trovano ad essere garantite dall'equilibrio di potere che si viene a creare all'interno del processo. Inoltre, il fatto di separare giudice e pubblico ministero riduce in modo «fisiologico» il potere della magistratura, elemento di grande importanza in sistemi politici demo-costituzionali. È
 

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sempre Montesquieu a criticare l'assetto istituzionale di Venezia, dove «tribunaux différents sont formés par des magistrats du même corps; ce qui ne fait guère qu'une même puissance».
      Infatti, in un regime di democrazia costituzionale, l'indipendenza del giudice - e il potere di cui dispone - si giustifica proprio per i limiti che incontra il suo operare e uno dei limiti principali è proprio quello di non disporre della «spada», dell'iniziativa penale. In quella che è ancora oggi una delle difese più convincenti dell'indipendenza della magistratura, «Il Federalista» n. 78 (maggio 1788), si sottolinea che «in a government in which [the departments of powers] are separated from each other, the judiciary, from the nature of its functions, will always be the least dangerous for the political rights of the Constitution, because it will be least in a capacity to annoy or injure them (...) The judiciary (...) has no influence over either the sword and the purse; (...) no direction either of the strength or of the wealth of the society; and can take no active resolution whatever». Qualche decennio più tardi considerazioni simili sono fatte anche da Tocqueville, che nota come negli Stati Uniti il potere dei giudici sia senz'altro maggiore che in Europa - anche per la possibilità di esercitare direttamente il controllo di costituzionalità - ma che questo potere è limitato dal fatto di doversi esprimere secondo i limiti caratteristici della procedura giudiziaria e quindi di non poter agire che «quand on l'appelle, ou, suivant l'expression légale, quand elle est saisie». Del resto, per sua natura il potere giudiziario è privo di azione: «il ne va pas de lui-même poursuivre les criminels, rechercher l'injustice et examiner les faits». L'unificazione delle funzioni giudicanti e requirenti in un solo corpo fa venire meno un potente «freno» al potere giudiziario. È ancora Tocqueville a sottolineare che, quando «le tribunal qui prononce ces jugements est composé des mêmes éléments et soumis aux mêmes influences que le corps chargé d'accuser», si ha un impulso irresistibile alla condanna (il riferimento concreto di Tocqueville è alla procedura di impeachment - una procedura tutta politica - ma la considerazione è di carattere generale).
      Oggi, le considerazioni dei classici del liberalismo sono ancora attuali e forse anche più di un tempo. La crescita del potere giudiziario nelle società democratiche contemporanee - un fenomeno inevitabile e potenzialmente positivo - pone con maggiore insistenza il problema di rendere compatibile la presenza di giudici indipendenti in regimi che si basano sul principio della sovranità popolare. Naturalmente, il principio di maggioranza - corollario di quello della sovranità popolare - non è l'unico su cui i regimi democratici contemporanei si basano. Giudici indipendenti si giustificano al fine di garantire la presenza di limiti all'esercizio del potere politico, anche quando legittimato dalla volontà popolare, ma proprio per questo motivo il loro stesso potere deve incontrare delle barriere. Il modo migliore per farlo è seguire la lezione dei classici e inserire il potere giudiziario in una rete di contrappesi in grado di bilanciarlo: la separazione fra giudice e pubblico ministero è uno dei principali perché assicura il rispetto di uno dei tratti fondamentali del procedimento giudiziario e introduce il principio della divisione del potere all'interno del sistema giudiziario.

Che tipo di separazione?

