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PDL 1829

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1829



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

CARTA, VIOLANTE, ALLAM, BALDUCCI, BELLILLO, BENVENUTO, BOATO, BUEMI, CARDINALE, CECCUZZI, CESINI, CREMA, DATO, DE ANGELIS, DI GIOIA, FABRIS, FADDA, GAMBESCIA, GIACHETTI, GIUDITTA, INTRIERI, LUONGO, MARAN, MARINO, MATTARELLA, MORRONE, MUSI, OLIVERIO, PINOTTI, PORETTI, SAMPERI, SANNA, SOFFRITTI, SPINI, VACCA, VANNUCCI

Disposizioni in materia di tutela del diritto all'oblio dei soggetti sottoposti a procedimento penale

Presentata il 16 ottobre 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - Come è noto, il vigente corpus normativo nazionale e comunitario tutela, in modo sempre più ampio e dettagliato, la persona sotto il profilo della privacy.
      Il diritto alla privacy - la cui nozione è nata negli Stati Uniti sul finire del XIX
secolo con il famoso «caso Warren-Brandeis» (si veda l'articolo The right to privacy, Harward Law Review, 1890) per tutelare l'individuo da ingiustificate stigmatizzazioni sociali - deve essere inteso, anzitutto, come diritto di «essere lasciati in pace» (cosiddetto «diritto all'oblio») e di non subire discriminazioni di alcun genere.
      Il diritto alla privacy comprende anche il diritto di ciascuno alla protezione e al controllo dei propri dati personali e della circolazione dei medesimi.
      Tale profilo assume, in un'epoca ormai completamente informatizzata, particolare rilievo, tanto che la disciplina in materia di protezione dei dati personali si è via via ampliata con nuove norme, sempre più incisive, finalizzate a regolamentare nel minimo dettaglio l'attività di professionisti, giornalisti, datori di lavoro, istituzioni
 

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pubbliche, banche, compagnie assicurative eccetera, nella gestione e nel trattamento dei dati personali altrui.
      Ciò, naturalmente, nel rispetto anche delle libertà costituzionalmente riconosciute ai soggetti gestori o detentori dei dati personali tutelati.
      Il Parlamento italiano, in attuazione della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, ha emanato la legge 31 dicembre 1996, n. 675.
      Essa rappresenta il primo provvedimento legislativo organico in materia di tutela dei dati personali, salvo il precedente, ma certamente parziale, disposto di cui all'articolo 8 del cosiddetto «statuto dei lavoratori» (legge n. 300 del 1970).
      Non possono, poi, non ricordarsi in materia: l'articolo 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva dalla legge n. 848 del 1955, gli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, poi recepiti dagli articoli II-67 e II-68 della Costituzione europea, nonché la direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche.
      Infine, con il decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, è stato adottato il codice in materia di protezione dei dati personali (il cosiddetto «codice sulla privacy»).
      Orbene, l'attuale impianto normativo in materia di privacy, seppure in linea di massima conforme ai princìpi generali fissati, in materia, dal Parlamento europeo e dalla Commissione europea, presenta alcune rilevanti lacune che consentono e agevolano l'aggressione alla privacy di soggetti «deboli».
      Tra questi soggetti particolare attenzione meritano coloro che stanno scontando o che hanno scontato una condanna penale, ma il discorso può estendersi più in generale a chi è stato sottoposto a un procedimento penale in esito al quale è stato assolto.
      La protezione dei dati personali di tali soggetti - intesa, per ciò che rileva ai fini della presente proposta di legge, come diritto all'oblio in ordine all'intera vicenda sostanziale e processuale sottesa alla sentenza di condanna (o anche di assoluzione) pronunciata nei loro confronti - non solo riveste una notevole importanza in sé, ma si pone come imprescindibile presupposto per l'esercizio di tutta una serie di altri diritti che ad essa si riconnettono.
      In primis, per quanto riguarda in particolare i condannati, il diritto al reinserimento sociale degli stessi.
      Come noto, il problema della finalità della pena ha formato oggetto di un ampio dibattito.
      Sul punto pare opportuno evidenziare come il diritto all'oblio delle persone condannate assume particolare rilievo ai fini della funzione della pena applicata. Negli ordinamenti moderni appare evidente come la pena abbia una funzione sia retributiva sia (soprattutto) rieducativa.
      La stessa Carta costituzionale prevede espressamente all'articolo 27, secondo comma, che «Le pene (...) devono tendere alla rieducazione del condannato». La pena, in sostanza, oltre ad avere una chiara finalità retributivo-preventiva, persegue anche lo scopo di modificare, in senso sociale, la personalità del reo.
      Proprio in vista del conseguimento di tali obiettivi, tra l'altro, il legislatore si è posto il problema di disciplinare la proporzionalità edittale della pena all'effettiva gravità del reato commesso (principio retributivo) e in considerazione delle esigenze specialpreventivo-risocializzative del soggetto.
      La rieducazione deve essere considerata come concetto di relazione, rapportabile alla vita sociale: essa postula un ritorno del soggetto nella comunità.
      Il concetto di rieducazione va, quindi, inteso come solidaristica offerta di opportunità, cioè come creazione delle condizioni
 

