Commissioni Riunite I e II - Resoconto di marted́ 12 giugno 2007


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SEDE REFERENTE

Martedì 12 giugno 2007. - Presidenza del presidente della I Commissione, Luciano VIOLANTE. - Intervengono il sottosegretario di Stato per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione Beatrice Magnolfi ed il sottosegretario di Stato alla giustizia Luigi Li Gotti.

La seduta comincia alle 14.05.

Modifiche al testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero nonché al codice penale e al codice di procedura penale.
C. 1936 Violante e C. 1937 Buemi.
(Esame e rinvio).

Le Commissioni iniziano l'esame del provvedimento.

Pierangelo FERRARI (Ulivo), relatore per la I Commissione, introduce l'esame del provvedimento ricordando come le proposte di legge in titolo, dal contenuto pressoché identico, intervengono sul testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e sui codici penale e di procedura penale al fine di apportarvi modifiche volte a prevenire e contrastare taluni frequenti fenomeni di criminalità connessi, in gran parte, al più generale fenomeno della immigrazione clandestina o irregolare.
Richiama le relazioni introduttive alle due proposte di legge, le quali convergono sulla valutazione che il fenomeno della criminalità di importazione vada affrontato con strumenti più efficaci, anche per sottrarre il più generale fenomeno dell'immigrazione a un pericoloso sentimento collettivo di ostilità e di rifiuto dello straniero. Sottolinea come gli immigrati che vivono in Italia nel pieno rispetto delle leggi dello Stato, i quali sono la grande maggioranza, siano la prima vittima di un deprecabile lassismo nei confronti della criminalità di importazione.
Ritiene che, per affermare la cultura dell'accoglienza, occorra difendere la cultura della legalità e della responsabilità.


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La normativa italiana è tuttavia inadeguata a contrastare le pratiche criminali degli stranieri e a rendere impossibile la permanenza in Italia di chi vi giunge solo per delinquere. Rileva che la stessa legge n. 189 del 2002, la cosiddetta legge Bossi-Fini, mentre è eccessivamente fiscale per alcuni versi, è per altri versi inadeguata a rendere incisiva la lotta alla criminalità.
Ciò premesso, illustra il contenuto delle due proposte di legge in titolo, che si propongono di contrastare la diffusa prassi dell'uso di false generalità. Tale prassi è possibile perché la concessione del permesso di soggiorno avviene oggi senza alcuna concreta possibilità di preventiva verifica dell'eventuale passato criminale dello straniero e nella materiale impossibilità di una verifica del permanere, nel tempo, dei presupposti legittimanti la concessione del permesso medesimo. Si impone, pertanto, una scelta di fondo, già peraltro fatta da tutti i Paesi meta di immigrazione e prevista dalla stessa normativa comunitaria: il permesso di soggiorno non può essere riconosciuto a chi commette crimini di una certa gravità e a chi si occulta sotto false generalità. Ecco perché occorre rendere obbligatoria, ai fini dell'ottenimento del permesso di soggiorno, la sottoposizione del richiedente ai rilievi fotodattiloscopici, vale a dire alla fotografia dell'interessato e alla rilevazione delle impronte digitali. Solo in questo modo, infatti, è possibile ricostruire se l'individuo abbia commesso reati o sia stato destinatario di un provvedimento di espulsione. Nello specifico, gli articoli 1 e 2 di entrambi i provvedimenti intervengono sull'articolo 5 del testo unico prevedendo il rilevamento obbligatorio dei dati fotodattiloscopici dello straniero che richieda il permesso di soggiorno o il rinnovo. L'articolo 3, identico nelle due proposte in esame, introduce, poi, due nuovi commi all'articolo 5 del testo unico, volti a prevedere, rispettivamente, una causa ostativa al rilascio e al rinnovo del permesso di soggiorno e una causa di revoca del permesso medesimo. Il successivo articolo 4, anch'esso identico in entrambi i provvedimenti, novella in più parti il comma 5 dell'articolo 12 del testo unico, concernente il reato di favoreggiamento della permanenza illegale dello straniero nel territorio dello Stato, al fine di inasprire le pene attualmente previste dal tale comma ed estendere l'ambito della fattispecie penalmente rilevante. L'articolo 5 delle due proposte modifica i commi 3 e 4 dell'articolo 6 del testo unico, relativi all'esibizione di documenti da parte dello straniero all'autorità di polizia, prevedendo, in particolare, l'obbligo per gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza di sottoporre a rilievi fotodattiloscopici e segnaletici chiunque rifiuti di esibire un documento di identificazione ovvero il permesso o la carta di soggiorno. Gli articoli 6 e successivi, sui quali lascia la parola all'onorevole Samperi, relatrice per la II Commissione, le due proposte di legge introducono le conseguenti modifiche al codice penale e al codice di procedura penale.