      Se un assetto accusatorio, in quanto presenta una struttura triadica, presuppone una separazione fra giudice e pubblico ministero, che concreti caratteri deve assumere questa separazione? La separazione delle sole funzioni è sicuramente necessaria ma non certo sufficiente. L'unificazione di funzioni giudicanti e requirenti in capo allo stesso attore - ad esempio, come avveniva in Italia in passato con il pretore - configura un processo di tipo completamente inquisitorio. Si tratta comunque di un fatto ormai superato. Oggi si adopera spesso l'espressione «separazione delle carriere». Non è sempre facile comprendere che cosa si intenda

 

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effettivamente. Forse ci si riferisce alla situazione vigente in Italia fra il 1865 e il 1890. Allora si prevedeva (secondo l'articolo 135 dell'ordinamento giudiziario del 1865) che «le carriere della magistratura giudicante e del ministero pubblico» fossero «parallele e distinte», anche se «in via di eccezione» era possibile passare da una all'altra. In realtà, l'eccezione divenne presto la regola e si ebbe una sostanziale fusione fra magistrati giudicanti e requirenti, ratificata poi nel 1890, quando venne stabilito un unico ruolo di anzianità. È interessante notare però che l'avvicinamento delle carriere giudicanti e requirenti fu motivato soprattutto dalla volontà dei Ministri della giustizia del tempo di controllare la magistratura giudicante attraverso quella requirente, che ai primi era sottoposta gerarchicamente. Un esempio di come la soluzione del corpo unico di per sé non garantisca affatto l'indipendenza della magistratura, giudicante e requirente. La cosiddetta «riforma Castelli» del 2002 (atto Senato n. 1296) pareva muoversi in quella direzione, dato che voleva rendere più difficili i passaggi di funzione, cioè le assegnazioni di magistrati della funzione giudicante a quella requirente e viceversa, senza però intervenire su altri aspetti.
      Se però l'obiettivo della separazione è quello di garantire l'imparzialità del giudice e di far svolgere a quest'ultimo una funzione di contrappeso al potere del pubblico ministero, allora una semplice separazione delle carriere di questo tipo non basta. Il vero nodo è l'appartenenza alla stessa organizzazione e soprattutto il fatto che giudici e pubblici ministeri siano governati dallo stesso organo: oggi, in Italia, il Consiglio superiore della magistratura. La citata riforma del 2002, predeterminando il numero di magistrati che appartengono alle funzioni giudicanti, requirenti e di legittimità, ha peraltro rimosso l'eventualità che la maggioranza dei membri togati provenga dal pubblico ministero, come era avvenuto fra il 1998 e il 2002. In quel periodo infatti è accaduto che i giudici sono stati valutati da un organo in cui predominavano i rappresentanti del pubblico ministero, cioè di una delle parti. Resta però ancora in piedi, cementato dalla comune appartenenza alla stessa associazione o alla stessa corrente, il legame fra i magistrati che svolgono le due funzioni. Il legame organizzativo che in questo modo si crea è difficilmente compatibile con la salvaguardia dell'imparzialità del giudice. È questo un punto fondamentale: senza separazione dei meccanismi di governo non c'è vera separazione e, soprattutto, non viene rimosso il principale elemento che danneggia l'imparzialità.
      In questa argomentazione poco rileva che il pubblico ministero sia una parte pubblica. Non si tratta infatti tanto di considerare «identici» imputato e pubblico ministero. Il nuovo articolo 111 della Costituzione richiede «condizioni di parità» per le parti e il principio della «parità delle armi» è stato riconosciuto dalla Corte europea dei diritti umani (vedi anche la raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa del 6 ottobre 2000, Rec 2000/19, con l'annesso explanatory memorandum). Non è però né possibile né necessario applicare tale principio in modo da garantire posizioni assolutamente identiche alle parti in causa, che del resto identiche non sono. Quindi, possono avere una certa validità le considerazioni secondo cui il pubblico ministero, perseguendo fini pubblici, è sottoposto a doveri diversi e più stringenti rispetto a quelli dell'avvocato difensore, ma non toccano il punto principale, che è la salvaguardia dell'imparzialità del terzo giudicante. Si potrebbe poi osservare che l'essere parte pubblica comporta dei doveri ma anche delle risorse maggiori di quelle dell'avvocato: si pensi non solo alla retribuzione, che non dipende dall'esito dei processi, ma, anche, al fatto di poter disporre delle risorse investigative dello Stato, fatto sostanzialmente non modificato dalla recente possibilità di svolgere indagini difensive e poco o per nulla influenzato dall'obbligo, previsto dalla legge, di ricercare anche gli elementi a discarico dell'accusato. Il discorso potrebbe essere in parte diverso (ma non in modo radicale) se si volesse introdurre il difensore pubblico, un istituto i cui vantaggi e svantaggi
 

