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PDL 2351

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 2351



 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

d'iniziativa dei deputati

PECORELLA, BERTOLINI, BIANCOFIORE, BOSCETTO, BRUNO, CARFAGNA, CARLUCCI, COSTA, CRAXI, GELMINI, LAURINI, LUPI, MORMINO, MARIO PEPE, SANTELLI, VITALI

Modifiche alla Costituzione per la piena attuazione del giusto processo

Presentata il 12 marzo 2007


      

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Onorevoli Colleghi! - La Costituzione, per quel che concerne il modello di processo penale, ha, per così dire, due anime: una che risale al Costituente del 1948, che non aveva, all'epoca, la cultura del processo accusatorio, stante la antica tradizione italiana del processo inquisitorio; l'altra, introdotta nella Costituzione con la riforma dell'articolo 111 (legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), che, con la formazione della prova in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, ha fatto una scelta chiara, nel senso del modello accusatorio. Ciò si fa sì che vi siano in Costituzione numerose norme che costituiscono princìpi di garanzia, ma che riflettono una visione inquisitoria del processo; mentre mancano del tutto altre norme che darebbero piena attuazione ai princìpi del processo accusatorio, e che si possono riassumere nella terzietà del giudice, nell'onere della prova a carico del pubblico ministero, nel ruolo della giuria, nella parità delle parti nel contraddittorio.
      È venuto il momento di fare una scelta definitiva nel senso di un modello coerente di processo penale: e questo non può che essere il modello accusatorio, visto che in tempi recenti il Parlamento si è orientato in questa direzione e in questa direzione si è mossa oramai tutta la cultura giuridica del nostro Paese. Per fare ciò è necessario intervenire su una serie di articoli relativi alla presunzione di innocenza, all'amministrazione della giustizia da parte del popolo, alla obbligatorietà
 

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dell'azione penale e, soprattutto, alla separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti. Altro, e diverso, aspetto riguarda la materia dell'appello che, nel rito accusatorio, è di regola escluso. Ma che è anche oggetto di convenzioni internazionali.
      Per quel che riguarda la presunzione d'innocenza l'attuale articolo 27 della Costituzione è ispirato non già all'onere della prova, come deve essere nel processo accusatorio, bensì al trattamento dell'imputato che non può essere considerato colpevole fino alla sentenza definitiva. Con la riformulazione dell'articolo si vuole mettere in luce che l'imputato è presunto innocente sinché il pubblico ministero non ne dimostri la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. È, quindi, una regola probatoria che si riverbera comunque anche sui problemi relativi alla libertà personale.
      L'articolo 102, terzo comma, della Costituzione, pur richiamando la titolarità della giustizia in capo al popolo, tuttavia ne limita il ruolo effettivo alla mera partecipazione all'amministrazione della stessa: ciò corrisponde all'idea di Corte d'assise che era presente al Costituente. Uno dei caratteri essenziali del processo accusatorio è, viceversa, la giuria popolare che rappresenta davvero il giudice terzo e imparziale di cui parla l'articolo 111, mancando ogni legame di colleganza, sia pure con carriere distinte, con l'organo dell'accusa.
      Negli ultimi quindici anni il ruolo e le funzioni del pubblico ministero sono stati spesso oggetto di riforme e di dibattito in vari Paesi democratici (come l'Inghilterra, la Francia, la Spagna, l'Olanda, il Belgio, gli Stati Uniti, il Canada e molti altri ancora), nonché di autorevoli raccomandazioni da parte di organismi sopranazionali come l'Unione europea, il Consiglio d'Europa, i Congressi delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine. Un tale interesse è certamente giustificato per almeno due ragioni che sono ben attuali in Italia:

          a) a causa del ruolo cruciale che la magistratura requirente svolge nella repressione della criminalità, i pubblici ministeri sono i «guardiani dei cancelli» della giustizia penale. Senza la loro iniziativa non può esservi un efficace intervento repressivo del giudice, che è per sua natura un organo passivo. Il loro ruolo ha, inoltre, acquisito un'importanza via via maggiore per effetto della crescente complessità, pericolosità e diffusione che i fenomeni criminali di livello locale, nazionale e internazionale hanno assunto in tutti i Paesi negli ultimi decenni;

          b) a causa delle devastanti conseguenze che un uso indebito, e talora improprio, dell'iniziativa penale può avere sulla protezione dei diritti civili, sulla salvaguardia dello status sociale, economico, familiare e politico dei cittadini e sulla loro eguaglianza davanti alla legge penale (come ciascuno di noi sa bene, di per sé l'iniziativa penale spesso genera, di fatto, effetti sanzionatori cui non si rimedia con una sentenza di proscioglimento che per giunta da noi giunge, di regola, a distanza di anni o addirittura di lustri).

      Le soluzioni istituzionali e operative che vengono adottate negli altri Paesi a consolidata tradizione democratica per soddisfare le complesse esigenze funzionali che si collegano al ruolo del pubblico ministero danno per scontato che l'esercizio dell'azione penale abbia, e non possa non avere, ampi margini di discrezionalità. Che quindi una parte molto rilevante delle politiche pubbliche nel settore criminale dipenda dalle scelte che i pubblici ministeri adottano nel concreto, quotidiano esercizio dell'azione penale.
      Vero è che il potere discrezionale dei pubblici ministeri può variare da un Paese all'altro e con esso anche la rilevanza politica del ruolo. È certamente più ampio laddove i pubblici ministeri dirigono la polizia giudiziaria nel corso della indagini (come avviene, in varia misura, nei Paesi dell'Europa continentale), mentre lo è molto meno nei Paesi in cui sono del tutto esclusi dalla fase investigativa (come in Inghilterra e nel Galles). Che i loro poteri discrezionali siano limitati alla sola iniziativa

 

