Giovedì 3 maggio 2007. - Presidenza del presidente della VII Commissione Pietro FOLENA. - Interviene il sottosegretario di Stato per le comunicazioni Giorgio Calò.
La seduta comincia alle 9.
Disposizioni per la disciplina del settore televisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale.
C. 1825 Governo, C. 2077 Beltrandi e C. 2502 De Zulueta.
(Seguito dell'esame e rinvio).
La Commissione prosegue l'esame del provvedimento, rinviato, da ultimo, nella seduta del 2 maggio 2007.
Pietro FOLENA, presidente, avverte che è stato richiesto che la pubblicità dei lavori dell'odierna seduta delle Commissioni riunite sia assicurata anche attraverso l'impianto audiovisivo a circuito chiuso. Non essendovi obiezioni, ne dispone l'attivazione.
Mario BARBI (Ulivo) fa preliminarmente presente che il titolo del disegno di legge rappresenta un buon punto di partenza per la discussione, in quanto il settore televisivo e la nuova tecnologia trasmissiva digitale sono i punti di riferimento di un intervento che intende incidere in modo significativo su aspetti rilevanti del settore, senza tuttavia pretendere di ridisegnare organicamente l'intero sistema delle comunicazioni. Ambizione che sarebbe peraltro destinata al fallimento data la natura estremamente dinamica e aperta all'innovazione di un universo in rapido cambiamento, in cui la convergenza tra i vari mezzi di comunicazione progredisce a ritmi sostenuti ma in modo largamente imprevedibile.
È una scelta apprezzabile che, contrariamente a quanto sostenuto dall'opposizione, il provvedimento non concentra la propria attenzione solo su Mediaset, ma riguarda al contrario tutti gli operatori televisivi che sono impegnati e interessati a convertire la tecnologia di diffusione da analogico a digitale.
L'indagine conoscitiva svolta dalle Commissioni riunite è stata molto ricca ed articolata. L'attenzione è stata attirata in modo particolare da alcuni dei tanti soggetti
auditi (tra i quali l'Antitrust, l'AGCOM e Mediaset), e su alcune questioni si è orientata la critica dell'opposizione, come testimoniano gli interventi fin qui tenuti nella discussione generale. In proposito ritiene che tali critiche possano così riassumersi. In primo luogo, il disegno di legge farebbe insieme troppo e troppo poco: troppo perché intenderebbe porre un limite certo alla concentrazione delle risorse nel mercato pubblicitario e troppo poco perché, prendendo atto dell'insufficiente diffusione tra gli utenti dei decoder per la ricezione del digitale terrestre, fisserebbe troppo in avanti la data dello spegnimento dell'analogico, al 2012, in linea, per la verità, con le previsioni europee. È una posizione abbastanza contraddittoria perché mentre da un lato si biasima un intervento contro il libero sviluppo del mercato nell'ambito della pubblicità, dall'altro si evoca un intervento assai dirigista per fare correre più in fretta il digitale.
In secondo luogo, il provvedimento compierebbe un intervento anacronistico perché pretenderebbe di regolare un settore televisivo che non sarebbe più duopolistico, in quanto mutato radicalmente dalle tecnologie, con riferimento al mondo pluripiattaforma costituito da satellite, cavo, tv-mobile e tv-internet, e dall'ingresso di un nuovo operatore, Sky, in posizione dominante nella pay-tv e che ha ormai ricavi pari a più del 20 per cento delle risorse dell'intero settore.
Ritiene che queste critiche ignorino un dato di fatto fondamentale: nonostante tutte le novità intervenute nel settore negli ultimi anni, compreso l'ingresso di Sky, il settore televisivo resta fortemente concentrato e il duopolio resta il tratto dominante dal punto di vista fondamentale degli ascolti che, come ha ricordato alle Commissioni il presidente dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, è stato pari a circa l'84 per cento nel 2006, mentre era al 91 per cento nel 2000, così che la diminuzione tendenziale, nonostante le nuove piattaforme e la pay-tv satellitare, nell'ultimo quinquennio, è stata «assai insoddisfacente rispetto a quella di Paesi europei con strutture economiche simili». Nel 2005 - sempre secondo il presidente di AGCOM, Corrado Calabrò - l'audience complessiva dei primi due operatori era pari a circa il 45 per cento in Spagna, al 52 per cento in Germania, al 54 per cento nel Regno Unito e al 72 per cento in Francia.