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obiettive perché al soggetto sia data la possibilità di un progressivo reinserimento sociale (si veda, sul punto, Fernando Mantovani, Diritto Penale. Parte generale, CEDAM, 1992, pagina 755 e seguenti).
      Orbene, grazie alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (giornali, televisione, internet), accade molto spesso che un soggetto, in passato sottoposto a procedimento penale, subisca continue aggressioni alla sua privacy attraverso la periodica rievocazione (e in alcuni casi, attraverso internet, la definitiva cristallizzazione) di fatti ormai risalenti nel tempo e che non hanno più alcun interesse pubblico.
      A propria difesa, i giornalisti che pubblicano informazioni relative a soggetti che hanno già scontato una pena o che stanno finendo di scontarla (o che addirittura, all'esito del processo, sono stati assolti) invocano il diritto, costituzionalmente riconosciuto (articolo 21 della Costituzione), della libertà di manifestazione del pensiero.
      Certamente la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure, ma ciò nel rispetto dei diritti fondamentali della persona e, nel particolare caso del condannato, della finalità della stessa pena scontata (anch'essa, come detto, di rilevanza costituzionale).
      Il codice sulla privacy contiene dettagliate norme destinate a proteggere i dati sensibili delle persone fisiche e giuridiche.
Segnatamente, l'allegato A annesso al predetto codice, recante al punto A.1 il codice di deontologia, prevede specifiche disposizioni per il trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica.
      L'articolo 6 del citato codice di deontologia, rubricato «Essenzialità dell'informazione», statuisce, al comma 1, che «La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l'informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell'originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti».
      Inoltre, il successivo articolo 12, sotto la rubrica «Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali», prevede, al comma 2, che «Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'articolo 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del codice di procedura penale [relativo alle iscrizioni nel casellario giudiziale] è ammesso nell'esercizio del diritto di cronaca, secondo i princìpi di cui all'articolo 5» (il quale stabilisce che il giornalista garantisce il diritto all'informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell'essenzialità dell'informazione, evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti).
      Meritano, sul punto, menzione alcune recenti pronunce giurisdizionali.
      In particolare, il tribunale di Roma, nel condannare il quotidiano «Il Messaggero», ha statuito che «la ripubblicazione, dopo circa trent'anni dall'accaduto, di un grave fatto di cronaca nera, con fotografia del reo confesso, a fini di mera promozione commerciale, costituisce diffamazione a mezzo stampa ed obbliga l'editore del quotidiano al risarcimento del danno morale, trattandosi di notizia priva di pubblico interesse e per ciò inidonea ad integrare gli estremi del legittimo esercizio del diritto di informazione e di cronaca» (Tribunale Roma, 15 maggio 1995 - N.N.c. Il Messaggero ed.).
      In una successiva sentenza, lo stesso tribunale capitolino ha stabilito che «la riproduzione di vicende attinenti alla vita privata del condannato è suscettibile di produrre un danno ingiusto al diritto all'oblio del familiare in difetto di un interesse pubblico attuale alla conoscenza di tali vicende» (Tribunale Roma, 20 novembre 1996 - Vulcano e altri c. Rai TV e altri).
      Inoltre, la Suprema Corte ha chiarito che «la divulgazione a mezzo stampa di notizie che arrecano pregiudizio all'onore e alla reputazione altrui deve, in base al diritto di cronaca, considerarsi lecita quando ricorrono tre condizioni, la verità oggettiva della notizia pubblicata, l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta pertinenza) e la correttezza
 