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richiederebbero però un'analisi abbastanza ampia. L'obiettivo è di creare fra le parti un equilibrio in relazione al terzo giudicante, e la separazione organizzativa fra giudice e pubblico ministero rimuove un grave ostacolo a considerare il giudice un vero terzo imparziale.
      Diverse sono le obiezioni che vengono di solito formulate nei confronti della proposta di separare davvero giudici e pubblici ministeri. Due sono quelle avanzate più di frequente. Innanzitutto, alla separazione organizzativa fra giudice e pubblico ministero di solito si contrappone che la separazione porta più o meno inevitabilmente ad un controllo governativo sul pubblico ministero, con conseguenze pesantemente negative per una eguale applicazione delle regole del diritto. L'esperienza storica e comparata non sembra essere di sostegno a questa tesi: non vi è alcun legame significativo fra l'indipendenza del pubblico ministero e il suo essere corpo unico con la magistratura giudicante. Alcuni esempi sono particolarmente istruttivi. Innanzitutto, la stessa storia del nostro Paese la smentisce. L'Italia liberale, e soprattutto quella fascista, erano regimi dove ad un corpo giudiziario unico, composto da magistrati giudicanti e requirenti, si accompagnava la soggezione del pubblico ministero al potere esecutivo, come previsto esplicitamente da tutti gli ordinamenti giudiziari del tempo. Inoltre, nonostante le modifiche recenti, il caso francese è ancora lì a ricordarci che anche in una democrazia di antiche tradizioni un corpo giudiziario unificato può ben convivere con un pubblico ministero posto sotto la direzione del potere esecutivo. Al contrario, il Portogallo si presenta oggi come un caso dove alla separazione fra giudici e pubblici ministeri corrisponde un pubblico ministero svincolato dal controllo dell'esecutivo, per via degli ampi poteri del Conselho superior do ministerio pùblico - formato in maggioranza da magistrati del pubblico ministero (sette laici eletti da Governo e Parlamento, e dodici magistrati dei vari gradi, di cui cinque ex officio) -, poteri che non vengono certo intaccati dal fatto che il Procuratore generale della Repubblica è nominato di concerto dal Governo e dal Presidente della Repubblica, che spesso fanno capo a maggioranze differenti.
      In generale, bisogna osservare che, con l'eccezione dell'Italia, in tutti i Paesi a democrazia consolidata esistono legami istituzionali fra pubblico ministero e sistema politico, anche se di solito l'autonomia del pubblico ministero nel trattare i singoli casi è garantita. In Inghilterra gli uffici della pubblica accusa fanno capo all'Attorney General, membro del Governo. Simile è l'assetto degli Stati Uniti, almeno a livello federale, dato che in molti Stati i capi degli uffici del pubblico ministero sono eletti. La Francia, pur con qualche ritocco, mantiene il tradizionale assetto che vede il pubblico ministero sottoposto alle direttive - almeno a quelle generali - del Ministro della giustizia. La situazione in Germania è simile, anche se risente del carattere federale dell'ordinamento tedesco: gli uffici di primo e secondo grado fanno capo ai Ministri regionali, mentre quello presso la Corte suprema al Ministro federale. In Spagna, la pubblica accusa vede al vertice un Procuratore generale nominato dal Governo. Si può dire che, soprattutto negli ultimi decenni, si è cercato in qualche modo di contemperare due esigenze, entrambe legittime, ma che possono potenzialmente essere fra loro in contrasto: assicurare la responsabilità democratica di chi è in grado di condizionare in modo determinante le politiche penali e, nei casi singoli, garantire l'autonomia decisionale del pubblico ministero e soprattutto un eguale trattamento del cittadino, senza poi dimenticare che, di per sé, l'inizio di un procedimento penale, al di là del suo esito, rappresenta già una pena. Del resto, anche in quei Paesi dove l'esecutivo gode, almeno sulla carta, di ampi poteri sul pubblico ministero, il meccanismo dell'alternanza politica agisce da potente dissuasore verso decisioni dell'esecutivo che appaiano eccessivamente «partigiane» o addirittura in contrasto con il principio di legalità, e in ogni caso spinge i componenti del pubblico ministero a mantenere un atteggiamento il più
 