La permanente concentrazione degli ascolti, a cui si aggiunge la concentrazione delle risorse pubblicitarie in capo principalmente a Mediaset, e la dominanza nella disponibilità delle frequenze per le reti nazionali da parte di Rai e Mediaset, atteso che le tv locali dispongono di una riserva di frequenze fissata per legge, confermano che si è tuttora in presenza di un settore televisivo concentrato, che ha bisogno di una iniezione di concorrenza, di pluralismo e di innovazione tecnologica che non riproduca nel digitale la situazione di partenza dell'analogico. E proprio al perseguimento dei tre obiettivi della concorrenza, del pluralismo e del digitale aperto e non oligopolistico, punta il disegno di legge del Governo.
A tale fine, il provvedimento fa ricorso a strumenti assolutamente moderni e niente affatto anacronistici, con interventi sul mercato delle risorse pubblicitarie e con incentivi alla diffusione del digitale. L'opposizione dice che tutto questo non va bene. Che se solo si lasciasse che le cose andassero avanti senza interventi tutto si metterebbe a posto. Ora, purtroppo, come il deputato Merlo ha avuto modo di ricordare nel corso del dibattito, le cose stanno andando avanti senza interventi strutturali da oltre 15 anni, nonostante le leggi e le sentenze della Corte costituzionale. Se la maggioranza ha qualcosa su cui interrogarsi è come mai nessuno degli interventi tentati negli anni '90 abbia sortito alcun effetto: a partire dalla legge Maccanico del 1997, che pure era apparentemente chiara nell'indicare obiettivi deconcentrativi, fissando i limiti del 30 per cento delle risorse e del 20 per cento delle reti, unitamente a strumenti per attuarli, come l'istituzione dell'AGCOM e i poteri ad essa affidati. Purtroppo i risultati non
si sono visti e oggi non si può chiedere a questa maggioranza di non fare nulla e di continuare a chiudere gli occhi.
La scelta di intervenire sul mercato delle risorse pubblicitarie è chiara e coerente, non solo con l'impostazione comunitaria ma anche con le scelte concettuali della «legge Gasparri» che, nell'indicare nel 20 per cento il limite delle risorse del sistema integrato delle comunicazioni (SIC) controllate da parte di un unico soggetto, chiarisce, all'articolo 43, commi 2 e 9 del testo unico della radiotelevisione, che resta fermo «il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli mercati che compongono il Sistema integrato delle comunicazioni». Occorre allora chiedersi quali sono questi mercati e, quindi, quali sono i mercati rilevanti del SIC, individuati in analogia con quanto previsto dagli articoli 15 e 16 della direttiva 2002/21/CE, come previsto dalla legge n. 112 del 2004. In proposito fa presente di ritenere che il mercato della pubblicità sia uno di questi mercati e che sia giusto mettere un tetto a tale mercato.
Da un punto di vista tecnico, e quindi sulla base di quanto disposto dalla disciplina antitrust, i mercati rilevanti si definiscono sulla base di caratteristiche di omogeneità e dunque è più corretto definire mercato rilevante quello della pubblicità televisiva, piuttosto che quello delle risorse televisive, costituito dall'insieme di pubblicità, pay-tv e canone. Ricorda a tale proposito che l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, in tutte le sue istruttorie, non ha mai definito come mercato rilevante quello delle risorse complessive pay-tv e pubblicità, mentre in numerose occasioni ha individuato come mercato rilevante i singoli mercati della pubblicità televisiva, la pubblicità radiofonica, la pay-tv, ed altri.
La giurisprudenza antitrust è così consolidata in questo senso, al punto che l'AGCM ha anche avviato una indagine conoscitiva specifica sulla pubblicità televisiva. L'indagine ha portato all'individuazione di un soggetto, Mediaset, in posizione dominante. L'AGCM ha esaminato le cause di questa posizione di forza di mercato e i problemi che ne conseguono e ha suggerito al legislatore dei rimedi, che però la stessa Autorità non è in grado di adottare, non potendo sanzionare la posizione dominante in sé, ma solo il suo abuso. L'adozione di tali rimedi avrebbe effetti ben più incisivi del tetto del 45 per cento proposto dal disegno di legge in esame.