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formale dell'esposizione (cosiddetta continenza)» (Cassazione Civile, sezione III, n. 3679 del 1998).
      Tale ultima sentenza, nella parte motiva, ha precisato che «il diritto di cronaca può poi risultare limitato dall'esigenza dell'attualità della notizia, quale giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente pubblicata, salvo che, per eventi sopravvenuti, il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico all'informazione» (citata Cassazione Civile, sezione III, n. 3679 del 1998).
      D'altra parte, la salvaguardia della dignità della persona e la protezione dei dati di carattere personale trovano fondamento già nella Costituzione europea in tema di tutela della dignità umana.
      In particolare, l'articolo II-61 statuisce che «la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata», mentre il successivo articolo II-68, in tema di protezione dei dati personali, stabilisce che «Ogni persona ha il diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge».
      Tali princìpi, ampiamente recepiti dalla citata normativa nazionale, sono altresì ribaditi dalla ricordata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il cui articolo 8 stabilisce, al paragrafo 1, che «Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare».
      Lo stesso Garante per la protezione dei dati personali, nella relazione del 2004, pagine 53-54, ripresa poi dalla relazione annuale del 2006, all'esito dell'istruttoria di diverse segnalazioni e di alcuni reclami, ha ribadito che la pubblicazione di dati giudiziari (ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera e), del codice sulla privacy) è ammessa, pur senza il consenso dell'interessato, ma «nel presupposto dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico» (si veda l'articolo 137, comma 3, del citato codice e l'articolo 12 dell'allegato A, punto A.1, annesso al medesimo codice, recante il codice di deontologia per l'attività giornalistica).
      La sussistenza del carattere di essenzialità dell'informazione deve essere valutata necessariamente caso per caso, nel contesto dei fatti narrati (articolo 6 del citato codice di deontologia per l'attività giornalistica), come già specificato nel documento del Garante per la protezione dei dati personali del 6 maggio 2004, inviato all'Ordine nazionale dei giornalisti.
      Si evidenzia, poi, che sulla questione è intervenuto anche il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa con una dichiarazione e con la raccomandazione (2003)13 del 10 luglio 2003.
      La dichiarazione, innanzitutto, richiama alcuni princìpi fondamentali in materia di informazioni fornite dai media in relazione a procedimenti penali, fra i quali il diritto alla libera manifestazione del pensiero, il diritto di rettifica o di replica, il diritto ad avere un giusto processo, ma anche la tutela della vita privata e familiare, e invita gli Stati membri a promuovere, anche attraverso gli organi di autodisciplina, il rispetto da parte dei media dei princìpi stabiliti nella raccomandazione (2003)13. Ciò comporta, in particolare, l'esigenza di tutelare la dignità, la sicurezza e la privacy di tutti i soggetti coinvolti in un procedimento penale (imputati, vittime, familiari, testimoni) ai sensi dell'articolo 8 della citata Convenzione europea.
      La raccomandazione, poi, enumera, in 18 punti, quelli che, a giudizio del Consiglio d'Europa, devono essere i princìpi ispiratori dell'attività giornalistica in merito ai procedimenti penali. I Ministri tentano un bilanciamento fra diritti di rango paritario, quali il diritto di cronaca e il diritto alla privacy, entrambi sanciti dalla ricordata Convenzione europea dei diritti dell'uomo e ribaditi in numerosi atti anche da parte del Consiglio d'Europa.
      Da un lato si riconosce, infatti, il diritto del pubblico ad essere informato adeguatamente
 