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penale, o includano invece le decisioni su come condurre le indagini, sono comunque poteri di grande rilievo politico. Non può quindi sorprendere che il ruolo del pubblico ministero sia stato ricorrentemente oggetto di dibattito e/o di riforme nei Paesi democratici. In realtà, nell'affrontare o nel rivedere la posizione istituzionale del pubblico ministero, i Paesi democratici devono comunque cercare di bilanciare a livello operativo due valori confliggenti, ma entrambi di grande rilievo.
      Da un lato, la consapevolezza che il pubblico ministero partecipa alla formulazione e alla attuazione delle politiche criminali, impone l'adozione di meccanismi atti ad assicurare che il ruolo svolto in questo cruciale settore sia in qualche modo disciplinato e controllato nell'ambito del processo democratico. Dall'altro, l'esigenza di garantire che l'azione penale sia esercitata con rigore, uniformità e correttezza impone di evitare un collegamento troppo stretto con il potere politico, che potrebbe essere usato dalle maggioranze del momento allo scopo di influenzare la condotta (attiva od omissiva) del pubblico ministero per obiettivi di parte; più in generale tale esigenza risponde anche all'obiettivo di assicurare l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale e tutta la trasparenza possibile alla formulazione e alla gestione delle politiche criminali.
      Diverse sono le soluzioni che vari Paesi democratici hanno adottato - soprattutto negli ultimi decenni - per bilanciare queste contrapposte esigenze e per soddisfare al contempo le esigenze di funzionalità che derivano dall'accresciuta complessità e rilevanza del ruolo del pubblico ministero. Se si considerano le modifiche introdotte nell'assetto istituzionale del pubblico ministero in vari Paesi e il perdurante dibattito sul suo ruolo, si può certamente dire che i tentativi sinora fatti per bilanciare i due valori dell'indipendenza e della responsabilità assumono le caratteristiche di un «equilibrio instabile» piuttosto che quelle di soluzioni definitive e pienamente soddisfacenti. In particolare, in vari Paesi democratici si può notare la ricorrente tendenza a modificare tale equilibrio con misure volte a rendere il pubblico ministero meno dipendente dalle maggioranze governative. Una tendenza, tuttavia, che non viene mai spinta fino al punto di ignorare del tutto il valore democratico della responsabilità. All'interno di questo quadro l'Italia si profila come un caso deviante. Priorità assoluta è data al valore dell'indipendenza. Nessun rilievo viene dato al valore democratico della responsabilità e della trasparenza per le scelte che i pubblici ministeri sono comunque chiamati a prendere nel cruciale settore delle politiche penali.
      Da un punto di vista formale, la «soluzione» adottata in Italia sembra essere non solo perfetta, ma anche la più auspicabile agli occhi di un osservatore superficiale. Nel predisporre il testo della nostra Costituzione, all'indomani della seconda guerra mondiale, il Costituente ha posto grande attenzione alle strutture requirenti. Per evitare che i poteri del pubblico ministero fossero usati in modo politicamente distorto, come precedentemente avvenuto sotto il regime fascista, ha ritenuto necessario recidere definitivamente il tradizionale vincolo che poneva il pubblico ministero alle dipendenze gerarchiche del Ministro della giustizia. Il Costituente non ha tuttavia ritenuto necessario separare giudici e pubblici ministeri in due corpi distinti. Entrambi vengono reclutati con uno stesso concorso pubblico.
      Per garantire l'effettiva indipendenza di giudici e pubblici ministeri l'Assemblea costituente ha inoltre optato per una forma molto ampia di «autogoverno» della magistratura, disponendo che tutte le decisioni relative allo status dei magistrati (giudici e pubblici ministeri), dal reclutamento sino al pensionamento, fossero concentrate nelle mani del Consiglio superiore della magistratura (CSM) composto in maggioranza da magistrati direttamente eletti dai colleghi. L'Assemblea costituente ha poi disposto che i pubblici ministeri dovessero avere il monopolio dell'iniziativa penale e nel contempo il potere di disporre della polizia durante la fase delle indagini. Ha inoltre voluto che tale monopolio
 

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fosse esercitato in piena indipendenza, vale a dire al di fuori di una qualsiasi delle forme di responsabilità politica, diretta o indiretta, esistente nelle altre democrazie costituzionali.
      Onde evitare un uso discrezionale o arbitrario, e quindi politicamente rilevante, del potere inquirente del pubblico ministero, il Costituente ha inoltre ritenuto che bastasse prescrivere l'obbligatorietà dell'azione penale per tutti i reati. Per quanto ci è dato sapere, nessuno dei Padri costituenti dubitava che una simile disposizione potesse di fatto essere applicata; nessuno sembrava dubitare che tutti i reati potessero essere effettivamente ed egualmente perseguiti. Erano inoltre fermamente convinti che indipendenza e obbligatorietà dell'azione penale - concepite da loro come due facce della stessa medaglia - sarebbero state il miglior presidio del precetto costituzionale che sancisce l'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. È una soluzione formalmente perfetta, ma che presenta un difetto non piccolo: a dispetto della norma costituzionale che impone ai magistrati di perseguire con efficacia tutti i reati, anche in Italia l'azione penale risulta essere di fatto largamente discrezionale, almeno quanto lo è in altri Paesi e per certi aspetti - come si dirà in seguito - anche di più.
      Una discrezionalità che con il tempo è divenuta sempre più visibile anche a causa della crescente dimensione e complessità dei fenomeni criminali. Mentre ancora quindici anni fa le voci che evidenziavano questo fenomeno erano alquanto isolate, attualmente esso viene sempre più unanimamente riconosciuto. A riguardo basti ricordare che:

          1) la Commissione ministeriale per la riforma dell'ordinamento giudiziario, nominata con decreto dell'allora Ministro di grazia e giustizia Conso nel febbraio del 1993 e composta in maggioranza da magistrati di varie correnti, ha riconosciuto l'impossibilità di perseguire tutti i reati, anche con la più ampia depenalizzazione, e ha pertanto ritenuto che fosse necessario stabilire alcune priorità nell'esercizio dell'azione penale. Rimase soccombente tuttavia l'orientamento che, data la natura politica della materia, il compito di fissare le priorità spettasse al Parlamento (proposta da Zagrebelsky). Prevalse invece la decisione che fossero le stesse procure della Repubblica a stabilire le priorità (Documenti Giustizia, 1994, p. 1100);

