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PDL 889

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 889



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato MAZZONI

Delega al Governo per la riforma del codice di procedura civile

Presentato il 24 maggio 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - L'insoddisfazione circa lo stato della giurisdizione civile è generale ed è, seppur con diversi accenti, di continuo manifestata: nonostante i ripetuti interventi del legislatore, accentuatisi negli ultimi anni, a problemi antichi e irrisolti, si sono aggiunti problemi nuovi, mentre nodi organizzativi si intersecano continuamente con problemi di rito. L'opportunità di intervenire è certa, ma in questo contesto la strada di ulteriori aggiustamenti appare non più praticabile.
      La consapevolezza che buona parte dei problemi - con in testa quello della patologica durata delle procedure - dipende da problemi di struttura, non impedisce però di esprimere un giudizio critico su congruenza, adeguatezza e razionalità dell'attuale disciplina processuale. In questa direzione si impongono interventi diretti sul codice di procedura civile, ma con chiara visione del loro scopo e dei loro limiti. Essi devono essere organici, significativi e coraggiosi, ma esigono anche di non travalicare lo sforzo di riordino e di razionalizzazione: in altre parole, non possono certo essere tali da condurre allo stravolgimento del codice e, quindi, alla rifondazione del diritto processuale. Occorre, infatti, tener fermo che i princìpi-base sono comuni a tutti i sistemi europei e sarebbe inconcepibile voler «inventare» un sistema processuale del tutto avulso dalla storia. Anzi, le linee guida dell'intervento poggiano sui postulati che Chiovenda ha consegnato alla dottrina italiana e la stessa Corte costituzionale ha più volte utilizzato, ma che non sempre sono attuati nella normativa in vigore: che «il processo deve dare quello, tutto quello e solo quello che spetta secondo il diritto sostanziale»; che «la durata del processo non deve pregiudicare la parte che ha ragione»; che «il processo deve tendere alla decisione di merito e quindi i vizi del rito - ovviamente
 

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se sanabili - debbono poter essere emendati, senza dar luogo ad una «absolutio ab instantia». Il momento appare maturo per un'operazione generale di riordino globale del «corpus» normativo, che risente in maniera accentuata di interventi ripetuti nel tempo e spesso privi di coordinamento, anche a causa della confliggente ispirazione di taluni di essi.

Il codice di procedura civile del 1942: le ragioni di una ristrutturazione complessiva.

      Vi è un «cahier de doléances» la cui notorietà trascende il mondo degli addetti ai lavori: la lunghezza dei tempi è universalmente considerata eccessiva; parimenti eccessivo appare il carico di formalismo; l'effettività delle pronunce è investita da scetticismo; il funzionamento delle procedure esecutive è considerato insoddisfacente.
      Lo stato di deterioramento del sistema processuale delineato dal codice, anche a seguito di molteplici interventi legislativi che si sono stratificati sul corpus originario, è fotografato da un dato, particolarmente significativo per gli operatori, indicatore del disordine in cui versa il codice:

          a) nel testo attuale oltre 70 articoli sono «vacanti», in quanto abrogati da norme successive;

          b) nel testo attuale circa una cinquantina di articoli hanno «numerazione ripetuta», in quanto norme successive hanno provveduto ad introdurre nuovi articoli;

          c) numerosi istituti sono oggi regolati «in condominio» tra normativa codicistica e normativa speciale (valgano per tutti le paradossali scissioni delle regole di funzionamento del processo del lavoro tra articoli del codice ed articoli - ristrutturati e rinumerati molte volte - di vari decreti legislativi esterni al codice, nonché delle norme sulla giurisdizione nazionale, scomposte tra articoli del codice e legge n. 218 del 1995).

      L'esigenza di una razionalizzazione, anche formale, del testo normativo non è, pertanto, più rinviabile. Si è voluto e dovuto affrontare questo problema, seguendo l'ordine dell'attuale codice e intervenendo laddove ritenuto opportuno per modificare la disciplina vigente.
      Le proposte riguardano la maggioranza degli istituti, sia pure in misura considerevolmente diversa l'uno dall'altro. Esse nascono essenzialmente dallo stato della prassi giudiziaria, desunto dall'esperienza tratta dalla quotidiana pratica nelle aule giudiziarie.
      Si è ritenuto essenziale riesaminare non certamente il ruolo in sé del giudice nel processo civile, bensì il modo in cui tale ruolo è stato attuato dal vigente codice ed in quale modo, viceversa, esso possa essere più efficacemente realizzato per farne il perno effettivo e centrale del processo.
      L'attuale disciplina è caratterizzata da una eccessiva utilizzazione del giudice per il compimento di attività sostanzialmente estranee - e comunque superflue - rispetto a quella sua tipica; attività che non solo sottraggono tempo al giudice, ma dilatano i tempi del processo, in quanto la necessità di udienze non strettamente funzionali al «giudicare» impone lunghi intervalli tra di esse.
      La riforma propone, pertanto, di «liberare» il giudice da incombenti meramente ordinatori, che rendono il processo rigido ed insensibile alle peculiarità delle singole controversie, così restituendo all'udienza - fissata su istanza di una delle parti - la funzione di effettiva ed orale sede del contraddittorio ed al giudice il ruolo di chi la prepara, individuandone i «temi» nel relativo decreto di fissazione, e la gestisce con pienezza di poteri.
      Attraverso questa tecnica, peraltro, è attribuita alle parti la possibilità di dare alla trattazione della causa l'ampiezza ritenuta necessaria, attraverso un meccanismo idoneo a stroncare sul nascere ogni intento dilatorio: sicché risulta esaltato il ruolo del difensore, ma anche accentuata la sua responsabilità, in quanto questi sarà chiamato a valutare autonomamente la

 

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sufficienza della trattazione svolta, cioè l'esaustività delle allegazioni e delle prove offerte per pervenire ad una decisione favorevole, valutazione che presuppone elevata professionalità e responsabilità: si dimostra, in tale modo, che anche modifiche del rito - si pensi, ancora, alle prove assunte con forme processuali ma fuori del processo e prima di esso, per prevenirne la nascita, ovvero dell'istituto del référé - possono risolversi in maggior efficienza delle strutture giudiziarie.

Gli interventi relativi alla parte generale.

      Un sintetico sguardo alle principali novità fa emergere innanzitutto revisioni riguardanti la disciplina della giurisdizione e della competenza:

          a) quanto alla giurisdizione - oltre all'armonizzazione, secondo i criteri dei regolamenti comunitari e della legge n. 218 del 1995 - si è ritenuto necessario sia rivedere l'insoddisfacente stato dei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali - rapporti che vengono rimodellati su quelli propri della competenza, prevedendo la continuazione del giudizio proposto dinanzi al giudice carente di giurisdizione di fronte a quello che ne sia provvisto - sia consentire la proposizione del regolamento anche successivamente alla pronuncia della sentenza, sul modello del regolamento di competenza;

          b) quanto alla competenza, si è mirato, da un lato, ad una radicale semplificazione dei criteri di distribuzione territoriale, con tendenziale eliminazione dei fori speciali, dall'altro ad ulteriori restrizioni della proponibilità dell'eccezione di incompetenza. In chiave di semplificazione, la pronuncia sulla competenza assume la forma dell'ordinanza. Importanti modifiche investono, poi, l'istituto del regolamento di competenza: vengono eliminati il regolamento facoltativo ed il regolamento d'ufficio e - al fine di ridurre eventuali manovre dilatorie - la sospensione del giudizio viene subordinata alla verifica di non manifesta infondatezza o inammissibilità da parte del giudice a quo. Altri elementi di semplificazione e razionalizzazione sono introdotti nella disciplina della connessione e della litispendenza interna, modellata - per garantire il diritto alla decisione senza inutili andirivieni della causa da un giudice all'altro - su quella internazionale e comunitaria;

          c) le «invecchiate» discipline dell'astensione e della ricusazione vengono ritoccate ed aggiornate in vario modo, anche in ossequio al sopravvenuto rafforzamento costituzionale della garanzia di imparzialità del giudice;

          d) il regime della procura alle liti - lamentata fonte di formalismi e speculazioni - è semplificato, non solo facilitando la possibilità di ratifica e generalizzando la retroattività di questa, ma anche invertendo l'attuale presunzione di limitazione temporale della procura;

          e) fermi restando i princìpi generali regolatori delle rispettive materie, si è intervenuti sulla disciplina degli atti processuali e dei termini, ancora una volta mirando ad adeguare la disciplina a criteri più moderni, eliminando taluni formalismi e rigidità. In particolare, con riguardo al sistema delle comunicazioni e delle notificazioni, è prevista, a titolo esemplificativo:

              1) l'opportunità che l'intero sistema delle comunicazioni ai difensori e tra i difensori delle parti possa fondarsi su mezzi moderni, quali la posta elettronica ed il fax, con il compito per il legislatore delegato di individuare le modalità tecniche che diano certezza della ricezione;

              2) la possibilità che la disciplina delle varie forme di notificazione subisca una riorganizzazione razionalizzatrice, soprattutto per garantire la realizzazione dei diritti di difesa e di azione e l'adeguamento ai princìpi comunitari - in particolare va segnalata la semplificazione della «notificazione per pubblici proclami», date l'inefficacia e la vetustà dell'attuale procedura;

              3) l'opportunità che la defatigante notifica ad associazioni, enti e persone

 

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giuridiche sia equiparata il più possibile alle modalità previste per le persone fisiche e, in particolare, che la notifica al rappresentante legale valga come notifica all'ente rappresentato;

          f) il regime delle spese processuali, sempre ispirato al principio della soccombenza, vede l'attribuzione al giudice del correttivo consistente nell'esercizio di un motivato potere di porre, in parte o in tutto, i costi a carico della parte formalmente vittoriosa che abbia, tuttavia, causato o mantenuto in vita la lite, eventualmente rifiutando ragionevoli proposte conciliative;

          g) quanto all'intervento volontario, se ne è limitata temporalmente l'esperibilità quando il terzo introduce nel processo una domanda la cui trattazione - possibile in altro giudizio - ritarderebbe la definizione del giudizio tra le parti originarie, mentre tale limitazione è stata esclusa quando il terzo - cosiddetto «interventore adesivo dipendente» - non introduce alcuna novità di oggetto ma si limita a sostenere, attraverso la difesa del diritto di una delle parti originarie, un proprio interesse: sicché gli è stato riconosciuto un autonomo potere di impugnazione della sentenza e si è previsto che la mancata litis denuntiatio, se ordinata dal giudice e rimasta inattuata, determini l'estinzione del giudizio che, in ipotesi di prosecuzione, darebbe luogo ad una sentenza di merito fortemente esposta al rischio di essere impugnata con l'opposizione di terzo revocatoria.

Gli interventi relativi al processo di cognizione.

      Significativi appaiono gli interventi sul processo ordinario di cognizione, tutti ispirati ad eliminare dallo svolgimento del rito le rigidità, le farraginosità e le ingiustizie unanimemente lamentate.
      La fase introduttiva del procedimento di primo grado subisce le principali modifiche; il sistema vigente contempla una struttura processuale rigida, in cui i tempi sono scanditi in maniera unitaria per tutti i tipi di controversia e non è possibile alla parte che vi abbia interesse imprimere un'accelerazione alla procedura. Dopo la notifica della citazione ad udienza fissa, la normale scansione è quella di una prima udienza di comparizione con termine obbligato per memoria integrativa delle eccezioni; di un'udienza di trattazione con concessione di termini per precisazioni; della successiva udienza ai sensi dell'articolo 184 del codice di procedura civile, con concessione di doppio termine per memorie sulla ammissibilità delle prove; della udienza di ammissione delle prove.
      La costruzione è «barocca» e su di essa l'eventuale volontà della parte di imporre al giudice di entrare «in medias res» si scontra con la rigidità del sistema.
      Le scelte qui effettuate vanno in senso opposto. L'atto introduttivo conserva la struttura di «vocatio in jus», propria dell'atto di citazione, ma perde l'elemento della prefissazione dell'udienza: alla notifica della citazione, l'attore deve far seguire la propria costituzione in giudizio - tramite iscrizione a ruolo, con deposito dei documenti in cancelleria - ma il processo non prende automaticamente la via dell'udienza. Presupposto di tale scelta è il riconoscimento che la fissazione di un'udienza, che apre la sequela di udienze a cui oggi si assiste, non è il modo ottimale per permettere il più celere ed efficace svolgimento della trattazione della controversia. In tale senso, si è scelto di far sì che la determinazione della materia del contendere avvenga fuori dal meccanismo delle udienze attraverso fissazione di un termine al convenuto per difendersi, depositando i documenti ritenuti rilevanti, con successive - ed eventuali - repliche dell'attore e successive - ed eventuali - controrepliche del convenuto.
      Alla parte convinta che la causa sia matura per una effettiva trattazione, ovvero per la decisione, spetterà depositare un'istanza per la fissazione dell'udienza, contenente le conclusioni di rito e di merito; l'udienza sarà a sua volta fissata dal giudice con un decreto, contenente obbligatoriamente l'indicazione delle questioni,

 

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di rito e di merito, rilevabili d'ufficio e una pronuncia, succintamente motivata, sull'ammissibilità e sulla rilevanza delle prove, disponibili d'ufficio o su istanza di parte.
      Il processo si presenta al giudice in condizione di essere trattato efficacemente: il giudice potrà, infatti, valutarne il grado di maturità per la decisione, ovvero provvedere all'assunzione delle prove.
      In breve: come nel vigente processo del lavoro, attraverso rigidissime preclusioni, si arriva all'udienza con una causa integralmente trattata, così nel sistema delineato - attraverso un sistema alternativo alle preclusioni - l'udienza non è più luogo di mero smistamento della causa durante la trattazione, ma quello cui la causa perviene dopo essere stata compiutamente trattata dalle parti; laddove la completezza della trattazione - attese la varietà delle controversie civili e la diversa complessità - non è affidata a rigide e prestabilite preclusioni - concepibili per controversie sostanzialmente tipizzate, come quelle di lavoro - ma alla valutazione che ciascuna parte fa della idoneità della trattazione, in relazione al proprio interesse.
      Si tratta, in sostanza, di un meccanismo che fa leva sulla responsabile valutazione dei difensori e che stimola alla completezza degli scritti difensivi - senza rigidamente imporla ab externo, come le attuali preclusioni - nella dialettica tra le parti: così tutelando l'interesse ad una sollecita decisione e impedendo che la parte a ciò interessata possa far prevalere il suo intento dilatorio.
      D'altra parte, il ruolo del giudice viene potenziato, sottraendogli incombenti meramente «routinari» ed affidandogli quello di «impostare» l'udienza con il decreto di fissazione e di gestirla con pienezza di poteri.
      Altro intervento degno di particolare menzione è la previsione che, in caso di contumacia del convenuto, il giudice, a seguito di valutazione di concludenza della domanda, ritenga ammessi i fatti costitutivi ed emetta immediatamente un'ordinanza di condanna esecutiva. L'attuale condizione del contumace è, per giudizio generale, troppo sbilanciata in danno dell'attore, ed è parso opportuno che l'attore non resti onerato di una istruttoria, verosimilmente lunga e costosa, di fronte alla volontà del convenuto di disinteressarsi dell'esito del processo.
      A garanzia del convenuto contumace viene concesso un potere di appello pieno avverso l'ordinanza che accolga la domanda.
      Numerosi altri interventi riguardano gli istituti regolati dal libro secondo del codice: sempre in vista della ottimale attuazione del principio del «giusto processo» e del suo bilanciamento con i princìpi della «durata ragionevole» e di «effettività della tutela», sono state formulate proposte riformatrici, in vario senso riguardanti l'assunzione delle prove, la sospensione, l'interruzione e l'estinzione. In particolare, quanto a quest'ultima, meritano di essere segnalate:

          a) la previsione che l'estinzione per inattività cosiddetta «qualificata» - cioè nella ipotesi in cui sia impossibile emettere una decisione di merito per un vizio non sanato del procedimento - possa essere rilevata anche d'ufficio;

          b) la previsione che all'estinzione sopravvivano gli effetti anche delle pronunce di rito;

          c) la previsione che gli effetti sostanziali della domanda si conservino, se quest'ultima è riproposta entro un congruo termine dalla dichiarazione di estinzione.

      Ricevono consistenti revisioni le discipline dell'appello e del giudizio di cassazione, in qualche misura interagenti tra loro.
      Quanto al primo:

          a) viene fissato un principio di normale appellabilità delle sentenze (generalizzazione del doppio grado di giudizio, a cui sfuggono solo le sentenze in unico grado della corte di appello);

           b) viene ripristinato il cosiddetto «appello aperto» (ritenendosi ingiustificato

 

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il divieto di nuove eccezioni sancito dalla riforma del 1990), fermo restando il divieto di domande nuove;

          c) viene eliminato il meccanismo dell'annullamento con rinvio al giudice di primo grado;

          d) viene prevista la non appellabilità immediata delle sentenze che decidono questioni insorte senza definire il giudizio - cosiddette «non definitive» - e l'appellabilità immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito - cosiddette «parzialmente definitive» - con conseguente esclusione della riserva di appello avverso le prime e possibilità di riserva di appello avverso le seconde.

      Quanto al giudizio di cassazione, dominante è stata la preoccupazione di recuperare la dimensione nomofilattica alla Corte Suprema, attualmente schiacciata da un carico di ricorsi eccessivo, e su questa linea va valutata, innanzitutto, la forte riduzione del novero delle sentenze inappellabili e, quindi, immediatamente ricorribili per cassazione. In tale senso depongono le modifiche che prevedono:

          1) l'identità dei motivi di ricorso ordinario e straordinario, ai sensi dell'articolo 111 della Costituzione;

          2) la previsione che il vizio di motivazione debba riguardare un fatto controverso;

          3) l'obbligo che il motivo di ricorso si chiuda, a pena di inammissibilità dello stesso, con la chiara enunciazione di un quesito di diritto;

          4) l'estensione del sindacato diretto della Corte sull'interpretazione e nell'applicazione dei contratti collettivi nazionali di diritto comune;

          5) la non ricorribilità immediata delle sentenze non definitive e la ricorribilità immediata delle sentenze parzialmente definitive;

          6) il vincolo delle sezioni semplici al precedente delle sezioni unite, stabilendo che, ove la sezione semplice non intenda aderire, debba reinvestire le sezioni unite;

          7) l'estensione delle ipotesi di decisione nel merito, possibile anche nel caso di violazione di norme processuali;

          8) l'enunciazione del principio di diritto, vuoi in caso di accoglimento, vuoi in caso di rigetto dell'impugnazione e con riferimento a tutti i motivi di ricorso;

          9) l'investitura del legislatore delegato del compito di forgiare meccanismi idonei - ad esempio modellati sull'attuale articolo 363 del codice di procedura civile - a garantire comunque l'esercitabilità della funzione nomofilattica della Corte di cassazione nei casi di non ricorribilità del provvedimento ai sensi dell'articolo 111 della Costituzione.

      Viene affrontato, inoltre, in maniera organica il difficile tema della previsione di forme di risoluzione consensuale delle controversie favorite dall'intervento di un mediatore. Sono state scartate le opzioni a favore dell'obbligatorietà del tentativo di conciliazione, scegliendo uno schema che prevede che il giudice possa sospendere - se nessuna delle parti si oppone - il processo per breve periodo ed invitare le parti ad esperire il tentativo di conciliazione. Di notevole rilievo è la previsione che l'istanza di conciliazione produce gli stessi effetti della domanda giudiziale in ordine alla maturazione dei termini di prescrizione e di decadenza; il verbale di conciliazione costituisce, inoltre, titolo esecutivo anche per gli obblighi specifici.
      Il processo del lavoro, infine, pur mantenendo le sue attuali linee generali, vede in qualche misura smussata la rigida chiusura dell'appello alla novità, in coerenza con la disciplina generale. Viene inserita nel codice la disciplina - oggi frammentata - del processo del lavoro vertente su rapporti nei confronti di una pubblica amministrazione e, a fronte delle incertezze della prassi, è prevista l'eseguibilità nelle forme dell'esecuzione civile dei titoli esecutivi e dei provvedimenti cautelari aventi ad oggetto obblighi di fare o non

 

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fare nei confronti dei soggetti pubblici. È segnalata, infine, la necessità di ripensare la materia dell'arbitrato in materia di lavoro.

Gli interventi relativi al processo esecutivo.

      L'attuale disciplina del processo esecutivo subisce modifiche di vario tipo.
      Si comincia dal titolo esecutivo: resta la tassatività delle figure ma, in chiave di razionalizzazione ed attualizzazione, da un lato viene considerata anacronistica la limitazione dell'efficacia dei titoli stragiudiziali alle sole obbligazioni di somme di danaro, dall'altro viene eliminato il divieto di spedizione di più copie in forme esecutive.
      La figura del giudice dell'esecuzione viene generalizzata, in nome sia di esigenze di garanzia che di esigenze di efficienza. Altrettanto accade per la formazione del fascicolo d'ufficio, che diviene obbligatoria per ogni esecuzione. Viene semplificata la disciplina delle comunicazioni e viene prevista la liquidazione delle spese da parte del giudice dell'esecuzione, in sintonia con la regola generale dell'articolo 91 del codice di procedura civile.
      A fini di fruttuosità si è introdotta la possibilità di espropriazione unitaria dell'azienda o di un suo ramo: si tratta di una possibilità auspicata da tempo, ma oggi non realizzabile per l'impossibilità di sottoporre a pignoramento unitario una «universitas» composta di beni soggetti a regimi differenziati.
      Attengono all'incremento dell'efficienza le prescrizioni volte a favorire l'individuazione dei beni pignorabili e la collocazione spaziale dei beni mobili, mentre attiene alla garanzia del giusto processo la proposta di disciplina uniforme dell'eccesso nell'espropriazione, attraverso il controllo del giudice dell'esecuzione con apposita ordinanza.
      Di grande rilievo appaiono le modifiche della disciplina dell'espropriazione immobiliare, che possono sinteticamente ed essenzialmente ricondursi:

          1) alla trascrizione del pignoramento prima della sua notificazione al debitore;

          2) alla semplificazione della fase di autorizzazione alla vendita;

          3) alla introduzione di adeguate forme di pubblicità dell'avviso di vendita o di assegnazione, anche mediante mezzi informatici;

          4) alla attribuzione della custodia dei beni pignorati ad un terzo, con previsione che il provvedimento di nomina di questi sia titolo esecutivo per il rilascio;

          5) alla introduzione, accanto alle altre forme, della vendita tramite commissionario;

          6) alla previsione dell'estinzione del processo esecutivo nel caso di esito infruttuoso della vendita per un prezzo pari alla metà di quello stimato, se i creditori non chiedono il bene in assegnazione per tale prezzo;

          7) alla possibilità, per l'acquirente dei beni pignorati, di ricorrere al credito mediante garanzia sul bene oggetto della vendita;

          8) alla possibilità di delegare al notaio anche la vendita senza incanto;

          9) alla possibilità - a certe condizioni - di delegare al notaio la pronuncia del decreto di trasferimento e della distribuzione.

      Una rilevante innovazione è costituita dalla previsione di forme di esecuzione indiretta per la tutela del diritto alla soddisfazione di obblighi infungibili - cosiddette «astreintes» - largamente praticate in ordinamenti omogenei al nostro. È prevista, infatti, la fissazione dell'obbligo di pagare una somma di danaro per ogni frazione di tempo nel ritardo all'adempimento dell'obbligo, con l'apprestamento di un procedimento sommario per l'accertamento dell'inadempimento. Le somme raccolte sono destinate a risarcire l'avente diritto del danno prodotto dall'inadempimento, con incameramento del residuo da parte dello Stato.

 

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      Vengono, infine, razionalizzate le figure di opposizione che, pur restando scandite secondo gli attuali quattro modelli fondamentali, vedono ridisegnati gli ambiti di controversia compresi nell'opposizione all'esecuzione e nell'opposizione agli atti esecutivi.

Gli interventi relativi ai procedimenti speciali.

      È innanzitutto valorizzata la tecnica del procedimento monitorio, strumento di sperimentata efficienza, eppure migliorabile. L'ingiustificata diversità di disciplina tra procedimento ingiuntivo e procedimento di convalida impone una riscrittura mirante ad uno schema generale, rispettoso delle esigenze di contraddittorio.
      Vengono, poi, fatte proprie le esigenze che sorreggono l'istituto del «référé» francese - in questo generalizzando un modello già anticipato nella riforma del diritto societario. Si prevede un procedimento sommario, ma non cautelare, celere e rispettoso del contraddittorio, volto ad un provvedimento esecutivo reclamabile, tendenzialmente risolutore della controversia, ma privo di efficacia di giudicato in senso proprio. Questo procedimento dovrebbe avere cittadinanza tutte le volte in cui l'esigenza di procurarsi un titolo esecutivo sia prevalente rispetto all'esigenza di giungere ad un accertamento definitivo.
      Le linee fondamentali del sistema del procedimento cautelare disegnate dalla riforma del 1990 vengono mantenute, ma con opportuni adattamenti razionalizzatori - soprattutto in relazione all'esigenza di completare il regime dell'efficacia del provvedimento nel tempo, della previsione delle ipotesi nelle quali non è indispensabile un successivo giudizio di merito e della disciplina del sistema dei rimedi esperibili in sede di attuazione. Viene migliorata l'efficienza della disciplina di singoli tipi di cautela, rispetto alla quale l'esperienza ha rivelato difetti o lacune; valgano, a titolo di esempio, la concedibilità di sequestro conservativo di azienda; la riformulazione della disciplina della conversione del sequestro conservativo in pignoramento, al fine di garantire correttamente la prosecuzione dell'espropriazione forzata sui beni sequestrati; la riformulazione della nozione di «pericolo nel ritardo», ai fini della concessione del provvedimento d'urgenza; la revisione della disciplina del concorso di quest'ultimo con altre misure sommarie anticipatorie.
      Infine, è sottoposta a rivisitazione la materia dei procedimenti in camera di consiglio oggetto, negli ultimi anni, di svariati interventi legislativi e dibattiti dottrinali. In particolare, muovendo dalla considerazione della necessità di adattare ai princìpi costituzionali della tutela giurisdizionale istituti originariamente concepiti per attività non propriamente contenziose, si è proposto che il legislatore delegato delinei le caratteristiche comuni a tutti i procedimenti in camera di consiglio, prevedendo le caratteristiche dei procedimenti destinati a terminare con provvedimento non suscettibile di giudicato sostanziale, distinguendole da quelle dei procedimenti intesi a produrre tale giudicato.
      Esigenze generali di razionalizzazione della disciplina, che coniughino principio del contraddittorio e rispetto dei peculiari interessi coinvolti, sono state fatte proprie per quanto riguarda altre specifiche controversie, quali le controversie in materia di sanzioni amministrative, le controversie in materia di separazione e divorzio ed i giudizi ad esse collegate.