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possibile professionale, non-partisan o comunque autonomo dall'esecutivo, se non altro per evitare in futuro di dover pagare per le proprie scelte di fronte a governi di altro colore.
      In ogni caso, la presenza di forme di responsabilità per l'esercizio dell'azione penale non deve essere considerata negativamente. Corrisponde a indicazioni ormai diffuse internazionalmente (vedi, ad esempio, la citata raccomandazione del Consiglio d'Europa n. 19 del 2000, in particolare numeri 11, 34, 35 e 36, che sottolineano l'opportunità di ricorrere alla gerarchia per promuovere una politica dell'azione penale corretta, consistente ed efficiente) ed è necessaria per impedire lo sviluppo di forme di discrezionalità incontrollata, incompatibili con i caratteri di fondo di un regime democratico. Del resto, una risposta a questo problema non può essere fornita dal principio di obbligatorietà che non è in grado di cancellare gli inevitabili margini di discrezionalità presenti nell'esercizio dell'azione penale (si tratta di un aspetto riconosciuto da molti: vedi di recente Borgna e Maddalena, Il giudice e i suoi limiti, Laterza, 2003. Peraltro, in nessun regime democratico il principio di obbligatorietà è definito in modo così rigido come lo è in Italia. Anche la Germania, dove si può dire che tale principio sia venuto alla luce, ne ha da tempo circoscritto l'applicazione ai reati più gravi). Quanto alla cosiddetta «personalizzazione delle funzioni» - e cioè all'estendere pienamente al pubblico ministero le garanzie di indipendenza interna proprie del giudice - essa avrebbe come principale effetto quello di disperdere la discrezionalità - e il potere - all'interno degli uffici del pubblico ministero e quindi non farebbe altro che aggravare ulteriormente il problema costituito dalla carenza di forme di responsabilità istituzionale e quindi dallo sviluppo di poteri non controllabili. Le recenti innovazioni istituzionali che hanno toccato l'ufficio del pubblico ministero sembrano peraltro aver compreso questi rischi e hanno quindi rafforzato i poteri dei capi degli uffici.
      Un'altra obiezione, molto spesso richiamata, è che separare giudici e pubblici ministeri farebbe uscire questi ultimi dalla «cultura della giurisdizione». Non è sempre facile capire cosa si intenda davvero con questa espressione. Di solito, si tende a mettere l'accento sul fatto che il pubblico ministero non deve essere considerato una semplice parte: ad esempio, si sostiene che il pubblico ministero è - o dovrebbe essere - assolutamente imparziale nella ricostruzione dei fatti e parziale solo nella richiesta di applicazione della legge. Per questo, la sua professionalità sarebbe vicina a quella del giudice. Del resto, sempre secondo queste posizioni, il nostro sistema accusatorio non è, né potrebbe essere, puro, dato che nel nostro Paese il «fine primario e ineludibile del processo penale» è la ricerca e la scoperta della «verità» (Colombo, «Dal giudice interprete del conflitto al giudice interprete della legge», in Bruti Liberati, Ceretti, Giasanti, a cura di, Governo dei giudici, Feltrinelli, 1996, pagina 97). Addirittura c'è chi sostiene che «più del giudice» il pubblico ministero «tende alla verità», per cui «non può esservi differenza, sul piano del metodo o sui criteri di valutazione delle prove, tra pubblico ministero e giudice». Perciò «la cultura della giurisdizione, che accomuna pubblico ministero e giudice (...) deve essere difesa da forzature o alterazioni dipendenti dalla separazione delle carriere» (Riccio, «Istanze di riforma e chiusure ideologiche nella soluzione del problema italiano del pubblico ministero», in Politica del diritto, 2000, pagine 459-460). Si tratta, come si vede, di una concezione del ruolo del pubblico ministero strettamente imparentata con la vecchia tradizione inquisitoria che tende ad assimilarlo nella sostanza al giudice.
      Di recente, in una versione forse più compatibile con un assetto accusatorio è stato detto che con l'espressione «cultura della giurisdizione» si intendono una sensibilità alla tutela dei diritti e un'attenzione «non alla logica del risultato ma a quella delle regole» (relazione di minoranza al Senato della Repubblica al disegno di legge sulla riforma dell'ordinamento
 