          2) l'esigenza di fissazione delle priorità risulta persino da sentenze disciplinari, come nel caso in cui la sezione disciplinare del CSM ha giudicato un pubblico ministero che era stato trasferito e aveva lasciato nel suo ufficio di origine una considerevole mole di lavoro non espletato e che nella scelta delle priorità aveva utilizzato criteri propri. La sezione disciplinare lo ha assolto affermando che la mole di lavoro non consentiva il pieno smaltimento dei casi a lui assegnati e che la definizione delle priorità effettuata personalmente non costituiva illecito disciplinare in quanto non vi erano priorità stabilite per tutti i sostituti dalla procura in cui l'incolpato aveva prestato servizio (sentenza disciplinare n. 33 del 1997);

          3) la necessità di fissare priorità risulta dagli stessi verbali del CSM, come ad esempio dall'allegato A al verbale del plenum del 10 giugno 1998, ove si prende atto che in alcune procure generali di corte d'appello erano state fissate priorità, peraltro in termini più o meno generici, e in altre no;

          4) l'esigenza di fissare priorità nell'esercizio dell'azione penale è oggetto di una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa. In tale delibera si raccomanda l'adozione del principio di opportunità dell'azione penale e si indicano le garanzie che devono accompagnare tale scelta. Agli Stati membri che in Costituzione prevedono l'obbligatorietà dell'azione si raccomanda di adottare misure che consentano di raggiungere gli stessi obiettivi che si ottengono con l'adozione del principio di opportunità e con le garanzie ad esso relative [raccomandazione adottata il 17 settembre 1987, n. R(87)18];

          5) un ultimo esempio e recentissimo. Con circolare del 10 gennaio 2007, il

 

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procuratore della Repubblica di Torino, Marcello Maddalena, ha dettato criteri «discrezionali» per «accantonare» i procedimenti relativi a reati rientranti nel beneficio dell'indulto e che vanno dalla resistenza al pubblico ufficiale, al commercio di prodotti con segni mendaci. Si tratta di 86 delitti contenuti nel codice penale, più quasi tutte le contravvenzioni, a cui si aggiungono centinaia di reati scelti tra le leggi speciali.

      È di tutta evidenza che le scelte che si effettuano nell'esercizio dell'azione penale e nell'uso dei mezzi di indagine sono, per loro natura, scelte di grande rilievo politico. Dal loro concreto esercizio dipende non solo la effettiva protezione di valori che riguardano la libertà e la dignità dei cittadini, ma anche la definizione di una rilevantissima parte delle scelte di politica criminale relative alla repressione dei fenomeni criminali e quindi anche l'efficacia complessiva dell'azione repressiva nei confronti della criminalità. È una discrezionalità che, a differenza degli altri Paesi democratici, viene da noi esercitata in piena indipendenza da un corpo burocratico che in nessun modo può essere chiamato, neppure indirettamente, a rispondere delle scelte che compie nell'ambito del processo democratico.
      Sarebbe difficile cogliere appieno la portata dei poteri del pubblico ministero in Italia e degli ambiti di discrezionalità di cui gode senza ricordare alcune sue caratteristiche e poteri che si sono venuti sviluppando e consolidando nel corso degli anni. Due sono particolarmente rilevanti:

          a) i pubblici ministeri hanno progressivamente acquisito il pieno controllo sulla polizia giudiziaria nel corso dell'intera fase delle indagini. Il codice di procedura penale varato nel 1988 ha infatti esplicitamente affidato ai pubblici ministeri la responsabilità di ogni decisione relativa alle indagini, quale strumento volto ad assicurare che l'incondizionata indipendenza dei pubblici ministeri nell'applicare il principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione penale non sia compromessa da decisioni o iniziative adottate autonomamente dalla polizia. Il codice del 1988 ha anche espressamente stabilito, all'articolo 330, che il pubblico ministero prenda «notizia dei reati di propria iniziativa» e quindi possa di propria iniziativa avviare indagini su reati che lui stesso, più o meno fondatamente, ritiene siano stati commessi;

          b) nel corso degli ultimi venticinque anni, l'iniziativa penale è via via divenuta un attributo più del singolo magistrato che dell'ufficio cui questi appartiene, a dispetto del fatto che i poteri gerarchici siano formalmente attribuiti al capo dell'ufficio. Svariati fattori hanno contribuito a questa evoluzione. Fra questi la tendenza del CSM a comprimere in maniera molto marcata i poteri gerarchici dei capi degli uffici di procura proprio con l'intento di promuovere la piena e incondizionata affermazione dell'obbligatorietà dell'azione penale (svincolandola da condizionamenti di natura gerarchica) e una indipendenza dei singoli pubblici ministeri di portata eguale a quella del giudice: i pubblici ministeri, se lo vogliono, possono pertanto decidere, in relazione ai singoli casi e secondo le rispettive inclinazioni, se e in che misura esercitare direttamente funzioni di polizia giudiziaria, in che misura utilizzare gli strumenti investigativi disponibili e che ampiezza dare alle indagini (e quindi, in buone misura, le sorti del singolo caso). In altre parole, è considerato pienamente legittimo che ciascuno di essi inizi e conduca, in assoluta indipendenza, indagini di qualsiasi tipo su qualsiasi cittadino, utilizzando le varie Forze di polizia per accertare i reati che essi stessi (più o meno fondatamente) ritengono essere stati commessi. E non possono in alcun modo essere ritenuti responsabili per queste decisioni, nemmeno qualora le accuse - come è di fatto ricorrentemente successo - si rivelino, negli anni successivi, del tutto infondate nel corso del dibattimento, cioè quando le molteplici sanzioni sociali, politiche, economiche o familiari, che di fatto spesso si collegano alle iniziative penali, hanno già prodotto appieno i loro dirompenti effetti sui cittadini indagati o imputati

 

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e sulle loro famiglie. Nella sostanza, l'obbligatorietà dell'azione penale formalmente e definitivamente trasforma qualsiasi atto discrezionale del pubblico ministero in «atto dovuto». L'analisi delle decisioni che vengono prese nella gestione del personale togato e persino nella giurisprudenza ordinaria rivelano ulteriori aspetti della discrezionalità dei magistrati inquirenti che rivestono notevole interesse: l'effettuazione di indagini assolutamente improduttive, anche di notevole costo, non può dar luogo ad alcuna forma di responsabilità del pubblico ministero ed è del tutto irrilevante ai fini della valutazione della sua professionalità.