Marilena SAMPERI (Ulivo), relatore per la II Commissione, preliminarmente rileva che le proposte di legge all'esame delle Commissione riunite sono pressochè identiche nella loro formulazione. Ciò è dovuto alla circostanza, opportunamente evidenziata nella relazione che illustra la proposta di legge n. 1936, che entrambe le proposte nascono dall'esperienza concreta della procura della Repubblica presso il tribunale di Torino e da una serie di incontri indetti dal sindaco della città di Torino, Sergio Chiamparino, sul tema della tutela della sicurezza dei cittadini.
Si sofferma, quindi, sulle disposizioni delle due proposte che incidono su norme di natura sanzionatoria del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero nonché su quelle che modificano il codice penale e quello di procedura penale. Si tratta, anche in questi ultimi casi, di interventi volti a prevenire e contrastare taluni frequenti fenomeni di criminalità connessi, in gran parte, al più generale fenomeno della immigrazione clandestina o irregolare.


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In particolare, l'articolo 4 delle proposte di legge in esame novella in più parti il comma 5 dell'articolo 12 del citato testo unico. Le modifiche proposte riguardano sia l'ambito oggettivo della fattispecie penale contemplata dal comma che si intende novellare, sia le sanzioni attualmente contemplate da tale disposizione. Per quanto riguarda il primo di questi due diversi profili, si osserva, infatti, che la disposizione in esame, nella nuova formulazione prevista dall'articolo 4 delle proposte di legge in esame, non si limita a contemplare e sanzionare il comportamento di chi favorisce la permanenza dello straniero illegale nel territorio dello Stato, previsione questa già contenuta nell'attuale comma 5 dell'articolo 12, ma estende l'ambito della fattispecie penalmente rilevante anche al comportamento di chiunque agevoli o consenta la permanenza illegale dello straniero nel territorio dello Stato. Invita le Commissioni a verificare se le diverse condotte (in particolare, l'ultima) siano individuabili in maniera sufficientemente determinata nonché valutare se presentino un medesimo grado di offensività tale da giustificare la previsione della stessa sanzione.
Resta, invece, immutato il fine illecito che deve determinare il compimento delle sopra descritte condotte e consistente nel trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero la cui permanenza nel territorio è stata favorita, agevolata o consentita dal reo. In relazione, poi, al quadro sanzionatorio, l'articolo 4 delle proposte di legge in esame inasprisce le pene attualmente previste dal comma 5 del citato articolo 12, sanzionando il reato ivi contemplato, con la pena della reclusione da due a sei anni (anziché fino a quattro anni coma attualmente disposto). Per quanto riguarda, invece la pena pecuniaria, prevista congiuntamente alla citata pena detentiva, i provvedimenti in esame prevedono l'applicazione di una multa di 5.160 euro per ogni clandestino di cui si sia favorita la permanenza illegale, eliminando, quindi, ogni valutazione discrezionale da parte del giudice. Al riguardo, si osserva, infatti, che attualmente il comma 5 dell'articolo 12 prevede una multa fino a 30 milioni di lire (da convertire in euro) a persona, lasciando, quindi, al giudice il compito di fissare l'entità della sanzione nel limite sopra indicato. Da ultimo, il comma 5 dell'articolo 12, nella sua nuova formulazione proposta dall'articolo 4 delle proposte di legge in esame dispone che la pena è aumentata da un terzo alla metà quando il fatto è commesso in concorso di da due o più persone ovvero riguardi la permanenza di cinque o più persone.
L'articolo 5 delle due proposte di legge in esame modifica i commi 3 e 4 dell'articolo 6 del testo unico sull'immigrazione, relativi alla esibizione dei documenti da parte dello straniero nei confronti dell'autorità di polizia. In primo luogo, si elimina il reato di mancata esibizione dei documenti, previsto dalla norma vigente. Ciò è correlato alla ridefinizione, operata dall'articolo 6 delle proposte in esame, del reato di falsa attestazione di generalità (articolo 495 codice penale) e all'introduzione del nuovo reato di alterazione delle impronte digitali (articolo 7 della proposta di legge n. 1936 e l'articolo 8 della proposta n. 1937). Secondo i presentatori delle due proposte, il nuovo quadro normativo risultante da queste modifiche rende superata la sanzione di cui all'articolo 6, comma 3, del testo unico, che, oltre ad essere «blanda», è stata oggetto di interpretazioni contrastanti da parte della giurisprudenza.
In luogo della sanzione, la mancata esibizione, senza giustificato motivo, del documento di identificazione comporta sempre la rilevazione dei dati fotodattiloscopici, che il comma 4 dell'articolo 6 vigente (abrogato dall'articolo in esame) prevede solamente in presenza di dubbi sulla identità personale. Inoltre, la polizia può trattenere il soggetto fermato, per non oltre quarantotto ore, ai fini dell'identificazione.
Proprio la disposizione in esame contiene quella che può essere considerata la differenza più rilevante tra le due proposte di legge: la proposta n. 1936, sostituendo all'inizio del comma le parole «lo