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giudiziario del 14 novembre 2003). A ben vedere, quest'ultima versione non sembra troppo diversa da quella che prevale in un Paese a tradizione accusatoria come l'Inghilterra. Ad esempio, in quel Paese si sottolinea che il pubblico ministero debba essere corretto (fair), indipendente e obiettivo e non farsi influenzare dalle origini etniche o nazionali, dal sesso, dalla religione, dalle preferenze politiche o sessuali della vittima, dell'accusato o del testimone (The Code for Crown Prosecutors, 2004, 2.2. Ma anche negli Stati Uniti sono presenti norme simili: Pizzi e Montagna, «The Battle to Establish an Adversarial Trial System in Italy», Michigan Journal of International Law, 2004, pagina 446). Il dovere del pubblico ministero è di far sì che la persona giusta (right) sia accusata del reato giusto (e nel fare questo deve sempre agire nell'interesse della giustizia e non solo con l'obiettivo di ottenere una condanna: The Code for Crown Prosecutors, 2.3), che la legge sia correttamente applicata e che tutti gli elementi di fatto rilevanti siano forniti alla corte (The Code for Crown Prosecutors, 2.5). In altre parole, il fatto di essere parte non esime il pubblico ministero dal seguire alcune regole di correttezza e da comportarsi in modo da evitare ingiustificate discriminazioni nei confronti dei cittadini.
      Ci si può a questo punto domandare se in Italia la separazione sia destinata ad avere un impatto negativo su atteggiamenti collegati alla cultura della giurisdizione, che peraltro abbiamo visto presenti in un contesto che da sempre vede giudice e pubblico ministero separati, almeno da un punto di vista organizzativo. In realtà, non sembra che oggi, con un corpo unico, atteggiamenti di tipo «giurisdizionale» siano da noi così diffusi. Una ricerca recente ha messo in luce come, almeno secondo la stragrande maggioranza degli avvocati, i comportamenti dei pubblici ministeri siano ispirati a princìpi molto diversi da quelli che dovrebbero caratterizzare la cultura della giurisdizione, in qualunque versione la si voglia concepire. Ad esempio, quasi la metà degli avvocati intervistati esclude che il pubblico ministero ricerchi anche le prove a discarico dell'imputato e percentuali molto superiori denunziano vari tipi di scorrettezze (Di Federico e Sapignoli, Processo penale e diritti della difesa, Carocci, 2002, specie pagine 16-17). Soprattutto, la maggioranza degli avvocati dubita dell'imparzialità del giudice per le indagini preliminari e anche dell'imparzialità dei giudici di primo grado (mentre il giudizio migliora per i gradi successivi, forse perché i giudici lì sono meno vicini a chi ha iniziato le indagini). Quindi, non si può dire che l'attuale assetto garantisca in modo particolare la «cultura della giurisdizione» del pubblico ministero o almeno la sua percezione da parte di uno dei protagonisti del processo, il difensore. Il fatto che questa percezione possa essere considerata «di parte» non cambia la sostanza delle cose: un processo in cui una delle parti dubita sistematicamente dell'imparzialità del giudice non è un buon processo.
      Va poi aggiunto che, se è vero che il pubblico ministero, in quanto parte pubblica, dovrebbe seguire canoni di comportamento improntati alla correttezza - come giustamente richiamato dal citato Code inglese - è anche vero che nessun sistema processuale - come nessuna organizzazione - è in grado di funzionare bene se i principali attori non condividono alcuni princìpi comuni, alcuni tratti culturali. Qui importante diventa la presenza di una formazione comune: fra pubblico ministero e giudice ma anche fra magistrati e avvocati. Da questo punto di vista, il nostro assetto è seriamente carente, specie da quando le facoltà di giurisprudenza - prese d'assalto, come molte altre, da decine di migliaia di studenti - hanno visto declinare la loro capacità formativa, di fornire una «cultura comune» ai propri laureati.
      Se si vuole quindi che i protagonisti del processo siano in grado di «intendersi» e di seguire alcuni princìpi di reciproca correttezza - che cioè la cultura giuridica interna mantenga una sua coerenza - allora una più accentuata formazione comune è necessaria. L'esigenza di specializzazione, che pure va tenuta in conto,
 