Gli interventi relativi all'arbitrato.

      Nella prospettiva della ricerca di praticabili alternative al ricorso alla giurisdizione statuale, l'arbitrato occupa un posto privilegiato. Nonostante la materia sia stata più volte «rivisitata» dal legislatore, essa è apparsa ancora bisognosa di interventi.
      Le principali innovazioni riguardano la disciplina della compromettibilità, la pluralità di parti nel compromesso e nel giudizio arbitrale - fenomeni totalmente ignorati dalla vigente normativa - l'indipendenza e l'imparzialità degli arbitri, la

 

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responsabilità di questi, l'assistenza giudiziaria all'istruzione probatoria esperita nel giudizio arbitrale, l'efficacia del lodo non omologato, il giudizio di impugnazione per nullità, la disciplina dei rapporti tra arbitrato e giurisdizione e il regime dell'arbitrato «amministrato».
      Merita, infine, autonomo richiamo la proposta di una norma di chiusura, a soluzione della cruciale questione del cosiddetto «arbitrato irrituale», fonte perpetua di equivoci e di problemi pratici e sistematici. Si è ritenuto, in proposito, necessario stabilire l'applicabilità della disciplina normativa a tutti gli arbitrati, senza distinzione di «natura». Si è voluto, in altre parole, impedire che il problema della disciplina applicabile sia condizionato dalle formule adoperate dalle parti o dalle classificazioni operate dagli interpreti; resta, ovviamente, possibile la diversa ed espressa volontà delle parti di derogare alla disciplina legale, salve disposizioni individuate come inderogabili, così come di conferire a terzi poteri di intervenire su rapporti controversi senza assumere funzione arbitrale.

Illustrazione dell'articolato.

      L'articolo 1 prevede l'oggetto della delega al Governo, che comprende la novellazione dell'attuale codice di procedura civile, da considerare l'archetipo non solo del processo ordinario di cognizione, ma anche di tutti i procedimenti contenuti nelle leggi speciali che ad esso fanno rinvio, nonché il procedimento per l'adozione dei decreti legislativi.

      L'articolo 2, in materia di giurisdizione, prevede anzitutto una armonizzazione dei rapporti con le giurisdizioni di altri Stati, secondo i criteri dei regolamenti comunitari, delle convenzioni internazionali e della legge n. 218 del 1995. In effetti, dalla data di entrata in vigore del codice ad oggi, si è radicalmente invertita la filosofia dei rapporti fra le varie giurisdizioni statuali ed è quindi opportuno che tale nuova filosofia impronti di sé anche il testo base del nostro sistema processuale.
      Con riferimento, invece, ai rapporti fra le giurisdizioni, ordinaria e speciali, non si è ritenuto di incidere sulla ripartizione delle attribuzioni, anche perché essa è contenuta prevalentemente nelle norme costituzionali. È parso, invece, opportuno riscrivere i meccanismi volti ad assicurare il rispetto delle norme che attribuiscono le controversie ai vari settori giurisdizionali. Secondo la Costituzione (articolo 111, ultimo comma) spetta alla Corte di cassazione la risoluzione dei conflitti; e ciò avviene sia attraverso il ricorso ai sensi dell'articolo 360 del codice di procedura civile, che è proponibile avverso le sentenze dei giudici di merito ordinari e dei giudici speciali, sia, in via preventiva, attraverso il regolamento di giurisdizione.
      Le modifiche riguardano, in primo luogo, la possibilità di esperire il regolamento di giurisdizione anche come mezzo di impugnazione della sentenza che abbia deciso sulla sola questione di giurisdizione. Ciò consentirà alla parte, che intenda ottenere una decisione immediata e definitiva sulla questione di giurisdizione, di impugnare immediatamente dinanzi alla Corte di cassazione la sentenza che abbia deciso la sola questione di giurisdizione. Né si deve temere che tale possibilità possa essere strumentalmente utilizzata per dilazionare la decisione definitiva di merito, posto che, dopo la riforma del 1990, la proposizione del regolamento di giurisdizione non comporta la sospensione automatica del processo di merito, essendo rimessa allo stesso giudice che ha emesso la sentenza sulla giurisdizione la facoltà di non sospendere il processo, laddove ritenga l'istanza di regolamento manifestamente inammissibile o la questione di giurisdizione manifestamente infondata.
      Altrettanto importante è l'introduzione, anche nei rapporti fra le varie giurisdizioni, del meccanismo della «translatio iudicii», attualmente previsto per le sole questioni di competenza. In virtù di tale meccanismo, la proposizione della domanda, ancorché effettuata al giudice carente di giurisdizione, produce gli effetti

 

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tipici della litispendenza; a titolo esemplificativo: interruzione e sospensione della prescrizione; impedimento della decadenza; applicazione delle norme previste in materia di successione nel diritto controverso, che si conservano ove la domanda, dopo la definitiva declaratoria di carenza di giurisdizione del giudice adito, sia riproposta entro sei mesi al giudice fornito della giurisdizione.

      L'articolo 3 muove dal presupposto che le linee di fondo del procedimento innanzi al giudice di pace devono essere conformi a quelle del rito ordinario davanti al tribunale: non solo, infatti, tale rito è più agevolmente gestibile dal giudice di pace, in quanto questi è coinvolto solo a seguito del libero svolgersi della trattazione tra le parti, ma anche non sussiste ragione alcuna perché davanti al giudice di pace il procedimento sia privato della flessibilità e, quindi, della adattabilità alle peculiarità del caso di specie che caratterizzano il rito ordinario.
      Nel caso di controversie di valore particolarmente modesto, il legislatore delegato potrà considerare l'opportunità di semplificare ulteriormente il procedimento.
      La competenza generale per valore del giudice di pace, tradizionalmente ancorata alle sole controversie aventi per oggetto beni mobili, è stata elevata a 5.000 euro, mentre per il settore relativo alle controversie aventi per oggetto il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e natanti è stata portata a 25.000 euro.

      L'articolo 4 semplifica i criteri di competenza territoriale, dettati dagli attuali articoli 18 e seguenti del codice di procedura civile, sia prevedendo uno sfoltimento dei fori cosiddetti «speciali» - in particolare dei fori previsti dagli articoli da 22 a 24 del vigente codice di procedura civile - che oggi hanno indubbiamente un'importanza minore rispetto al passato, sia circoscrivendo l'inderogabilità convenzionale della competenza, sia, infine, stabilendo due diverse modalità di contrastare la pubblica fede degli atti pubblici e delle scritture private autenticate, riconosciute o verificate. Ove una delle parti abbia interesse ad una decisione con efficacia di giudicato, spendibile in tutte le sedi, rimangono fermi la competenza per materia del tribunale e lo speciale procedimento previsto dagli attuali articoli 221 e seguenti del codice di procedura civile. Ove, viceversa, nessuna delle parti abbia interesse ad un accertamento della falsità del documento con efficacia di giudicato, ciascun giudice, con esclusione di quello incaricato di opposizione a sanzioni amministrative, potrà «incidenter tantum» e con efficacia limitata al processo innanzi a sé pendente, valutare la attendibilità della prova documentale, senza dover investire il tribunale e sospendere necessariamente il processo.

      L'articolo 5 semplifica l'attuale regime degli spostamenti di competenza per ragioni di connessione, mantenendo sempre ferma la competenza territoriale determinata in base alla domanda principale e consentendo la trasmigrazione della causa esclusivamente verso il giudice «superiore», se quello originariamente adito è incompetente per valore rispetto alla causa connessa; peraltro, si è escluso che quella di compensazione abbia, come è attualmente, ma con poca razionalità (articolo 35 del codice di procedura civile), un regime diverso da quello che le è proprio quale eccezione, e si è ribadito che il giudice dell'azione è anche il giudice dell'eccezione.
      Ritenendo assolutamente non funzionale l'attuale disciplina della litispendenza (articolo 39, primo comma, del codice di procedura civile), si è previsto - adeguando tale regime a quello della continenza - che il giudice successivamente adito si spogli della causa non soltanto in quanto la causa già pende davanti ad altro giudice, ma anche se il primo giudice è competente ad emettere la decisione di merito. In tale modo, il regime della litispendenza interna si adegua a quello della litispendenza internazionale - introdotto dalla legge n. 218 del 1995 - la

 

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quale si fonda sul principio per cui il giudice italiano non si spoglia della causa rispetto alla quale, in base all'ordinamento italiano, avrebbe «potestas judicandi» per il solo fatto che essa già pende davanti al giudice straniero, ma soltanto dopo aver altresì delibato la possibilità che quel giudice straniero possa deciderla; principio già proprio della Convenzione di Bruxelles (articolo 21) ed oggi del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000 (articolo 27). Si tratta, anche a questo proposito, di tutelare l'esigenza per cui chi si è rivolto al giudice abbia effettivamente la decisione e non sia rinviato, solo perché preventivamente adito, ad un giudice che sia privo del potere di decidere la causa.

      L'articolo 6 prosegue sulla strada della restrizione dei tempi e dei modi di rilevazione dell'incompetenza, già in parte segnata dalla riscrittura dell'articolo 38 del codice di procedura civile ad opera della legge n. 353 del 1990, adattando la disciplina alla nuova struttura della fase introduttiva del processo. All'eccezione di incompetenza per territorio derogabile viene assimilata quella per valore, ai fini sia della rilevabilità solo ad istanza di parte, sia della preclusione dopo il tempestivo deposito della comparsa di risposta; l'incompetenza per materia e quella per territorio inderogabile restano rilevabili d'ufficio attraverso il decreto di fissazione dell'udienza, mentre il termine di preclusione viene legato all'istanza di fissazione dell'udienza.
      La decisione della questione di competenza, da un lato viene semplificata nella forma - ordinanza in luogo di sentenza - e, dall'altro, viene resa immediata tanto nell'ipotesi in cui, considerato il rilievo d'ufficio, appare altamente probabile la dichiarazione di incompetenza, quanto nell'ipotesi di richiesta congiunta.

      L'articolo 7 prevede che il regolamento di competenza sia mantenuto nei confronti delle sole ordinanze che pronunciano esclusivamente sulla competenza; lo scioglimento di questioni di competenza in sentenza contenente decisione di merito - ovvero altre decisioni di rito - resta censurabile con l'appello. A fini di semplificazione ed accelerazione è, altresì, eliminato lo strumento del regolamento d'ufficio - residuo di concezioni della competenza come misura delle prerogative dell'organo; la modifica presuppone, evidentemente, il venir meno dell'eccezione all'incontestabilità dell'«incompetenza dichiarata e [della] competenza del giudice in essa indicato», stabilita dall'articolo 44 del codice di procedura civile per le incompetenze per materia e per territorio inderogabili. Viene meno anche l'automaticità della sospensione del giudizio o del termine di riassunzione: sulla falsariga dell'attuale articolo 367 del codice di procedura civile, la sospensione viene subordinata ad un giudizio di «non manifesta infondatezza o inammissibilità» da parte del giudice che ha pronunciato l'ordinanza, ovvero del giudice davanti al quale la causa è riassunta.
      In considerazione dell'introduzione del regolamento di giurisdizione successivo, si investe il legislatore delegato del compito di uniformare a tali princìpi anche il regime di quest'ultimo istituto.

      L'articolo 8 prevede un aggiornamento della disciplina dell'astensione e di quella della ricusazione, ormai datate, fermi restando i princìpi sottostanti agli istituti.
      Viene sostituita alla vecchia dizione «se ne ha conosciuto in altro grado del processo» quella della «precedente conoscenza processuale della causa», concetto che solo forzatamente poteva essere fatto rientrare nella prima e che mira a dare sempre rilevanza all'identità del giudicante nelle successive fasi di opposizione o di impugnazione.
      È previsto il deterrente della possibilità di indennizzare i danni su istanza della parte danneggiata, derivanti dall'utilizzo improprio dello strumento processuale e della possibilità di condanna per responsabilità aggravata - con sanzione svincolata dal danno - in ipotesi di inammissibilità o rigetto dell'istanza di ricusazione ed è introdotta una possibilità di controllo

 

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del provvedimento negativo. Allo scopo di evitare l'uso strumentale e dilatorio dell'istanza di ricusazione, si prevede che l'automaticità della sospensione del processo sia subordinata ad un giudizio di non manifesta inammissibilità o infondatezza.

      L'articolo 9 prevede la disciplina dell'intervento del pubblico ministero, che viene rivista sulla base della consolidata esperienza che ha rivelato una sostanziale discontinuità dell'intervento «spontaneo» dell'organo nel processo. In tale ottica, è confermata la presenza obbligatoria dell'organo nei giudizi di fronte alla Corte di cassazione e, nel contempo, è introdotta ed opportunamente regolata la litis denuntiatio al pubblico ministero nei giudizi vertenti su diritti indisponibili, affidando al giudice il potere di sollecitare l'esercizio del potere di intervento da parte del pubblico ministero, sicché, ove accolga tale sollecitazione, il pubblico ministero partecipa fattivamente al procedimento.

      L'articolo 10 affronta i problemi più sentiti in tema di rappresentanza processuale e di procura alle liti.
      Quanto al primo punto, viene fatta chiarezza sulla «vexata quaestio» della possibilità o meno di conferire rappresentanza processuale a chi non sia investito del corrispondente potere di rappresentanza sostanziale: la soluzione legislativa in senso positivo si impone, a fronte della progressiva perdita di senso della tralaticia, ma radicata, opinione contraria, tratta da una forzata lettura dell'articolo 77 del codice di procedura civile.
      Ferma restando l'esigenza di conferimento per iscritto, il regime della procura alle liti - oggi sovente fonte di formalismi e speculazioni - viene semplificato, da un lato facilitando la possibilità di ratifica e generalizzandone la retroattività e, dall'altro, invertendo l'attuale presunzione di limitazione temporale della procura. Il potere di rilevazione d'ufficio è limitato al solo difetto totale di procura, salvo il caso di contumacia della controparte interessata al rilievo, con mantenimento dell'efficacia piena della ratifica eventualmente intervenuta. L'attuale disciplina della procura alle liti, quale emerge dalla elaborazione giurisprudenziale, sembra, invero, confondere i profili pubblicistici della difesa tecnica (è interesse dello Stato che, dinanzi ai suoi organi giurisdizionali, si presentino soggetti istituzionalmente forniti delle adeguate cognizioni tecniche necessarie) con i profili privatistici del conferimento della procura. Quando, innanzi all'organo giurisdizionale, agisce un soggetto abilitato, il «titolo» in virtù del quale egli rappresenta una parte non costituisce questione di interesse pubblico; e, soprattutto, non vi è ragione perché non si possa avere una ratifica con efficacia «ex tunc».

      L'articolo 11 prevede l'affiancamento al principio della soccombenza - che resta il principio cardine del sistema delle spese - di quello della cosiddetta «causalità», di cui è manifestazione il potere del giudice di addebitare i costi sulla parte formalmente vittoriosa, che abbia però dato causa alla lite. Si tratta, evidentemente, della generalizzazione di un principio già conosciuto dal sistema, ma ritenuto limitato a taluni istituti. Il rifiuto di proposte conciliative - la cui ragionevolezza si possa misurare sull'esito della lite - è espressamente elevato a fattore di responsabilità per i costi del processo.
      Viene ragionevolmente ampliata l'area della responsabilità aggravata con la considerazione dell'abuso dei diritti di azione e difesa nelle varie articolazioni processuali, nel senso di rendere esplicito che fonte di specifica responsabilità è anche l'impugnazione temeraria. Viene, peraltro, mantenuto il requisito della normale prudenza per la casistica dell'articolo 96, secondo comma, del codice di procedura civile, ma la responsabilità per improvvida esecuzione viene estesa anche all'ipotesi di titolo esecutivo stragiudiziale.

      L'articolo 12, fermi restando i criteri riconosciuti di determinazione delle ipotesi di litisconsorzio necessario, propone di meglio regolamentare gli effetti della mancata ottemperanza all'ordine di integrazione

 

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del contraddittorio nel termine perentorio, attraverso la previsione del rilievo officioso dell'estinzione del processo.
      Restano anche ferme la figura e la regolamentazione di base del litisconsorzio facoltativo, ma appare opportuna l'estensione della deroga alla competenza territoriale, prevista dall'articolo 33 del codice di procedura civile, all'ipotesi di cumulo per connessione cosiddetta «impropria».
      Si è, invece, esclusa la deroga alla competenza territoriale nel cumulo oggettivo non sorretto da connessione - connessione valutabile anche attraverso l'eccezione nell'ipotesi di domande riconvenzionali - fatta sempre salva l'adesione alla deroga manifestata dall'accettazione del contraddittorio.

      L'articolo 13 disciplina gli interventi del terzo ed apporta all'istituto alcuni ritocchi razionalizzatori.
      Al legislatore delegato è innanzitutto demandato il compito di delimitare temporalmente gli interventi principale ed adesivo autonomo; il provvedimento di estromissione del terzo, in ipotesi di intervento inammissibile, assume forma di ordinanza reclamabile, in quanto si tratta di provvedimento che non pregiudica la tutelabilità, in separata sede, del diritto fatto valere dal terzo; l'interventore adesivo dipendente si vede riconoscere espressamente il potere di impugnare la sentenza - trattandosi di una fondamentale espressione del diritto di difesa di tale soggetto, incongruamente denegata finora dalla prassi giurisprudenziale; la disciplina dell'intervento su istanza di parte viene normativamente fissata, nel senso della predeterminazione delle figure di terzi che possono essere chiamati e dell'esclusione della automatica estensione ad essi della domanda dell'attore; la disciplina dell'intervento «jussu judicii» viene modificata, nel senso di prevedere il potere di ordinare la «denuntiatio litis» ai terzi a qualunque titolo legittimati all'intervento volontario.
      Viene previsto il potere officioso di dichiarare l'estinzione in caso di mancata ottemperanza all'invito ad effettuare la «denuntiatio», allorché la legittimazione del terzo venga individuata in funzione di una sua possibile futura opposizione di terzo revocatoria.

      L'articolo 14 propone una tendenziale semplificazione della disciplina degli atti processuali, per adeguarla sia al mutato contesto attuale, sia per reagire ad alcune manifestazioni di formalismo che la prassi applicativa ha sperimentato.
      In tale senso si prevede:

          a) la possibilità di produzione dei documenti in lingua straniera con semplice traduzione: l'obbligo di traduzione giurata - fattore di notevole e spesso ingiustificato allungamento della procedura - viene così subordinato all'istanza della controparte, ovvero all'ordine del giudice;

          b) la possibilità che la sentenza possa fare a meno dello «svolgimento del processo», tutte le volte che ciò non appaia strettamente necessario per la completezza o la comprensibilità della motivazione, ovvero - in caso di suo mantenimento quale requisito formale - che lo si possa riprodurre da atti di parte, menzionando la circostanza;

          c) l'opportunità che l'intero sistema delle comunicazioni ai difensori e tra i difensori delle parti possa ordinariamente servirsi di mezzi moderni quali la posta elettronica e il fax; a questo fine, il legislatore delegato dovrà, da un lato, prevedere che il difensore indichi i relativi numeri ed indirizzi al momento della costituzione od in un altro successivo e, dall'altro, individuare le modalità tecniche che diano prova della ricezione;

          d) la possibilità che la disciplina delle varie forme di notificazione subisca una generale riorganizzazione in senso razionalizzatore, anche per garantire la realizzazione dei diritti di difesa e di azione e l'adeguamento ai princìpi comunitari. Naturalmente, la determinazione degli strumenti tecnici dovrà tenere conto dell'utilizzabilità degli strumenti informatici;

 

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          e) la semplificazione della «notificazione per pubblici proclami», sostituendo l'attuale procedura con forme di comunicazione più moderne ed efficaci;

          f) l'opportunità che la notifica ad associazioni, enti e persone giuridiche sia equiparata il più possibile alle modalità previste per le persone fisiche e, in particolare, che la notifica al rappresentante legale valga da notifica all'ente rappresentato, anche per quanto concerne la possibilità di notifica mediante fax e posta elettronica.

      L'articolo 15 rivede la disciplina dei termini processuali in senso meno formalistico, sicché al legislatore delegato viene rimesso il compito di prevedere la possibilità di abbreviazione o proroga dei termini ordinatori, su istanza di parte ed ovviamente prima della loro scadenza; compatibile con i termini perentori è, invece, la rimessione in termini per causa non imputabile alla parte, con il rispetto del principio del contraddittorio e con il limite dei termini di impugnazione che - essendo legati al giudicato - vedono prevalere esigenze di certezza e di stabilità.
      La razionalizzazione dell'insoddisfacente regime delle cause sottratte alla sospensione feriale si impone attraverso una congrua riduzione dell'eterogeneo elenco attuale, onde evitare che un meccanismo, originariamente di garanzia, continui ad essere una trappola in cui si cade involontariamente. Ciò viene realizzato attraverso la previsione della sospensione dei termini come regola e la specificazione che l'eccezione vale per i soli procedimenti caratterizzati dalla natura cautelare o dall'urgenza.

      L'articolo 16 prende le mosse dalla constatazione che l'attuale assetto del processo civile, imperniato sulla costante presenza «fisica» del giudice per il compimento di qualsiasi attività e, conseguentemente, sulla necessità che ogni attività si svolga in udienza, determina, ad un tempo, un considerevole spreco di attività da parte del giudice ed un'altrettanto considerevole perdita di tempo per le parti.
      Attualmente, infatti, dopo che le parti hanno depositato i loro scritti difensivi iniziali, bisogna attendere l'udienza di prima comparizione (articolo 183 del codice di procedura civile) perché il giudice, verificata la regolarità del contraddittorio, fissi la successiva udienza di trattazione autorizzando le parti, se richiesto, alla comunicazione di comparse ed assegnando al convenuto un termine perentorio per la proposizione di eccezioni non rilevabili d'ufficio. All'udienza di trattazione poi, - esperito l'interrogatorio libero (incombente assai spesso risolventesi nel «riportarsi» ai rispettivi scritti) ed il tentativo di conciliazione - il giudice, se richiesto, fissa un termine perentorio per il deposito di memorie volte a precisare le allegazioni, ed un successivo termine per la replica e, infine, l'udienza per l'ammissione dei mezzi istruttori. In tale udienza il giudice, su istanza di parte, rinvia ad altra udienza, assegnando un termine per la produzione di documenti e note istruttorie ed un ulteriore termine per l'indicazione di prova contraria.
      Nella generalità dei casi, l'attività del giudice in queste fasi si risolve nell'autorizzare le parti che lo richiedano (e basta che una parte, anche se con intento puramente dilatorio, lo richieda) a depositare scritti difensivi; e ciò il giudice fa non solo impiegando il suo tempo in udienze sostanzialmente inutili ma, proprio perché egli è costretto ad impegnarsi in siffatte udienze, nel corso di udienze tra loro distanziate di diversi mesi. Con la conseguenza che anche la più elementare delle controversie deve, solo che una delle parti sia interessata a prolungarne la durata, trascinarsi di udienza in udienza, da un lato subendo, ma dall'altro lato contribuendo a provocare la dilatazione degli intervalli tra le udienze stesse; il tutto mortificando il ruolo proprio del giudice, ridotto a dispensatore di rinvii e di termini per il deposito di scritti.
      La presente riforma - nell'intento di fare davvero del giudice il fulcro del processo e di consentire alla parte che voglia una decisione di non subire le avverse tattiche dilatorie - prevede che

 

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l'atto di citazione non fissi l'udienza, ma soltanto un termine - disciplinato nel minimo dalla legge - al convenuto per replicare; sicché il convenuto, così come, nel prosieguo del processo, qualsiasi parte che abbia interesse ad una sollecita decisione, può rispondere in un termine minore di quello concessogli e far decorrere dalla sua risposta il termine minimo concesso all'avversario per la replica.
      Il meccanismo consente alle parti di scambiarsi liberamente - senza bisogno di alcuna autorizzazione e coinvolgendo nella loro attività soltanto la cancelleria quale luogo di deposito di scritti difensivi e documenti - le comparse ritenute necessarie, con una flessibilità del rito - opposta all'attuale rigidità - che appare indispensabile, attesa la estrema varietà delle controversie civili.
      La facoltà, riconosciuta a ciascuna delle parti, di porre fine allo scambio di scritti difensivi garantisce, da un lato, il diritto alla decisione contro ogni intento dilatorio e, dall'altro lato, la tendenziale esaustività degli scritti difensivi, in quanto ciascuna parte, sapendo che l'avversario può in ogni momento troncare il dialogo chiedendo la decisione, è indotta a svolgere compiutamente le proprie ragioni senza espedienti volti a diluire nel tempo le proprie difese.
      Al legislatore delegato è affidato il compito di individuare un termine massimo per lo scambio di scritti difensivi, decorso il quale, ove non venga da una delle parti chiesta la decisione, il processo si estingue: e ciò al fine, in una struttura processuale che esalta in questa fase il ruolo del difensore, di sottolinearne altresì la responsabilità quale interprete dell'interesse della parte assistita.
      Infine, l'ultima lettera del comma 1 dell'articolo 16 demanda al legislatore delegato di modulare l'applicazione dei nuovi princìpi espressi dagli articoli da 16 a 19 della proposta di legge, relativamente alla fase introduttiva del giudizio ed a quella di formulazione delle richieste istruttorie delle parti, nei casi in cui la legge prevede che il giudizio ordinario di cognizione sia introdotto con ricorso, anziché con atto di citazione.
      La norma, come è chiaramente evidenziato dal suo riferimento al solo «giudizio ordinario», ovviamente non concerne i riti speciali già ex se compiutamente disciplinati (quali, ad esempio, il rito laburistico, locatizio, eccetera), in ordine ai quali nulla è innovato; essa si riferisce, invece, ai numerosi casi, sparsi nel codice di rito o in diverse leggi speciali, in cui si prevede l'introduzione di un giudizio ordinario di cognizione con ricorso, senza dettare però alcuna disciplina processuale in ordine alle modalità di definitiva fissazione dell'oggetto del giudizio (cosiddetta «litis contestatio») e di articolazione delle istanze istruttorie delle parti.
      La lettera in esame si riferisce, perciò, alle azioni possessorie, all'opposizione all'esecuzione, all'opposizione agli atti esecutivi, all'opposizione di terzo all'esecuzione, al giudizio di separazione dei coniugi ed a quello di divorzio: andranno, altresì, considerati gli ulteriori casi previsti in materia fallimentare (articoli 98, 100, 101, 102 e 103 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267); nonché quelli di cui all'articolo 1137 del codice civile; all'articolo 3 del testo unico di cui al regio decreto 14 aprile 1910, n. 639; all'articolo 11, tredicesimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1972, n. 1035.
      Tali fattispecie sono state completamente ignorate dal legislatore che ha operato la riforma di cui alla legge 26 novembre 1990, n. 353, e successive modificazioni, ma tuttavia esse, nel rito processuale attualmente in vigore, hanno trovato egualmente una loro disciplina, che è stato possibile ricavare in via interpretativa mediante l'adattamento alle peculiarità conseguenti all'introduzione del giudizio con ricorso delle attività di cui il rito vigente prevede lo svolgimento nelle udienze di cui agli articoli 180, 183 e 184 dell'attuale codice.
      Analoga soluzione non sarebbe neppure possibile dopo l'entrata in vigore della riforma, dato che questa unificherà tutte tali udienze in quella fissata con il decreto di cui all'articolo 19 della proposta di legge, che è peraltro destinata a svolgersi
 

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dopo la definitiva fissazione delle domande ed eccezioni delle parti (cosiddetta «litis contestatio»): si impone, perciò, di demandare al legislatore delegato uno specifico intervento relativamente ai casi in cui il giudizio ordinario di cognizione è introdotto con ricorso.
      Tuttavia, proprio in applicazione del principio generale espresso dalla lettera a) del comma 1 dello stesso articolo 16, con la lettera g) si ribadisce la residualità di tale forma di introduzione del giudizio ordinario di cognizione, che sarà limitata ai casi in cui si ravvisa la necessità o l'opportunità di anteporre l'instaurazione del primo contatto in udienza tra le parti ed il giudice rispetto al momento della definitiva litis contestatio, dovendosi in ogni altro caso ricondurre l'atto introduttivo allo schema della citazione. Esemplificando, il legislatore delegato dovrà considerare se nella fattispecie di cui all'articolo 1137 del codice civile non sia preferibile il ricorso alla forma introduttiva ordinaria; al contrario, è possibile che, in relazione alle nuove forme processuali, la citazione di cui all'articolo 543, secondo comma, numero  4), del codice di procedura civile, venga considerata strutturalmente inidonea all'introduzione (eventuale) del giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo di cui all'articolo 548 del codice di procedura civile e che, perciò, in sede di esercizio della delega, si ritenga di prevedere l'introduzione di quest'ultimo giudizio con ricorso.
      In ogni caso, colmando una lacuna sinora presente nel codice di rito, si demanda al legislatore delegato di operare una compiuta disciplina generale delle fasi iniziali del giudizio ordinario di cognizione quando ne è prevista dalla legge l'introduzione con ricorso; tali fasi iniziali arrivano fino al momento in cui il giudice decide sulle istanze istruttorie delle parti, poiché a partire da tale momento non vi è più alcuna differenza rispetto ai giudizi ordinari introdotti con atto di citazione.