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straniero» con «chiunque», estende l'ambito di applicazione della disposizione a tutti, quindi anche ai cittadini italiani e a quelli comunitari. La proposta n. 1937, invece, limita l'applicabilità del nuovo comma 3 dell'articolo 6 del Testo unico agli stranieri. Pertanto, se costoro e (secondo la proposta n. 1936) i cittadini italiani, siano fermati dalla polizia e, dietro richiesta, non esibiscono i documenti, senza un valido motivo, devono essere sottoposti al prelievo delle impronte digitali e possono essere trattenuti.
Ricorda in proposito che il principale documento di identificazione, ossia la carta d'identità, ha carattere facoltativo e il suo ottenimento costituisce un diritto del cittadino, non un obbligo. Tuttavia l'autorità di polizia può obbligare le persone pericolose o sospette di dotarsi della carta d'identità. La carta d'identità deve essere esibita alla richiesta dell'autorità di polizia, ma nessuna disposizione pone l'obbligo di portarla con sé (ad eccezione delle categorie di persone viste sopra) e pertanto non è assoggettabile a nessuna sanzione chi, alla richiesta della polizia, non è in grado di esibire la carta d'identità. È, invece, punito penalmente chi, dietro richiesta della polizia, rifiuta di dare indicazioni sulla propria identità personale.
Gli articoli 6, 7 e 8 di entrambe le proposte di legge in esame novellano l'attuale formulazione degli articoli 495 e 496 del codice penale ed introducono, altresì, una nuova fattispecie criminosa consistente nella Alterazione o mutilazione delle creste papillari dei polpastrelli delle dita delle mani o di altre parti del corpo utili per consentire l'identificazione o l'accertamento di qualità personali proprie o di altri.
Nello specifico, l'articolo 6 di entrambe le proposte di legge interviene sull'articolo 495 del codice penale, recante il delitto di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri. Le modifiche proposte da entrambe le proposte di legge in esame sono dirette a rendere la citata disposizione penale più aderente alla mutata realtà sociale dove il ricorso a nomi di fantasia è forse il reato più diffuso tra gli stranieri che hanno scelto la strada del crimine. Pertanto, ad avviso dei proponenti un inasprimento delle sanzioni attualmente previste per tale reato che consenta l'arresto facoltativo in flagranza e l'applicazione della custodia in carcere nei confronti di chi fornisce false generalità potrebbe costituire un concreto strumento dissuasivo nei confronti di chiunque (straniero o cittadino italiano) per delinquere faccia costantemente uso di nominativi di fantasia. Analiticamente, la prima modifica proposta riguarda l'ambito oggettivo della fattispecie penale in quanto alle condotte illecite già sanzionate dai primi due commi dell'articolo 495 del codice penale si aggiunge anche il comportamento di colui che a seguito di espressa richiesta, dichiara o attesta falsamente ad un pubblico ufficiale nell'esercizio delle funzioni o del servizio, la propria identità o stato o altre qualità della propria o della altrui persona. Invita le Commissioni a valutare se, come sembrerebbe, la nuova condotta che si intende inserire nell'articolo 495 del codice penale coincida sostanzialmente con quella descritta dal successivo articolo 496 c. p., modificato dall'articolo 8, che punisce chiunque, fuori dei casi indicati dagli articoli 494 e 495 del codice penale, interrogato sull'identità, sullo stato o su altre qualità della propria o dell'altrui persona, fa mendaci dichiarazioni a un pubblico ufficiale, o a persona incaricata di un pubblico servizio.
La seconda modifica interviene, poi, sulle sanzioni previste per il delitto in esame in quanto l'attuale pena della reclusione fino a tre anni è sostituita con la pena della reclusione da uno a sei anni, consentendo, in tal modo sia la possibilità del ricorso all'arresto facoltativo in flagranza, sia l'applicazione di una misura cautelare coercitiva.
La medesima pena della reclusione da uno a sei anni è prevista anche se la falsa dichiarazione sulla propria identità, sul proprio stato o sulle proprie qualità personali è resa da un imputato all'autorità giudiziaria o ad autorità da essa delegata,