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attraverso i media e il diritto dei giornalisti di ottenere informazioni accurate. Dall'altro, si ricorda che i media hanno il dovere di rispettare la privacy delle persone coinvolte in procedimenti penali (principio 8), nonché delle vittime, dei testimoni e dei familiari di persone sospettate, imputate o condannate.
      Ciò comporta anche la necessità di tenere conto delle possibili conseguenze derivanti dalla rivelazione di informazioni che consentano l'identificazione di tali categorie di persone.
      Degne di nota sono, in questa sede, le disposizioni relative al cosiddetto «diritto all'oblio».
      Il Comitato dei Ministri specifica, infatti, nella raccomandazione, che ai giornalisti dovrebbe essere consentito di avere contatti con persone che scontano pene detentive in carcere, nella misura in cui ciò non pregiudichi la corretta amministrazione della giustizia, i diritti dei detenuti e del personale penitenziario o la sicurezza dell'istituto di detenzione (principio 17).
      Infine, nella raccomandazione del Consiglio d'Europa, il diritto alla privacy, previsto dal sopra citato articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, viene esteso fino a comprendere il dovere di tutelare l'identità di chiunque abbia scontato una condanna giudiziaria.
      Segnatamente, il principio 18 della raccomandazione in esame, rubricato «Informazioni dei media relative a sentenze di condanna», statuisce che «Al fine di non pregiudicare il reinserimento sociale di soggetti che hanno scontato sentenze di condanna penale, il diritto di proteggere la privacy previsto dall'articolo 8 della Convenzione [europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali] dovrebbe includere il diritto di proteggere l'identità di tali soggetti in relazione ai reati precedentemente commessi, a meno che i condannati diano il proprio consenso alla divulgazione delle informazioni che li riguardano oppure questi, e il reato da loro commesso, continuino o tornino ad essere di interesse pubblico».
      Orbene, nonostante l'imponente impianto normativo nazionale e comunitario innanzi citato, i soggetti che hanno avuto la sventura di essere stati sottoposti, in passato, a un procedimento penale sono molto spesso oggetto di aggressione alla loro privacy da parte dei media che, attraverso carta stampata, internet e televisione, divulgano informazioni ormai prive di un interesse pubblico meritevole di tutela, ma che, spesso, vengono utilizzate ai soli fini di mera promozione commerciale e ridotte a veri e propri «gossip» (pettegolezzi).
      Sono sempre più numerosi i casi portati dinanzi all'autorità giudiziaria e al Garante per la protezione dei dati personali.
      Quest'ultimo, addirittura, in relazione a una serie di casi di pubblicazione su internet dei dati giudiziari (tra cui sentenze di condanna) relativi a soggetti italiani, si è trovato nell'impossibilità di procedere con la società italiana rappresentante di un noto provider californiano (Google), la quale, infatti, ha rinviato le legittime lamentele dell'Authority italiana alla sede centrale californiana del provider.
      La disponibilità del provider americano a costituire un tavolo tecnico con l'Authority italiana per affrontare il problema della cancellazione dei dati giudiziari e di quelli relativi a condanne penali, pubblicati (e cristallizzati) su pagine internet, non ha allo stato risolto, né certamente risolverà, in modo definitivo il problema.
      Infatti, a fronte della copiosa normativa in materia, appare evidente come ad oggi, non vi sia alcuna disposizione che tuteli, in modo chiaro e preciso, il cosiddetto «diritto all'oblio» ossia che limiti efficacemente - per giornali, televisioni, e web provider - l'attuale possibilità di pubblicare indiscriminatamente informazioni personali afferenti a soggetti che hanno scontato (o stanno scontando) condanne penali in relazione a vicende risalenti nel tempo o che, ancorché assolti, hanno soltanto avuto la sventura di essere stati, con
 