      L'articolo 17 disciplina l'istanza di fissazione dell'udienza, che è lo strumento attraverso il quale la parte, che ritenga sterile il protrarsi del dialogo con la controparte e ritenga responsabilmente che la causa sia stata sufficientemente trattata - dal punto di vista ovviamente del proprio interesse - provoca nel processo l'intervento del giudice. Tale intervento, oltre che per ottenere la decisione, può essere provocato anche al fine di richiedere provvedimenti anticipatori di condanna - del tipo di quelli previsti dagli articoli 186-bis e 186-ter, nonché dall'articolo 423 del codice di procedura civile, provvedimenti cautelari, ovvero la soluzione di «incidenti» processuali, ma, poiché la devoluzione della controversia è sempre «totale», occorre che in ogni caso siano precisate integralmente le conclusioni (di rito e di merito) affinché il giudice, se ritiene la causa matura, possa deciderla, dopo aver provocato il contraddittorio delle parti - a tale fine mutuando il meccanismo decisorio ideato, nel processo amministrativo, dalla legge n. 205 del 2000.

      L'articolo 18 individua un regime differenziato per le preclusioni relative ad attività di parte concernenti il merito ovvero concernenti il rito, prevedendo per le prime - e non anche per le seconde - la necessità che siano fatte valere attraverso un'istanza della controparte: sicché, mentre l'inammissibilità della domanda riconvenzionale e della chiamata di terzo non proposte nella comparsa di risposta richiede l'eccezione dell'avversario, l'inammissibilità per la tardività di eccezioni di rito - ed in particolare di incompetenza - è dichiarabile d'ufficio.
      Così operando si tutela l'interesse che la controparte può avere ad ottenere non già una pronuncia in rito, bensì un rigetto nel merito di domande che, altrimenti, sarebbero riproponibili in altro giudizio: in tale modo mutuando, in questo settore, la medesima soluzione che nell'articolo 16 si propone per l'ipotesi di mancata costituzione dell'attore - dove il convenuto può scegliere tra chiedere la decisione di merito ed eccepire l'estinzione del processo - e che, con modalità diverse, il vigente codice offre sia all'articolo 181, secondo comma (mancata comparizione dell'attore)

 

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sia all'articolo 290 (mancata costituzione dell'attore).
      Quanto alle eccezioni di merito non rilevabili d'ufficio, si è previsto un termine di preclusione collegato alla seconda memoria, ma altresì - nello spirito di quella tendenziale completezza fin dall'inizio degli scritti difensivi, stimolata dalla responsabilizzazione dei difensori - che, qualora l'attore rinunci a replicare alla comparsa di risposta e depositi istanza di fissazione dell'udienza, le eccezioni non siano più proponibili.

      L'articolo 19 riguarda il decreto del giudice che, nel fissare l'udienza richiesta da una delle parti, deve contenere già la soluzione di talune questioni, specie sull'ammissibilità e la rilevanza delle prove, disponibili d'ufficio o su istanza di parte, ovvero indicare questioni rilevabili d'ufficio e, comunque, bisognose di adeguata trattazione negli scritti difensivi.
      Il contenuto del provvedimento è tale da garantire che il giudice arrivi all'udienza conoscendo la causa e sia, pertanto, in grado di dirigerne lo svolgimento con piena consapevolezza.
      Il giudice, inoltre, può disporre la comparizione personale delle parti quando vi sia effettiva utilità dell'interrogatorio libero ai fini di una possibile conciliazione, ovvero di conseguire chiarimenti in fatto; uno strumento che - rispetto all'attuale situazione, nella quale la sua «cartacea» obbligatorietà ha fatto sì che l'istituto diventasse un incombente meramente rituale e routinario - viene così valorizzato quando effettivamente utile e, quindi, si inserisce nel principio generale di flessibilità del rito che deve adeguarsi, attraverso la saggia intermediazione del giudice, alle peculiarità delle singole controversie.
      In sostanza, il provvedimento di fissazione dell'udienza, lungi dal risolversi in un adempimento meramente burocratico, costituisce lo strumento attraverso il quale il giudice «imposta» l'udienza tirando le fila dell'attività posta in essere dai difensori delle parti, e «collabora» con questi indicando le questioni fondamentali sulle quali si impernierà l'udienza. Dal decreto, peraltro, i difensori delle parti saranno posti in grado di percepire l'impostazione che alla controversia il giudice intende dare e, quindi, posti in grado di adottare adeguate strategie difensive in udienza, anche al fine di provocare un ripensamento del giudice.

      L'articolo 20, nella prospettiva di accelerazione e di razionalizzazione delle procedure di assunzione delle prove - prospettiva intesa a favorire l'uso di riti «alternativi», ad esempio il «référé», e a ridurre, quando le parti non siano interessate al giudicato, il ricorso all'ordinario processo di cognizione - prevede l'opportunità dell'introduzione nel sistema di dichiarazioni testimoniali scritte, assunte dai difensori, previo accordo in tal senso delle parti, anche e soprattutto prima dell'inizio del giudizio, investendo il legislatore delegato delle modalità della loro autenticazione. In tal senso viene indicato fin da ora il potere di attestazione dell'ufficiale giudiziario, mentre è lasciato alla discrezionalità del legislatore delegato scegliere se tale potere possa competere anche al difensore che opera l'assunzione. Queste dichiarazioni sono destinate all'utilizzazione nel processo, fermo il potere del giudice di disporre tutti gli accertamenti, anche istruttori, eventualmente ritenuti opportuni. Così configurate, esse appaiono sostanzialmente riconducibili all'«affidavit», istituto consolidato ed impiegato con successo non solo nelle procedure ispirate alla common law, ma praticato anche in altri ordinamenti continentali: vedi, ad esempio, l'istituto delle «attestations», regolato dagli articoli 200 e seguenti nel titolo dedicato alla «administration judiciaire de la preuve» dal Nouveau code de procedure civile francese.
      Ai difensori viene, inoltre, riconosciuto il potere di assunzione di relazioni peritali e di attestazioni di fatti e situazioni constatati da pubblici ufficiali.
      Accanto a tali atti di parte, si è inoltre voluto aprire la strada anche alle ispezioni di luoghi e alla assunzione di accertamenti tecnici, quali attività preventive, esperite in

 

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contraddittorio, in sostanza consulenze tecniche di ufficio anticipate. Queste attività - che dovrebbero essere richieste all'autorità giudiziaria ai fini della nomina del consulente tecnico e, nelle ispezioni di luoghi, anche dell'ufficiale giudiziario, perdono così la loro dipendenza esclusiva dall'urgenza, assumendo carattere di normalità. In tal modo, non solo aumenta seriamente la probabilità di tagliare i tempi lunghi richiesti per l'ammissione e l'espletamento delle consulenze tecniche in corso di causa, ma addirittura la probabilità di soffocare sul nascere - favorendo accordi transattivi e conciliazioni - molti giudizi che si basano esclusivamente, o quasi, sull'ignoranza del responso del consulente tecnico del giudice.
      La stessa logica presiede alla scelta di consentire all'avvocato di compulsare i pubblici depositari e di ottenere dalla pubblica amministrazione le informazioni rilevanti per la soluzione della controversia, nel rispetto del procedimento disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241.
      Se, ad esempio, fosse possibile al danneggiato da un incidente automobilistico ottenere subito e direttamente copia del verbale della polizia stradale, per avere il quale bisogna, invece, instaurare un giudizio e indurre il giudice ad utilizzare, dopo uno o due anni in media, lo strumento previsto dall'articolo 213 del codice di procedura civile, si eviterebbero molte citazioni strumentali.

      L'articolo 21 non interviene sul regime delle prove contenuto nel codice civile, in quanto non si è ritenuto che vi siano ragioni per discostarsi dalla disciplina vigente. Vi è, invece, l'esigenza di razionalizzare l'acquisizione al processo delle prove: in particolare, deve essere semplificata la formazione delle prove costituende, pur garantendo il contraddittorio fra le parti, anche e soprattutto in questa delicata fase del processo. In connessione con quanto previsto dall'articolo 21, specifici problemi, ignoti al legislatore del 1942, sono invece posti dalla utilizzabilità del documento informatico. Al di là della disciplina dell'efficacia dello stesso - oggetto di recentissimi interventi del legislatore - sono evidentemente necessari meccanismi appositi per l'acquisizione al processo di un documento - poiché tale è, a tutti gli effetti, quello informatico - il cui contenuto, per essere percepito, esige l'utilizzazione di uno strumento. Altro problema da risolvere riguarda l'attuazione del contraddittorio su un testo, la cui comprensione, appunto, deve essere mediata attraverso un mezzo.
      A completamento del punto in delega, l'esigenza di coordinare la disciplina della forma degli atti processuali con le caratteristiche e le esigenze del processo informatizzato ha specificamente la funzione di recepire, nel testo del codice, la disciplina dell'informatizzazione che il legislatore sta progressivamente introducendo.
      Sembra opportuno, infatti, che tale disciplina non sia lasciata a testi normativi speciali, esterni al codice. Ciò soprattutto perché alcune esperienze straniere mostrano come, una volta che sia reso possibile il compimento degli atti del processo in forma digitale, questo diventa in breve tempo il modo assolutamente prevalente di svolgimento del processo stesso.

      L'articolo 22 disciplina l'udienza di discussione che, preparata dal decreto di fissazione, diventa non più un luogo di smistamento della causa verso un'altra udienza, ovvero la sede in cui i difensori delle parti sono burocraticamente autorizzati al deposito di scritti difensivi, ma il cuore del processo e la sede di un effettivo contraddittorio tra le parti e di comunicazione tra esse ed il giudice.
      Nell'udienza viene, in primo luogo, in discussione proprio il decreto di fissazione, con i provvedimenti - in primis, ma non solo, istruttori - adottati dal giudice nell'«impostare» la causa: da ciò discende la previsione della possibilità per il giudice, sulla base di quanto le parti hanno sostenuto nelle memorie depositate prima dell'udienza e nella discussione orale, di confermare, modificare o revocare i provvedimenti adottati con il decreto.
      Al giudice, inoltre, viene riconosciuto il potere, qualora abbia ammesso prove costituende

 

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ed ove non provveda immediatamente alla loro assunzione in udienza, di consentire - se richiesto da tutte le parti - la loro assunzione in sede extragiudiziaria, dando le disposizioni ritenute più opportune in ordine alle modalità di assunzione e di documentazione, salva sempre la facoltà di disporne la rinnovazione totale o parziale, ove ciò appaia opportuno: sicché l'assunzione di prove senza la presenza del giudice è subordinata: a) alla concorde richiesta delle parti; b) alla discrezionale determinazione del giudice; c) alla fissazione, da parte del giudice, delle modalità di assunzione e documentazione e salvo sempre il potere di rinnovazione innanzi a sé.
      Nel caso di assunzione «extra moenia» ed in quello di assunzione diretta ed immediata - anche, se del caso, in più di un'udienza - il giudice fissa un'udienza di discussione preceduta dal deposito di memorie conclusionali; ma è ovvio che, nel caso di assunzione nel corso di un'unica udienza, la decisione può essere emessa a conclusione della medesima udienza previa discussione orale, se il giudice ritiene superflua la redazione di scritti conclusionali.
      Se non vi sono prove costituende da assumere, la pronuncia della sentenza, a seguito della discussione orale, è prevista come esito normale del processo; esito normale effettivo e non già solo auspicato, perché il meccanismo costituito dal decreto di fissazione dell'udienza è tale da garantire che, effettivamente, il giudice sia in grado di decidere immediatamente la causa con un provvedimento succintamente motivato steso in calce al verbale. L'istituto, oggi previsto dall'articolo 281-sexies del codice di procedura civile, potrà, pertanto, trovare concreta attuazione in un rilevante numero di casi ed anche quando la causa sia stata istruita con l'assunzione di prove orali: il decreto di fissazione dell'udienza, infatti, è tale da costituire una sorta di «formula» (come quella del praetor romano nel processo formulare) che consentirà al giudice - eliminando normalmente il «collo di bottiglia» oggi rappresentato dalla stesura della sentenza - di provvedere immediatamente a definire la controversia a conclusione dell'udienza. In tal modo si realizzerà davvero uno dei più caratterizzanti obiettivi dell'oralità, vanamente inseguito quando si pretenda, come nel vigente codice, che tutto il processo - e non già il suo momento saliente di un'udienza di effettiva trattazione - si svolga dinnanzi al giudice.
      La possibilità che la decisione venga depositata successivamente all'udienza viene opportunamente conservata per le controversie particolarmente complesse, ma si tratterà di possibilità alla quale il giudice ricorrerà in casi particolari, incentivato come è a valersi dello strumento della sentenza stesa a verbale dalla notevole agevolazione consentitagli nell'assolvimento del suo compito.
      Il giudice, attraverso un meccanismo mutuato da quanto la legge n. 205 del 2000 prevede per il processo amministrativo, può decidere nel merito la causa, che egli ritenga matura, anche se adito per l'emissione di provvedimenti anticipatori ovvero cautelari; il che giustifica che le parti siano sempre tenute a precisare le loro conclusioni definitive anche quando vorrebbero investire il giudice soltanto di questioni relative, ma provvisoriamente o cautelarmente, al merito.

      L'articolo 23 introduce rilevanti modificazioni all'istituto della contumacia. Le ragioni, che hanno indotto ad abbandonare il criterio della contumacia come «ficta contestatio» e ad accogliere l'inverso principio della contumacia come «ficta confessio», consistono fondamentalmente nella considerazione delle conseguenze ricollegabili all'adozione dell'uno o dell'altro modello. Nel primo sistema - che il nostro ordinamento ha derivato, nel 1865, dal codice di procedura civile francese - chi propone la domanda deve comunque provare i fatti costitutivi della stessa, anche se la controparte resta contumace. Nel secondo sistema - che è proprio del processo tedesco ed austriaco - se la parte contro la quale la domanda è proposta non si costituisce, chi ha proposto la

 

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domanda è esonerato dal provare i fatti costitutivi del proprio diritto, che si considerano non contestati e quindi ammessi. Se una parte manifesta la volontà di disinteressarsi dell'esito del processo non vi è nessuna ragione di costringere l'altra parte a sostenere un'istruttoria, che costa denaro ed allunga i tempi del processo. In sostanza, al modello attualmente vigente può farsi la critica di essere «più realista del re», in quanto impone il compimento di attività anche quando una delle parti ha manifestato la propria indifferenza per l'esito del processo.
      Naturalmente, l'effetto di considerare ammessi i fatti allegati dalla parte costituita può essere ricollegato alla contumacia solo a certe condizioni ed in certi limiti.
      Anzitutto, deve trattarsi di contumacia cosiddetta «volontaria», e quindi occorre che il giudice pregiudizialmente accerti la regolarità della instaurazione del contraddittorio sotto tutti i suoi profili - a titolo di esempio, validità dell'atto introduttivo e della sua notificazione; capacità del convenuto; infatti, come è ovvio, l'inerzia della controparte può significare disinteresse all'esito del processo, e quindi può giustificare la ficta confessio, solo ove il comportamento inerte sia frutto di una libera scelta della parte e non già della mancata instaurazione del contraddittorio.
      In secondo luogo, la regola non può valere ove il processo abbia ad oggetto diritti indisponibili, per l'assorbente ragione che, in tali casi, non vige, in generale, il principio in virtù del quale i fatti ammessi non hanno bisogno di essere provati, e quindi non può valere neppure quella particolare fattispecie di fatti ammessi, che è prodotta dalla contumacia.
      In terzo luogo, la contumacia produce la sola conseguenza di far ritenere per esistenti i fatti costitutivi del diritto, allegati dalla parte che ha proposto la domanda: non impedisce, da un lato, che il giudice debba porre a fondamento della decisione le eccezioni rilevabili di ufficio, che emergano dagli atti - ad esempio, la nullità del contratto - dall'altro, esige che il giudice debba comunque valutare la concludenza della domanda e cioè se i fatti, così come allegati dall'attore e ritenuti per esistenti in virtù della contumacia della controparte, sono sussumibili in una fattispecie astratta, da cui scaturisca il diritto fatto valere.
      È stata, inoltre, prevista la possibilità per il giudice di deferire il giuramento suppletorio o estimatorio, qualora la quantificazione della somma o, più in generale, della prestazione oggetto della domanda sia ritenuta non del tutto attendibile.
      In presenza, quindi, di una domanda fondata su fatti concreti integranti una fattispecie astratta generatrice del diritto fatto valere, e quando non vi siano eccezioni - ovviamente rilevabili di ufficio in quanto risultanti dagli atti - ostative all'accoglimento della stessa, il giudice deve pronunciare un immediato provvedimento di accoglimento della domanda stessa. La forma dell'ordinanza sottolinea la necessaria sinteticità dell'atto, che può e deve limitarsi a constatare la concludenza in iure della domanda proposta.
      Il regime dell'ordinanza è quello della sentenza appellabile. Poiché, in caso di appello, tutta la disciplina della contumacia si gioca sull'inibitoria, si è ritenuto di differenziare il caso della contumacia volontaria da quello della contumacia involontaria - cioè, dipendente da vizi nella instaurazione del contraddittorio, non rilevati dal giudice che ha pronunciato l'ordinanza contumaciale.
      Nell'ipotesi di contumacia volontaria, l'appello proposto da chi si è volontariamente disinteressato al processo di primo grado può portare all'inibitoria dell'efficacia esecutiva del provvedimento appellato solo se l'appellante fornisca prova scritta o di pronta soluzione dei fatti da lui allegati con l'appello.
      Diversamente, nell'ipotesi di contumacia involontaria, è chiaro che viene meno il fondamento stesso della condanna del contumace: pertanto, la regola va rovesciata e l'inibitoria è in linea di principio atto dovuto, tranne che sussistano le condizioni che legittimano la concessione
 

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della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto.

       L'articolo 24 disciplina la contumacia cosiddetta «involontaria» - conseguenza, cioè, di vizi relativi all'instaurazione del contraddittorio - che è attualmente insoddisfacente e fonte di numerose incertezze. Nel sistema normativo vigente, alla parte che - non avendo avuto conoscenza del processo per la nullità degli atti introduttivi del processo o della loro notificazione - sia rimasta contumace, si offre come rimedio la possibilità di utilizzare i mezzi di impugnazione ordinari, anche al di là del termine di decadenza annuale. Ciò produce una serie di inconvenienti. In primo luogo, una volta introdotta la possibilità che la Corte di cassazione pronunci nel merito, il contumace involontario si vede privato di ogni strumento per far valere il vizio del processo, quando la sua soccombenza deriva dalla sentenza della Corte. In secondo luogo, l'impugnazione ordinaria può essere proposta anche a distanza di anni dal momento in cui il contumace è venuto a conoscenza della sentenza. Infine, essendo lo strumento previsto a favore del contumace un mezzo di impugnazione ordinario, esso determina la prosecuzione della precedente litispendenza, impedendo quindi l'operare degli strumenti sostanziali volti a stabilizzare la realtà esistente.
      Si è, quindi, ritenuto opportuno introdurre una disciplina unitaria, con le seguenti caratteristiche: in primo luogo, se il contumace deve utilizzare un mezzo di impugnazione ordinario, perché, ad esempio, gli è stata notificata la sentenza, rimane fermo tale onere. Se, al contrario, si verificano le ipotesi che attualmente prevedono la proponibilità dell'impugnazione ordinaria al di là del termine di decadenza annuale, lo strumento di tutela del contumace è costituito da un mezzo di impugnazione straordinario - l'opposizione dinanzi al giudice di primo grado - proponibile, peraltro, non illimitatamente, ma entro un termine congruo decorrente dal momento in cui egli ha avuto conoscenza della sentenza.
      Quanto, poi, alla seconda previsione contenuta nel criterio in esame, essa si limita ad estendere agli altri atti di instaurazione del contraddittorio ed alla loro notificazione - ad esempio, la riassunzione - quanto espressamente previsto solo per la citazione e la notificazione della stessa.

      L'articolo 25 rivede le ipotesi di collegialità della decisione, che sono oggi un coacervo asistematico di ipotesi eterogenee. Fermo restando che, in linea di principio, il sistema riconosce l'esigenza di cause sottratte alla decisione monocratica, si riformulano le fattispecie secondo criteri riconoscibili ed oggettivi: se la decisione deve essere collegiale, occorre che essa non si risolva in una formalità e la sola strada per ottenere ciò è che la sua specialità sia effettivamente giudicata necessaria, avuto riguardo alla delicatezza delle questioni coinvolte, necessariamente legata alla natura della controversia oggetto del giudizio. Viene, inoltre, previsto che al giudice monocratico, investito della trattazione della causa, possa essere concessa l'opportunità - evidentemente da affidare in dettaglio alla valutazione del legislatore delegato - di chiedere al presidente di sezione o, in mancanza, al presidente del tribunale di voler assegnare alla trattazione del collegio le controversie che presentano questioni di particolare importanza; si prevede, inoltre, che al presidente del tribunale sia riconosciuta la facoltà di garantire una funzione regolatrice, razionalizzatrice e nomofilattica, tramite la possibilità di assegnazione al collegio delle controversie di cui sopra, oppure già decise in senso difforme da giudici monocratici.

      L'articolo 26 prevede un meccanismo che pone fine all'attuale sistema di riscossione degli obblighi tributari connessi alla pronuncia dei provvedimenti giudiziari, che si è rivelato fonte di ritardi ingiustificati, spesso anche pregiudizievoli per la tutela dei diritti oggetto dei giudizi. I princìpi costituzionali, nella costante lettura della Corte costituzionale, mentre

 

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non impediscono che il processo possa costituire la fattispecie per la nascita di obblighi tributari, impediscono che il pagamento di imposte e tasse costituisca condizione per ottenere la tutela del proprio diritto o per esercitare il diritto di difesa (articolo 24 della Costituzione). La Corte ha già avuto occasione di dichiarare l'incostituzionalità delle norme che subordinavano al pagamento dell'imposta di registro il rilascio di copia della sentenza - copia necessaria per poter impugnare la stessa. Di recente, la Corte ha esteso il principio alle copie necessarie per l'esecuzione forzata.
      Ma il principio enunciato è rimasto in pratica «lettera morta» in quanto - non appena pubblicata - la sentenza ed il fascicolo della causa vengono immediatamente inviati dalla cancelleria al competente ufficio finanziario, e là rimangono fintantoché non sia stata liquidata e corrisposta l'imposta. Perfino numerose sentenze della Corte di cassazione restano indisponibili, anche a distanza di anni, perché nessuna delle parti ha corrisposto l'imposta: con quali improvvide conseguenze, anche sulla funzione nomofilattica della Corte, è possibile immaginare.
      Oltre a ciò, anche con la miglior diligenza della parte, i tempi per il passaggio fisico del fascicolo dall'ufficio giudiziario all'Agenzia delle entrate ed il ritorno dello stesso all'ufficio sono tali da comportare una sensibile dilazione nella tutela della parte che, magari, avrebbe diritto di procedere ad esecuzione forzata, ma non ha il titolo esecutivo documentale per farlo; o che, magari, vorrebbe impugnare per poter chiedere l'inibitoria, ma non ha la copia necessaria per l'impugnazione.
      Né si potrebbe opporre che il meccanismo attualmente vigente è funzionale all'effettiva riscossione delle imposte dovute, poiché è stata proprio la Corte costituzionale - come già detto - a negare che l'interesse dello Stato alla riscossione delle imposte possa far premio sull'interesse delle parti garantito dall'articolo 24 della Costituzione.
      Si è, perciò, prevista l'introduzione di una procedura che garantisca il tempestivo svolgimento delle attività dirette all'adempimento degli obblighi tributari, non subordinando il rilascio delle copie della sentenza all'assolvimento del relativo onere fiscale.