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ovvero se, per effetto della falsa dichiarazione, nel casellario giudiziale una decisione penale viene iscritta sotto falso nome, ipotesi queste per le quali allo stato è prevista una pena non inferiore nel minimo ad un anno e nel massimo a tre anni.
La nuova formulazione dell'articolo 495, non contempla, invece, le false dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria dalla persona sottoposta ad indagini, che l'attuale formulazione del comma 2 dell'articolo 495 del codice penale, sottopone al medesimo regime sanzionatorio previsto per le sopra richiamate false dichiarazioni rese da un imputato.
Non è, altresì, più contemplata la diminuente di pena prevista dall'attuale comma 4 dell'articolo 495 del codice penale ed applicabile nei casi in cui chi ha dichiarato il falso intendeva ottenere, per sé o per altri, il rilascio di certificati o di autorizzazioni amministrative sotto falso nome, o con altre indicazioni mendaci.
L'articolo 7 della proposta di legge n. 1936 e l'articolo 8 della proposta n. 1937 introducono nel codice penale l'articolo 495-bis volto a punire con la reclusione da uno a sei anni il delitto di alterazione o mutilazione delle creste papillari dei polpastrelli delle dita delle mani o di altre parti del corpo utili per consentire l'identificazione o l'accertamento di qualità personali proprie o di altri. Come si legge nella relazione illustrativa della proposta di legge n. 1936, la ratio di questa nuova disposizione penale deve essere individuata nella sempre più diffusa prassi di ricorrere alla abrasione delle creste papillari al fine di evitare la sottoposizione della persona a rilievi dattiloscopici. Da qui la necessità di individuare una nuova figura penale che preveda pene edittali congrue e le custodia cautelare in carcere. Nello specifico la nuova figura criminosa punisce con la reclusione da uno a sei anni chiunque altera, oblitera o, comunque, mutila, anche solo in parte, le creste papillari dei polpastrelli delle dita delle proprie o delle altrui mani o altre parti del proprio o dell'altrui corpo utili per consentire l'accertamento della propria o dell'altrui identità o dello stato o di altre qualità della propria o della altrui persona. In relazione alla formulazione di questa disposizione si osserva che l'unica differenza esistente tra i due provvedimenti in esame è ravvisabile nel fatto che ai sensi dell'articolo 8 della proposta n. 1937, la citata alterazione, mutilazione o obliterazione delle creste papillari dei polpastrelli delle dita delle proprie o delle altrui mani deve essere effettuata in maniera fraudolenta, circostanza questa non contemplata dalla proposta n. 1936.
Per quanto riguarda poi le modifiche riguardanti il successivo articolo 496 del codice penale sulle false dichiarazioni sull'identità o su qualità personali proprie o di altri, entrambe le proposte di legge intervengono sul relativo regime sanzionatorio (articolo 8 della proposta n. 1936 e articolo 7 della proposta n. 1937) in quanto l'attuale pena della reclusione fino ad un anno alternativa a quella della multa fino a euro 516 è sostituita con la sola pena della reclusione fino a due anni.
La sola proposta di legge n. 1937 elimina dall'attuale formulazione dell'articolo 496 del codice penale il riferimento al pubblico ufficiale circoscrivendo, quindi, l'ambito della fattispecie alle sole false dichiarazioni rese ad una persona incaricata di un pubblico servizio. È da ritenere che si tratti di un mero refuso in quanto la medesima disposizione precisa che le mendaci dichiarazioni devono essere rese a persona incaricata di un pubblico servizio, nell'esercizio delle funzioni o del servizio.
Il Capo III di entrambe le proposte di legge in esame reca «Modifiche al codice di procedura penale».
In particolare, la sola proposta n. 1937 interviene, all'articolo 9, sull'articolo 349 del codice di rito, relativo all'identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e di altre persone, prevedendo che l'indagato o la persona in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti possano essere trattenuti negli uffici della polizia