      Date queste condizioni, non deve sorprendere che la piena e irresponsabile indipendenza dei pubblici ministeri, intesa anche come attributo di ciascuno di loro, sia sfociata in un uso dei loro amplissimi poteri discrezionali che si differenzia da caso a caso, in base a orientamenti, preferenze o ambizioni personali. Un simile fenomeno - spesso evidenziato dalla stampa negli ultimi venti anni - emerge in tutta chiarezza dalle interviste condotte su un campione di mille avvocati penalisti (G. Di Federico et al., Codice di procedura penale e diritti della difesa, Bologna, Lo Scarabeo, 1996) e dagli scritti di Giovanni Falcone. In un suo scritto egli osserva, infatti, come, in assenza di una politica giudiziaria vincolante, «tutto sia riservato alle decisioni assolutamente irresponsabili dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti». Ed aggiunge: «mi sento di condividere l'analisi secondo cui, in mancanza di controlli istituzionali sull'attività del pubblico ministero, saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e collegamenti occulti con centri occulti di potere possano influenzare l'esercizio di tale attività. Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e di coordinare l'attività del pubblico ministero finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell'obbligatorietà dell'azione penale e della mancanza di efficaci controlli sulla sua attività» (Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Giovanni Falcone, interventi e proposte (1982/1992), Firenze, Sansoni, 1994, pagine 173 e 174). Il tutto con la conseguenza di dare anche una «immagine della giustizia che a fronte di interventi talora tempestivi soltanto per fatti di scarsa rilevanza sociale, e talora tardivi per episodi di elevata pericolosità, appare all'opinione pubblica come una variabile impazzita del sistema» (ibidem, pagine 180 e 181).
      Una simile «frammentazione» delle iniziative dei pubblici ministeri e la totale assenza di responsabilità per l'esercizio personalizzato di un potere discrezionale di notevole ampiezza hanno ulteriormente moltiplicato le occasioni di diseguale trattamento dei cittadini davanti alla legge penale, che derivano comunque dalla mancata regolamentazione della discrezionalità. Ciò ha creato le condizioni più favorevoli per un uso distorto di ciò che il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Jackson, ha definito come «il potere più pericoloso del pubblico ministero», ossia «quello di scegliere le persone da colpire piuttosto che i casi su cui indagare» e quindi effettuare su loro indagini a tutto campo (R.H. Jackson, The Federal Prosecutor, «Journal of the American Judicature Society», 1940); un'accusa che, infatti, è stata ripetutamente mossa ai nostri pubblici ministeri più attivi.
      Paradossalmente, quindi, proprio l'obbligatorietà dell'azione penale, che era stata voluta del nostro Costituente per tutelare il valore dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è divenuta, anche per le interpretazioni che di essa sono state date, il principale impedimento alla possibilità di regolare la discrezionalità dell'azione penale per rendere quella tutela effettiva.
      Per ovviare alle molteplici disfunzioni che abbiamo sommariamente descritto ed effettuare anche da noi quel trasparente bilanciamento tra indipendenza e responsabilità del pubblico ministero che viene in vario modo perseguito negli altri Paesi democratici, nonché per assicurare un coerente ed efficace esercizio dell'azione penale, e con esso una più adeguata protezione dell'eguaglianza dei cittadini di

 

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fronte alla legge, è, da un canto, necessario fissare articolate priorità per l'esercizio dell'azione penale e, dall'altro, predisporre strumenti di monitoraggio che rendano, per quanto possibile, trasparente la gestione delle politiche pubbliche nel settore criminale. Certamente nella fissazione delle priorità debbono assumere un certo rilievo:

          a) i criteri di priorità già indicati dall'articolo 227 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, ai sensi del quale si tiene conto «della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l'accertamento dei fatti, nonché dell'interesse della persona offesa», anche «indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella delle iscrizioni del procedimento»;

          b) le indicazioni, in buona parte coincidenti, contenute nella citata raccomandazione del Consiglio d'Europa del 1987 [n. R(87)18], che indica, in primo luogo, la serietà, la natura, le circostanze e le conseguenze del crimine; la personalità dell'indagato; la solidità degli elementi di prova ai fini della condanna; gli effetti della condanna sull'indagato; l'interesse della persona offesa.