      L'articolo 27 modifica l'attuale disciplina della sospensione, che è stata oggetto di ampi studi nel periodo successivo all'entrata in vigore del vigente codice. La dottrina ha individuato due categorie di sospensione: quella per pregiudizialità, prevista principalmente dall'articolo 295 del codice di procedura civile, e quella «impropria», caratterizzata dal fatto che il processo rimane fermo, in attesa che un altro giudice decida una questione, che appartiene all'oggetto del processo in corso e che eccezionalmente è sottratta alla cognizione del giudice dello stesso. Diviene, quindi, opportuna una razionalizzazione delle varie ipotesi, che tenga conto della loro diversa natura.
      Per quanto attiene, invece, alla sospensione concordata, la disposizione attualmente vigente prevede un periodo massimo di quattro mesi. Anche a prescindere dal rilievo dell'incongruità di tale periodo - difficilmente oggi fra un'udienza e l'altra intercorre un termine inferiore a quattro mesi - è lo spirito della disposizione a non poter essere condiviso. Non vi è nessuna ragione perché il processo debba correre anche contro la volontà delle parti: essenziale è, al contrario, che il processo sia veloce se anche una sola delle parti lo vuole. Se le parti concordano nel voler mantenere il processo in stato di sospensione, non si vede quale possa essere l'interesse pubblico idoneo ad impedire che si produca l'effetto da esse voluto. A questo principio vanno sottratti i casi in cui la domanda sia soggetta a trascrizione o vi sia un interesse dei terzi alla pronta definizione del giudizio.
      Infine, diviene necessario prevedere una disciplina comune a tutte le ipotesi di sospensione per ciò che attiene ai controlli sul provvedimento che decide sulla questione: controlli certamente necessari, dal momento che la sospensione si risolve pur sempre in un diniego di tutela, pur se

 

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temporaneo o basato sulla concorde volontà delle parti. Nel sistema attualmente vigente solo il provvedimento che dispone la sospensione per pregiudizialità è controllabile; non lo sono, invece, il provvedimento che nega la sospensione per pregiudizialità e i provvedimenti che statuiscono, positivamente o negativamente, sulle fattispecie di sospensione impropria. Si aggiunga che lo strumento di controllo previsto - il regolamento di competenza - oltre ad essersi rivelato eccessivo rispetto allo scopo, aggrava inutilmente il carico della Corte di cassazione.
      Si ritiene, quindi, opportuno consentire un controllo immediato su tutti i provvedimenti che dispongono in materia di sospensione, sia positivi che negativi, individuando tale controllo nel reclamo, che è strumento duttile e comunque idoneo a provocare un riesame pieno della questione.

      L'articolo 28 modifica l'attuale disciplina dell'interruzione del processo che, pur essendo in sé articolata, risente di un vizio di fondo, consistente nel ritenere che l'interruzione sia funzionale al compimento di atti di impulso processuale. Si sostiene, quindi, che quando non si renda necessario il compimento di atti di impulso processuale ad opera del soggetto nei cui confronti si è verificato il fatto interruttivo, non vi sarebbe ragione di applicare l'istituto della interruzione. Da qui, ad esempio, l'asserita estraneità dell'interruzione al giudizio di cassazione: con la deprecabile conseguenza che la morte o l'impedimento dell'avvocato patrocinante in cassazione non impedisce che la controversia venga decisa, e ciò nonostante che la parte non possa essere adeguatamente difesa.
      In realtà, come è stato evidenziato anche dalla dottrina posteriore all'entrata in vigore del codice, l'interruzione è finalizzata all'attuazione del diritto di difesa, in quanto i fatti interruttivi pongono la parte rispetto alla quale si verificano in condizione di non potere utilizzare in concreto quei poteri processuali che sono in astratto conferiti dalle norme. È, quindi, necessario ridisciplinare l'istituto, tenendo conto della sua vera funzione.
      Un inconveniente dell'attuale disciplina è causato dalla previsione in virtù della quale, quando l'evento colpisce una parte costituita a mezzo di procuratore, l'interruzione consegue alla dichiarazione del difensore: dichiarazione che può essere effettuata dal difensore nel momento da lui insindacabilmente individuato. Ora, poiché la riassunzione nei confronti degli eredi della parte venuta meno può essere effettuata, in modo impersonale, mediante notificazione all'ultimo domicilio della parte entro un anno dall'evento, accade che il difensore di quest'ultima possa, in modo del tutto lecito, dilazionare la dichiarazione fino oltre la scadenza dell'anno e, quindi, impedire alla controparte di usufruire delle modalità facilitate di riassunzione. Per ovviare a ciò, si è previsto che la riassunzione possa essere effettuata anche a prescindere dall'interruzione, onde evitare che la controparte sia costretta a riassumere il processo nel momento insindacabilmente scelto dal procuratore della parte colpita dall'evento interruttivo.
      Un altro inconveniente dell'attuale disciplina dell'interruzione riguarda l'applicazione dell'istituto alle procedure concorsuali, la cui apertura produce la perdita della legittimazione del debitore. In tal caso, ove manchi la dichiarazione dell'evento interruttivo da parte del difensore del debitore, il processo deve necessariamente proseguire, anche se la sentenza non sarà poi opponibile alla massa. Si è, quindi, previsto che, in tale caso, l'interruzione possa conseguire alla dichiarazione anche di altre parti, tutte le volte in cui queste non abbiano interesse ad una pronuncia efficace nei soli confronti del debitore tornato «in bonis»; per equilibrare la responsabilità degli effetti della dichiarazione si è, inoltre, previsto che l'evento interruttivo, ove sia contestato nella sua effettiva verificazione, debba essere adeguatamente provato dalla parte che chiede l'interruzione.

      L'articolo 29 prevede interventi in tema di estinzione, che si articolano su due piani.

 

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      Da un lato, infatti, occorre razionalizzare la disciplina dell'estinzione a fronte delle modifiche intervenute nel testo originario del codice. In origine l'estinzione era sempre dichiarabile di ufficio; a seguito della riforma del 1950, essa è divenuta dichiarabile solo su istanza di parte. L'estinzione si fonda, in realtà, su due diversi fenomeni: da un lato, sull'inattività cosiddetta «semplice» e, dall'altro, sull'inattività cosiddetta «qualificata». In estrema sintesi, l'inattività semplice consiste nel mancato compimento di un atto di impulso processuale, prescritto dal legislatore secondo una sua libera scelta, in relazione ad un processo che vede, comunque, presenti tutte le condizioni per la decisione di merito. L'inattività qualificata, al contrario, consiste nel mancato compimento di uno specifico atto, finalizzato a far acquisire al processo una condizione per la pronuncia di merito, allo stato carente.
      Ciò posto, se la scelta del legislatore originario - nel consentire la dichiarazione di ufficio dell'estinzione anche nel caso dell'inattività semplice - era sintomatica di una ideologia, in virtù della quale la celerità del processo costituisce interesse pubblico anche contro la volontà delle parti, in senso inverso la scelta della riforma del 1950 - nell'impedire la dichiarazione di ufficio dell'estinzione anche nel caso dell'inattività qualificata - trascurava di considerare che l'omesso compimento dell'atto di sanatoria lascia comunque il processo in condizione di non poter essere deciso nel merito.
      La presente riforma ritiene opportuno tenere distinte le due fattispecie. Nell'inattività semplice spetta solo alla controparte decidere se chiedere l'estinzione o, invece, far comunque avanzare il processo verso la decisione di merito. Ciò in conformità allo spirito che anima tutta la presente proposta di legge, che non persegue la celerità del processo «ope iudicis» anche contro la volontà concorde di tutte le parti, poiché non ritiene sussistente un interesse pubblico che vada oltre la volontà delle parti. Nell'inattività qualificata, al contrario, la rilevabilità d'ufficio dell'estinzione consente al giudice di chiudere, in modo semplificato, un processo che, comunque, non è in grado di produrre una decisione di merito.
      L'altro intervento ha una portata più ampia e trae spunto dalla disciplina dell'estinzione per modificare la disciplina degli effetti delle sentenze di rito. Dalla vigente normativa in materia di estinzione, la giurisprudenza deduce che le sentenze di contenuto processuale hanno efficacia solo all'interno del processo in cui sono state emesse: l'unica eccezione è costituita dalle sentenze della Corte di cassazione sulla giurisdizione e sulla competenza, che fanno stato anche nell'ipotesi in cui la domanda sia riproposta in altro processo.
      Tale disciplina è frutto di una scelta di diritto positivo, volutamente divergente da quella che è la soluzione secondo i princìpi; si tratta di scelta che non ha serie giustificazioni e che si rivela foriera di non pochi inconvenienti.
      Infatti, le sentenze a contenuto processuale ben sono in grado, a seconda del loro contenuto, di produrre effetti anche in un altro processo, avente lo stesso oggetto del precedente. Si pensi, ad esempio, alla carenza di legittimazione: se la domanda, con cui si fa valere in giudizio un diritto, allegando una fattispecie di legittimazione straordinaria, è rigettata in rito perché il giudice non ritiene sussistente tale fattispecie, la regola attualmente vigente consente di riproporre la domanda negli stessi identici termini, senza che nel secondo processo possa invocarsi l'autorità della precedente sentenza. Lo stesso ragionamento può essere esteso a tutti gli altri presupposti processuali.
      La proposta di riforma è quella di non deviare dai princìpi, e di consentire che anche le sentenze di rito producano «naturalmente» i loro effetti, secondo i princìpi propri della cosa giudicata e, quindi, nel rispetto dell'ambito oggettivo, soggettivo e temporale della stessa, allorché, dopo una definizione del giudizio in rito, la domanda sia riproposta.
      In coerenza con quanto appena visto, si ritiene opportuno modificare anche la disciplina
 

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dei rapporti fra definizione in rito del processo ed effetti sostanziali della domanda. Dalla normativa in materia di interruzione della prescrizione si ricava che l'estinzione del processo fa venire meno tali effetti. Ciò può portare alla perdita, sul piano sostanziale, del diritto fatto valere nel processo estinto: il che costituisce una conseguenza eccessiva. Si aggiunga che la giurisprudenza della Corte di cassazione, dopo aver per un certo periodo di tempo correttamente equiparato la chiusura in rito del processo all'estinzione, più di recente ha ritenuto di limitare alla sola estinzione le conseguenze poc'anzi descritte: introducendo, peraltro, una diversità di disciplina difficilmente giustificabile.
      La modifica è, quindi, la seguente: qualunque sia la modalità tecnica di definizione del processo in rito - estinzione o provvedimento a contenuto processuale - gli effetti sostanziali della domanda si conservano, se la domanda è riproposta entro un breve termine - indicato in sei mesi - dalla definizione del precedente giudizio.

      L'articolo 30 delinea un processo di appello con le seguenti caratteristiche:

          a) l'appellabilità di tutte le sentenze, fatta eccezione di quelle decise secondo equità, costituisce uno strumento necessario per porre un «filtro» al ricorso per cassazione. Le statistiche giudiziarie mostrano che solo una parte delle sentenze di appello è oggetto di ricorso per cassazione: e ciò, evidentemente, perché le parti trovano soddisfazione, in sede di appello, nei confronti delle sentenze di primo grado. Sicché introdurre l'appello avverso tutte le sentenze significa ridurre sensibilmente la necessità di ricorrere per cassazione al fine di far valere le proprie ragioni nei confronti della sentenza di primo grado;

          b) la non appellabilità immediata delle sentenze su questioni giudicate senza definire il giudizio (sentenze cosiddette «non definitive») e la appellabilità immediata delle sentenze che decidono una o alcune delle domande proposte (sentenze cosiddette «parzialmente definitive») consegue al diverso oggetto delle stesse ed ai diversi effetti che esse producono: meramente endoprocessuali le prime, di natura sostanziale le seconde; onde non vi è necessità di tutelare immediatamente il soccombente nei confronti delle prime, mentre tale necessità sussiste nei confronti delle seconde. Si propone, in sostanza, l'estensione anche alle sentenze della disciplina che la riforma del 1994 ha introdotto per l'impugnazione del lodo. Non essendo la sentenza cosiddetta «non definitiva» suscettibile di impugnazione immediata non vi è evidentemente ragione di sottoporre la stessa alla cosiddetta «riserva di appello». Al contrario, l'immediata impugnabilità della sentenza cosiddetta «parzialmente definitiva» lascia alla parte soccombente la scelta fra l'impugnazione immediata e quella differita: pertanto, ove la parte opti per la seconda alternativa, è opportuno che manifesti tempestivamente la sua scelta;

          c) la necessità di disciplinare l'atto di appello, nella sua forma principale o incidentale, non ha necessità di essere sottolineata. Basti pensare che tale atto, pur non contenendo una domanda giudiziale, apre un'ulteriore fase del processo: onde l'impossibilità di applicare all'atto di appello sic et simpliciter quanto previsto per l'atto introduttivo del processo di primo grado. Ciò comporta anche la necessità di stabilire un'autonoma disciplina delle nullità. Strettamente collegata a questa problematica è la questione della rilevanza dei motivi di appello, che ha subìto, nel tempo, una netta evoluzione, in parallelo con l'acquisita consapevolezza che la critica alla decisione oggetto di appello costituisce un requisito imprescindibile per conferire alla sentenza resa in sede di impugnazione una credibilità superiore a quella della sentenza impugnata;

          d) considerazioni esattamente speculari a quelle appena esposte possono essere fatte per l'atto difensivo avverso quello di appello;

          e) le fattispecie di improcedibilità dell'appello derivano da una scelta sostanzialmente

 

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discrezionale del legislatore: si tratta, dunque, di individuare ragionevoli ipotesi in cui l'inattività dell'appellante impedisce l'esame nel merito dell'appello. Così, ad esempio, l'attuale necessità che la costituzione in appello avvenga in un termine abbastanza ristretto, decorrente dalla notificazione della citazione, produce difficoltà non trascurabili quando il luogo di notificazione dell'impugnazione non coincide con la sede della corte di appello;

          f) la scelta sul tema dei «nova» in appello - nel senso del ritorno alla disciplina antecedente alla riforma del 1990 - è motivata dalla profonda convinzione che la figura del litigante, il quale volutamente riserva le sue armi migliori all'appello, non esiste nella realtà della prassi giudiziaria. Oltretutto, l'esecutività ex lege delle sentenze di condanna pronunciate in primo grado costituisce il miglior argomento contro l'opinione che ritiene necessario - al fine di «valorizzare» il processo di primo grado - restringere l'ambito delle novità proponibili in appello. Né, infine, ha pregio l'argomento secondo il quale la presenza di preclusioni in primo grado impedisce logicamente che sia possibile fare in appello ciò che non si può più fare nella precedente fase: infatti, è ben possibile concepire che il processo di primo grado, giunto ad un certo stadio, si chiuda alle novità, ma che tali novità tornino proponibili, una volta che si apra il processo di appello. Tale fenomeno esisteva anche nel processo di primo grado antecedentemente alla riforma del 1990, nel quale con la precisazione delle conclusioni si precludevano le ulteriori allegazioni e richieste istruttorie, che tornavano ad essere proponibili in appello. Se, dunque, una delle parti - presumibilmente quella che è rimasta soccombente - vuole proporre in appello nuove allegazioni o nuove prove, non si vede perché mai ciò debba esserle impedito: salva, ovviamente, la possibilità di tener conto della tardività ai fini delle spese;

          g) il problema dei rapporti fra nullità del processo di primo grado e processo di appello dipende da una serie di fattori, che non conducono ad una soluzione obbligata. È possibile, pertanto, che l'appello sia un puro gravame, inidoneo a porre rimedio alle nullità del processo di primo grado; è possibile che, al contrario, qualunque vizio - ovviamente sanabile - del processo di primo grado sia emendabile in appello; è possibile una soluzione intermedia, come quella prevista nel vigente codice, secondo il quale il processo di appello è in linea di massima in grado di porre rimedio ai vizi del processo di primo grado, salvo che questi riguardino le condizioni per la pronuncia di merito. L'opzione qui proposta ritiene che l'eccezione contenuta nel vigente sistema, pur essendo logicamente comprensibile, può essere eliminata. Spetterà, quindi, al giudice di appello, una volta accertata l'esistenza del vizio processuale, disporre il compimento di tutte le attività idonee a sanare il vizio e, poi, di quelle consequenziali alla verificata sanatoria. Ma se il processo di appello deve essere idoneo a porre rimedio a tutti i vizi del processo di primo grado, coerenza vuole che non si possano invocare i limiti propri dell'ipotesi in cui l'appello non ha questa funzione: in particolare, non può valere, in questo caso, il divieto di proposizione di domande nuove, divieto che presuppone un appello che non abbia il compito di porre rimedio ai vizi del processo di primo grado. Insomma, delle due l'una: o l'appello è in grado di fronteggiare tutte le nullità del processo di primo grado, ed allora devono essere proponibili anche le nuove domande, ove la nullità in questione ne abbia impedito la proposizione in primo grado; oppure non è possibile in assoluto la proposizione di nuove domande in appello, ma allora non è vero che l'appello è in grado di rimediare a tutti i vizi del processo di primo grado o, quantomeno, non è in grado di rimediare a quei vizi che in quella sede hanno impedito la proposizione delle nuove domande.

      L'articolo 31 contiene interventi sul processo di cassazione, che seguono tutti un filo conduttore: consentire alla Corte di svolgere al meglio la sua funzione nomofilattica,

 

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secondo le considerazioni che seguono:

          lettera a): se la funzione della Corte non è principalmente quella di rendere giustizia nel caso concreto, non ha senso differenziare il ricorso ordinario da quello straordinario ex articolo 111 della Costituzione, posto che quest'ultimo ha proprio il preciso scopo di consentire alla Corte di intervenire in ogni settore dell'ordinamento, anche in relazione a quelle norme che trovano applicazione in provvedimenti non ricorribili in cassazione in via ordinaria; da tale regime sono ovviamente escluse le questioni di giurisdizione afferenti le pronunce dei giudici speciali, identificati dal settimo comma dell'articolo 111 della Costituzione. In questa stessa direzione, si sono precisati i limiti del sindacato sulla motivazione in fatto, pur nella consapevolezza che spetta unicamente alla Corte stessa mantenere tale sindacato nei limiti compatibili con la propria funzione nomofilattica;

          lettera b): la necessità che il ricorso contenga, a pena di inammissibilità, l'enunciazione del quesito di diritto proposto ha anch'essa lo scopo di finalizzare l'attività della Corte alla decisione delle questioni di diritto e di impedire che il ricorso si limiti ad una mera ripetizione degli argomenti sostenuti nella precedente fase;

          lettera c): la non ricorribilità immediata delle sentenze su questioni giudicate senza definire il giudizio (sentenze cosiddette «non definitive») e la ricorribilità immediata delle sentenze che decidono una o alcune delle domande proposte (sentenze cosiddette «parzialmente definitive») consegue al diverso oggetto delle stesse ed ai diversi effetti che esse producono: meramente endoprocessuali le prime, di natura sostanziale le seconde; onde non vi è necessità di tutelare immediatamente il soccombente nei confronti delle prime, mentre tale necessità sussiste nei confronti delle seconde;

          lettera d): la previsione ha lo scopo specifico di eliminare l'attuale automatismo, in virtù del quale è sufficiente che sia sollevata una questione di giurisdizione perché ne debbano essere investite le sezioni unite. Si è ritenuto, comunque, opportuno mantenere l'intervento di queste ultime nella decisione delle questioni di giurisdizione sollevate con riferimento a pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, in considerazione essenzialmente della posizione della Suprema Corte come regolatrice dei conflitti fra giudice ordinario e giudici speciali, nonché fra i giudici speciali;

          lettera e): la distinzione dei ruoli, all'interno di un ufficio giudiziario unico come quello della Corte di cassazione, fra sezioni semplici e sezioni unite, corrisponde alla duplice funzione che deve svolgere l'organo di vertice in un sistema nel quale non esiste il vincolo al precedente e nel quale, quindi, qualunque giudice può discostarsi dai princìpi enunciati dalla medesima Corte. Da un lato, infatti, una Corte suprema deve pronunciare sentenze in grado di indirizzare l'attività dei destinatari delle norme; dall'altro, la parte che è rimasta soccombente, perché il giudice di merito ha - del tutto lecitamente - disatteso il precedente della Corte, deve avere la possibilità di chiedere alla Corte l'applicazione del principio enunciato nel precedente. Ambedue gli interventi appartengono a pieno diritto alla funzione nomofilattica. Alle sezioni unite spetta, dunque, pronunciare sentenze autorevoli e convincenti; alle sezioni semplici spetta il compito di garantire l'applicazione dei princìpi enunciati dalle sezioni unite. Nell'ambito di questa attività è, quindi, evidente che le sezioni semplici, da un lato, non possono autonomamente discostarsi da quanto precedentemente deciso dalle sezioni unite e, dall'altro lato, spetta alle sezioni semplici il compito, assai rilevante, di verificare l'opportunità di un riesame del precedente, rimettendo alle stesse la causa - che la sezione semplice ritenga di non poter decidere facendo applicazione dei princìpi precedentemente enunciati dalle sezioni unite - con ordinanza, attraverso la quale la sezione esporrà le ragioni che la inducono a non fare applicazione

 

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del precedente e che giustificano appunto un ripensamento delle sezioni unite;

          lettera f): la modifica si rende opportuna a causa delle divergenze che sussistono in ordine all'interpretazione dei numeri 3) e 4) del primo comma dell'articolo 360 del codice di procedura civile. Poiché, secondo un'interpretazione maggioritaria, tutte le violazioni di norme processuali rientrano nel numero 4), l'attuale dizione dell'articolo 384 del codice di procedura civile ha fatto sorgere il dubbio se sia possibile la pronuncia di merito (che, si noti, nell'ottica dell'articolo 384 non significa sentenza «nel merito», ma sentenza sostitutiva di quella impugnata, qualunque ne sia il contenuto) quando la causa sia matura per la decisione, ma si lamenti la violazione di norme processuali, anziché sostanziali. Poiché, ovviamente, la risposta deve essere affermativa, ne deriva la necessità di chiarire che determinante non è il tipo di norma violata - sostanziale o processuale - quanto la circostanza che la Corte possa decidere in via definitiva senza dover procedere ad accertamenti di fatto;

          lettera g): l'enunciazione del principio di diritto costituisce elemento essenziale della funzione nomofilattica: è vero che esso può essere ricavato dalla sentenza della Corte presa nella sua globalità, ma l'esplicita enunciazione dello stesso dà maggior autorevolezza alla decisione e produce anche una maggiore consapevolezza di quanto affermato. Nella sostanza, l'enunciazione del principio di diritto e la necessità che il ricorso contenga l'enunciazione di un quesito di diritto costituiscono due facce della stessa medaglia;

          lettera h): l'attuale diritto vigente, in tema di ricorso straordinario ex articolo 111 della Costituzione, nega la possibilità di impugnare i provvedimenti che, oltre alla forma, non abbiano neppure gli effetti propri delle sentenze. In particolare, si ritengono incensurabili in Cassazione i provvedimenti modificabili e revocabili dal giudice che li ha emessi, come quelli che dispongono circa i figli minori; non lo sono neppure i provvedimenti i cui effetti sono destinati ad essere riassorbiti in altri provvedimenti definitivi, come quelli cautelari. Questa situazione produce un notevole inconveniente: l'impossibilità per la Corte di fornire dei precedenti. Ad esempio, non vi possono essere sentenze della Corte di cassazione sull'interpretazione ed applicazione degli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies del codice di procedura civile. Ciò produce, nella materia del procedimento cautelare, una giurisprudenza a «macchia di leopardo»: tante «prassi» quanti sono i tribunali, che è proprio quello che la presenza di una Corte Suprema dovrebbe contribuire a scongiurare. Per ovviare a tale inconveniente, non è certo possibile estendere illimitatamente la previsione dell'articolo 111 della Costituzione anche ai provvedimenti del tipo di quelli sopra indicati, in quanto ciò produrrebbe un ulteriore aggravio per la Cassazione. Tuttavia, poiché in tali materie la Costituzione non garantisce la decisione della Corte di cassazione, si è pensato ad un meccanismo - attivabile dal Procuratore generale - analogo al vigente articolo 363 del codice di procedura civile, che provochi una pronuncia della Corte di mero indirizzo, e cioè nomofilattica nel senso più pregnante della parola, senza incidenza nel caso concreto che ha dato occasione alla pronuncia.

      L'articolo 32 vuole rimediare ad una lacuna creatasi nel codice da quando è consentito alla Corte di cassazione di emettere una pronuncia sostitutiva di quella impugnata. In tal caso, com'è ovvio, il giudicato è prodotto dalla stessa sentenza della Corte; pertanto, ove si verifichino i presupposti per l'impugnazione straordinaria della sentenza, questa dovrebbe essere, in teoria, proposta alla stessa Corte. Anche se si ritiene di poter affidare tale compito alla Cassazione, superando i numerosi ostacoli esistenti, la Corte potrebbe trovarsi a dover svolgere un'attività istruttoria anche complessa; la sentenza, eventualmente di merito, emessa all'esito dell'impugnazione, sarebbe assolutamente incontrollabile e, dunque,

 

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occorrerebbe comunque disciplinare il relativo procedimento. Proprio per le ragioni sopra esposte, si è ritenuta preferibile una soluzione che veda competente per l'impugnazione straordinaria il giudice che ha emesso la sentenza sostituita dalla Cassazione.