Peraltro, la Commissione europea, quando ha esaminato la fusione News corp-Telepiù ha considerato come mercato rilevante la pay-tv, non l'intero mercato delle risorse televisive, e sulla base di questa definizione restrittiva del mercato rilevante ha concluso che la fusione avrebbe creato una posizione dominante nel mercato della pay-tv e ha richiesto a Sky di assumere impegni estremamente penalizzanti. Se il mercato rilevante fosse stato quello delle «risorse tv», Sky non avrebbe avuto alcun problema.
Si è poi sostenuto che l'individuazione della quota del 45 per cento del mercato pubblicitario come indice di posizione dominante dal quale fare discendere specifiche penalità sarebbe contraria al diritto della concorrenza - che andrebbe invece perseguito indipendentemente e disgiuntamente dall'obiettivo del pluralismo - e che i tetti non si dovrebbero stabilire per legge. A sostegno di questa posizione, è stato spesso chiamato in causa il presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà. Innanzitutto, di soglie stabilite per legge ve ne sono in molti settori, come nel mercato elettrico e nel mercato del gas. E da ben più tempo ve ne sono nei mercati delle comunicazioni: la legge sull'editoria del 1981 prevede infatti il limite del 20 per cento delle tirature di quotidiani e soglie ex ante alla concentrazione delle concessionarie di pubblicità; le leggi sul sistema radiotelevisivo n. 223 del 1990, n. 249 del 1997 e n. 112 del 2004 prevedono poi, a loro volta, soglie e conseguenti divieti di superarle.
Del resto i due aspetti della concorrenza e del pluralismo non possono essere trattati in modo disgiunto nel sistema delle comunicazioni, come se si trattasse di principi tra loro indipendenti. Dividere i
due termini contraddice, infatti, venti anni di giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 826 del 1988, in cui vennero declinati, quali inscindibili parametri del diritto dell'informazione, i principi del pluralismo interno e del pluralismo esterno, ciascuno con una propria dimensione e collocazione, ma l'uno non sostituibile con l'altro, proprio per non mettere a rischio «il valore fondamentale del pluralismo». In altri termini, non basta che sulla stessa testata quotidiana intervengano più articolisti con diversi pareri, occorre che vi siano più testate in concorrenza tra di loro. E non basta nemmeno che vi siano tante testate, ma occorre anche che vi sia una loro diffusione.
Alla luce di tali considerazioni, ritiene pertanto fondamentale, anche in dissenso con il parere, parziale, per sua stessa ammissione, del presidente dell'Antitrust, che la costituzione o il mantenimento di posizioni dominanti nel settore della comunicazione debbano continuare ad essere vietate, perché nel settore televisivo non sono in gioco solo il buon funzionamento del mercato, ma anche la tutela di altri principi costituzionali. Ove così non fosse, il presidente Catricalà avrebbe ragione: al mercato televisivo si dovrebbe applicare il solo diritto antitrust e fare valutazioni ex-post su eventuali abusi, piuttosto che vietare e sanzionare la mera esistenza di posizioni dominanti. È la tutela di questi principi costituzionali che rende invece necessario un intervento che vada oltre l'applicazione del diritto antitrust classico.
Peraltro, nessuna legge sul sistema televisivo finora ha mai messo in dubbio il principio del divieto di posizioni dominanti: l'unica differenza tra le cosiddette leggi Mammì, Maccanico e Gasparri sta infatti nel modo in cui si calcola l'esistenza della posizione dominante. D'altra parte, anche non introducendo la soglia del 45 per cento sui ricavi pubblicitari, ma volendo calcolare l'eventuale esistenza di posizioni dominanti, una quota di mercato superiore al 45 per cento è comunque considerata dal diritto antitrust un fortissimo indizio di posizione dominante, quindi è perfettamente in linea con la giurisprudenza e le pratiche del settore.