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riferimento alle medesime vicende, sottoposti a procedimento penale.
      Si ritiene, infatti, che, in ossequio ai princìpi costituzionali (nazionali e comunitari) innanzi esposti e alla citata raccomandazione del Consiglio d'Europa del 2003 (principio 18), si renda necessario predeterminare - una volta per tutte e salve tassative eccezioni - il periodo di tempo oltre il quale un soggetto sottoposto a procedimento penale maturi il diritto a non vedere più il proprio nome «accostato» alla vicenda processuale.
      Per quanto concerne, in particolare, il condannato, in funzione della necessità di un suo pieno reinserimento sociale, fatto salvo l'eventuale effettivo interesse pubblico (da provare rigorosamente), si reputa «non attuale» (e, quindi, non pubblicabile e non «trattabile») una informazione personale direttamente o indirettamente correlata alla precedente condanna subita da un soggetto, dopo che sono trascorsi cinque anni, se la pena inflitta è pari o inferiore a quindici anni, oppure dieci anni, se essa è superiore a quindici anni.
      A precisazione di quanto sopra osservato, il dies a quo dei predetti periodi di tempo coincide con la data del passaggio in giudicato della sentenza, e, sotto altro profilo, rileva la pena originariamente inflitta, non già quella eventualmente ridotta in virtù dell'applicazione di benefici o di altri istituti premiali.
      Inoltre, in caso di assoluzione, il termine oltre il quale opera il divieto di cui alla presente proposta di legge è in ogni caso di cinque anni, con decorrenza dal momento in cui la sentenza diverrà definitiva.
      Si noti, del resto, che nell'ordinamento penale vigente esistono già istituti che, nella medesima ottica specialpreventiva della proposta tutela del cosiddetto «diritto all'oblio», attribuiscono rilievo al decorso di un periodo di tempo predeterminato ex lege per riconoscere (o restituire) al condannato diritti (o facoltà).
      Si pensi all'istituto della riabilitazione (articoli 178-179 del codice penale), con cui, in presenza di determinati presupposti (tra cui, appunto, il decorso di tre/dieci anni dall'esecuzione o, comunque, dalla estinzione della pena principale), si estinguono le pene accessorie e gli effetti penali della condanna: in altri termini, allo scopo di non pregiudicare il reinserimento sociale del reo, gli vengono «restituite» alcune delle facoltà giuridiche che, in conseguenza della condanna, erano state escluse o compresse.
      Dal punto di vista sistematico, la presente proposta di legge si sviluppa in sei articoli.
      I primi tre recano la tutela del diritto all'oblio, prevedendone l'oggetto, le esclusioni e, in caso di violazione, le relative sanzioni.
      In particolare, all'articolo 1 si definisce l'oggetto del divieto di pubblicazione e di trattamento e si fissa la conseguente sanzione penale.
      All'articolo 2 si esclude l'applicazione del divieto in presenza di un interesse pubblico attuale al trattamento o alla pubblicazione, di un'autorizzazione preventiva del Ministro della giustizia (comma 1) o del consenso scritto dell'interessato (comma 2).
      A quest'ultimo riguardo, nel successivo comma 3, viene disciplinata l'ipotesi di una pluralità di persone sottoposte a procedimento penale, distinguendosi a seconda che esse siano state tutte condannate (in tal caso il divieto di cui all'articolo 1 non si applica soltanto se il consenso è rilasciato per iscritto da ciascuna di loro) ovvero che nei confronti di taluna di dette persone siano stati pronunciati una sentenza di assoluzione, di non luogo a procedere, di non doversi procedere o un provvedimento di archiviazione (in tale evenienza, ai fini della pubblicazione o del trattamento, è sufficiente che il consenso sia prestato da tale soggetto, ma nella pubblicazione o nel trattamento dovrà essere omesso ogni riferimento alle altre persone sottoposte al medesimo procedimento penale che non abbiano prestato analogo consenso).
      Nel medesimo articolo sono, altresì, previste talune esclusioni di carattere «soggettivo»: da un lato, coloro che abbiano
 