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non deve diventare un ostacolo all'interscambio fra le varie professioni giuridiche. Oltretutto, non si può pensare che l'abito mentale all'imparzialità sia automaticamente acquisito col concorso in magistratura ed eventualmente con l'esperienza di pubblico ministero o di giudice. Anzi, è certamente molto più difficile arrivarci senza aver fatto esperienza come difensore (il caso inglese è a questo riguardo sempre istruttivo: i giudici inglesi sono di regola nominati dopo aver svolto sia le funzioni di difensore sia quelle di accusatore e cioè dopo aver appreso ad analizzare i casi da due punti di vista). Quindi, la necessità di mantenere il pubblico ministero «all'interno della cultura della giurisdizione» non è certo di ostacolo ad una separazione organizzativa, anche radicale. Il punto veramente importante è facilitare lo sviluppo di una cultura comune a tutti i protagonisti del processo. Il che in concreto significa creare dei percorsi professionali che coinvolgano tutti e tre gli attori del processo e quindi facilitare l'accesso in magistratura ad avvocati e docenti universitari. Oggi la magistratura italiana appare come una delle più chiuse, anche fra i Paesi di civil law. Si pensi, ad esempio, che in Spagna fra un quarto ed un quinto dei posti dei vari gradi sono messi a concorso fra giuristi «di riconosciuta competenza». In Francia, circa il 25 per cento dei magistrati è reclutato in modi diversi dal tradizionale concorso burocratico aperto ai neo-laureati - che comunque devono poi seguire un periodo di formazione presso la Scuola nazionale della magistratura. In Italia negli ultimi anni sono state varate due leggi che avrebbero dovuto facilitare il reclutamento laterale: la legge n. 303 del 1998 e la legge n. 48 del 2001. Solo la prima - quella sulla nomina in Cassazione - ha avuto una limitatissima applicazione.
      Da queste considerazioni emerge così come la riforma varata nella scorsa legislatura (legge n. 150 del 2005) - ed attualmente sospesa - andasse in realtà nella direzione sbagliata. Infatti, non separava magistratura giudicante e requirente dal punto di vista organizzativo ma, dopo cinque anni, costringeva il giovane magistrato a fare una scelta irreversibile, fino alla pensione. In questo modo, la separazione fra le professioni legali sarebbe stata ulteriormente accentuata, anche perché nulla si proponeva di fare in tema di reclutamento laterale.
      Sulla base di queste premesse le soluzioni possono essere diverse. Un'ipotesi non del tutto soddisfacente, ma sempre migliore dell'assetto attuale, sarebbe l'introduzione di un Consiglio superiore della magistratura a «geometria variabile», sul modello francese, con una più netta separazione delle due funzioni. Anche la «soluzione Calamandrei» potrebbe essere soddisfacente - con gli opportuni adattamenti - anche perché darebbe una risposta realistica all'esigenza di assicurare un certo grado di coordinamento dell'esercizio dell'azione penale (la proposta presentata da Piero Calamandrei alla Costituente prevedeva: «Art. 19 - Funzioni del procuratore generale Commissario della giustizia. - Il procuratore generale Commissario della giustizia è nominato dal Presidente della Repubblica tra i magistrati aventi il grado di procuratore generale di Corte d'appello o di Corte di cassazione, scegliendolo in una terna proposta dalla Camera dei deputati all'inizio di ogni legislatura. - Esso è il capo degli uffici del pubblico ministero, dei quali vigila e coordina l'azione; fa parte di diritto del Consiglio Superiore della Magistratura; esercita l'azione disciplinare presso la Suprema Corte disciplinare; esercita l'ufficio di pubblico ministero presso la Suprema Corte costituzionale. - È l'organo di collegamento tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato, e come tale prende parte al Consiglio dei ministri con voto consultivo e risponde di fronte alle Camere del buon andamento della Magistratura. Rimane in carica per tutta la legislatura anche in caso di cambiamento del Gabinetto, ma deve dimettersi qualora una delle Camere gli dia uno speciale voto di sfiducia»).
      La soluzione più coerente con il nostro impianto costituzionale è però molto probabilmente l'istituzione di due corpi separati
 