Non ritiene poi sostenibile l'affermazione secondo cui, ove fosse applicato il predetto limite del 45 per cento, Mediaset, che controlla circa il 60 per cento delle risorse pubblicitarie televisive, subirebbe una perdita pari ad un quarto del suo fatturato, come hanno sostenuto davanti alle Commissioni i rappresentanti di Mediaset e Publitalia. Ciò in quanto la penalità prevista - peraltro per una fase limitata al periodo transitorio dall'analogico al digitale - non è pari al 25 per cento delle risorse ma all'11,5 per cento degli affollamenti pubblicitari, che scenderebbero dal 18 al 16 per cento orario. Ed è su quella percentuale che va quindi presunta una perdita di introiti per il soggetto considerato, senza contare gli effetti di recupero che vi sarebbero, dovuti all'incremento del pregio degli spazi divenuti relativamente più rari in canali di grande richiamo.
L'intervento, moderato e ragionevole, sul mercato della pubblicità televisiva trasmessa in analogico avrà quindi il duplice effetto di offrire opportunità ad altri operatori e di incentivare la diversificazione di una azienda - Mediaset - che rischia di rimanere penalizzata dall'attardarsi nel mercato sempre più maturo della televisione generalista analogica. Riscoprire un po' di rischio di impresa può fare bene a Mediaset, al settore televisivo, ai telespettatori e al paese.
Va nella stessa direzione di apertura e di incentivo alla diversificazione, l'intervento previsto dal disegno di legge sul sistema delle frequenze e sul limite massimo del 20 per cento di capacità trasmissiva controllato da un unico operatore. È questo un aspetto molto complesso e delicato, ma di importanza strategica perché nel digitale non si riproduca, magari in modo peggiorato, la stessa situazione dell'analogico. Il provvedimento prevede, entro un anno e mezzo dall'approvazione, il trasferimento in digitale di uno dei palinsesti rispettivamente di Rai e Mediaset. Le frequenze liberate andrebbero cedute a
terzi, nel caso siano state acquisite da altri operatori tv, ai sensi della legge del 2001, oppure restituite allo Stato per essere destinate a nuovo uso o essere rimesse sul mercato con procedure pubbliche di gara. Nelle audizioni svolte da Rai e Mediaset davanti alle Commissioni, così come anche da parte di altre associazioni di operatori televisivi, è stato sostenuto che il trasferimento in contemporanea di un intero palinsesto sarebbe poco efficiente e che si dovrebbe, più opportunamente, percorrere la strada di un trasferimento territoriale graduale e progressivo. Si è fatto riferimento alle esperienze di Cagliari e della Valle d'Aosta. Sul punto, dopo avere premesso di non avere una opinione preconcetta sul modello da seguire, osserva che il trasferimento di una rete in digitale - e il suo spegnimento analogico - è un potente incentivo all'acquisto dei decoder da parte degli utenti, costituendo, quindi, un contributo all'accelerazione della transizione al digitale, come parrebbe dimostrare l'esperimento di Cagliari.
Quello che gli pare invece difficilmente accettabile, dal punto di vista del sistema, è che le frequenze liberate non vengano rimesse al mercato, e quindi a soggetti non appartenenti al recinto degli operatori televisivi, come chiede l'Unione europea, o allo Stato. Cosa che non gli pare chiarita dall'esperimento cagliaritano, dove pure dovrebbero essere state liberate frequenze analogiche.
Fa poi presente l'utilità di una legislazione che disciplini il numero di frequenze e la capacità trasmissiva sulle reti terrestri concesse a ciascun operatore, in primo luogo perché anche nel nuovo contesto multicanale e multipiattaforma, la piattaforma terrestre ha, e continuerà per molti anni ad avere, un rilievo particolare. La maggior parte dell'audience si concentra infatti ancora sui canali terrestri, la maggior parte delle famiglie ha solo la televisione terrestre, analogica o digitale. Questo giustifica, soprattutto al fine di tutelare il pluralismo dell'informazione, che ci sia una legislazione che garantisca la presenza di una pluralità di soggetti sulla piattaforma terrestre, anche dopo lo switch off. In questo momento, la maggior parte della capacità è nelle mani di pochissimi soggetti che sono verticalmente integrati, cioè producono anche i contenuti, e quindi non hanno nessun interesse a far entrare nuovi imprenditori televisivi nella piattaforma. È anche vero che le regole attualmente in vigore già prevedono dei vincoli, quali il limite del 20 per cento al numero di programmi e l'obbligo di cedere il 40 per cento della capacità trasmissiva, ma in realtà questi vincoli sono stati ampiamente elusi.