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riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, nonché i delinquenti o contravventori abituali o professionali (comma 4), e, dall'altro lato, le persone che esercitano o hanno esercitato funzioni pubbliche, sempre che le notizie o i dati abbiano rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica (comma 5).
      È poi sempre consentito il trattamento dei dati giudiziari, ove sia necessario per scopi scientifici o statistici ovvero per scopi storici presso archivi privati dichiarati di notevole interesse storico (comma 6).
      All'articolo 3 si prevede che il pubblico dipendente o il professionista che viola il divieto di pubblicazione o di trattamento, non soltanto incorre in un illecito disciplinare, ma è tenuto, per ogni violazione, alla compensazione pecuniaria di 25.000 euro, salvo il diritto al risarcimentodell'eventuale maggior danno.
      L'articolo 4 rinvia all'articolo 114 del codice di procedura penale, relativo al divieto di pubblicazione di atti del procedimento penale, al fine di estendere il divieto ai casi di violazione del diritto all'oblio dei soggetti sottoposti a procedimento penale; l'articolo 5, invece, apporta al codice sulla privacy le modifiche necessarie al fine di armonizzare il contenuto alle disposizioni di cui alla presente proposta di legge.
      Da ultimo, l'articolo 6 rinvia l'entrata in vigore della legge al 1o gennaio 2008, onde consentire a tutti gli operatori (ivi compresi i gestori di motori di ricerca su internet) l'adozione dei necessari accorgimenti per l'adeguamento alle disposizioni della legge medesima.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Diritto all'oblio dei soggetti sottoposti a procedimento penale).

      1. Sono vietati la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, anche telematico, compresi i metadati presenti nel linguaggio HTML utilizzati per fornire informazioni sulle pagine internet agli utenti o ai motori di ricerca, di atti relativi a un procedimento penale, anche se archiviato, e delle informazioni anche indirettamente connesse ai fatti che hanno formato oggetto dello stesso, nonché il trattamento dei dati giudiziari definiti ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera e), del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, dopo che, dal passaggio in giudicato della sentenza o dal provvedimento definitivo che ha disposto l'archiviazione, sono decorsi:

          a) cinque anni, se la pena inflitta è pari o inferiore a quindici anni;

          b) dieci anni, se la pena inflitta è superiore a quindici anni;

          c) cinque anni, in caso di assoluzione, di non luogo a procedere, di non doversi procedere o di archiviazione.

      2. Decorsi i termini di cui al comma 1, è vietata la pubblicazione dell'immagine delle persone indicate al medesimo comma 1 e dei loro congiunti.
      3. Chiunque viola il divieto di cui ai commi 1 e 2 è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore a 516 euro.

 

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Art. 2.
(Esclusioni).

      1. Il divieto previsto dall'articolo 1 non si applica se sussiste un interesse pubblico attuale alla pubblicazione o al trattamento ovvero se la pubblicazione o il trattamento sono preventivamente autorizzati dal Ministro della giustizia.
      2. Sono sempre consentiti la pubblicazione o il trattamento degli atti, delle informazioni e dei dati di cui all'articolo 1, se la persona sottoposta al procedimento penale presta per iscritto il proprio consenso al trattamento o alla pubblicazione.
      3. In caso di pluralità di condannati, il divieto di cui all'articolo 1 non si applica soltanto se il consenso è rilasciato per iscritto da ciascuno di loro. In caso di pluralità di persone sottoposte al procedimento penale, sono sempre consentiti la pubblicazione o il trattamento degli atti, delle informazioni e dei dati di cui all'articolo 1, se la persona nei cui confronti siano stati pronunciati una sentenza di assoluzione, di non luogo a procedere, di non doversi procedere o un provvedimento di archiviazione vi abbia acconsentito per iscritto. In tal caso, nella pubblicazione o nel trattamento deve essere omesso ogni riferimento alle altre persone sottoposte al medesimo procedimento penale che non abbiano prestato analogo consenso.
      4. Il divieto previsto dall'articolo 1, comma 1, lettere a) e b), non si applica in relazione alla persona che ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione, al delinquente o al contravventore abituale o professionale.
      5. Il divieto previsto dall'articolo 1 non si applica in relazione alle persone che esercitano o hanno esercitato funzioni pubbliche, sempre che le notizie o i dati abbiano rilievo attuale sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica.
      6. Il trattamento dei dati giudiziari di cui al comma 1 dell'articolo 1 è sempre consentito ove sia necessario per esclusivi scopi scientifici o statistici, ovvero per