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giudiziaria ai fini dell'identificazione per un tempo massimo di 48 ore in luogo delle attuali 24.
Sia l'articolo 9 della proposta n. 1936 che l'articolo 10 della proposta n. 1937 intervengono sull'articolo 381 del codice di procedura penale, relativo alle ipotesi di arresto facoltativo in flagranza di reato, inserendo due ulteriori ipotesi in presenza delle quali è consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato. Si tratta dei delitti di cui agli articoli 495 e 495-bis del codice penale, così come definiti dalle stesse proposte di legge.
L'articolo 10 della proposta n. 1936 e l'articolo 11 della proposta n. 1937 aggiungono un comma all'articolo 449 del codice di procedura penale, in tema di giudizio direttissimo. In particolare, entrambe le proposte di legge inseriscono all'articolo 449 del codice di procedura penale il comma 6-bis, ai sensi del quale, laddove il reato per il quale è richiesto il giudizio direttissimo risulti connesso con uno dei reati di cui agli articoli 495 o 495-bis del codice penale, anche se per questi reati dovessero mancare i presupposti del rito direttissimo, non si dovrà applicare il comma 6, che impone la separazione dei procedimenti. In ogni caso, se la riunione dei procedimenti è indispensabile, dovrà prevalere il rito direttissimo.
In relazione alla formulazione del testo osserva che non risulta chiaro il rapporto tra il primo e il secondo periodo del comma aggiuntivo. In particolare, dal primo periodo sembra desumersi l'intento dei proponenti di non separare mai procedimenti per i reati connessi quando il reato connesso sia previsto dagli articoli 495 e 495-bis del codice penale. Se questa è l'interpretazione corretta della norma, non risulterebbe chiara la formulazione del secondo periodo («Se la riunione è indispensabile prevale in ogni caso il rito direttissimo»), che fa della riunione dei procedimenti una eventualità e non la regola, come sembrava dedursi dalla prima parte.
Entrambe le proposte di legge, infine, intervengono, poi, sull'articolo 66 del codice di procedura penale, in tema di verifica dell'identità personale dell'imputato.
L'articolo 11 della proposta di legge n. 1936 sostituisce il comma 2 dell'articolo 66 del codice di procedura penale con un testo che riproduce integralmente l'attuale formulazione del comma 2 dell'articolo 66 del codice di procedura penale e, pertanto, non innova l'attuale testo normativo. L'articolo 12 della proposta di legge n. 1937, invece, mantiene ferma l'attuale formulazione del comma 2 aggiungendovi però un inciso finale, ai sensi del quale è irrilevante l'esatta identificazione anagrafica dell'imputato quando ne sia certa l'identità fisica, ovvero quando la stessa persona abbia inteso impedire - in modo fraudolento - la propria identificazione.
In relazione alla formulazione di questo articolo, al fine di evitare eventuali dubbi interpretativi, osserva che andrebbe chiarito il significato dell'inciso che si intende aggiungere al comma 2 dell'articolo 66. Infatti se l'espressione «, ovvero quando la stessa persona abbia inteso impedire - in modo fraudolento - la propria identificazione» deve essere intesa nel senso che anche laddove non sia certa l'identificazione anagrafica né l'identità fisica dell'imputato, ciò non pregiudichi il compimento di alcun atto da parte dell'autorità procedente, laddove la situazione sia frutto della volontà della persona di impedire, in modo fraudolento, la propria identificazione, tale soluzione potrebbe risultare problematica in considerazione della assoluta mancanza di elementi certi relativi alla identità anagrafica o fisica della persona. Viceversa, qualora il nuovo inciso si riferisca ai casi in cui l'imputato ha volontariamente reso impossibile la propria identificazione (ad esempio attraverso l'abrasione dei polpastrelli) ma è certa la sua identità fisica, si tratterebbe allora di una mera specificazione del principio già previsto dal comma 2 dell'articolo 66 in base al quale è irrilevante l'esatta identificazione anagrafica dell'imputato quando ne sia certa l'identità fisica.


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Roberto COTA (LNP) preannunzia che il suo gruppo intende chiedere l'abbinamento alle proposte in esame della proposta di legge C. 2017 Allasia, recante «Modifiche al testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonché al codice penale e al codice di procedura penale».