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con due Consigli superiori della magistratura, come in Portogallo.
      Andrebbe comunque introdotto il principio per cui l'obbligatorietà dell'azione penale non significa assenza di controlli su come viene esercitata. L'obbligo dell'azione va inteso come un fine verso cui tendere, nella misura del possibile, e comunque come un obiettivo a sua volta strumentale al rispetto del principio di eguaglianza dei cittadini. Ne va comunque verificato il rispetto, almeno tendenziale, anche al di fuori dei controlli processuali, che più di tanto non possono fare.
      La separazione non significa che non debbano essere previste garanzie per il pubblico ministero. Infatti, quelle previste all'articolo 107 della Costituzione vanno mantenute. L'introduzione di forme di controllo, come accennato, non deve mettere a repentaglio l'autonomia del magistrato requirente nei singoli casi e soprattutto non deve impedire agli uffici del pubblico ministero di perseguire, senza timori, chiunque debba essere perseguito.
      La composizione dei Consigli superiori della magistratura deve tener conto che loro compito è quello di garantire non solo l'indipendenza dei magistrati ma anche la loro capacità di svolgere bene la loro funzione istituzionale: rendere giustizia secondo la legge. Quindi, il Consiglio superiore della magistratura deve essere un organo di garanzia non solo verso la magistratura ma anche verso il cittadino: deve essere terzo anche rispetto al giudice. Da qui l'opportunità di una composizione che non dia preminenza a nessuna delle tre principali componenti: magistratura, professionisti e cittadini. Tali proporzioni sono comunque indicative e possono essere modificate, per esempio allargando la componente professionale, senza però stravolgere la logica che sorregge la proposta.
      Intervenire sulla scelta dei magistrati è essenziale per rafforzarne l'indipendenza, migliorare il rendimento della nostra giustizia e, soprattutto, favorire il collegamento fra le varie professioni giuridiche, aspetto importante per creare una cultura comune del processo.
      La presente proposta di legge si prefigge, pertanto, la sostituzione degli articoli 104, 105, 106 e 107 della Costituzione.
      Con riferimento all'articolato, in particolare:

          a) la previsione di cui all'articolo 104, secondo comma, è volta ad impedire l'utilizzo di magistrati nei Ministeri o comunque le carriere parallele;

          b) la previsione di cui all'articolo 104, terzo e quarto comma, relativamente alla presenza del Ministro della giustizia nei Consigli superiori, vuole suggerire una forma di limitato raccordo almeno tra Governo e pubblico ministero;

          c) la previsione di cui all'articolo 104, terzo e quarto comma, limitatamente alla composizione, esprime una preferenza per dei Consigli superiori in cui i magistrati non siano maggioranza; in questo caso però, per evitare una pressione politica troppo forte, va prevista una durata in carica dei componenti almeno superiore alla durata della legislatura (minimo sei anni) e nomine «sfasate», in modo da rendere più difficile il controllo dell'organo da parte di maggioranze politiche;

          d) la previsione di cui all'articolo 104, sesto comma, relativamente alla durata dei membri non di diritto e di quelli eletti, propone una durata rispettivamente di sei e tre anni, ma sarebbe possibile anche una durata maggiore (ad esempio: otto e quattro anni), ma non minore, proprio per dare continuità all'organo e diluire la pressione politica, soprattutto nel caso sia modificata la proporzione tra membri laici e membri togati;

          e) la previsione di cui all'articolo 106, primo comma, dispone per i magistrati il tirocinio dopo il concorso, per evitare che siano nominati magistrati privi di qualunque esperienza professionale.