 

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esclusivi scopi storici presso archivi privati dichiarati di notevole interesse storico ai sensi degli articoli 12 e 13 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni.

Art. 3.
(Sanzioni disciplinari, compensazione pecuniaria e risarcimento del danno).

      1. Salve le sanzioni previste dalla legge penale, la violazione del divieto previsto dall'articolo 1 costituisce illecito disciplinare quando il fatto è commesso da un impiegato dello Stato o di altri enti pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato.
      2. D'ufficio o su istanza di chiunque vi abbia interesse, il procuratore della Repubblica presso il giudice competente per il procedimento cui gli atti, le informazioni o i dati di cui all'articolo 1 si riferiscono informa immediatamente l'organo titolare del potere disciplinare di ogni violazione del divieto commessa dalle persone indicate dal comma 1 del presente articolo.
      3. Ogni violazione del divieto previsto dall'articolo 1 obbliga il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, devono rispondere del fatto di lui alla compensazione pecuniaria pari a 25.000 euro, salvo il risarcimento del maggior danno.

Art. 4.
(Rinvio all'articolo 114 del codice di procedura penale).

    1.  Ai fini di cui all'articolo 114 del codice di procedura penale, è sempre vietata la pubblicazione di atti e di immagini del procedimento penale oltre i termini e al di fuori dei casi previsti dalla presente legge.

 

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Art. 5.
(Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196).

      1. Al codice di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) all'articolo 11, comma 1, lettera e), sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «comunque nel rispetto dei termini e delle disposizioni stabilite dalla legge in materia di diritto all'oblio dei soggetti sottoposti a procedimento penale»;

          b) all'articolo 24, comma 1, sono premesse le seguenti parole: «Salvo quanto previsto dalla legge in materia di diritto all'oblio dei soggetti sottoposti a procedimento penale»;

          c) all'articolo 27, comma 1, dopo la parola: «consentito» sono inserite le seguenti: «nei limiti previsti dalla legge in materia di diritto all'oblio dei soggetti sottoposti a procedimento penale»;

          d) all'articolo 137, è aggiunto, in fine, il seguente comma:

      «3-bis. Ai trattamenti indicati nell'articolo 136 si applicano le disposizioni della legge in materia di diritto all'oblio dei soggetti sottoposti a procedimento penale»;

          e) all'articolo 139, dopo il comma 5 sono aggiunti i seguenti:

      «5-bis. Il Garante propone al Consiglio le modificazioni o integrazioni al codice di deontologia relativo ad attività giornalistiche per l'adeguamento alle disposizioni della legge in materia di diritto all'oblio dei soggetti sottoposti a procedimento penale.
      5-ter. Il Consiglio è tenuto a recepire le modificazioni o integrazioni di cui al comma 5-bis entro sei mesi dalla proposta del Garante.
      5-quater. In caso di mancata adozione da parte del Consiglio delle modificazioni

 

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o integrazioni di cui al comma 5-ter, si applicano le disposizioni del comma 3».

Art. 6.
(Entrata in vigore).

      1. Le disposizioni di cui alla presente legge entrano in vigore il 1o gennaio 2008. A decorrere da tale data, esse si applicano anche alle violazioni relative a trattamenti o pubblicazioni che, ancorché antecedenti, non siano stati adeguati alla disciplina prevista dalla presente legge.


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