       L'articolo 33 disciplina alcuni interventi per quanto riguarda il rito del lavoro - ed implicitamente, quindi, anche il rito previdenziale e il rito delle locazioni - sulla base della considerazione che, in linea di massima, tale rito non presenta l'esigenza di incisive modificazioni. Imprescindibile è la collocazione del processo del lavoro all'interno del codice, sia per ragioni storiche che per ragioni di coerenza sistematica dei riti speciali rispetto alla disciplina generale.
      Le proposte di modifica richiedono al legislatore delegato, anzitutto, di provvedere a disciplinare modalità procedurali accelerate per le controversie che presentino particolare rilievo sociale, da individuare dallo stesso legislatore delegato con riferimento ai valori costituzionalmente preminenti (ad esempio i licenziamenti collettivi ed individuali); si prevede, inoltre, un intervento razionalizzatore della disciplina del tentativo di conciliazione, nonché l'apertura dell'appello alle nuove prove ed allegazioni, in coerenza con le scelte operate in riferimento all'appello in generale.
      Si impone, inoltre, un ripensamento anche dell'arbitrato in materia di lavoro. La normativa vigente, pur essendo di recente introduzione, ha suscitato dubbi e perplessità; d'altro canto, occorre coordinare la disciplina vigente dell'arbitrato del lavoro con le modifiche proposte in materia di arbitrato in generale, ferma restando la specificità della materia; a tale proposito, la formulazione della lettera c) del comma 1 è stata pensata in termini volutamente ampi, così da rendere possibile al legislatore delegato l'adattamento della materia alle disposizioni delle leggi speciali sul lavoro che alla materia arbitrale fanno riferimento.
      Il trasferimento alla giurisdizione ordinaria della maggioranza delle controversie di lavoro derivanti da rapporti alle dipendenze di una pubblica amministrazione impone, inoltre, di affidare al legislatore delegato l'introduzione di una norma di principio sulla normale eseguibilità in forma specifica dei provvedimenti giurisdizionali esecutivi (definitivi o provvisori che siano) pronunciati dal giudice ordinario a carico dell'amministrazione-datore di lavoro. L'attuazione della tutela esecutiva è oggi seriamente compromessa dall'idea che le condanne in forma specifica a favore del dipendente non possano essere attuate nei confronti dell'amministrazione- datore di lavoro. Sulla materia grava, infatti, il grande equivoco della necessaria conversione della tutela specifica in tutela risarcitoria, sulla base di formule quali «contrattualizzazione» e «privatizzazione». Queste formule, però, non sembra possano giustificare la situazione attuale di denegata tutela che, tra l'altro, si riflette perversamente sulla tutela cautelare, anche rispetto alla quale viene invocato il postulato dell'incoercibilità della prestazione, tanto più stridente se comparata con l'immediata ed effettiva coercibilità delle obbligazioni specifiche dell'amministrazione, non solo nelle aree di pubblico impiego lasciate in toto alla giurisdizione del giudice amministrativo ma, addirittura, nelle controversie del personale «privatizzato» e «contrattualizzato» che la legge - per contingenti esigenze distributive - sottrae al giudice ordinario - con l'assurdità che la tutela dell'avente diritto cambia radicalmente per il passaggio da un ordine giurisdizionale ad un altro.
      Si propone, pertanto, fatte salve le previsioni razionalizzatrici della competenza per il giudizio di ottemperanza contenute nei princìpi del successivo articolo 36, di estendere in via generale l'eseguibilità forzata nei confronti della pubblica amministrazione, per l'ipotesi che essa sia datore di lavoro, con riferimento a tutte le tipologie di esecuzione forzata.
      Non diversamente che per le disposizioni della legge n. 218 del 1995, si è ritenuto opportuno procedere ad una riorganizzazione

 

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unitaria del processo del lavoro, la cui disciplina è attualmente frammentata tra il codice di procedura e il decreto legislativo n. 165 del 2001, con conseguente difficoltà di coordinamento e di ricognizione della regola del caso. Naturalmente, la sede codicistica è apparsa il contenitore più congruo per ospitare una ordinata riorganizzazione della disciplina. Tale opera di coordinamento riguarderà, come appare evidente, la sola materia devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, con esclusione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, secondo il criterio di riparto attualmente individuato dall'articolo 63 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

      L'articolo 34 affronta il tema delle mutue implicazioni fra processo di cognizione e processo esecutivo; la mancanza di un titolo esecutivo costringe il creditore a ricorrere al processo di cognizione, per ottenere in quella sede un provvedimento di condanna. Queste pur esatte considerazioni non hanno tuttavia indotto a proporre di abbandonare il tradizionale principio «nulla executio sine titulo», ma si è cercato di razionalizzare il sistema, consentendo al creditore di chiedere la tutela esecutiva, laddove possibile, senza quindi dover ricorrere all'intervento del giudice della cognizione.
      Si è, quindi, ritenuto anzitutto di estendere l'efficacia esecutiva dell'atto pubblico anche riguardo all'esecuzione in forma specifica, essendo del tutto irragionevole che l'atto idoneo a procacciare la tutela esecutiva per espropriazione sia inidoneo a sorreggere un'esecuzione per consegna e rilascio o per obblighi di fare.
      L'efficacia di titolo esecutivo è stata estesa alle scritture private, anche non autenticate, in quanto già attualmente il nostro sistema attribuisce tale efficacia ai titoli di credito, che dal punto di vista documentale sono appunto scritture private non autenticate. Se il diritto, che scaturisce da tali scritture, è certo, liquido ed esigibile non vi è ragione di costringere il creditore ad instaurare un processo di cognizione al fine di procurarsi un titolo esecutivo giudiziale.
      La previsione, relativa all'efficacia del titolo esecutivo a favore e contro i successori - rispettivamente nel diritto e nell'obbligo - recepisce a livello normativo la soluzione assolutamente prevalente in giurisprudenza, e chiarisce un dettato normativo (articolo 477 del codice di procedura civile) attualmente ambiguo.
      Infine, l'eliminazione del divieto di spedizione di più copie in forma esecutiva si giustifica in considerazione del fatto che la regola è anacronistica e costringe il creditore che voglia esperire più mezzi di espropriazione - com'è, del resto, suo diritto - a procedere a pignoramenti successivi, provvedendo man mano alla sostituzione, in ciascuno di essi, della copia spedita in forma esecutiva con altra copia conforme non esecutiva.

      L'articolo 35 detta previsioni che razionalizzano diversi profili generali del processo esecutivo.
      La presenza del giudice dell'esecuzione in tutti i tipi di processo esecutivo risponde vuoi ad esigenze di garanzia, vuoi ad esigenze di efficienza: ciò non significa che tutte le attività debbano essere svolte personalmente dal giudice. Al contrario, si è ritenuto che al giudice debbano essere riservate le funzioni di controllo e di risoluzione delle difficoltà e delle contestazioni che si verificano nel corso del processo, mentre le altre attività possono essere svolte da ausiliari, liberando così il giudice da compiti che non sono strettamente propri della funzione giurisdizionale.
      La formazione del fascicolo di ufficio in ogni forma di esecuzione risponde ad esigenze di trasparenza e praticità, soprattutto dopo che, entrate in vigore le modifiche suggerite, una pluralità di soggetti coopererà con il giudice dell'esecuzione: si lascia al legislatore delegato di valutare l'opportunità che copia del fascicolo sia conservata anche dall'ufficiale giudiziario, e ciò in relazione all'auspicata informatizzazione del processo ed all'opportunità che l'ufficiale giudiziario abbia tutte le

 

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informazioni sulla procedura da lui iniziata.
      La semplificazione della disciplina delle comunicazioni risponde ad una esigenza di celerità, realizzata senza imporre oneri eccessivi alle parti.
      Infine, la previsione relativa alla liquidazione delle spese estende anche al processo esecutivo la disciplina generale in materia di spese processuali.

      L'articolo 36 affida al legislatore delegato di prevedere una regola che consenta di eseguire coattivamente tutte le condanne pronunciate dal giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione, aventi per oggetto obblighi di fare, che comportino la necessità di adottare atti amministrativi.
      L'attuale situazione vede, infatti, una efficace possibilità di tutela per i soli provvedimenti che contengono la condanna della pubblica amministrazione al pagamento di somme di denaro, ipotesi in cui è possibile per il creditore eseguire il provvedimento giudiziario nelle forme dell'esecuzione ordinaria.
      Del tutto diversa è la situazione che si presenta allorquando la condanna debba essere eseguita attraverso l'emanazione di un atto o di un provvedimento amministrativo. In tali casi, il creditore - ove la pubblica amministrazione non emani l'atto richiesto - non ha strumenti effettivi di tutela, giacché l'ordinamento non prevede forme di esecuzione assimilabili a quelle presenti nel giudizio amministrativo, segnatamente legate al giudizio di ottemperanza.
      La scelta proposta estende la competenza del giudice amministrativo all'esecuzione con le forme dell'ottemperanza anche ai titoli esecutivi ed ai provvedimenti emanati dal giudice ordinario, ma che comportano l'adozione di provvedimenti amministrativi, sia che si tratti di attività paritetica, sia che si tratti di attività discrezionale.
      In tale modo si intende far tesoro della lunga e fruttuosa esperienza del giudizio di ottemperanza, salvaguardando l'autonomia del sistema della giustizia amministrativa e le prerogative della discrezionalità amministrativa, ma, al contempo, si garantisce effettività di tutela anche alle situazioni giuridiche soggettive tutelate innanzi alla giurisdizione ordinaria.

      L'articolo 37 introduce la possibilità di procedere ad espropriazione dell'azienda, soluzione che nel sistema vigente non è possibile, in quanto manca la possibilità di sottoporre a pignoramento una «universitas» composta di beni sottoposti a differenziati regimi di circolazione.
      Una volta resa possibile la sottoposizione ad esecuzione forzata dell'azienda, occorre ovviamente prevedere la possibilità di alienazione unitaria della stessa (in realtà, la stessa possibilità di pignoramento è funzionale a consentire una vendita della universitas, anziché giungere allo smembramento necessario di essa); a ciò è funzionale l'impignorabilità relativa dei beni mobili componenti l'azienda.
      Ove opportuno, sarà possibile nominare un amministratore giudiziario.

      L'articolo 38 disciplina uno dei punti centrali dell'espropriazione forzata, quello dell'individuazione dei beni pignorabili; analogamente, nell'esecuzione per consegna è essenziale individuare la collocazione spaziale del bene mobile. Sotto ambedue i profili, l'attuale situazione è del tutto carente.
      È stato, quindi, previsto che l'ufficiale giudiziario possa invitare l'esecutato a dichiarare, sotto la sua responsabilità penale, l'esistenza e l'ubicazione dei beni da sottoporre ad esecuzione, analogamente a quanto accade nel sistema tedesco (cosiddetto «giuramento di manifestazione»). Ovviamente, in relazione all'esecuzione per consegna questo costituisce l'unico strumento utilizzabile.
      Con riferimento all'espropriazione, si è prevista altresì la possibilità che l'ufficiale giudiziario, previa eventuale autorizzazione del giudice dell'esecuzione, abbia accesso ai dati contenuti nell'anagrafe tributaria, ovvero in altre banche dati pubbliche, analogamente a quanto già previsto per il concessionario della riscossione. Si è

 

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ritenuto opportuno prevedere che tale accesso sia effettuato dal pubblico ufficiale, anziché dal creditore, per evitare che quest'ultimo possa avere diretto accesso alle banche dati e, comunque, utilizzare ad altri fini le informazioni acquisite per procedere al pignoramento.
      In stretta correlazione con quanto sopra visto, si è ritenuta opportuna l'introduzione di uno strumento uniforme, attraverso il quale l'esecutato possa far controllare che il valore dei beni sottoposti ad esecuzione è eccessivo rispetto al credito da soddisfare, con efficacia sospensiva del procedimento ablatorio.

      L'articolo 39, con riferimento all'espropriazione mobiliare, prevede l'impossibilità di vendere il bene per un prezzo inferiore ad una percentuale di quello stimato, così da evitare manovre di ribasso da parte dei potenziali acquirenti, pregiudizievoli sia per i creditori che per il debitore.
      Con riferimento all'esecuzione presso terzi, è prevista la possibilità che la dichiarazione del terzo sia raccolta dall'ufficiale giudiziario che procede al pignoramento, per evitare che il terzo debitore, nell'intervallo fra la notificazione dell'atto di pignoramento e l'udienza, possa modificare la situazione sostanziale esistente, in pregiudizio dei creditori.

      L'articolo 40 reca la disciplina dell'esecuzione immobiliare, perseguendo due finalità: da un lato, rafforzare l'effettività della tutela esecutiva, sia per i creditori che per il debitore; dall'altro, abbreviare i tempi del processo, anche attribuendo ad ausiliari del giudice dell'esecuzione il compimento di attività che non devono necessariamente essere riservate a quest'ultimo.
      Rientrano nella prima finalità:

          1) la trascrizione del pignoramento antecedentemente alla sua notificazione al debitore. Infatti, attualmente, fra la notificazione - soprattutto a mezzo posta - del pignoramento e la trascrizione dello stesso può intercorrere un periodo di tempo che consente al debitore di compiere atti di disposizione ed all'avente causa di farli trascrivere prima che sia possibile la trascrizione del pignoramento;

          2) la possibilità di dare notizia dell'avviso di vendita in modi più efficaci di quelli attualmente esistenti;

          3) l'inversione della regola, attualmente vigente, secondo la quale l'esecutato è di regola custode del bene pignorato. Tale inversione si rende opportuna sotto diversi profili: anzitutto, se si tratta di un bene che produce un reddito, che viene percepito dall'esecutato, rimane poi praticamente impossibile recuperare le corrispondenti somme, che pure fanno parte ad ogni effetto dell'attivo dell'esecuzione; se, invece, si tratta di bene utilizzato direttamente dall'esecutato, diviene spesso impossibile farlo visionare dai potenziali acquirenti. Si è, quindi, previsto che il provvedimento di nomina del custode costituisca titolo esecutivo per il rilascio nei confronti dei terzi, che non abbiano titolo opponibile all'esecuzione, per contrastare eventuali manovre fraudolente dell'esecutato;

          4) la sostanziale impossibilità di vendere il bene ad un prezzo inferiore alla metà di quello stimato. Si vogliono così impedire manovre al ribasso da parte dei potenziali acquirenti, pregiudizievoli dell'interesse sia del debitore, sia dei creditori;

          5) la possibilità del potenziale acquirente di farsi finanziare l'acquisto, mediante garanzia sul bene espropriato. I principali motivi di svantaggio della vendita forzata rispetto alla vendita di diritto comune sono tre: l'impossibilità di contrattare contenuto, modi e termini dei reciproci adempimenti di venditore ed acquirente; la difficoltà di far visionare il bene a chi è interessato all'acquisto; la difficoltà, per il potenziale acquirente, di ottenere un finanziamento per l'acquisto mediante garanzia sul bene. Il primo svantaggio è impossibile da eliminare, per le caratteristiche proprie della vendita forzata. Al secondo si è cercato di ovviare mediante quanto previsto al numero 4). Al

 

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terzo si è posto rimedio, stabilendo che il processo esecutivo debba strutturarsi in modo tale da consentire al potenziale acquirente di ottenere credito mediante garanzia sul bene da acquistare.

      Rientrano nella seconda finalità (abbreviazione dei tempi):

          6) la semplificazione della autorizzazione alla vendita, rendendo obbligatoria la nomina dell'esperto, che provvede alla stima del bene ed alla verifica dei titoli dell'esecutato;

          7) la possibilità di vendita attraverso commissionario, che diviene indispensabile nelle ipotesi in cui il bene oggetto di pignoramento abbia caratteristiche tali da rendere opportuna la ricerca del potenziale acquirente attraverso contatti privati;

          8) l'estensione della delega al notaio anche con riferimento alla vendita senza incanto;

          9) la delega al notaio anche per la pronuncia del decreto di trasferimento e per la predisposizione del progetto di distribuzione, limitatamente all'ipotesi in cui non vengano sollevate contestazioni ad opera delle parti, ipotesi nelle quali la decisione delle controversie è ovviamente riservata al giudice.

      L'articolo 41 risponde ad un'esigenza di tutela dell'avente diritto. Nella disciplina attualmente vigente, le spese devono essere tutte anticipate da quest'ultimo e, solo alla fine del processo esecutivo, egli avrà titolo per recuperarle dall'obbligato inadempiente. Ma l'anticipazione delle spese può essere problematica ed è comunque onerosa per l'avente diritto. Occorre evitare che egli debba necessariamente finanziare un'opera che spetta all'esecutato compiere; si è, pertanto, previsto che l'anticipazione delle spese possa essere posta a carico dell'obbligato, in una misura stabilita dal giudice.

      L'articolo 42 risponde all'avvertita esigenza di introdurre un sistema di tutela esecutiva indiretta, che abbia portata generale e che - nel colmare una lacuna che contraddistingue il nostro sistema rispetto agli altri ordinamenti europei - ponga fine anche alla disomogeneità con la quale, finora, il legislatore ha previsto tale tutela a favore di determinate categorie di diritti.
      La scelta fondamentale riguarda la qualificazione della sanzione afflittiva prevista per l'inadempiente, imponendo una scelta tra sanzione civile e sanzione penale.
      A favore della prima alternativa milita l'inopportunità di prevedere fattispecie di reato al di là dei casi strettamente necessari; a favore della seconda milita la considerazione che l'entità globale della sanzione civile non può discostarsi eccessivamente dall'entità del danno che la controparte subisce a causa dell'inerzia, altrimenti si produce un arricchimento ingiustificato dell'avente diritto. Inoltre, se le somme corrisposte a titolo di sanzione sono percepite dall'avente diritto, diviene più complicato per chi ha subìto l'esecuzione ottenere la restituzione di quanto corrisposto.
      La soluzione prescelta contempera le alternative prevedendo:

          a) che, in presenza di un titolo esecutivo relativo ad obblighi infungibili, l'avente diritto possa ottenere una comminatoria a carico della controparte;

          b) che, persistendo l'inadempimento, l'avente diritto possa fare accertare l'entità della somma dovuta in dipendenza della comminatoria;

          c) che le somme via via maturate siano versate allo Stato;

          d) che, sulle somme così versate, si soddisfi l'avente diritto nei limiti dei danni prodotti dall'inerzia dell'obbligato e che il residuo sia definitivamente acquisito allo Stato.

      L'articolo 43 disciplina le controversie che possono trarre origine dal processo

 

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esecutivo, che possono essere ricondotte a quattro tipi:

          a) controversie relative al diritto sostanziale da tutelare;

          b) controversie relative al diritto processuale alla tutela esecutiva;

          c) controversie relative ai diritti dei terzi sui beni pignorati;

          d) controversie relative alla distribuzione del ricavato.

      Nel sistema attuale, le controversie di cui alle lettere c) e d) non necessitano di interventi normativi diversi dal coordinamento con le modifiche proposte.
      Viceversa, va rivista la disciplina delle controversie di cui alle lettere a) e b), perché quella attuale offre il fianco a diverse critiche. In particolare, con l'opposizione all'esecuzione si fanno valere anche questioni di natura processuale (relative al titolo esecutivo e alla pignorabilità dei beni); viceversa, l'opposizione agli atti esecutivi ha un oggetto troppo angusto, perché parametrato esclusivamente sulle nullità formali - relative ai singoli atti - mentre nel processo esecutivo vi sono anche le nullità extraformali - relative ai presupposti processuali.
      Si è deciso di separare nettamente lo strumento volto a risolvere le contestazioni relative al diritto sostanziale da tutelare da quello volto a risolvere le contestazioni relative al diritto processuale alla tutela esecutiva. Il termine per la proposizione di quest'ultimo strumento va, poi, correlato al termine nel quale la questione deve, in generale, essere sollevata, posto che l'opposizione agli atti è l'equivalente funzionale della eccezione di rito nel processo di cognizione.
      Si è ritenuto, infine, opportuno sostituire all'opposizione agli atti esecutivi - che viene decisa dallo stesso giudice dell'esecuzione con sentenza inappellabile - un reclamo al collegio, strutturato come il reclamo cautelare, che svolge la stessa funzione del reclamo ai sensi dell'articolo 26 del regio decreto n. 267 del 1942 (cosiddetta «legge fallimentare»).

       L'articolo 44 introduce una compiuta disciplina dei rimedi avverso gli atti degli ausiliari del giudice dell'esecuzione: nel sistema vigente vi sono, infatti, solo isolate previsioni, dal contenuto spesso divergente. Considerato anche che lo spirito della riforma è quello di affidare ad ausiliari tutto quanto non esige l'intervento diretto del giudice dell'esecuzione, si rivela opportuno introdurre un rimedio generale, esaustivamente disciplinato, nei confronti degli atti e dei comportamenti degli ausiliari (ufficiale giudiziario, notaio, eccetera).
      Tale rimedio si ispira a quanto attualmente previsto dagli articoli 534-ter e 591-ter del codice di procedura civile: esso assume la forma del reclamo al giudice dell'esecuzione, proponibile contro l'atto dell'ausiliario; non ha effetto sospensivo, salva diversa disposizione del giudice dell'esecuzione; è proponibile entro un termine decorrente dalla conoscenza dell'atto stesso, in alternativa all'opposizione di rito di cui alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 45, avverso l'atto finale del subprocedimento affidato all'ausiliario; la decisione del reclamo da parte del giudice dell'esecuzione è, a sua volta, reclamabile al collegio.

      L'articolo 45 prevede una razionalizzazione degli istituti della sospensione e dell'estinzione, in coerenza con le novità introdotte, lasciando per il resto invariati i princìpi attualmente vigenti.
      È disciplinata, in particolare, la possibilità che l'esecuzione forzata possa essere sospesa anche prima del pignoramento, per non lasciare il periodo temporale successivo alla notificazione del precetto sguarnito di questa forma di cautela.
      La previsione di cui alla lettera b) del comma 1 è giustificata dal fatto che l'attuale disciplina della riassunzione (articolo 627 del codice di procedura civile) non distingue fra le ipotesi di sospensione del processo esecutivo che sono previste a favore del creditore (articoli 549 e 601 del codice di procedura civile) ed ipotesi di sospensione che sono previste a favore del debitore o del terzo; in proposito, si è

 

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previsto, come ulteriore potere del giudice oltre a quello di rigetto dell'istanza o di concessione dell'inibitoria, anche la facoltà di sottoporre a cauzione la prosecuzione o la riassunzione dell'esecuzione, nei casi in cui sussistano dubbi sulla fondatezza dell'impugnazione. Inoltre, l'attuale disciplina impone al creditore di riassumere il processo esecutivo anche laddove egli preferisca attendere la formazione del giudicato sulla controversia incidentale.
      La previsione di cui alla lettera c) del medesimo comma trae spunto dal fatto che la sospensione del processo esecutivo, seguente alle contestazioni in tema di distribuzione, si giustifica unicamente per il timore che possa non essere restituito quanto ricevuto senza che ve ne fosse il diritto; conseguentemente, ove il creditore contestato dia idonea cauzione, non vi è motivo per tenere immobilizzata la somma da distribuire per tutto il tempo necessario a decidere la controversia.
      Per quanto riguarda la previsione di cui alla lettera d), valgono le considerazioni già commentate a proposito dell'articolo 25.
      Il comma 2 prevede che, in ogni ipotesi di estinzione o comunque di chiusura e definizione del processo esecutivo, continua a rimanere pienamente tutelata la situazione dell'assegnatario e dell'aggiudicatario, anche provvisorio, che non sia incorso in decadenze e che, in nessun caso, possano travolgersi o revocarsi gli effetti degli atti esecutivi già compiuti.

      L'articolo 46 muove dalla constatazione che il nostro sistema processuale - al contrario di quello di altri ordinamenti - manca totalmente di un processo esecutivo concorsuale per i debitori non assoggettabili a fallimento. Nei confronti di chi non rientra nella previsione dell'articolo 1 del regio decreto n. 267 del 1942 (cosiddetta «legge fallimentare») restano esperibili una pluralità di esecuzioni singolari, anche quando il patrimonio del debitore è incapiente rispetto ai crediti. La conseguente «atomizzazione» dei processi esecutivi, oltre a produrre la moltiplicazione delle controversie comuni (ad esempio, la natura privilegiata o meno di un credito, il cui titolare sia intervenuto in una pluralità di esecuzioni), rende assai più difficoltosa l'attuazione della par condicio, se non altro perché ciascun creditore deve effettuare un autonomo atto di intervento in ciascuna esecuzione.
      D'altro canto, non è sembrato opportuno istituire un processo concorsuale «pesante» come quello fallimentare, il cui atto iniziale produca gli effetti del pignoramento, anche a prescindere dal compimento delle attività volte a rendere opponibili ai terzi gli atti compiuti dal titolare del diritto e che produca la perdita della legittimazione del debitore relativa a tutti i beni pignorabili, ancorché questi non siano al momento individuati.
      Si è ritenuto che un risultato soddisfacente possa essere raggiunto senza incidere sul regime di circolazione dei beni e, quindi, è stato previsto che il pignoramento si effettui secondo le normali regole che lo disciplinano, ma che - ove siano perfezionati una pluralità di pignoramenti contro lo stesso esecutato - si proceda alla riunione necessaria, alla prima esecuzione, di quelle instaurate successivamente. Ciò consente ai creditori di proporre un solo atto di intervento; ai legittimati di proporre una sola volta le contestazioni comuni; di approntare un solo piano di riparto, e di risolvere una sola volta le controversie ad esso relative. Si garantisce, in tal modo, una più completa attuazione della par condicio.
      Naturalmente, ciò presuppone l'istituzione di un «registro» nazionale delle esecuzioni, sul modello del già esistente registro dei protesti.

      L'articolo 47 prende le mosse dalla constatazione che i procedimenti monitori attualmente esistenti rispondono a indiscusse esigenze, che si correlano all'inadempimento delle più comuni prestazioni: pagamento di somme di denaro, consegna di beni mobili, rilascio di beni immobili. Tuttavia, la diversa genesi storica del procedimento per ingiunzione e di quello per convalida hanno prodotto una diversità di disciplina, che razionalmente non è giustificabile: si pensi, soltanto, al diverso

 

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ambito di cognizione del giudice, che nella convalida è sotto certi profili anomalo; alla natura privata dell'intimazione, cui si aggiunge l'atto giurisdizionale della convalida, a fronte della natura esclusivamente giurisdizionale del decreto ingiuntivo; al limitato ambito di applicazione della convalida, a fronte della generale applicazione del procedimento per ingiunzione.
      Si è ritenuta, quindi, opportuna la riscrittura dei procedimenti monitori attualmente esistenti, riconducendo il procedimento per convalida alla struttura propria del procedimento monitorio ed estendendone l'utilizzabilità anche ad ipotesi diverse da quelle attualmente previste.