      Ciò che rileva è che l'obbligatorietà dell'azione penale è un valore da salvaguardare, ma la sua concreta realizzazione deve essere affidata alla variabilità della legge ordinaria. Poiché non tutto è perseguibile, sarà la legge a stabilire forme e priorità dell'esercizio dell'azione penale.
      Si è già detto che l'appartenenza dei nostri pubblici ministeri allo stesso corpo dei giudici è in evidente contrasto con gli assetti giudiziari dei Paesi a consolidata tradizione demo-liberale, sia in Europa che negli altri continenti. I pubblici ministeri e i giudici, in Italia, vengono reclutati con lo stesso concorso e possono passare da una funzione all'altra, anche più volte, nel corso dei 40-45 anni della loro carriera. L'unico Paese membro dell'Unione europea che ha tali caratteristiche è la Francia nella quale però, a differenza dell'Italia, il pubblico ministero è sottoposto alla supervisione gerarchica del Ministro della giustizia. In nessuno dei Paesi con un sistema processuale accusatorio il pubblico ministero appartiene allo stesso corpo dei giudici. Nei Paesi di common law l'appartenenza dei pubblici ministeri e dei giudici allo stesso corpo verrebbe considerata come una violazione del principio della divisione dei poteri.
      Prima di procedere a individuare le disfunzioni del nostro sistema giudiziario che discendono dall'appartenenza dei giudici e dei pubblici ministeri allo stesso corpo è anche opportuno ricordare alcuni degli aspetti dell'evoluzione dello status del pubblico ministero, anche al di là di quelli derivanti dall'abolizione della figura del giudice istruttore e dall'adozione di un sistema «tendenzialmente» accusatorio. Fino alla prima metà degli anni '60 i passaggi dalla funzione del pubblico ministero a quella del giudice, e viceversa, erano rari. A rendere difficile il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti, e viceversa, ostava una precisa norma dell'ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto n. 12 del 1941, e cioè l'articolo 190, quinto comma, il quale prevedeva che «Durante la permanenza nel medesimo grado, il passaggio dalle funzioni requirenti alle giudicanti è consentito soltanto per ragioni di salute debitamente accertate o, in via eccezionale, per gravi e giustificati motivi; ed il passaggio dalle funzioni giudicanti alle requirenti è ammesso soltanto a favore di chi ha speciali attitudini alle funzioni del pubblico ministero». I passaggi da una funzione all'altra erano inoltre resi poco convenienti dal sistema delle promozioni. Le decisioni sulle promozioni per la carriera, basate sulla valutazione dei titoli, finivano per privilegiare i giudici autori di sentenze civili complesse da cui emergesse la capacità di ragionare in termini «di puro diritto» (G. Di Federico, La carriera dei magistrati prima delle così dette leggi «Breganze» e «Breganzone»: contesto organizzativo e modalità di selezione, Padova, CEDAM, 1987). Poiché i pubblici ministeri raramente potevano produrre titoli di questo

 

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genere, di fatto le commissioni riservavano ai magistrati che da anni svolgevano funzioni di pubblico ministero un certo numero di promozioni, al fine di non penalizzare l'esercizio delle funzioni inquirenti. Dopo il periodo iniziale della carriera era quindi ben poco conveniente per un pubblico ministero chiedere il trasferimento alla funzione giudicante. A partire dall'istituzione del CSM, e soprattutto dalla metà degli anni '60, che videro la modifica del sistema delle promozioni con l'eliminazione di fatto delle valutazioni della professionalità, il citato articolo 190 dell'ordinamento giudiziario venne disapplicato, anche per soddisfare le aspettative dei magistrati di trasferirsi in sedi più gradite prescindendo dalle funzioni di origine. Nel 1977 il CSM, seguendo anche il suo più generale orientamento a eliminare ogni possibile differenziazione tra lo status del giudice e quello del pubblico ministero, decise, infine, che le limitazioni previste dal menzionato articolo 190 dell'ordinamento giudiziario per il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti e viceversa dovessero ritenersi comunque abrogate in virtù di una legge di ben ventisei anni prima, e cioè la legge 24 maggio 1951, n. 392. La nuova formulazione del citato articolo 190 adottata con l'articolo 29 delle norme di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 449, non ha di fatto introdotto nessun effettivo ostacolo al passaggio da una funzione all'altra.
      Le ragioni che esigono la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri anche nel nostro sistema giudiziario sono molteplici.
      Una prima ragione deriva dall'esigenza di garantire l'immagine di imparzialità del giudice, immagine di imparzialità che nei sistemi democratici costituisce un elemento fondamentale della legittimazione del suo ruolo. Se consideriamo gli organi più direttamente investiti del compito di assicurare un'efficace repressione dei fenomeni criminali - e cioè polizia, pubblico ministero e giudice - e analizziamo la natura delle attività da essi svolte, possiamo infatti vedere che l'unica linea di demarcazione netta tra esse è quella che intercorre tra le attività della polizia e del pubblico ministero da una parte e quelle del giudice dall'altra. Nella fase delle indagini le attività della polizia giudiziaria e del pubblico ministero non sono facilmente distinguibili, soprattutto in un sistema come il nostro, che pone la polizia alle dipendenze del pubblico ministero e consente al pubblico ministero un ampio potere di iniziativa nella ricerca stessa dei reati. Si tratta in entrambi i casi di ruoli attivi e la linea di confine tra cosa fa l'uno e cosa fa l'altro non può essere tracciata a priori, ma solo descritta a posteriori analizzando rispetto ai singoli casi «come sono andate le cose». Entrambi i ruoli, quello del pubblico ministero e quello della polizia giudiziaria, sono comunque ruoli attivi. Quello del giudice è, e deve essere, in una democrazia, un ruolo passivo cui le parti in conflitto si rivolgono affinché, non essendo direttamente coinvolto nelle vicende della controversia, giudichi imparzialmente. Tenere il ruolo del giudice penale visibilmente separato dal pubblico ministero, che svolge attività di indagine e dirige la polizia giudiziaria, serve a sottolineare agli occhi del cittadino anche l'imparzialità del giudice, a renderla pienamente credibile e, quindi, in ultima analisi, ad accrescere la legittimazione del suo ruolo.
      Una seconda e più sostanziale conseguenza negativa dell'appartenenza dei giudici e dei pubblici ministeri allo stesso corpo riguarda l'efficacia dei pesi e dei contrappesi processuali che formalmente sono previsti a garanzia della libertà e della dignità del cittadino nell'ambito processuale. I nostri giudici e pubblici ministeri non solo sono reclutati con lo stesso concorso e possono spostarsi da una funzione all'altra, ma svolgono anche le loro funzioni negli stessi palazzi, hanno una quotidiana dimestichezza di rapporti di lavoro e anche sociali, appartengono alla stessa associazione sindacale e alle stesse correnti associative, eleggono congiuntamente, per il tramite di organizzate campagne elettorali, i loro rappresentanti al CSM. Tutto ciò ha creato e non poteva non creare diffuse solidarietà di corpo, innumerevoli, quotidiane occasioni
 