 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

      1. Gli articoli 104, 105, 106 e 107 della Costituzione sono sostituiti dai seguenti:

      «Art. 104. - La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni potere.
      I magistrati si distinguono in magistrati giudicanti e in magistrati del pubblico ministero ed esercitano esclusivamente tali funzioni.
      Il Consiglio superiore della magistratura giudicante è presieduto dal Presidente della Repubblica. Il primo Presidente della Corte di cassazione e il Ministro della giustizia ne sono componenti di diritto. Fanno altresì parte del Consiglio un rappresentante dell'avvocatura, designato dagli ordini professionali, un rappresentante dell'università, designato dai professori ordinari in materie giuridiche, e un magistrato del pubblico ministero designato dal Consiglio superiore del pubblico ministero. Gli altri componenti sono eletti per metà da tutti i magistrati giudicanti tra gli appartenenti alle varie categorie e per metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano almeno quindici anni di esercizio.
      Il Consiglio superiore del pubblico ministero è presieduto dal Procuratore generale della Corte di cassazione. Il Ministro della giustizia ne è componente di diritto. Fanno altresì parte del Consiglio un rappresentante dell'avvocatura, designato dagli ordini professionali, un rappresentante dell'università, designato dai professori ordinari in materie giuridiche, e un magistrato giudicante, designato dal Consiglio superiore della magistratura giudicante. Gli altri componenti sono eletti per metà da tutti i magistrati del pubblico ministero tra gli appartenenti alle varie categorie e per metà dal Parlamento

 

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in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano almeno quindici anni di esercizio.
      I Consigli eleggono un vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento.
      I membri non di diritto dei Consigli durano in carica sei anni e non sono rieleggibili. I componenti eletti dalle magistrature si rinnovano per metà ogni tre anni. La nomina dei componenti non di diritto e non elettivi decorre per ciascuno di essi dal giorno del giuramento.
      I componenti dei Consigli non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né ricoprire cariche elettive, in questo ultimo caso anche per un periodo di cinque anni dalla cessazione dall'ufficio.

      Art. 105. - Spettano al Consiglio superiore della magistratura giudicante, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati giudicanti.
      Spettano al Consiglio superiore del pubblico ministero, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati del pubblico ministero.
      Il Procuratore generale della Corte di cassazione è nominato dal Presidente della Repubblica tra i magistrati del pubblico ministero con funzioni direttive superiori, scegliendolo in una terna proposta dal Consiglio superiore del pubblico ministero. Il Procuratore generale vigila sull'attività degli uffici del pubblico ministero, per salvaguardarne la conformità ai princìpi costituzionali e in particolare agli articoli 3, primo comma, 97, primo comma, e 112. Il Procuratore generale riferisce alle Camere sull'andamento della magistratura inquirente.

      Art. 106. - Le nomine dei magistrati hanno luogo in base a concorso seguìto da tirocinio.
      La legge sull'ordinamento giudiziario prevede che siano banditi concorsi riservati

 

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a candidati forniti di specifici titoli scientifici e professionali e può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni riservate a giudici singoli.
      Su designazione dei rispettivi Consigli superiori possono essere nominati agli uffici giudicanti e requirenti della Corte di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano almeno quindici anni di esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori.

      Art. 107. - I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio, né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura competente, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso.
      Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l'azione disciplinare.
      Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme dell'ordinamento giudiziario».


Frontespizio Relazione Progetto di Legge
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