      L'articolo 48 si ispira al «référé» francese, di cui ripete le principali caratteristiche, generalizzando quanto già anticipato dalla riforma del diritto societario, attuata con il decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e successive modificazioni.
      Le ragioni che inducono ad introdurre un procedimento sommario, rispettoso del principio del contraddittorio, che sfocia in un provvedimento immediatamente esecutivo, ma privo dell'efficacia del giudicato, risiedono nella constatazione che, nella maggior parte dei casi, la parte ricorre al processo di cognizione non perché ha necessità di un accertamento con efficacia di giudicato, quanto perché vuole procurarsi un titolo esecutivo. Pertanto, in tali casi, è sufficiente dare alla parte un provvedimento esecutivo, anche se non munito dell'autorità del giudicato.
      Ora, mentre un provvedimento idoneo al giudicato esige - sia pure a richiesta di parte - lo svolgimento di un processo a cognizione piena ed esauriente, un provvedimento il cui contenuto non è vincolante e che, quindi, è contestabile in qualsiasi sede, può essere emesso anche al termine di un procedimento sommario, senza la necessità che, a richiesta di una delle parti, il procedimento sommario si converta in processo a cognizione piena.
      Attraverso questo strumento, in sostanza, si pone a carico dell'apparente obbligato, in base ad una valutazione sommaria di fondatezza della domanda, il tempo necessario per lo svolgimento di un processo a cognizione piena ed esauriente.
      Infine, il provvedimento può essere emesso anche in sede di processo a cognizione piena, se chi ha proposto la domanda si «accontenta» del provvedimento esecutivo e rinuncia al giudicato; qualora la controparte non sollevi obiezioni, il provvedimento sommario è in tal caso idoneo a definire il processo.

      L'articolo 49 muove dalla constatazione che, spesso, il contrasto fra le parti riguarda la «quaestio facti» di tal che, una volta effettuata l'istruttoria - e, beninteso, se non vi sono ragioni di contestazione sul modo con cui l'istruttoria si è svolta - la controversia viene conciliata. Se, dunque, si riesce ad anticipare la formazione della prova rispetto all'inizio del processo, è presumibile che non tutte le controversie caratterizzate da un contrasto in punto di fatto vengano portate dinanzi al giudice.
      Nel sistema vigente, invece, la formazione della prova prima del processo è possibile solo se ricorre il presupposto del «periculum in mora» e, quindi, sostanzialmente l'istruzione preventiva ha natura solo cautelare. Eliminando tale presupposto, è possibile generalizzare la formazione pre-processuale delle prove costituende.
      Inoltre, un difetto dell'attuale sistema riguarda l'ambito eccessivamente ristretto degli accertamenti tecnici preventivi che - come si suole dire - devono limitarsi a «fotografare» la situazione esistente. Essi non sono, dunque, esaustivi e, pertanto, non sono idonei a definire la quaestio facti. Si propone, quindi, di eliminare tali limiti, consentendo l'espletamento ante causam di una consulenza tecnica che abbia le stesse caratteristiche di quella disposta in corso di causa.

      L'articolo 50 riguarda il procedimento cautelare uniforme, che in oltre tredici anni di applicazione non ha mostrato gravi lacune o difetti. Pertanto, gli interventi proposti si limitano a pochi ritocchi.
      In primo luogo, si ritiene opportuno portare a compimento il principio della coincidenza fra la competenza per la fase

 

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cautelare e la competenza per quella di merito con possibile estensione, quindi, del potere cautelare anche al giudice di pace (ciò che valuterà il legislatore delegato).
      In secondo luogo, occorre rivedere la disciplina dell'efficacia nel tempo del provvedimento cautelare, coordinandola con l'eliminazione della regola che imponeva sempre l'immediata proposizione del processo di merito, pena la perdita di efficacia della misura cautelare.
      In terzo luogo, è necessario completare la disciplina dell'attuazione del provvedimento cautelare, disciplina che è attualmente carente, traendo spunto dal nuovo sistema delle opposizioni in sede di esecuzione forzata (vedi articolo 45).
      Da ultimo, si prevede che, anche in materia cautelare, debbano essere previsti meccanismi idonei a consentire l'esercizio della funzione nomofilattica della Corte di cassazione.

      L'articolo 51 propone modifiche ai singoli provvedimenti cautelari, che si limitano ad alcuni ritocchi, in parte (lettera a) del comma 1) resi necessari dalle modifiche introdotte nell'esecuzione forzata; in parte (lettere b), c), e d) del citato comma 1) consigliati da difetti e lacune evidenziatisi nella normativa vigente.

      L'articolo 52 attiene alla materia dei procedimenti in camera di consiglio che è stata oggetto, negli ultimi anni, di numerosi interventi del legislatore, il quale ha spesso previsto l'utilizzazione del procedimento in sostituzione del processo di cognizione, con ciò dando luogo a numerosi problemi di compatibilità con la Costituzione, in quanto tale procedimento era stato originariamente pensato per essere utilizzato solo in materia non contenziosa. Rilevata l'antinomia insita in tale anomala applicazione e seguendo l'opinione della Corte costituzionale, si è ritenuto che non sia razionale impedire l'utilizzazione di modelli processuali difformi dal processo di cognizione, ma che occorra distinguere a seconda della funzione che svolge il procedimento in camera di consiglio. Altre sono le esigenze - anche e soprattutto di natura costituzionale - e, quindi, le regole, laddove il procedimento in camera di consiglio svolga le funzioni proprie del processo di cognizione; altre sono le esigenze e, quindi, le regole, laddove il procedimento in camera di consiglio sia utilizzato in materia di giurisdizione volontaria.
      La soluzione prescelta si articola, pertanto, nei seguenti quattro punti:

          a) sono delineate le caratteristiche comuni a tutti i procedimenti in camera di consiglio;

          b) si prevedono le disposizioni particolari che caratterizzano il procedimento in camera di consiglio laddove esso sia destinato a terminare con un provvedimento non suscettibile di giudicato sostanziale;

          c) si prevedono le disposizioni particolari che caratterizzano il procedimento in camera di consiglio laddove esso sia destinato a terminare con un provvedimento suscettibile di giudicato sostanziale;

          d) si stabilisce che tutte le ipotesi, nelle quali si prevede attualmente l'applicazione delle norme sul procedimento in camera di consiglio, siano ricondotte alla disciplina costituita dalla somma delle lettere a) e b) per i casi di «vera» giurisdizione volontaria e dalla somma delle lettere a) e c) per i casi in cui il procedimento in camera di consiglio è utilizzato in sostituzione del processo di cognizione.

      L'articolo 53 prevede una riforma organica della disciplina dell'arbitrato.
      Invero, nonostante le riforme del 1983 e del 1994 e quella recentissima del 2006, alcune modificazioni alla disciplina dell'arbitrato si sono evidenziate opportune. Le soluzioni indicate si fondano sulle seguenti considerazioni:

          a) le previsioni, attualmente vigenti, in materia di compromettibilità in arbitri della controversia hanno contenuto eterogeneo, essendo nominativamente richiamate talune ipotesi di non arbitrabilità e rinviandosi poi, in via residuale, all'utilizzabilità

 

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di altro istituto, la transazione. Si è ritenuto opportuno fare riferimento ad un unico criterio - quello della disponibilità dell'oggetto della controversia - anche perché il rinvio alla transigibilità della controversia è sovente fonte di incertezze;

          b) dopo la riforma dell'arbitrato, vi è attualmente una disomogeneità fra la capacità di stipulare il compromesso e quella di stipulare la clausola compromissoria. Si è, allora, adottato, anche per il primo, il criterio vigente per la seconda, ovvero il potere di disporre in relazione al diritto controverso;

          c) la disciplina vigente ignora totalmente l'arbitrato con pluralità di parti, la successione nel diritto controverso, la partecipazione dei terzi al processo arbitrale. Si è reso, quindi, necessario disciplinare queste fattispecie, facendo applicazione dei princìpi generali dell'arbitrato - l'uguale potere delle parti, intese come centro di imputazione di interessi, nella nomina degli arbitri; l'ineliminabile fondamento volontaristico della decisione arbitrale; la permanenza degli effetti del patto compromissorio in caso di successione;

          d) la credibilità dell'arbitrato esige che siano garantite l'indipendenza e l'imparzialità degli arbitri; occorre, quindi, rafforzare i meccanismi finalizzati a tale risultato, volti essenzialmente a rendere noti alle parti i fatti che possono incidere sull'indipendenza ed imparzialità dell'arbitro (ad esempio, prevedendo - come accade in molti arbitrati amministrati - la cosiddetta «dichiarazione di indipendenza» da parte dell'arbitro). Se la scelta dell'arbitro è, e non può non essere, attività insindacabile delle parti, è tuttavia necessario che tale scelta sia effettuata con piena cognizione dei fatti che possono incidere sulla indipendenza ed imparzialità del soggetto prescelto;

          e) la normativa vigente prevede solo due specifiche ipotesi di responsabilità degli arbitri; resta totalmente priva di disciplina la residua area di responsabilità; da qui la necessità di completare il disegno normativo;

          f) anche l'ultima recentissima riforma del 2006 non ha istituito forme di assistenza giudiziaria al processo arbitrale in materia di istruzione probatoria. Non si è voluto, cioè, che il provvedimento arbitrale ammissivo di una prova coinvolgente terzi - soprattutto, ma non esclusivamente, la prova testimoniale - adeguatamente munito di «exequatur», sia titolo per poter coinvolgere i terzi nell'assunzione probatoria, oppure per far assumere la prova dal giudice, alla stregua di una prova delegata. Ciò determina uno svantaggio dell'arbitrato, che deve essere rimosso, prevedendo appunto adeguate forme di collaborazione fra arbitro e giudice, che rendano possibile l'istruzione probatoria quando questa coinvolge terzi;

          g) l'attuale disciplina delle questioni incidentali risulta poco giustificabile, quantomeno nell'interpretazione che in maniera assolutamente prevalente se ne è data. Si ritiene, infatti, che l'arbitro non possa neppure conoscere incidentalmente delle questioni pregiudiziali non arbitrabili; e che, in tal caso, l'arbitro debba sospendere il processo dinanzi a sé; onde le parti sarebbero costrette a proporre, in sede giurisdizionale, la domanda relativa alla situazione pregiudiziale non arbitrabile, se vogliono ottenere dall'arbitro la decisione della causa dipendente. Tutto ciò costituisce un'inammissibile ipotesi di «coatio ad agendum». Si è, quindi, limitata la disciplina descritta ai soli casi nei quali la decisione della questione pregiudiziale non arbitrabile sia imposta dalla legge;

          h) il termine per la pronuncia del lodo costituisce uno dei «tormenti» del processo arbitrale: è bene razionalizzare la disciplina, facendo chiarezza sulle molte questioni attualmente incerte;

          i) analoga questione si pone anche per la pronuncia del lodo: si è, quindi, disposta l'estensione all'arbitrato interno della disciplina attualmente vigente per quello internazionale;

 

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          l) nonostante gli interventi del legislatore, a tutt'oggi l'efficacia del lodo non omologato costituisce motivo di discussioni e, soprattutto, ostacolo alla spendibilità all'estero del lodo italiano. È necessario, pertanto, precisare che il lodo, anche non omologato, ha gli effetti di una sentenza. Con ciò non s'intende che il legislatore delegato debba prendere posizione sulla natura del lodo. Altro è, infatti, qualificare sistematicamente il lodo, altro è disciplinarne gli effetti: quest'ultima operazione rientra certamente nelle attribuzioni proprie del legislatore. L'equiparazione - quanto agli effetti - del lodo alla sentenza impedirà ogni dubbio circa la qualità «vincolante» di tali effetti;

          m) l'impugnazione per nullità - vero e proprio banco di prova dell'arbitrato - necessita di alcuni ritocchi e di qualche modifica.

      In primo luogo, è necessario riscrivere in modo più razionale ed omogeneo le ipotesi di nullità, che oggi sono affastellate un po' a caso nei dodici numeri dell'articolo 829, primo comma, del codice di procedura civile (basti pensare che la previsione relativa alla pronuncia «extra compromissum» in realtà riguarda sia la pronuncia su domanda non proposta, sia la pronuncia su domanda proposta).
      In secondo luogo, è necessario invertire l'alternativa regola/eccezione contenuta nel quarto comma dell'articolo 829 del codice di procedura civile; non più sindacato sul merito, tranne che le parti l'abbiano escluso, sebbene sindacato sul merito solo se le parti l'abbiano previsto. Naturalmente, il controllo di merito è altresì possibile se la legge espressamente lo prevede o se il lodo contrasta con i princìpi fondamentali dell'ordinamento.
      In terzo luogo è necessario, nella stessa direzione, chiarire alcuni punti incerti sul procedimento di impugnazione per nullità, ricollegando più strettamente alla volontà delle parti la pronuncia del rescissorio e prevedendo se, nell'ipotesi in cui il giudice dell'impugnazione per nullità non possa emettere la pronuncia sostitutiva, la domanda debba essere riproposta in sede giudiziale oppure arbitrale;

                n) l'intervento più urgente in materia di arbitrato riguarda la disciplina dei rapporti fra arbitrato e giurisdizione. La stessa giurisprudenza della Corte di cassazione è oscillante in ordine a diverse, rilevanti questioni. Si è, pertanto, ritenuto di introdurre una disciplina chiara ed esaustiva, che affronta e risolve i problemi esistenti (effetti della stipulazione del patto compromissorio nel processo giurisdizionale; proposizione della stessa domanda in ambedue le sedi; effetti delle pronunce che, in ambedue le sedi, affermano o negano la sussistenza del proprio potere decisorio);

          o) l'arbitrato amministrato sta divenendo sempre più frequente; si è, quindi, ritenuto di introdurre una disciplina specifica, che consenta di chiarire i rapporti che si instaurano fra istituzione, parti e arbitri; i poteri dell'istituzione, con particolare riferimento all'intervento di quest'ultima nel procedimento di nomina degli arbitri; la responsabilità dell'istituzione in caso di inadempimento agli obblighi assunti.

      Resta salva la specificità dell'arbitrato in materia di lavoro, come enucleata dalla lettera c) del comma 1 dell'articolo 33.

      L'articolo 54 introduce una norma di chiusura, ritenuta indispensabile, anche e soprattutto a seguito delle controversie sorte a proposito dell'arbitrato irrituale che prevede l'applicazione delle norme sull'arbitrato a tutte le ipotesi di patto compromissorio, ove non sussista una volontà espressa delle parti in senso contrario. In ogni caso, la volontà delle parti non può escludere il rispetto del principio del contraddittorio, la sindacabilità in via di azione o di eccezione della decisione per vizi del procedimento e la possibilità di fruire della tutela cautelare.
      Ciò consente di individuare in modo chiaro le norme e gli istituti applicabili a qualunque fattispecie in cui le parti affidino ad un terzo la decisione di una

 

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controversia, attribuendogli il potere di individuare, in modo per esse vincolante, le rispettive regole di condotta, con riferimento ad una situazione sostanziale preesistente.
      Resta, ovviamente, possibile che le parti, in applicazione del principio dell'autonomia privata, conferiscano a terzi un mandato di portata diversa, che non consiste nella decisione di una controversia, ma tale fenomeno fuoriesce dal diritto processuale e pone problemi esclusivamente di diritto sostanziale.

      L'articolo 55 prende lo spunto dalla constatazione che, attualmente, nel processo civile in pratica non vi sono udienze pubbliche, in quanto l'unica udienza che abbia tale caratteristica - quella di discussione della causa - è sostanzialmente inutilizzata. Si tratta, quindi, di una modifica dovuta agli obblighi assunti dallo Stato, ed espressamente previsti dall'articolo 6 della Convenzione di Roma del 4 novembre 1950 per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848.

      L'articolo 56 affronta la problematica, generalmente condivisa, della previsione di forme di risoluzione consensuale delle controversie, favorite dall'intervento di un terzo - conciliatore o, come si dice in altri ordinamenti, mediatore - che sia in grado di condurre le parti fino ad un punto di incontro soddisfacente per entrambe.
      In via pregiudiziale, va osservato che l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione costituisce un'intrinseca contraddizione, poiché non ha senso obbligare al compimento di un'attività un soggetto il cui consenso è necessario per il buon esito dell'attività stessa. Pertanto, da un lato si propone che il tentativo non sia mai obbligatorio e, dall'altro, si consente che il giudice possa sospendere il processo per un breve periodo, ed invitare le parti ad esperire il tentativo di conciliazione, solo se nessuna di esse si oppone.
      La soluzione contraria è prevista per il caso in cui le parti si siano contrattualmente impegnate a svolgere un procedimento conciliativo: in questo caso, il giudice deve rispettare la volontà contrattuale delle parti, sospendendo il processo per dare modo di esperire tale tentativo. Viene così riconosciuta la rilevanza, anche processuale, della clausola di conciliazione: mentre ora, com'è noto, stante l'assenza di una previsione normativa e l'inderogabilità convenzionale delle norme processuali, il mancato rispetto della clausola di conciliazione può produrre effetti solo sul piano sostanziale, sub specie di risarcimento degli eventuali danni.
      È stato, inoltre, stabilito che l'istanza di conciliazione produca gli effetti della domanda giudiziale con riferimento agli effetti sugli istituti della prescrizione e della decadenza, in modo da consentire lo svolgimento del procedimento conciliativo senza timore che la mancata tempestiva proposizione della domanda giudiziale produca effetti estintivi del diritto.
      Come hanno dimostrato gli studi esistenti in materia, il procedimento conciliativo ha la possibilità di portare ad un accordo solo se le parti hanno piena fiducia nel mediatore e hanno la garanzia che quanto verrà detto in quella sede non possa poi essere utilizzato - ove la conciliazione non riesca - nella successiva fase contenziosa; altrimenti le parti, invece di collaborare alla ricerca di una soluzione accettabile da entrambe, utilizzano il procedimento conciliativo per preparare le armi da utilizzare dinanzi al giudice o all'arbitro, dicendo solo ciò che può favorirle e non ciò che può loro nuocere, così impedendo l'individuazione di una soluzione consensuale della controversia. Sorge, quindi, la necessità che dal procedimento di conciliazione non emergano elementi probatori utilizzabili nella successiva, eventuale, fase contenziosa ed inoltre l'opportunità di assicurare la professionalità e trasparenza della mediazione, escludendo che mediatore possa essere chi poi - giudice o arbitro - avrà il potere di decidere la controversia. In particolare, è opportuno che la mediazione sia affidata ad istituzioni particolarmente qualificate, che operino senza fine

 

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di lucro e siano iscritte in un apposito registro, previa verifica della sussistenza dei requisiti previsti dalla legge. Naturalmente, il favore accordato ai procedimenti conciliativi svolti presso tali istituzioni deve essere limitato a taluni profili: in primo luogo, l'efficacia di titolo esecutivo dell'accordo conciliativo, ma anche la possibilità per il giudice di invitare le parti a svolgere un procedimento conciliativo presso uno di tali soggetti. È evidente, infatti, che non sarebbe pensabile creare un «monopolio» della mediazione a favore di alcune istituzioni.
      Quanto agli effetti, gli atti che consacrano le conciliazioni raggiunte nelle sedi sopra indicate si prevede acquisiscano efficacia di titolo esecutivo mediante un provvedimento del giudice, che ovviamente dovrà limitarsi ad accertare che la conciliazione sia stata raggiunta presso una delle istituzioni iscritte nel registro; la tutela esecutiva costituisce, infatti, un elemento essenziale per l'appetibilità della conciliazione, che la rende effettivamente alternativa alla sentenza o al lodo arbitrale.
      Infine, si prevede l'introduzione di idonei incentivi fiscali, evitando al contempo che la conciliazione possa costituire strumento di elusione degli obblighi tributari. Si è prevista, pertanto, la riduzione dell'onere tributario che sarebbe dovuto per la registrazione della sentenza, nonché un procedimento ulteriormente semplificato per l'assolvimento del relativo pagamento, con l'esclusione dal beneficio delle controversie aventi ad oggetto beni immobili, onde evitare che la disposizione possa essere strumentalizzata al fine di eludere i tributi gravanti sul trasferimento della proprietà. Anche in questo settore, resta salva la specificità della materia del lavoro, la cui legislazione speciale in tema di sistemi stragiudiziali di composizione delle controversie dovrà essere tenuta presente dal legislatore delegato al fine di garantire un necessario coordinamento con le fattispecie generali.

      L'articolo 57 affronta il tema delle controversie in materia agraria, che trovano oggi la loro disciplina al di fuori del codice e, per di più, sono oggetto di una pluralità di fonti normative.
      Si rende opportuno, da un lato, l'inserimento della loro disciplina all'interno del codice e, dall'altro, l'adeguamento della stessa alle particolarità della materia, sulla base del rito del lavoro, così come disciplinato dall'articolo 33.
      Occorre, poi, tenere conto che l'articolo 409, numero 2), del codice di procedura civile non esaurisce l'ambito delle controversie agrarie e, quindi, occorre distinguere fra le controversie agrarie cui si applica interamente il rito del lavoro - perché comprese nell'articolo 409 del codice di procedura civile - e quelle cui il rito del lavoro si applica solo in parte, perché non comprese nell'articolo 409 del codice di procedura civile.
      In tale direzione, si è previsto che alle controversie agrarie che non sono anche cause di lavoro - perché non comprese nell'articolo 409 del codice di procedura civile - non si applichino le norme del rito del lavoro che presuppongono una controversia fra un «lavoratore» ed un «datore di lavoro» (ad esempio, l'articolo 421, primo comma, l'articolo 429, terzo comma, l'articolo 431, commi primo, secondo e terzo, del codice di procedura civile).

      L'articolo 58 ha ad oggetto le controversie in materia di sanzioni amministrative, per le quali si pongono esigenze analoghe a quelle appena segnalate per le controversie agrarie. Attualmente, nella materia, esistono due modelli di processo: quello generale, di cui alla legge n. 689 del 1981, che prescrive l'emanazione dell'ordinanza-ingiunzione e l'opposizione alla stessa in sede giurisdizionale e quello speciale, previsto dal decreto legislativo n. 285 del 1992 (Nuovo codice della strada), che prescinde dall'emanazione dell'ordinanza-ingiunzione e perciò consente l'instaurazione del processo anche senza che vi sia un'ordinanza-ingiunzione da opporre.
      Occorre prevedere, all'interno del codice, una disciplina che tenga conto delle

 

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peculiarità della materia e delle diverse tipologie di controversie, coordinando inoltre tale disciplina con le modifiche apportate in generale al processo civile.
      La previsione di cui alla lettera a) del comma 1 dell'articolo 58 si giustifica sulla base delle complicazioni che, nella pratica, sono sorte in ordine al giudizio preliminare di ammissibilità del ricorso, anche a seguito delle note sentenze della Corte costituzionale, che hanno modificato, in maniera sostanziale, l'originario disegno del legislatore.

      L'articolo 59 risponde alla necessità di ricondurre i procedimenti speciali ivi menzionati ai princìpi generali del processo riformato, tenendo conto delle particolarità di ciascuno di essi, così come enunciate nel testo.

      L'articolo 60 risponde all'esigenza di ricondurre all'interno del codice la disciplina del riconoscimento delle sentenze straniere, in quanto il trasferimento della materia in una legge speciale si è rivelato inopportuno e ha prodotto una ingiustificabile asimmetria con la parallela disciplina del riconoscimento del lodo arbitrale straniero.
      Si è ritenuto, inoltre, necessario introdurre la possibilità di proporre opposizione al riconoscimento della sentenza, perché - soprattutto in certe materie (persona, matrimonio, filiazione) - l'attuale sistema produce inconvenienti di rilievo, come evidenziato dall'esperienza successiva all'entrata in vigore della riforma del diritto internazionale privato. In particolare, si è ritenuto che il riconoscimento automatico debba essere limitato ai rapporti con quei Paesi con cui esistono convenzioni sul reciproco riconoscimento delle sentenze, testimonianza di una sicura affinità giuridica con il nostro sistema, che pone al riparo dai rischi dipendenti da un indiscriminato automatismo.

      L'articolo 61 prevede disposizioni necessarie in presenza di una pluralità di riti che comporta la possibilità che, nel caso concreto, sia utilizzato un rito diverso da quello prescritto. In tale caso, occorre distinguere a seconda che la correttezza del rito costituisca una condizione per la pronuncia di merito - ciò che è opportuno che accada laddove le differenze fra il rito corretto e quello in concreto applicato siano rilevanti; oppure non costituisca una condizione per la pronuncia di merito - ciò che è opportuno che accada laddove le differenze fra il rito corretto e quello in concreto applicato siano secondarie.
      Nella prima alternativa, il processo iniziato con il rito errato deve chiudersi con pronuncia di rito; nella seconda alternativa, si ha il mutamento di rito e la prosecuzione del processo con il rito corretto - come attualmente è previsto per il passaggio dal rito ordinario al rito del lavoro, e viceversa.
      Si è ritenuto opportuno introdurre un principio generale, applicabile in tutte le ipotesi in cui vi sia un errore di rito, che valga comunque - anche nei casi in cui la correttezza del rito costituisce condizione per la pronuncia di merito - a far salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda.

      L'articolo 62 consente la necessaria opera di coordinamento tra le innovazioni introdotte con la riforma e le norme del codice di procedura civile vigente e delle altre leggi che contengono disposizioni sul processo civile, disponendo una razionalizzazione che possa consentire anche la loro riunione nel corpo unico del codice, così da garantire una maggiore uniformità e coerenza all'intero sistema.

 

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PROPOSTA DI LEGGE

Capo I
PRINCÌPI DI DELEGA

Art. 1.
(Delega).

      1. Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi recanti la riforma organica del codice di procedura civile, di cui al regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443.
      2. I decreti legislativi previsti dal comma 1, nel rispetto ed in coerenza con la normativa comunitaria e in conformità ai princìpi e criteri direttivi previsti dai capi dal II al XVIII, realizzano il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti, apportando altresì le necessarie modifiche alle norme di procedura relative alle giurisdizioni diverse da quella ordinaria.
      3. I decreti legislativi previsti dal comma 1 sono adottati su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze.
      4. Gli schemi dei decreti legislativi previsti dal comma 1 sono sottoposti al parere dell'Assemblea generale della Corte suprema di cassazione ai sensi dell'articolo 93 dell'ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, dell'Adunanza generale del Consiglio di Stato e delle sezioni riunite della Corte dei conti ai sensi dell'articolo 1 del regio decreto-legge 9 febbraio 1939, n. 273, convertito dalla legge 2 giugno 1939, n. 739. I pareri sono resi entro un mese dalla data di trasmissione; decorso tale termine, i decreti sono emanati anche in mancanza del parere.
      5. Decorso il termine di cui al comma 4, gli schemi dei decreti legislativi sono trasmessi al Parlamento, affinché sia

 

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espresso il parere delle competenti Commissioni parlamentari entro il termine di due mesi dalla data di trasmissione; decorso tale termine, i decreti sono emanati anche in mancanza del parere. Qualora detto termine venga a scadere nel mese antecedente allo spirare del termine previsto dal comma 1 o successivamente, la scadenza di quest'ultimo è prorogata di quattro mesi.
      6. Entro un anno dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi, il Governo può emanare disposizioni correttive e integrative nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi di cui alla presente legge e con la procedura prevista dal comma 4.