In proposito rileva che Mediaset ha ceduto il 40 per cento ad imprenditori che non sono dei veri e proprio competitori, in quanto producono contenuti di scarso rilievo, ossia non in grado di attirare audience a scapito della sua programmazione, e i cui programmi Mediaset stessa si riserva di interrompere ogni volta che ha bisogno di capacità trasmissiva per trasmettere i propri contenuti a pagamento. Si tratta dunque di un affitto a condizioni di favore da parte di chi concede capacità trasmissiva e, in alcuni casi, non è previsto neanche un pagamento. Inoltre, il limite al 20 per cento dei programmi controllabili da un unico soggetto è stato eluso grazie ad una definizione «restrittiva» di programma: i sei «Mediaset Premium» - da MP1 a MP6 - non sono infatti considerati «programmi» e dunque conteggiati, ma non perché sono ad accesso condizionato, bensì perché la programmazione su ciascuno di essi non supera le 24 ore settimanali. Se questa interpretazione rimanesse valida - e il disegno di legge ne propone invece la modifica - Mediaset potrebbe occupare, in teoria, tutta la capacità trasmissiva che volesse, limitandosi ad aggiungere ulteriori «non programmi» Mediaset Premium MP7, MP8, MP9 e così via e spalmando su di essi tutta la programmazione in chiaro o a pagamento, in modo che su ciascuno di essi i palinsesti non superino le 24 ore settimanali. Ciò significa che le regole recentemente approvate dall'Autorità, che prevedono una gara per assegnare il 40 per cento della
capacità trasmissiva, ma che fanno salvi i contratti esistenti, non si applicheranno per molto tempo.
Ritiene quindi che l'unico modo di limitare in modo efficace il dilagare di una impresa dominante sul digitale terrestre, nonché la capacità trasmissiva che la medesima controlla, consisterebbe nel prevedere una radicale separazione proprietaria tra operatore di contenuti e operatore di rete. Questa separazione non è però prevista: è un tema importante che andrebbe considerato e approfondito.
Peraltro, al di là dei discorsi sui cambiamenti in atto, la situazione di duopolio nel mercato televisivo terrestre, replicato nel digitale, resta una realtà certificata in più occasioni in questi anni sia dall'AGCM che dall'AGCOM, dominanza che si sostanzia nella capacità dei due soggetti in questione di porre in essere comportamenti strategici volti a creare e a mantenere forti barriere all'accesso nel mercato televisivo.
A titolo esemplificativo, cita in primo luogo il controllo delle frequenze terrestri, a lungo l'unica piattaforma distributiva esistente, la cui scarsità e concentrazione ha costituito una delle principali barriere all'accesso di nuovi soggetti. In secondo luogo, occorre considerare la forte integrazione verticale, dal momento che Rai e Mediaset hanno occupato l'intera filiera televisiva dalla produzione dei contenuti più pregiati, ai quali hanno accesso esclusivo, fino alla distribuzione del segnale. Bisogna inoltre tenere conto del controllo dei mercati a monte, che si sostanzia nell'accesso ai talenti e ai diritti televisivi dei contenuti pregiati. In tale ambito Rai e Mediaset hanno perseguito per anni una politica di accaparramento tesa da una parte a garantirsi contenuti attrattivi, e dall'altra a sottrarli a possibili concorrenti. Vi sono poi le dimensioni globali d'impresa, in ragione delle quali nessuno degli altri soggetti sul mercato televisivo terrestre - siano essi emittenti locali e altre emittenti nazionali - ha mai avuto dimensioni finanziarie tali da costituire una minaccia effettiva e poter competere seriamente per l'acquisizione dei fattori produttivi «scarsi», e quindi i diritti televisivi pregiati e i talenti. È inoltre inesistente un mercato secondario dei diritti televisivi, il che ha ulteriormente limitato la possibilità per le emittenti locali e minori di creare dei palinsesti interessanti sotto il profilo della capacità di attrarre audience. Da ultimo segnala la gestione diretta dei meccanismi di rilevazione delle audience da parte dei due soggetti in posizione dominante, che ha rappresentato senza dubbio un ulteriore meccanismo di controllo del mercato, che il disegno di legge n. 1825 ora propone di correggere. Quelle appena indicate sono barriere assai alte e che non saranno abbassate da un giorno all'altro. Ma il provvedimento del Governo contribuisce a questo scopo.