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in cui pubblici ministeri e giudici si comunicano le reciproche difficoltà di lavoro e le reciproche aspettative anche riguardo ai singoli casi che stanno trattando. È un fenomeno diffuso che è particolarmente evidente nei rapporti tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari. Mentre in altri Paesi qualsiasi rapporto tra pubblici ministeri e giudici sui casi di cui sono investiti, che avvenga in assenza dell'avvocato difensore, viene duramente sanzionato come un grave vulnus ai diritti della difesa e del cittadino indagato, da noi di fatto vengono persino tollerati i casi, sia pure non frequenti, in cui un pubblico ministero, dopo un'udienza, «aggredisca verbalmente» il collega giudice che non ha accolto le sue richieste di detenzione preventiva e finisca di fatto anche per ottenere che quel giudice non giudichi più sulle sue richieste in casi simili (A. Viviani, La degenerazione del processo penale in Italia, Milano, Sugarco, 1988, pagine 78-80).
      In una rilevazione effettuata alcuni anni fa su un campione di mille avvocati penalisti, già più sopra ricordata, ben il 65 per cento di loro ha affermato di aver constatato, nel corso della propria esperienza professionale, il frequente verificarsi di rapporti informali tra pubblici ministeri e giudici per le indagini preliminari (o dell'udienza preliminare) con riferimento a casi di cui erano entrambi investiti (G. Di Federico et al., Codice di procedura penale e diritti della difesa, cit., pagine 87-88 e 185). Difficile dire se questa possa considerarsi una realistica rappresentazione della dimensione del fenomeno o se invece la sua frequenza sia inferiore a quella, elevatissima, indicata dagli avvocati. Trattandosi di una questione relativa all'effettiva protezione di valori quali la libertà e la dignità del cittadino, la necessità o meno di rimuovere le condizioni ordinamentali che favoriscono quei fenomeni non può certo essere collegata alle dimensioni più o meno ampie del fenomeno. È sufficiente rilevare che lo favoriscono.
      La ricerca rileva come la stragrande maggioranza di loro ritenga che senza la divisione delle carriere non vi possa essere parità tra accusa e difesa, che non vi possa essere una effettiva terzietà del giudice, che non vi possa quindi essere un'adeguata tutela dei diritti e della dignità del cittadino nell'ambito processuale penale. È peraltro una valutazione che viene sostenuta autorevolmente dallo stesso Parlamento europeo che in una delibera relativa al rispetto dei diritti umani nell'Unione europea afferma, tra l'altro, che «è anche necessario garantire l'imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati che svolgono attività di indagine (examining magistrates) e quella del giudice al fine di assicurare un processo giusto (fair trial)» (A 4-01 12/1997).
      La tesi dei magistrati secondo cui attualmente il pubblico ministero sarebbe, a somiglianza del giudice, un operatore imparziale - e quindi partecipe della cultura della giurisdizione - non è corroborata da nessuna indicazione che la renda credibile. Non viene in alcun modo spiegato perché l'appartenenza allo stesso corpo dei giudici e dei pubblici ministeri porterebbe questi ultimi, che dirigono attività di polizia, ad assumere sui singoli casi orientamenti di imparzialità del tutto simili a quelli dei giudici e non dovrebbe invece prevalere la tendenza opposta, che cioè i giudici, privilegiando le tesi accusatorie dei loro colleghi pubblici ministeri, finiscano per condividere con essi orientamenti di tipo colpevolista e poliziesco. La previsione normativa del codice di procedura penale che più direttamente era intesa a garantire un orientamento non accusatorio del nostro pubblico ministero, e cioè quella in cui si prevede che egli debba ricercare anche le prove a discolpa dell'imputato, si è rivelata del tutto inefficace sul piano operativo. Nella pratica, cioè, avviene solo molto raramente che il pubblico ministero si impegni in quella ricerca (G. Di Federico et al., Codice di procedura penale e diritti della difesa, cit., pagine 128-133 e 180). Non solo. Come si è dianzi indicato, nel nostro sistema non viene sanzionato neppure disciplinarmente il pubblico ministero che nasconda al giudice le prove a discarico di un imputato in detenzione preventiva che poi verrà scarcerato solo
 