Capo II
GIURISDIZIONE E COMPETENZA

Art. 2.
(Giurisdizione).

      1. In materia di giurisdizione, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) rivedere la disciplina della giurisdizione nei rapporti tra l'autorità giudiziaria ordinaria e la giurisdizione amministrativa, contabile ed i giudici speciali, prevedendo la traslazione del giudizio se, nel termine perentorio fissato dalla legge, la domanda è riproposta al giudice munito di giurisdizione, ferme restando comunque le decadenze verificatesi anteriormente alla proposizione della domanda innanzi al primo giudice ed attribuendo a quest'ultima effetto interruttivo di esse, nonché consentendo la proposizione del regolamento sia preventivamente che quale mezzo di impugnazione della sentenza sulla sola giurisdizione;

          b) disciplinare la litispendenza tra giurisdizioni diverse secondo i criteri di

 

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cui all'articolo 7 della legge 31 maggio 1995, n. 218;

          c) disciplinare i limiti della giurisdizione italiana, della litispendenza internazionale e della pregiudizialità internazionale nel rispetto delle convenzioni internazionali e dei regolamenti comunitari, trasferendo all'interno del codice di procedura civile le regole contenute nella legge 31 maggio 1995, n. 218, e successive modificazioni, opportunamente razionalizzate.

Art. 3.
(Competenza del giudice di pace).

      1. In materia di competenza del giudice di pace, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) improntare il processo dinanzi al giudice di pace alle linee guida del processo ordinario, salvi gli opportuni temperamenti di carattere semplificativo, per le controversie di minore valore economico;

          b) prevedere che il giudice di pace sia competente per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a 5.000 euro, quando dalla legge non sono attribuite alla competenza di altro giudice; prevedere che il giudice di pace è altresì competente per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e natanti, purché il valore della controversia non superi 25.000 euro.

Art. 4.
(Competenza per territorio).

      1. In materia di competenza per territorio, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) semplificare il sistema dei criteri di competenza territoriale derogabile con riduzione delle ipotesi di foro speciale,

 

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mantenendo l'inderogabilità della competenza territoriale per il foro della pubblica amministrazione, nonché per l'esecuzione forzata e relative opposizioni, per i procedimenti cautelari e possessori e per i procedimenti di volontaria giurisdizione;

          b) prevedere la competenza per materia del tribunale per la querela di falso solo in presenza di domanda di accertamento incidentale, consentendone la cognizione in via incidentale da parte di altri giudici, con esclusione dei giudizi di opposizione a sanzioni amministrative.

Art. 5.
(Modificazioni della competenza).

      1. In materia di modificazioni della competenza, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere la revisione della disciplina della connessione, riservando sempre al giudice competente per la domanda principale la cognizione di quella riconvenzionale e di accertamento incidentale, in quanto rientranti nella competenza per valore di quel giudice, ovvero al giudice superiore la cognizione di tutta la causa, ferma la competenza territoriale determinata in base alla domanda principale e la competenza per valore del giudice adito in presenza di eccezione di compensazione;

          b) razionalizzare la disciplina della litispendenza, tenendo conto dei princìpi contenuti nel regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, e successive modificazioni, ed adeguandola, quanto alla valutazione della competenza, alla disciplina della continenza.

Art. 6.
(Eccezioni sulla competenza).

      1. In materia di eccezioni sulla competenza, i decreti legislativi di cui all'articolo 1

 

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sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere che l'eccezione di incompetenza per territorio derogabile e per valore possano essere proposte sino alla comparsa di risposta tempestivamente depositata;

          b) prevedere che l'eccezione di incompetenza per materia e per territorio inderogabile possano essere sollevate sino alla proposizione dell'istanza di fissazione dell'udienza, con possibilità di rilevazione anche d'ufficio nel decreto di fissazione dell'udienza;

          c) prevedere l'obbligo per il giudice, se richiesto da entrambe le parti o se la questione è stata rilevata d'ufficio, di decidere, prima di ogni ulteriore attività processuale, la questione con ordinanza non revocabile contenente, se di incompetenza, l'indicazione del giudice ritenuto competente ed il termine per la riassunzione.

Art. 7.
(Regolamento di competenza e di giurisdizione).

      1. In materia di regolamento di competenza e di giurisdizione, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) disciplinare l'istituto del regolamento di competenza, eliminando il regolamento facoltativo ed il regolamento d'ufficio e subordinando la sospensione del giudizio, ovvero del termine di riassunzione, alla verifica della non manifesta infondatezza o inammissibilità da parte del giudice innanzi al quale la questione è sollevata;

          b) uniformare ai princìpi di cui alla lettera a) la disciplina del regolamento di giurisdizione successivo.

 

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Capo III
ASTENSIONE E RICUSAZIONE

Art. 8.
(Astensione e ricusazione).

      1. In materia di astensione e di ricusazione, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) ampliare i casi di astensione obbligatoria con riguardo all'ipotesi di precedente conoscenza processuale della causa;

          b) escludere la ricusabilità dei giudici che decidono la ricusazione;

          c) prevedere la possibilità di condanna ad un equo indennizzo su istanza della parte danneggiata, nonché per responsabilità aggravata nel caso di rigetto o di inammissibilità dell'istanza di ricusazione;

          d) consentire al giudice di astenersi volontariamente, se autorizzato dal capo dell'ufficio, in caso di ricusazione; prevedere l'impugnabilità del provvedimento negativo davanti al presidente della corte di appello o, se proposta nei confronti di questi o di giudici della Corte di cassazione, davanti al primo presidente della medesima Corte, che provvede eventualmente anche sulla responsabilità aggravata;

          e) prevedere che il giudice ricusato possa non sospendere il processo, ove l'istanza appaia manifestamente inammissibile o infondata.

Capo IV
PUBBLICO MINISTERO

Art. 9.
(Pubblico ministero).

      1. In materia di funzioni del pubblico ministero, i decreti legislativi di cui all'articolo 1

 

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sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere l'obbligatorietà dell'intervento del pubblico ministero, oltre che in ogni giudizio di fronte alla Corte di cassazione, soltanto nei giudizi che avrebbe potuto promuovere;

          b) prevedere, inoltre, che, nei giudizi aventi ad oggetto diritti indisponibili, il giudice possa disporre la denuncia della lite e che, in tali casi, il pubblico ministero abbia facoltà di intervenire nel termine fissato dal giudice.

Capo V
PARTI DEL PROCESSO

Art. 10.
(Rappresentanza processuale).

      1. In materia di rappresentanza processuale, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) consentire la rappresentanza processuale anche a un soggetto che non sia investito, o non sia stato in precedenza investito, del potere di rappresentanza sostanziale;

          b) disciplinare la procura alla lite consentendo, in caso di contestazione, la ratifica dell'operato del difensore e prevedendone l'efficacia, in difetto di espressa limitazione, per l'intero giudizio in ogni sua fase, anche cautelare ed esecutiva, e grado, mantenendo la procura speciale per il giudizio di cassazione;

          c) consentire il rilievo d'ufficio del difetto totale di procura e della irregolarità della procura in caso di contumacia della controparte.

 

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Art. 11.
(Spese processuali e responsabilità aggravata).

      1. In materia di spese processuali e di responsabilità aggravata, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) disciplinare le spese processuali secondo il principio della soccombenza, ma consentendo al giudice, sulla base di esplicita motivazione, di derogarvi, sia compensandole, sia ponendole, in tutto o in parte, a carico della parte formalmente vittoriosa che abbia, tuttavia, causato o mantenuto in vita la lite, eventualmente rifiutando ragionevoli proposte conciliative;

          b) generalizzare, ad ogni grado del processo e prevedendo il suo inserimento nei regolamenti, il principio della responsabilità aggravata, con condanna a titolo di sanzione a somma equitativamente determinata, inserendo l'ipotesi della manifesta infondatezza sia della impugnazione, sia della resistenza in giudizio, e mantenendo l'ipotesi dell'assenza della normale prudenza nell'esecuzione di titolo esecutivo stragiudiziale, oltre che negli altri casi previsti dall'articolo 96, secondo comma, del codice di procedura civile.

Capo VI
ESERCIZIO DELL'AZIONE

Art. 12.
(Litisconsorzio e cumulo di domande).

      1. In materia di litisconsorzio e di cumulo di domande, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) regolamentare gli effetti procedurali della mancata estensione del giudizio a tutti i litisconsorti necessari, prevedendo

 

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l'estinzione officiosa del giudizio nel caso di omessa integrazione del contraddittorio nel termine perentorio fissato dal giudice, se non prorogato prima della scadenza per giusti motivi;

          b) prevedere casi in cui, anche nell'ipotesi di litisconsorzio per identità di questioni, valga la deroga alla competenza territoriale in favore del foro generale di uno dei convenuti, prevista per il cumulo soggettivo;

          c) escludere la deroga alla competenza territoriale nel caso di cumulo di più domande, anche riconvenzionali, tra le stesse parti, se non connesse per titolo o attraverso l'eccezione, salva l'espressa accettazione del contraddittorio.

Art. 13.
(Intervento nel processo).

      1. In materia di intervento nel processo, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) razionalizzare la disciplina dell'intervento, prevedendo la delimitazione del tempo dell'intervento principale e di quello adesivo autonomo e il potere del giudice di estromettere il terzo in ipotesi di intervento inammissibile, con ordinanza ricorribile al collegio con le modalità del reclamo cautelare;

          b) concedere all'interventore adesivo dipendente il potere di impugnare la sentenza;

          c) prevedere il potere del convenuto di chiamare in causa il garante, o il vero legittimato passivo, ovvero il terzo che potrebbe proporre intervento volontario, con conseguente facoltà per l'attore di estendere a costoro la sua domanda;

          d) prevedere che il giudice possa ordinare la denuncia della lite ai terzi che potrebbero intervenire volontariamente e dichiarare d'ufficio l'estinzione del processo nel caso di mancata denuncia della

 

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lite al titolare di un diritto dipendente da quello dedotto in giudizio che sarebbe legittimato all'opposizione di terzo revocatoria.

Capo VII
ATTI PROCESSUALI

Art. 14.
(Disciplina degli atti processuali).

      1. In materia di disciplina degli atti processuali, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) rivedere in generale la disciplina degli atti processuali, prevedendo la possibilità che i documenti possano essere prodotti anche in lingua straniera, con traduzione libera ed eventualmente, su istanza dell'altra parte o su ordine del giudice, con traduzione giurata;

          b) prevedere che la sentenza possa non esporre lo svolgimento del processo, se non necessario ai fini della motivazione della decisione ovvero, se necessario, anche estraendolo da un atto di parte e dandone atto;

          c) prevedere la validità delle comunicazioni ai difensori, purché vi sia prova della ricezione, effettuate a mezzo fax o per e-mail al numero telefonico o all'indirizzo di posta elettronica indicati dal difensore;

          d) razionalizzare il procedimento di notifica per adeguarlo ai princìpi comunitari, al fine di garantire la realizzazione del diritto di difesa e di azione, anche mediante l'utilizzazione di strumenti informatici;

          e) equiparare la notifica ad associazioni, enti e persone giuridiche, alle modalità previste per le persone fisiche e la notifica al legale rappresentante a quella fatta all'ente rappresentato;

 

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          f) semplificare, attraverso forme di comunicazione più moderne ed efficaci, la notificazione per pubblici proclami.

Art. 15.
(Termini processuali).

      1. In materia di termini processuali, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) rivedere la disciplina dei termini processuali, mantenendo la possibilità di una loro abbreviazione o proroga, se non perentori, su istanza di parte e prevedendo, nel rispetto del principio del contraddittorio, la rimessione in termini per inosservanza dovuta a causa non imputabile anche per i termini perentori, purché non relativi alla proposizione dell'impugnazione;

          b) ridurre le ipotesi di controversie sottratte alla sospensione nel periodo feriale, derogando alla regola della sospensione dei termini per le sole tipologie di controversie strutturalmente caratterizzate dall'urgenza.

Capo VIII
INTRODUZIONE DELLA CAUSA

Art. 16.
(Citazione e costituzione delle parti).

      1. In materia di citazione e di costituzione delle parti, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere che il processo sia introdotto con atto di citazione, senza indicazione dell'udienza, da depositare in cancelleria con i documenti offerti in comunicazione, entro un termine perentorio;

 

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          b) prevedere che nell'atto di citazione l'attore fissi al convenuto un termine, disciplinato dalla legge solo nel minimo, entro il quale il convenuto può replicare con una comparsa di risposta da notificare o comunicare all'attore e all'eventuale terzo e da depositare in cancelleria con i documenti offerti in comunicazione;

          c) prevedere che, in caso di mancata costituzione in cancelleria dell'attore, il convenuto possa costituirsi chiedendo la fissazione dell'udienza di discussione ovvero, in difetto, l'estinzione del processo con salvezza degli effetti sostanziali della domanda;

          d) prevedere la facoltà per l'attore costituito di replicare con atto notificato, o comunicato, al convenuto, ovvero di comunicare che intende depositare istanza di fissazione dell'udienza;

          e) prevedere la facoltà per il convenuto, ove l'attore abbia optato per la replica, di replicare a sua volta, ovvero di comunicare che intende depositare istanza di fissazione dell'udienza;

          f) prevedere l'estensione della trattazione scritta tra le parti fin quando una di esse, in luogo di replicare, depositi e notifichi alle altre parti istanza di fissazione dell'udienza, entro un termine perentorio decorrente dall'ultima difesa effettuata. Disciplinare l'estinzione del giudizio in caso di mancata presentazione dell'istanza di fissazione dell'udienza;

          g) prevedere le modalità di applicazione dei princìpi e criteri direttivi di cui al presente capo, nonché di quelli di cui all'articolo 19, ai casi in cui la legge dispone l'introduzione del giudizio ordinario di cognizione con ricorso, anziché con atto di citazione, adeguando alla specificità dei singoli casi tali princìpi e criteri direttivi ed apportando loro le conseguenti limitazioni ed eccezioni. Riconsiderare i casi in cui è necessario od opportuno anteporre l'instaurazione del primo contatto in udienza tra le parti e il giudice rispetto al momento della definitiva fissazione dell'oggetto del giudizio, mantenendo

 

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o prevedendo per tali casi l'introduzione del giudizio ordinario di cognizione con ricorso e statuendo che in ogni altro caso essa avvenga con citazione ai sensi della lettera a). Disciplinare compiutamente le fasi introduttiva ed istruttoria nei casi in cui è prevista l'introduzione con ricorso del giudizio ordinario di cognizione.

Art. 17.
(Istanza di fissazione dell'udienza).

      1. In materia di istanza di fissazione dell'udienza, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere che l'istanza di fissazione dell'udienza contenga le conclusioni, di rito e di merito, e che, analogamente, debba provvedere l'altra parte;

          b) prevedere che l'istanza possa essere volta ad ottenere provvedimenti anticipatori di condanna o cautelari, ovvero avere per oggetto incidenti del processo, quali la chiamata di terzi o l'integrità del contraddittorio, ma debba, anche in tali casi, contenere le conclusioni finali di rito e di merito, salva sempre la facoltà di replica della controparte.

Art. 18.
(Preclusioni).

      1. In materia di preclusioni, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere che le domande riconvenzionali e la chiamata in causa dei terzi siano proposte, a pena d'inammissibilità rilevabile su istanza dell'altra parte, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata e che le eccezioni di rito non rilevabili d'ufficio siano dichiarate d'ufficio inammissibili, se non proposte nella prima difesa successiva;

 

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          b) prevedere che le eccezioni di merito non rilevabili d'ufficio siano proposte dal convenuto non oltre la seconda memoria, salva per l'attore la facoltà di chiedere la fissazione dell'udienza dopo la comparsa di risposta, con conseguente preclusione per il convenuto;

          c) prevedere che le eccezioni di merito non rilevabili d'ufficio relative a tutte le domande riconvenzionali siano proponibili nella prima difesa successiva.

Capo IX
ISTRUZIONE DELLA CAUSA

Art. 19.
(Decreto di fissazione dell'udienza).

      1. In materia di fissazione dell'udienza, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere che l'udienza sia fissata con decreto, il quale deve sempre contenere:

          a) l'indicazione delle questioni, di rito e di merito, rilevabili d'ufficio;

          b) una pronuncia, succintamente motivata, sull'ammissibilità e sulla rilevanza delle prove richieste dalle parti o disponibili d'ufficio;

          c) l'invito alle parti, ove appaia opportuno ai fini dell'interrogatorio libero o del tentativo di conciliazione, a comparire personalmente all'udienza;

          d) l'autorizzazione o l'invito, ove appaia opportuno, a depositare brevi memorie conclusionali prima dell'udienza, eventualmente indicando le questioni che necessitano di trattazione;

          e) eventuali provvedimenti volti alla regolarizzazione della costituzione delle parti, alla integrazione del contraddittorio, alla chiamata in causa di terzi, alla rinnovazione della notificazione della citazione, disponendo un adeguato differimento dell'udienza ove necessario per

 

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consentire il pieno contraddittorio anche con i terzi.

Art. 20.
(Attività istruttoria di parte).

      1. In materia di attività istruttoria di parte, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere la possibilità che i difensori delle parti possano assumere, anche prima dell'inizio del giudizio, dichiarazioni testimoniali scritte ed eventualmente autenticarle o farle autenticare da soggetti muniti di poteri di certificazione, nonché relazioni peritali e attestazioni di fatti e di situazioni constatati da pubblici ufficiali, riconoscendo all'ufficiale giudiziario tale potere di attestazione;

          b) prevedere l'utilizzabilità dei documenti di cui alla lettera a) nel processo, con il potere per il giudice di disporre, anche su istanza delle parti, accertamenti istruttori;

          c) prevedere che le ispezioni di luoghi e gli accertamenti tecnici possano sempre essere chiesti in contraddittorio, in vista di un futuro giudizio, con nomina, nel primo caso, anche di un ufficiale giudiziario e, nel secondo, di uno o più tecnici;

          d) prevedere il potere delle parti, anche mediante difensori muniti di mandato, di ottenere da pubbliche amministrazioni, soggetti assimilati e pubblici depositari, pure in vista di un giudizio ed indipendentemente dalla sua instaurazione, documenti e informazioni scritte, coordinando la disciplina con quanto previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni.

Art. 21.
(Istruzione probatoria).

      1. In materia di istruzione probatoria, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono

 

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adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) razionalizzare il sistema di assunzione delle prove, armonizzandolo con gli sviluppi della legislazione e curando la disciplina della produzione e dell'acquisizione del documento informatico;

          b) rivedere la disciplina della forma degli atti processuali, coordinandola con le caratteristiche e con le esigenze del processo informatizzato.

Capo X
DECISIONE DELLA CAUSA

Art. 22.
(Udienza di discussione).

      1. In materia di udienza di discussione, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere che l'udienza si svolga con discussione orale delle questioni trattate, ovvero indicate dal giudice, il quale, ove nel decreto abbia disposto in ordine all'ammissibilità delle prove, conferma o revoca, in tutto o in parte, il proprio provvedimento e procede all'assunzione delle prove stesse, salvo che le parti concordemente non chiedano di assumerle in sede extragiudiziaria ed il giudice le autorizzi, dando le opportune disposizioni circa le modalità di assunzione e di documentazione e fissando l'udienza di discussione con termine, anteriore all'udienza, per il deposito di memorie conclusionali;

          b) prevedere che, ove non vi sia bisogno di assumere mezzi di prova, il giudice pronunci sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione salvo che, per la particolare complessità della causa,

 

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si riservi di decidere depositando la sentenza nei trenta giorni successivi;

          c) prevedere che, anche nel caso di istanza di trattazione volta ad ottenere provvedimenti anticipatori di condanna, ovvero cautelari, il giudice possa, previa provocazione del contraddittorio tra le parti, emettere la decisione di merito dando lettura del dispositivo e della concisa motivazione.

Art. 23.
(Contumacia delle parti).

      1. In materia di contumacia delle parti, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere che, nel caso di contumacia della parte avversa, il giudice ritenga ammessi i fatti costitutivi della domanda relativa a diritti disponibili ed emetta un'immediata ordinanza di condanna esecutiva a seguito di valutazione della concludenza della domanda, previo eventualmente, ove il «quantum» non sia adeguatamente documentato, deferimento del giuramento suppletorio o estimatorio, penalmente sanzionato;

          b) prevedere l'appellabilità dell'ordinanza con potere di inibitoria del giudice di appello, ove l'appellante fornisca prova scritta o di pronta soluzione;

          c) prevedere che, nel caso di contumacia erroneamente dichiarata, l'inibitoria possa essere negata dal giudice di appello solo se la domanda dell'attore è assistita da prove documentali che giustificherebbero la immediata esecutività del decreto ingiuntivo.

Art. 24.
(Contumacia involontaria).

      1. In materia di contumacia involontaria, i decreti legislativi di cui all'articolo 1

 

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sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere che il contumace involontario, ove non debba utilizzare un'impugnazione sostitutiva, possa proporre opposizione, dinanzi al giudice di primo grado, entro congruo termine dalla conoscenza della sentenza;

          b) estendere le ipotesi di contumacia involontaria, oltre che alla nullità della citazione o della notificazione, anche alla nullità degli altri atti di instaurazione del contraddittorio e alla loro notificazione.

Art. 25.
(Rapporti tra giudice collegiale e giudice monocratico).

      1. In materia di rapporti tra giudice collegiale e giudice monocratico, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) mantenere la regola della monocraticità della decisione, prevedendo ipotesi speciali di collegialità della stessa, attraverso l'individuazione di gruppi omogenei di materie in funzione della natura delle questioni;

          b) prevedere la possibilità per il giudice monocratico di chiedere al presidente della sezione o, in mancanza, al presidente del tribunale di volere disporre la trattazione collegiale di controversie che presentano questioni di particolare importanza;

          c) prevedere la possibilità per il presidente di sezione o, in mancanza, del presidente del tribunale di assegnare al collegio controversie già decise in senso difforme da giudici monocratici.

Art. 26.
(Fase successiva alla pronuncia della sentenza).

      1. In materia di disciplina della fase successiva alla pronuncia della sentenza, i

 

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decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere criteri e modalità attraverso i quali possa assicurarsi il tempestivo svolgimento delle attività dirette all'adempimento degli obblighi tributari conseguenti alla pronuncia della sentenza, a prescindere dal rilascio di copie di questa agli interessati;

          b) prevedere che il rilascio delle copie della sentenza non sia subordinato all'adempimento degli obblighi tributari conseguenti alla pronuncia della sentenza;

          c) nell'ambito delle previsioni di cui alle lettere a) e b) prevedere, altresì, che al competente ufficio finanziario, a cura della cancelleria, sia inviata copia della sentenza e degli altri atti eventualmente necessari, con conservazione dell'originale della pronuncia e del fascicolo di ufficio presso l'ufficio giudiziario a disposizione degli interessati.

Capo XI
VICENDE ANOMALE DEL PROCESSO

Art. 27.
(Sospensione del processo).

      1. In materia di sospensione del processo, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) disciplinare la sospensione del processo, stabilendo:

              1) le ipotesi di sospensione per pregiudizialità;

              2) le ipotesi di sospensione impropria;

              3) la possibilità di sospensione concordata, fissando congrui limiti di tempo

 

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nei soli casi in cui la domanda sia soggetta a trascrizione, nonché consentendo al giudice di ordinare la riassunzione quando sussistono interessi di terzi;

          b) procedere ad una tendenziale unificazione del regime processuale dei vari provvedimenti di sospensione, prevedendo la reclamabilità del provvedimento che decide in ordine alla sospensione.

Art. 28.
(Interruzione del processo).

      1. In materia di interruzione del processo, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) disciplinare la interruzione del processo, assicurando la necessità di garantire l'effettiva attuazione del principio del contraddittorio;

          b) prevedere la possibilità di riassunzione della causa anche senza che sia stata dichiarata l'interruzione della stessa;

          c) prevedere che l'interruzione, come conseguenza dell'apertura di procedure concorsuali, operi su dichiarazione anche di parti diverse da quella rispetto alla quale si è verificato l'evento, allorché il provvedimento conclusivo del processo sia inidoneo a produrre effetti nei confronti della massa dei creditori e che l'evento interruttivo, ove contestato, debba essere provato dalla parte che chiede l'interruzione.

Art. 29.
(Estinzione del processo).

      1. In materia di estinzione del processo, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) disciplinare l'estinzione del processo, distinguendo l'estinzione per inattività

 

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semplice e l'estinzione per inattività qualificata, ed individuando le relative ipotesi;

          b) prevedere che l'estinzione per inattività semplice sia rilevabile solo ad istanza di parte e quella per inattività qualificata anche di ufficio;

          c) prevedere la sopravvivenza all'estinzione degli effetti di tutte le pronunce, non solo di quelle di merito;

          d) prevedere che anche le sentenze di rito e le ordinanze sulla competenza abbiano effetti di giudicato esterno e non solo interno;

          e) prevedere che, in caso di estinzione o di chiusura del processo con provvedimento di rito, gli effetti sostanziali della domanda, ad eccezione dell'effetto impeditivo della decadenza, si conservano, se la domanda è riproposta entro sei mesi dalla chiusura del precedente processo.

Capo XII
IMPUGNAZIONI

Art. 30.
(Processo di appello).

      1. In materia di disciplina del processo di appello, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono stabilire:

          a) la appellabilità di tutte le sentenze del giudice di pace e del tribunale, tranne quelle decise secondo equità per legge o per volontà delle parti;

          b) la non appellabilità immediata delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire il giudizio e l'appellabilità immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito, con conseguente esclusione della riserva di appello

 

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avverso le prime e previsione della riserva di appello avverso le seconde;

          c) il contenuto proprio dell'atto di appello, anche nella forma incidentale, quale specifica critica alla decisione impugnata, e la conseguente disciplina della nullità dello stesso;

          d) il contenuto proprio dell'atto difensivo avverso l'appello;

          e) la disciplina dell'improcedibilità;

          f) il regime delle novità, escludendo in linea di principio le nuove domande ed ammettendo le nuove allegazioni e le nuove prove;

          g) l'esclusione dell'annullamento con rinvio al giudice di primo grado, salva l'ipotesi della contumacia involontaria, prevedendo contemporaneamente la non applicazione del divieto di proposizione di domande nuove, ove tale proposizione sia stata impedita dalla nullità.