Conclusivamente, ritiene di avere indicato le ragioni fondamentali per cui il disegno di legge n. 1825 fornisce risposte necessarie ed attese per favorire lo sviluppo del sistema televisivo del nostro Paese, senza penalizzare alcuno, ma anzi aprendo il mercato e sfidando gli operatori che più si sono attardati nella difesa di una posizione privilegiata in un mondo che sta cambiando e sta per essere superato dallo sviluppo tecnologico e di costume a diversificare il proprio modello di impresa e ad ammodernarsi.
Giuseppe GIULIETTI (Ulivo) concorda con le considerazioni espresse dal collega Barbi, precisando soltanto alcuni aspetti a titolo personale. Ritiene che le relazioni del presidente Folena e del presidente Meta siano state complete, come pure siano condivisibili per alcuni aspetti le proposte di legge presentate dai colleghi De Zulueta e Beltrandi. Ritiene però necessario approvare il prima possibile il disegno di legge in esame che considera per alcuni versi ancora più liberale di quanto in Europa lo considererebbero i più accesi conservatori. È necessario però che si tenga conto non solo delle esigenze di uno o al massimo di due operatori del settore, ma anche di quelle degli editori, dei consumatori, dei giornalisti, per rendere il testo il più completo possibile. Ritiene però che per liberare l'Italia dal
conflitto di interessi sia necessario partire anche dal provvedimento in esame. A questo proposito, condivide, per la prima volta, quanto affermato dal deputato Bondi in riferimento alla sacralità delle pronunce della Corte costituzionale. È necessario infatti non solo rispettare ma anche dare seguito a queste pronunce soprattutto quando - per quanto rileva in riferimento al provvedimento in esame - la Corte richiede il superamento del duopolio e la liberazione della Rai dal controllo del Governo. Considera questi infatti i valori che devono orientare le scelte delle Commissioni, precisando che in materia di conflitto di interessi è necessario praticare la strada della ineleggibilità o della incompatibilità; qualora ciò non dovesse avvenire, il provvedimento in esame potrebbe rappresentare l'occasione per affrontare in questa sede anche quelle problematiche.
Rileva inoltre che invocare l'intervento delle Autorità impone anche di assicurare alle medesime gli strumenti idonei ad intervenire, in particolare sul problema delle frequenze e della pubblicità. Sulla liberalizzazione delle frequenze è necessario infatti che vi sia un reale pluralismo nella loro distribuzione con la restituzione ai soggetti lesi delle posizioni perdute, rompendo il duopolio esistente. Non si tratta di danneggiare ma di porre fine ad uno sviluppo asimmetrico del settore. Sarebbe opportuno inoltre definire regole appropriate in riferimento alle trasmissioni satellitari e alla piattaforma digitale, rafforzando i meccanismi già individuati. Aggiunge che, in riferimento al tema della quota pubblicitaria del 45 per cento, è necessario valutare se la stessa corrisponda effettivamente all'individuazione di una posizione dominante e, in caso contrario, ridefinire tale previsione. È necessario infatti prevedere regole che siano valide per tutti, le televisioni free e le pay-tv, tutelando soprattutto la posizione dei consumatori e di chi lavora, anche allo scopo di dimostrare che non ci sono zone franche in cui il Parlamento non può legiferare.
Evidenzia quindi la necessità di completare il quadro di riferimento normativo con altri interventi che attendono ancora in cantiere. Si tratta dei progetti di legge in materia di audiovisivi, di editoria, di sviluppo della rete Internet, evitando peraltro che il provvedimento in esame si appesantisca di temi ulteriori. Rileva quindi che non è possibile affrontare l'esame di un disegno di legge così importante avendo in mente la disputa con una singola società televisiva, ma è necessario considerarne le diverse tematiche nell'ottica di una tutela del pluralismo nel settore televisivo. Ribadisce che c'è un interesse diffuso sui temi in questione che non può più essere disatteso. Il percorso svolto finora è stato completo, adeguato ed esauriente ed è necessario passare dalla fase della discussione a quella della decisione.