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molto mesi dopo. Un comportamento del genere verrebbe invece severamente punito, e non solo disciplinarmente, proprio in quei Paesi nei quali il pubblico ministero non solo fa parte di un corpo a sé stante, ma ha anche sotto il profilo formale un ruolo marcatamente accusatorio.
      Sull'opportunità di tenere separato il reclutamento dei pubblici ministeri da quello dei giudici esistono poi altre ragioni di non poco rilievo. È utile segnalarne due che derivano dall'evoluzione che si è verificata nel ruolo del pubblico ministero negli ultimi decenni.
      La prima riguarda specificamente il nostro Paese. Ancora quaranta anni fa la stragrande maggioranza dei nostri magistrati aspirava a svolgere le funzioni del giudice civile. Le ricerche sulle motivazioni dei magistrati appena reclutati mostrano come con il passare degli anni si siano venute accentuando fortemente le preferenze per lo svolgimento delle funzioni del pubblico ministero, cioè di un ruolo attivo volto all'individuazione dei reati e dei rei. Nella rilevazione effettuata su 381 uditori assunti nel periodo 1992-1993 è risultato che una consistente maggioranza esprimeva la preferenza per la giurisdizione penale e che tra essi ben il 51,6 per cento degli uditori e il 32,5 per cento delle uditrici desiderava svolgere le funzioni di pubblico ministero (G. Di Federico, Il pubblico ministero: indipendenza, responsabilità, carriera «separata», in «L'indice penale», 1995, pagine 430-435). Che proprio i magistrati con poteri investigativi divenissero il più visibile modello del magistrato di successo, il punto di riferimento delle nuove generazioni di magistrati, non può certo destare meraviglia. Proprio per la loro attività di promozione, direzione e conduzione delle indagini di polizia, numerosi magistrati inquirenti hanno, negli ultimi trenta anni, acquisito fama nazionale diventando simboli positivi e acclamati della lotta al terrorismo, della lotta alla criminalità organizzata, della lotta alla corruzione politica e amministrativa. Sono divenuti, a ragione, visibili e determinanti agenti dello stesso radicale cambiamento degli assetti partitici e istituzionali, come avvenuto nella prima metà degli anni '90. Niente di negativo nel fatto che i giovani siano attratti da questa funzione se non fosse per il fatto che la maggior parte di quelli che entrano in magistratura con quelle motivazioni deve poi essere di necessità destinata a svolgere le funzioni di giudice (la percentuale di posti per le funzioni di pubblico ministero non supera il 20 per cento del totale). Deve essere destinata, cioè, a svolgere un ruolo che è invece per sua natura passivo, di terzo imparziale tra le parti, per quanto possibile non coinvolto o influenzato dalle passioni che agitano la società. Ciascuno porta nel proprio lavoro le motivazioni, i valori e gli orientamenti che lo caratterizzano e che poi in vario modo e misura orientano i suoi comportamenti e le sue azioni anche nello svolgimento dell'attività lavorativa.
      Le ricerche sui processi di selezione mostrano come sia buona regola per il reclutamento di qualsiasi corpo, soprattutto di quelli a cui si richiedono comportamenti professionali ispirati non solo a «scienza» ma anche a «coscienza» e che gestiscono spazi discrezionali di grande rilievo per il cittadino, cercare di attrarre e di acquisire, con adeguati strumenti di selezione, persone che abbiano motivazioni congruenti con le caratteristiche del ruolo lavorativo da svolgere.
      La separazione del processo di selezione e di socializzazione professionale dei pubblici ministeri da quello dei giudici diviene quindi un elemento importante anche per assicurare, in prospettiva, che almeno i giudici abbiano sin dall'inizio e mantengano nel tempo quei valori di terzietà, passività e distacco che sono tipici della «cultura della giurisdizione».
      La seconda ragione riguarda un'evoluzione del ruolo del pubblico ministero avvenuta in tutti i Paesi democratici, soprattutto in quelli in cui il pubblico ministero ha un ruolo, più o meno pregnante, nella direzione delle indagini. Si tratta, da un canto, dell'evoluzione e della maggiore complessità dei fenomeni criminali e del loro accresciuto ambito di azione (terrorismo, criminalità organizzata e riciclaggio di denaro sporco, reati finanziari,
 

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reati informatici eccetera) e, dall'altro, dell'evoluzione delle tecniche e delle tecnologie di indagine. Entrambi questi aspetti dell'evoluzione del ruolo del pubblico ministero rendono sempre più essenziale una specifica preparazione professionale distinta da quella del giudice.
      Ci sembra significativo ricordare come tutte le diverse ragioni fin qui fornite per illustrare l'esigenza di separare la carriera dei pubblici ministeri, sia al fine di meglio proteggere i diritti civili dei cittadini nell'ambito processuale, sia al fine di dare maggiore funzionalità ed efficacia al ruolo del pubblico ministero, siano state rappresentate, in mirabile sintesi, dal magistrato inquirente italiano più noto nel mondo per la sua elevata professionalità, e cioè Giovanni Falcone, che tredici anni fa ebbe a scrivere: «Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l'habitus mentale, le capacità professionali richieste per l'espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall'esecutivo e della discrezionalità dell'azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell'anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura (Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Giovanni Falcone, interventi e proposte (1982-1992), cit., pagina 179).
      Per ovviare quindi alle disfunzioni sin qui indicate, per garantire al contempo una maggiore protezione dei diritti civili nel processo e una maggiore efficienza del pubblico ministero, appare necessario prevedere che l'accesso alle due carriere di giudice e di pubblico ministero avvenga mediante concorsi separati.
      La presente proposta di legge costituzionale contiene altresì le ulteriori modifiche alla Costituzione che derivano dalla separazione delle carriere, sia di ordine letterale, che di natura strutturale.
      Altra novità è l'introduzione di un nuovo organo con funzioni disciplinari, così da evitare che giudici e pubblici ministeri siano giudicati dallo stesso CSM, e soprattutto che si mantenga l'attuale commistione tra le funzioni di amministrazione e quelle disciplinari.
      Com'è noto, il processo accusatorio non prevede, tendenzialmente, il giudizio d'appello: è, questa, la conseguenza diretta della formazione della prova in contraddittorio, davanti al giudice della decisione. Tuttavia, già nel sistema statunitense è prevista una asimmetria dei ricorsi, nel senso che, mentre l'imputato già condannato «in prime cure» può esprimere un numero indeterminato di «reclami» avverso la pronuncia che ne accerti la responsabilità, lo stesso non può predicarsi per l'organo dell'accusa. E ciò non solo avuto riguardo alla veste soggettiva rivestita, ma anche al contenuto oggettivo del provvedimento impugnabile: il public prosecutor, oltre a non poter contrastare un esito assolutorio - che pertanto risulta intangibile - è inibito dall'unire il proprio ricorso a quello dell'imputato, ovviamente al fine contrapposto di ottenere un aggravio di pena, nei confronti di una sentenza di condanna.
      Poiché da più parti, in Italia, si è prospettata l'ipotesi di sopprimere tout court il grado di appello, sembra più che opportuno ribadire in Costituzione questo fondamentale diritto dell'accusato. Del resto, il riesame nel merito della sentenza di condanna è un obbligo di natura internazionale che discende dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, ratificato dall'Italia e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881.
      La citata riforma dell'articolo 111 della Costituzione ha introdotto il fondamentale
 