Art. 31.
(Processo di cassazione).

      1. In materia di disciplina del processo di cassazione in funzione nomofilattica, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono stabilire:

          a) la identità dei motivi di ricorso ordinario e straordinario ai sensi dell'articolo 111, settimo comma, della Costituzione, prevedendo che il vizio di motivazione debba riguardare un fatto controverso;

          b) l'obbligo che il motivo di ricorso si chiuda, a pena di inammissibilità dello stesso, con la chiara enunciazione di un quesito di diritto;

          c) la non ricorribilità immediata delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire il giudizio e la ricorribilità immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito, con conseguente esclusione della riserva di ricorso avverso

 

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le prime e la previsione della riserva di ricorso avverso le seconde;

          d) la distinzione fra pronuncia delle sezioni semplici e pronuncia delle sezioni unite, prevedendo che la questione di giurisdizione sia sempre di competenza delle sezioni unite nei casi di cui all'articolo 111, ottavo comma, della Costituzione e possa, invece, essere assegnata, negli altri casi, alle sezioni semplici se sulla stessa si siano in precedenza pronunziate le sezioni unite;

          e) il vincolo delle sezioni semplici al precedente delle sezioni unite, stabilendo che, ove la sezione semplice non intenda aderire al precedente, debba reinvestire le sezioni unite con ordinanza motivata;

          f) l'estensione delle ipotesi di decisione nel merito, possibile anche nel caso di violazione di norme processuali;

          g) l'enunciazione del principio di diritto, sia in caso di accoglimento, sia in caso di rigetto dell'impugnazione e con riferimento a tutti i motivi della decisione;

          h) meccanismi idonei, stabiliti in conformità all'articolo 363 del codice di procedura civile, a garantire l'esercitabilità della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, anche nei casi di non ricorribilità del provvedimento ai sensi dell'articolo 111, settimo comma, della Costituzione.

Art. 32.
(Revocazione).

      1. In materia di revocazione, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere la revocazione straordinaria e l'opposizione di terzo contro le sentenze di merito della Corte di cassazione, disciplinandone la competenza.

 

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Capo XIII
CONTROVERSIE IN MATERIA DI LAVORO

Art. 33.
(Processo del lavoro).

      1. In materia di processo del lavoro, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) ferma la specialità del processo del lavoro secondo le attuali linee generali, prevedere l'accelerazione delle procedure con riferimento alle controversie di particolare rilievo sociale, nonché razionalizzare e disciplinare il tentativo di conciliazione per le relative controversie;

          b) prevedere il regime delle novità in appello, escludendo in linea di principio le nuove domande ed ammettendo le nuove allegazioni e le nuove prove;

          c) razionalizzare e disciplinare l'arbitrato in materia di lavoro;

          d) fatta salva la previsione dell'articolo 36, prevedere l'eseguibilità forzata nei confronti della pubblica amministrazione, ove datore di lavoro, nelle forme dell'esecuzione civile, dei titoli esecutivi e dei provvedimenti cautelari del giudice ordinario aventi ad oggetto obblighi di fare e di non fare, o di produrre effetti giuridici;

          e) trasferire all'interno del codice e disciplinare unitariamente, eventualmente operandone la razionalizzazione, le norme relative al processo riguardanti il rapporto di lavoro contrattualizzato con le pubbliche amministrazioni.

 

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Capo XIV
PROCESSO DI ESECUZIONE

Art. 34.
(Titoli esecutivi).

      1. In materia di titoli esecutivi, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) ferma la tassatività dei titoli esecutivi, attribuire efficacia esecutiva agli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli e alla scrittura privata, eventualmente autenticata, anche in relazione alle obbligazioni di dare e di fare eseguibili in forma specifica;

          b) salva diversa previsione di legge, stabilire che il titolo esecutivo sia efficace a favore e contro i successori a titolo universale e particolare, salvi gli effetti della trascrizione della domanda;

          c) eliminare il divieto di spedizione di più copie in forma esecutiva.

Art. 35.
(Giudice dell'esecuzione).

      1. In materia di funzioni del giudice dell'esecuzione, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) generalizzare la figura del giudice dell'esecuzione, estendendola anche alle esecuzioni in forma specifica;

          b) prevedere che il giudice dell'esecuzione possa, su istanza di parte ovvero dell'ufficiale giudiziario, risolvere con provvedimento non impugnabile, ma revocabile o modificabile, ogni difficoltà insorta nell'esecuzione;

          c) prevedere in ogni esecuzione la formazione del fascicolo di ufficio;

 

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          d) semplificare la disciplina delle comunicazioni prevedendo che, ove le parti non abbiano eletto domicilio ai fini dell'esecuzione nel comune in cui si trova il giudice dell'esecuzione, tutte le comunicazioni, successive alla prima, vengano loro effettuate in cancelleria;

          e) prevedere che, al termine di ogni esecuzione, vengano liquidate dal giudice dell'esecuzione le spese della stessa, in conformità alla regola generale prevista dall'articolo 91 del codice di procedura civile.

Art. 36.
(Attuazione di titoli esecutivi o di provvedimenti cautelari).

      1. In materia di attuazione di titoli esecutivi o di provvedimenti cautelari, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere che l'esecuzione o l'attuazione nei confronti della pubblica amministrazione di titoli esecutivi o di provvedimenti cautelari, comunque formati dal giudice ordinario, avvenga di fronte al giudice amministrativo nelle forme dell'ottemperanza in tutti i casi in cui occorra adottare atti amministrativi, anche nell'esercizio della capacità di diritto privato di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

Art. 37.
(Espropriazione mobiliare).

      1. In materia di espropriazione mobiliare, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere, accanto ai tipi di espropriazione già disciplinati, la possibilità di espropriazione dell'azienda o di un ramo di essa, improntata ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) possibilità di nomina di un amministratore giudiziario;

          b) possibilità di vendita unitaria dell'azienda pignorata, ove non appaia preferibile la vendita frazionata;

 

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          c) impignorabilità relativa dei beni mobili facenti parte dell'azienda, in limiti analoghi a quelli previsti per i beni utilizzati per il servizio e per la coltivazione del fondo agricolo.

Art. 38.
(Procedimento).

      1. In materia di procedimento di esecuzione, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere che, ai fini della ricerca delle cose da sottoporre ad esecuzione, l'ufficiale giudiziario inviti il debitore a dichiarare, sotto la sua penale responsabilità, l'ubicazione e l'esistenza dei beni e che sia reso possibile l'accesso ai dati dell'anagrafe tributaria e di altre banche dati pubbliche, prevedendo eventualmente l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione;

          b) prevedere una disciplina uniforme per i vari casi di eccesso nell'espropriazione, ammettendo sempre un controllo sull'ordinanza del giudice dell'esecuzione che provvede in proposito, con efficacia sospensiva della stessa.

Art. 39.
(Estinzione del processo esecutivo).

      1. In materia di estinzione del processo esecutivo, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere, nell'espropriazione mobiliare, l'estinzione del processo esecutivo nel caso di esito infruttuoso della vendita da determinare con riferimento ad una percentuale di quello stimato, se i creditori non chiedono il bene in assegnazione per tale prezzo; devono, altresì, prevedere che, nell'espropriazione presso terzi, l'ufficiale giudiziario raccolga, ove possibile, la dichiarazione del terzo in sede di pignoramento.

 

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Art. 40.
(Espropriazione immobiliare).

      1. In materia di espropriazione immobiliare, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere la modifica della relativa disciplina secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) trascrizione del pignoramento prima della sua notificazione al debitore;

          b) semplificazione della fase di autorizzazione alla vendita, ponendo a carico dell'esperto, da nominare obbligatoriamente da parte del giudice dell'esecuzione, l'accertamento della titolarità in capo all'esecutato dei diritti sui beni pignorati;

          c) introduzione di adeguate forme di pubblicità dell'avviso di vendita o di assegnazione, anche mediante mezzi informatici;

          d) attribuzione della custodia dei beni pignorati, salvo casi eccezionali, ad un terzo e previsione che il provvedimento di nomina di questi sia titolo esecutivo per il rilascio nei confronti di chiunque non abbia un titolo opponibile alla procedura;

          e) introduzione, accanto alle altre forme, della vendita tramite commissionario;

          f) previsione dell'estinzione del processo esecutivo nel caso di esito infruttuoso della vendita per un prezzo pari alla metà di quello stimato, se i creditori non chiedono il bene in assegnazione per tale prezzo;

          g) possibilità, per l'acquirente dei beni pignorati, di ricorso al credito mediante garanzia sul bene oggetto della vendita;

          h) possibilità di delega al notaio anche della vendita senza incanto;

          i) possibilità di delega al notaio della pronuncia del decreto di trasferimento e della distribuzione, se non vengano sollevate, con riguardo a quest'ultima, contestazioni ad opera delle parti.

 

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Art. 41.
(Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare).

      1. In materia di esecuzione forzata, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere, nell'esecuzione degli obblighi di fare e di non fare, che il giudice dell'esecuzione possa ordinare, con provvedimento esecutivo, all'obbligato di anticipare le spese, che provvede a quantificare, presumibilmente necessarie per l'esecuzione, prima del compimento delle opere da realizzare.

Art. 42.
(Esecuzione indiretta).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere forme di esecuzione indiretta per la tutela di diritti correlati ad obblighi infungibili, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) fissazione dell'obbligo di pagamento di una somma di denaro per ogni frazione di tempo nel ritardo all'adempimento dell'obbligo;

          b) previsione di un procedimento sommario per la verifica del ritardo e per la liquidazione di quanto previsto nella comminatoria, da attivare ad istanza dell'avente diritto;

          c) previsione che la sanzione pecuniaria sia versata nella forma del deposito giudiziario o in altre forme analoghe;

          d) previsione che le somme versate ai sensi della lettera c) siano destinate a risarcire l'avente diritto del danno prodotto dall'inadempimento dell'obbligo e che il residuo sai versato allo Stato.

Art. 43.
(Opposizioni).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere che le opposizioni

 

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siano strutturate secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) opposizione di merito, avente ad oggetto le contestazioni relative al diritto sostanziale tutelato dal processo esecutivo da proporre, nell'espropriazione, non posteriormente all'espletamento della vendita forzata;

          b) opposizione di rito, avente ad oggetto le contestazioni relative al processo esecutivo, ivi comprese quelle attinenti al titolo esecutivo e alla pignorabilità dei beni, con la individuazione di termini perentori per la proposizione della stessa, correlati alla natura della contestazione, da proporre con reclamo al collegio, disciplinato in maniera analoga al reclamo cautelare, e con la possibilità per il collegio di sospendere l'ulteriore corso dell'esecuzione in relazione al proposto reclamo;

          c) opposizione proponibile dai terzi che facciano valere diritti sul bene coinvolto nell'esecuzione, esperibile anche nell'esecuzione in forma specifica, individuando i termini per la proposizione della stessa, gli eventuali limiti probatori e gli effetti della vendita forzata;

          d) opposizione al piano di riparto, nella quale si converte l'opposizione di merito, ove la vendita abbia luogo.

Art. 44.
(Mezzi di gravame).

      1. In materia di mezzi di gravame, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere, sulla base di quanto previsto dagli articoli 534-ter e 591-ter del codice di procedura civile, un gravame al giudice dell'esecuzione contro gli atti e i comportamenti degli ausiliari, individuandone l'oggetto, il termine, gli effetti e la reclamabilità dinanzi al collegio.

 

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Art. 45.
(Vicende anomale del processo esecutivo).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono disciplinare la sospensione e l'estinzione del processo esecutivo in coerenza con le modifiche apportate in attuazione della presente legge e attenendosi, per il resto, ai princìpi già contenuti nel codice di procedura civile, con le seguenti modifiche:

          a) prevedere la possibilità di sospensione dell'esecuzione forzata anche prima del pignoramento;

          b) prevedere che la riassunzione possa essere effettuata dopo la decisione in primo grado del processo di cognizione incidentale, con facoltà del giudice di appello di sottoporre a cauzione la prosecuzione dell'esecuzione, e che la parte interessata possa riassumere il processo esecutivo anche dopo la formazione del giudicato;

          c) prevedere che, nell'ipotesi di sospensione della distribuzione del ricavato, il creditore possa ottenere il pagamento della somma contestata qualora offra idonea garanzia;

          d) prevedere che l'estinzione per inattività semplice sia rilevabile solo ad istanza di parte, e che l'estinzione per inattività qualificata sia dichiarabile anche d'ufficio.

      2. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 provvedono, altresì, a ribadire l'intangibilità, nei confronti dei terzi, degli effetti degli atti esecutivi compiuti prima dell'estinzione o, comunque, della chiusura della procedura esecutiva.

Art. 46.
(Riunione dei procedimenti esecutivi).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere, oltre alla connessione per oggetto, che nell'ipotesi di pluralità di

 

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pignoramenti, ove possibile anche di diversa natura, perfezionati nei confronti dello stesso esecutato, si realizzi un unico processo esecutivo dinanzi al tribunale investito della prima procedura.

Capo XV
PROCEDIMENTI SPECIALI

Art. 47.
(Procedimento monitorio).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere uno o più procedimenti monitori, di natura pura o documentale, a tutela di diritti aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, la consegna di beni mobili o il rilascio di beni immobili, caratterizzati:

          a) da un procedimento sommario anche a contraddittorio differito;

          b) dalla conversione del processo sommario in processo a cognizione piena, su richiesta ovvero su opposizione di parte;

          c) da un provvedimento che, se non opposto, acquista efficacia di giudicato.

Art. 48.
(Procedimento sommario).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere un procedimento sommario non cautelare, improntato a particolare celerità, ma nel rispetto del principio del contraddittorio, che conduca all'emanazione di un provvedimento esecutivo:

          a) reclamabile;

          b) privo dell'efficacia del giudicato;

          c) esperibile anche nel corso di un processo a cognizione piena;

          d) idoneo ad eventualmente definire tale processo.

 

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Art. 49.
(Procedimento di istruzione preventiva).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere:

          a) la possibilità di utilizzare i procedimenti di istruzione preventiva anche in assenza di pericolo nel ritardo;

          b) la possibilità di generalizzare la consulenza tecnica prima della proposizione della domanda.

Art. 50.
(Procedimento cautelare uniforme).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono mantenere, per il procedimento cautelare uniforme, i princìpi attualmente vigenti, prevedendo, comunque, gli opportuni adattamenti e le seguenti modifiche:

          a) attribuire tendenzialmente il potere cautelare al giudice competente per il merito;

          b) completare la disciplina dell'efficacia del provvedimento nel tempo;

          c) disciplinare il sistema dei rimedi esperibili in sede di attuazione del provvedimento cautelare;

          d) coordinare la disciplina con la previsione dell'articolo 31, comma 1, lettera h).

Art. 51.
(Procedimenti cautelari).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono disciplinare i singoli provvedimenti cautelari secondo i princìpi attualmente vigenti, prevedendo, comunque, gli opportuni adattamenti e le seguenti modifiche:

          a) prevedere la possibilità di concedere il sequestro conservativo di azienda, in coerenza con la pignorabilità della stessa;

 

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          b) riformulare la disciplina della conversione del sequestro conservativo, in modo da garantire la prosecuzione dell'espropriazione forzata sui beni sequestrati;

          c) riformulare, per i provvedimenti d'urgenza, la nozione di «pericolo nel ritardo» atipico, in modo da consentire la cautelabilità di ogni diritto soggettivo sottoposto a pericolo di grave lesione;

          d) riformulare, per i provvedimenti d'urgenza, la disciplina del concorso con altre misure sommarie anticipatorie.

Capo XVI
PROCEDIMENTI IN CAMERA DI CONSIGLIO

Art. 52.
(Procedimento uniforme in camera di consiglio).

      1. In materia di procedimento in camera di consiglio, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere un procedimento in camera di consiglio con le seguenti caratteristiche generali:

              1) proposizione della domanda con ricorso;

              2) trattazione da parte di un giudice monocratico, salve ipotesi specifiche di collegialità;

              3) attuazione del principio del contraddittorio;

              4) conclusione con provvedimento reclamabile al collegio nell'ipotesi di provvedimento monocratico e al giudice superiore nell'ipotesi di provvedimento collegiale;

          b) prevedere che, ove il procedimento in questione sia destinato a terminare con un provvedimento non suscettibile di giudicato sostanziale, sia possibile l'utilizzazione anche di prove atipiche e che il

 

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provvedimento sia modificabile e revocabile quando si abbia un mutamento delle circostanze o quando siano addotte nuove ragioni di fatto o di diritto;

          c) prevedere che, ove il procedimento in questione sia destinato a terminare con un provvedimento suscettibile di giudicato sostanziale, sia necessaria la difesa tecnica; prevedere che sia possibile l'utilizzazione solo di prove tipiche, anche se assunte con modalità diverse da quelle ordinarie; prevedere che il provvedimento non sia modificabile o revocabile;

          d) prevedere la riconduzione alla disciplina prevista dal presente articolo di tutte le ipotesi nelle quali sono richiamate le norme vigenti in materia di procedimento in camera di consiglio.

Capo XVII
ARBITRATO

Art. 53.
(Disciplina dell'arbitrato).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono riformare in senso razionalizzatore la disciplina dell'arbitrato, in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere la disponibilità dell'oggetto come unico e sufficiente presupposto dell'arbitrato, salva diversa disposizione di legge;

          b) prevedere, per la stipulazione del compromesso e della clausola compromissoria, un unico criterio di capacità, riferito al potere di disporre in relazione al rapporto controverso;

          c) prevedere una disciplina relativa all'arbitrato con pluralità di parti, che garantisca nella nomina degli arbitri il rispetto della volontà originaria o successiva delle parti, nonché relativa alla successione nel diritto controverso e alla partecipazione dei terzi al processo arbitrale, nel rispetto dei princìpi fondamentali dell'istituto;

 

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          d) prevedere una disciplina specifica finalizzata a garantire l'indipendenza e l'imparzialità degli arbitri;

          e) disciplinare in modo unitario e completo la responsabilità degli arbitri, anche tipizzando le relative fattispecie;

          f) disciplinare l'istruzione probatoria, con la previsione di adeguate forme di assistenza giudiziaria;

          g) prevedere che gli arbitri possano conoscere in via incidentale delle questioni pregiudiziali non arbitrabili, salvo che per legge sia necessaria la decisione con efficacia di giudicato autonomo;

          h) razionalizzare la disciplina dei termini per la pronuncia del lodo, anche con riferimento alle ipotesi di proroga degli stessi;

          i) semplificare e razionalizzare le forme e le modalità di pronuncia del lodo;

          l) prevedere che il lodo, anche non omologato, abbia gli effetti di una sentenza;

          m) razionalizzare le ipotesi attualmente esistenti di impugnazione per nullità secondo i seguenti princìpi specifici:

              1) subordinare la controllabilità del lodo, ai sensi del terzo comma dell'articolo 829 del codice di procedura civile, alla esplicita previsione delle parti, salvo diversa previsione di legge e salvo il contrasto con i princìpi fondamentali dell'ordinamento giuridico;

              2) disciplinare il procedimento, prevedendo le ipotesi di pronuncia rescissoria da parte del giudice dell'impugnazione per nullità;

          n) disciplinare in generale i rapporti fra arbitro e giudice, ivi compresa l'eccezione di patto compromissorio;

          o) disciplinare l'arbitrato amministrato, assicurando che l'intervento dell'istituzione arbitrale nella nomina degli arbitri abbia luogo solo se previsto dalle parti e prevedendo, in ogni caso, che le designazioni compiute da queste ultime siano vincolanti.

 

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Art. 54.
(Patto compromissorio).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere che le norme in materia di arbitrato trovino sempre applicazione in presenza di patto compromissorio comunque denominato, salva la diversa ed espressa volontà delle parti di derogare alla disciplina legale, fermi in ogni caso il rispetto del principio del contraddittorio, la sindacabilità in via di azione o di eccezione della decisione per vizi del procedimento e la possibilità di fruire della tutela cautelare.

Capo XVIII
ALTRE DISPOSIZIONI

Art. 55.
(Pubblicità delle udienze).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono generalizzare il principio della pubblicità delle udienze, adeguando la disciplina processuale a quanto disposto dall'articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848.

Art. 56.
(Composizione stragiudiziale delle controversie).

      1. In materia di composizione stragiudiziale delle controversie, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere forme e modalità di mediazione non obbligatoria quale strumento

 

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di composizione extragiudiziale delle controversie, affidato a soggetti professionalmente qualificati, diversi dal giudice;

          b) prevedere l'istituzione di un registro nazionale per l'iscrizione dei soggetti che operano senza scopo di lucro, presso cui è possibile attivare un procedimento di conciliazione;

          c) prevedere, in presenza di una clausola di conciliazione, la sospensione del processo da parte del giudice per un tempo breve e determinato;

          d) prevedere che il giudice, ove non vi sia opposizione di alcuna delle parti, possa sospendere, per breve tempo, il procedimento invitando le parti ad esperire un tentativo di conciliazione presso un soggetto iscritto nell'apposito registro istituito ai sensi della lettera b);

          e) escludere la possibilità di utilizzare gli atti e le dichiarazioni della procedura di conciliazione come fonte di prova, anche indiretta, in un eventuale successivo giudizio;

          f) prevedere le forme e le modalità di comunicazione della istanza di conciliazione ai fini della interruzione o della sospensione di termini processuali e sostanziali;

          g) prevedere che il verbale di conciliazione dinanzi ai soggetti iscritti nel registro istituito ai sensi della lettera b) costituisca titolo esecutivo, previo controllo formale da parte del giudice;

          h) prevedere un sistema di incentivazione fiscale che favorisca il ricorso alla conciliazione, esclusi i casi di controversie aventi ad oggetto beni immobili, incentrato sulla riduzione dell'onere tributario, rispetto a quanto dovuto in relazione alla sentenza, nonché sulla semplicità e sulla speditezza delle modalità di assolvimento.

 

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Art. 57.
(Controversie agrarie).

      1. In materia di controversie agrarie, i decreti legislativi di cui all'articolo 1 sono adottati in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere che le controversie in materia agraria si svolgano secondo apposito rito speciale modellato su quello del lavoro, come modificato in conformità a quanto previsto dall'articolo 33, che tenga conto delle particolarità della materia;

          b) prevedere che, alle controversie agrarie non richiamate dall'articolo 409 del codice di procedura civile, non si applichino le disposizioni del rito speciale che presuppongono la sussistenza di una controversia di lavoro.

Art. 58.
(Controversie in materia di sanzioni amministrative).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere che le controversie in materia di sanzioni amministrative si svolgano secondo apposito rito speciale, modellato secondo il rito del lavoro, come modificato in conformità a quanto previsto dall'articolo 33, e sulla base dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) l'impugnazione dell'ordinanza-ingiunzione o, nei casi previsti, anche direttamente del verbale di accertamento, in un termine perentorio decorrente dalla piena conoscenza dell'atto impugnabile;

          b) il coordinamento dell'impugnazione in sede giurisdizionale con il ricorso in sede amministrativa, nelle ipotesi in cui è possibile l'impugnazione diretta del verbale di accertamento;

          c) la possibilità di sospensione dell'efficacia esecutiva dell'atto da parte del giudice adito con l'impugnazione.

 

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Art. 59.
(Modifiche ai procedimenti speciali).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono razionalizzare e omogeneizzare la disciplina delle controversie in materia di separazione e di divorzio e i giudizi ad essi collegati, i giudizi di scioglimento delle comunioni, i giudizi di interdizione e di inabilitazione, i giudizi per la dichiarazione di paternità e di maternità naturali, i giudizi aventi ad oggetto il risarcimento del danno cagionato nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, attraverso un procedimento che, nel rispetto del principio del contraddittorio, tenga conto dei peculiari interessi coinvolti, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) con riferimento alla separazione e al divorzio, prevedere una fase introduttiva, finalizzata al tentativo di conciliazione e alla emanazione di provvedimenti provvisori, modificabili e revocabili nel corso del processo;

          b) con riferimento ai giudizi di scioglimento delle comunioni, prevedere, in alternativa alla possibilità di chiedere la divisione attraverso un ordinario processo di cognizione, un procedimento speciale ispirato ai princìpi degli articoli 784 e seguenti del codice di procedura civile;

          c) con riferimento ai giudizi di interdizione e di inabilitazione, prevedere che nel corso del procedimento sia conservata all'interdicendo o all'inabilitando la capacità processuale piena, anche in relazione alle impugnazioni;

          d) con riferimento ai giudizi per la dichiarazione di paternità e di maternità naturali, prevedere un procedimento che garantisca l'autonoma tutela degli interessi del soggetto, della cui filiazione si tratta, nonché il diritto di difesa di quest'ultimo.

 

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Art. 60.
(Riconoscimento delle sentenze straniere).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono trasferire nel codice di procedura civile la disciplina del riconoscimento delle sentenze straniere, mantenendo i princìpi introdotti dalla legge 31 maggio 1995, n. 218, e successive modificazioni, ma limitando il riconoscimento automatico alle sentenze dei giudici dei Paesi con i quali l'Italia abbia stipulato convenzioni, bilaterali o multilaterali, sul reciproco riconoscimento delle sentenze.

Art. 61.
(Mutamento di rito processuale).

      1. I decreti legislativi di cui all'articolo 1 devono prevedere che, qualora il rito utilizzato non risulti corretto per motivi originari o sopravvenuti, sia sempre possibile la sua conversione, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali.

Art. 62.
(Norme di coordinamento).

      1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, comma 1, il Governo può modificare la formulazione letterale e la collocazione degli articoli del vigente codice di procedura civile e delle altre norme processuali civili vigenti non direttamente investiti dai princìpi e criteri direttivi di delega, in modo da renderli coerenti con le modifiche apportate dai decreti legislativi di cui al medesimo comma 1.
      2. Il Governo può, altresì, modificare, razionalizzare e coordinare le norme processuali civili contenute in leggi speciali, anche mediante il loro inserimento nel codice di procedura civile, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi di cui alla presente legge.


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