Marco BELTRANDI (RosanelPugno) dichiara preliminarmente di riconoscersi nel quadro d'insieme delineato dal deputato Barbi e in diversi passaggi dell'intervento del deputato Giulietti. Intende quindi porre l'accento su una questione che, a suo avviso, sta a monte rispetto alla discussione sui contenuti dei progetti di legge all'esame delle Commissioni. Si riferisce alla necessità che il Parlamento, a fronte dei veti che sia la Rai che Mediaset stanno evidentemente esercitando nei confronti del varo di provvedimenti di riforma del sistema televisivo, riaffermi, con decisione, il suo pieno diritto e dovere di intervenire in materia per via legislativa. Tiene a precisare, a nome della Rosa nel Pugno, che la sua parte politica avrebbe anzi preferito cogliere tale occasione per affrontare contestualmente anche le questioni più direttamente connesse al concessionario pubblico radiotelevisivo. Prende comunque atto che il perimetro dell'intervento legislativo è più ristretto, ma ricorda di avere presentato una ulteriore proposta di legge che affronta la questione Rai in modo molto diverso da quanto prefigurato nelle linee guida presentate dal Ministro delle comunicazioni.
Passando quindi ai contenuti del disegno di legge del Governo, ritiene che dall'applicazione del tetto del 45 per cento ai ricavi pubblicitari, di cui all'articolo 2,
a differenza di quanto sostenuto da diversi deputati dell'opposizione, non consegua necessariamente la riduzione di un quarto del fatturato di Mediaset. A suo avviso, infatti, se tale operatore godesse davvero di una forza di mercato tale da rendere effettivamente molto ambiti i suoi spazi pubblicitari, alla diminuzione del volume di spot si accompagnerebbe certamente un incremento del relativo prezzo, che potrebbe avere un effetto di riequilibrio sul fatturato. Paventa anzi il rischio che una soglia del 45 per cento possa essere addirittura troppo elevata, in quanto non in grado di assicurare spazio adeguato ad un terzo operatore che voglia essere effettivamente competitivo. Sempre con riguardo a tale soglia, condivide quanto sostenuto dal presidente dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni in occasione della sua audizione davanti alle Commissioni riunite, il quale aveva ricondotto la ragionevolezza di tale limite antitrust alla sua natura temporanea. Ricorda quindi che il limite del 30 per cento delle risorse televisive stabilito dalla «legge Maccanico» non poté essere applicato, anche per l'incapacità dell'AGCOM di adottare le misure conseguenti al suo superamento, ed è pertanto necessario, per superare il duopolio, fissare ora una soglia effettivamente cogente, come si propone di fare il disegno di legge Gentiloni.
Preannuncia, infine, che il suo gruppo presenterà numerosi emendamenti, finalizzati a rendere più moderno ed efficace l'impianto del provvedimento predisposto dal Governo. Fa riferimento, a titolo esemplificativo, alla disposizione relativa all'Auditel, che gli appare inidonea a risolvere il conflitto di interessi da sempre presente in seno a tale organo. In proposito ritiene che invece di ampliare il novero degli operatori televisivi che vi sono ammessi, come si propone sostanzialmente di fare il disegno di legge n. 1825, sarebbe all'opposto necessario escludere esplicitamente che tale tipologia di soggetti possa farne parte. Ciò introdurrebbe quella indispensabile imparzialità che potrebbe condurre, tra l'altro, a determinare in modo effettivo il ruolo degli operatori satellitari, il cui peso appare attualmente «sottostimato» nei dati forniti dall'Auditel.
Si augura, infine, che anche la sua proposta di legge n. 2077 possa risultare utile ai fini del dibattito e che il Parlamento riesca ad esercitare pienamente il ruolo di legislatore che la Costituzione gli assegna anche in materia radiotelevisiva.
Pietro FOLENA, presidente, nessun altro chiedendo di intervenire, rinvia il seguito dell'esame ad altra seduta.
La seduta termina alle 10.05.
L'ufficio di presidenza si è riunito dalle 10.05 alle 10.30.