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principio della ragionevole durata del processo. Senonché, la formulazione in chiave oggettiva, e non come diritto della parte, e in particolare dell'imputato, ha indotto una parte della giurisprudenza, oltre che della dottrina, a ritenere che la ragionevole durata possa giustificare l'attenuazione di taluni diritti della difesa. Perciò sembra opportuno rendere evidente che anche la «ragionevole durata» è un diritto della parte e, in specie, e soprattutto, dell'accusato.
      Infine, con fatica si è andato affermando nella giurisprudenza della Corte costituzionale il nuovo volto del processo penale, anche passando attraverso forti contrasti con il Parlamento. Non solo: la Corte, attraverso le sentenze additive, sostitutive e interpretative, interviene sempre più incisivamente sul sistema normativo.
      Perciò, è utile introdurre a livello costituzionale il principio della dissenting opinion che, nella giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, ha spesso costituito la nascita di nuovi orientamenti che, talora, da minoritari sono divenuti maggioritari.
 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

      1. Il secondo comma dell'articolo 27 della Costituzione è sostituito dal seguente:

      «L'imputato è presunto innocente sinché il pubblico ministero ne dimostri la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio».

Art. 2.

      1. Il primo comma dell'articolo 102 della Costituzione è sostituito dal seguente:

      «La funzione giurisdizionale è esercitata da giudici ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario».

Art. 3.

      1. Il terzo comma dell'articolo 102 della Costituzione è sostituito dal seguente:

      «La legge regola i casi e le forme della diretta amministrazione della giustizia da parte del popolo».

Art. 4.

      1. L'articolo 104 della Costituzione è sostituito dal seguente:

      «Art. 104. - I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Il Consiglio superiore della magistratura giudicante è presieduto dal Presidente della Repubblica. Ne fa parte di diritto il primo presidente della Corte di cassazione.
      Gli altri componenti sono scelti per la metà tra i giudici ordinari con le modalità stabilite dalla legge e, per l'altra metà, dal Parlamento in seduta comune tra professori

 

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ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio. Durano in carica quattro anni e non sono immediatamente riconfermabili.
      Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale, provinciale o comunale.
      Il Consiglio elegge un vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento».

Art. 5.

      1. L'articolo 105 della Costituzione è sostituito dal seguente:

      «Art. 105. - Spettano al Consiglio superiore della magistratura giudicante, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti e le promozioni dei giudici.
      Competenze aggiuntive possono essere attribuite solo con legge costituzionale».

Art. 6.

      1. Dopo l'articolo 105 della Costituzione, come sostituito dall'articolo 3 della presente legge costituzionale, è inserito il seguente:

      «Art. 105-bis. - Il Consiglio superiore della magistratura requirente è presieduto dal Ministro della giustizia o da un suo delegato.
      Ne fa parte di diritto il procuratore generale della Corte di cassazione.
      Gli altri componenti sono scelti per la metà tra i pubblici ministeri ordinari con le modalità stabilite dalla legge e, per l'altra metà, dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche, gli avvocati dopo quindici anni di esercizio e gli esperti di criminologia e di tecniche di indagine. Durano in carica quattro anni e non sono immediatamente riconfermabili.
      Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale, provinciale o comunale.

 

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      Il Consiglio elegge un vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento».

Art. 7.

      1. Dopo l'articolo 105-bis della Costituzione, introdotto dall'articolo 4 della presente legge costituzionale, è inserito il seguente:

      «Art. 105-ter. - Spettano al Consiglio superiore della magistratura requirente, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti e le promozioni dei magistrati requirenti.
      Competenze aggiuntive possono essere attribuite solo con legge costituzionale».

Art. 8.

      1. Dopo l'articolo 105-ter della Costituzione, introdotto dall'articolo 5 della presente legge costituzionale, è inserito il seguente:

      «Art. 105-quater. - La Corte di giustizia disciplinare è composta da dodici membri scelti per la metà, e in pari numero, tra i presidenti e i procuratori generali di corte d'appello, con le modalità stabilite dalla legge, e, per l'altra metà, dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio.
      La Corte elegge il presidente tra i presidenti di corte d'appello.
      Spettano alla Corte i provvedimenti disciplinari nei confronti dei giudici e dei pubblici ministeri ordinari».

Art. 9.

      1. L'articolo 106 della Costituzione è sostituito dal seguente:

      «Art. 106. - Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorso.

 

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      La legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.
      La legge può prevedere altresì la nomina di avvocati e di professori universitari di materie giuridiche a tutti i livelli della giurisdizione».

Art. 10.

      1. L'articolo 107 della Costituzione è sostituito dal seguente:

      «Art. 107. - I giudici sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura giudicante o della Corte di giustizia disciplinare, secondo le rispettive competenze, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso.
      Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l'azione disciplinare.
      Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario».

Art. 11.

      1. L'articolo 110 della Costituzione è sostituito dal seguente:

      «Art. 110. - Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura giudicante e del Consiglio superiore della magistratura requirente, spettano al Ministro della giustizia l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia».

Art. 12.

      1. Al secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione, il secondo periodo è soppresso.
      2. Dopo il secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione, come modificato

 

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dal comma 1 del presente articolo, è inserito il seguente:

      «Ciascuna persona ha diritto che la sua causa sia esaminata in un tempo ragionevole».

Art. 13.

      1. Dopo il sesto comma dell'articolo 111 della Costituzione è inserito il seguente:

      «Ogni persona condannata per un reato ha diritto a che l'accertamento della sua colpevolezza sia riesaminato da un giudice di secondo grado».

Art. 14.

      1. L'articolo 112 della Costituzione è sostituito dal seguente:

      «Art. 112. - Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale nei casi e secondo le forme previste dalla legge».

Art. 15.

      1. All'articolo 136 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma:

      «Con la decisione, ciascun giudice della Corte può depositare la propria opinione in difformità o in dissenso dalla maggioranza».


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