Luciano VIOLANTE, presidente, considerato l'ordine del giorno dei lavori delle due Commissioni per la giornata odierna e d'intesa con il presidente Pisicchio, rinvia il seguito dell'esame ad altra seduta.

Integrazioni e modifiche alle disposizioni sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare nella pubblica amministrazione.
C. 2629, approvato dal Senato.
(Esame e rinvio).

Le Commissioni iniziano l'esame del provvedimento.

Pierluigi MANTINI (Ulivo), relatore per la II Commissione, osserva che il disegno di legge interviene sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare principalmente al fine di evitare che l'opzione processuale per istituti e procedure alternative al rito ordinario, finalizzata a semplificare ed accelerare la definizione dei giudizi penali (come il giudizio abbreviato e l'applicazione della pena su richiesta, cd. patteggiamento) possano determinare dei benefìci indiretti sul rapporto di lavoro con l'amministrazione, pregiudicando l'esercizio dell'azione disciplinare.
L'articolo 1 integra il contenuto dell'articolo 32-quinquies del codice penale, ampliando l'ambito di applicazione della pena accessoria dell'estinzione del rapporto di lavoro nei riguardi del pubblico dipendente condannato per reati contro la pubblica amministrazione. Il testo vigente dell'articolo 32-quinquies del codice penale stabilisce che la «condanna» alla reclusione non inferiore a tre anni per una serie di reati contro la pubblica amministrazione (peculato, concussione, corruzione, corruzione in atti giudiziari, corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio) importa l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica. In particolare, la modifica testuale introdotta dall'articolo 1, prevede l'estinzione del rapporto di lavoro - come pena accessoria - anche nei casi in cui per i medesimi reati indicati dal citato articolo 32-quinquies del codice penale, sia stata riportata una condanna alla reclusione non inferiore a due anni e tale condanna sia stata irrogata all'esito di un giudizio abbreviato o di un patteggiamento. Il giudizio abbreviato è uno dei riti alternativi previsti dal codice di procedura penale. È caratterizzato dal fatto che con esso si evita il dibattimento (che costituisce il luogo ove si forma la prova nel contraddittorio tra le parti, nell'ambito del procedimento ordinario) e la decisione viene presa, in sede di udienza preliminare, dal giudice «allo stato degli atti», ossia in base agli elementi raccolti durante il corso delle indagini preliminari svolte dal Pubblico Ministero. Con la scelta di tale rito l'imputato, da una parte, rinuncia al dibattimento e alle connesse garanzie difensive; dall'altra si assicura, in caso di condanna, una diminuzione di un terzo della pena (alla pena dell'ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta; alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell'ergastolo). Peraltro, la disciplina vigente di tale procedimento speciale prevede che l'imputato possa subordinare la richiesta di giudizio abbreviato ad una integrazione probatoria, che viene concessa dal giudice ove risulti necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili e salva l'ammissione di prova contraria da parte del pubblico ministero.


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Il cosiddetto patteggiamento è un rito speciale ammesso solo per i reati minori, nel quale l'imputato e il Pubblico Ministero chiedono al giudice l'applicazione di una pena ridotta fino a un terzo rispetto a quella prevista per il reato commesso. Presupposto del patteggiamento è l'accordo tra imputato e Pubblico Ministero sulla scelta di tale rito speciale. Spetta al giudice disporre con sentenza l'applicazione della pena richiesta dalle parti, previo vaglio di correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell'applicazione e della comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, nonché della congruità della pena indicata. Il giudice del dibattimento può peraltro accogliere la richiesta dell'imputato in ordine alla pena anche nel caso in cui il p.m. abbia in precedenza manifestato il proprio dissenso, ovvero in caso di rigetto della richiesta da parte del giudice per le indagini preliminari.
A seguito delle riforma introdotta con la legge 12 giugno 2003, n. 134 (cosiddetto patteggiamento allargato) tale rito può essere richiesto al giudice quando la pena detentiva da irrogare tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo, non supera i 5 anni, solo o congiunti a pena pecuniaria. Va, peraltro, ricordato che, prima delle modifiche recate dalla citata legge del 2003, il limite di pena detentiva che poteva dar luogo a patteggiamento era fissata nel massimo a 2 due anni di reclusione o di arresto.
Sostanzialmente, la citata novella all'articolo 32-quinquies del codice penale comporterebbe che in caso di condanna alla reclusione non inferiore a tre anni per i suddetti reati contro la pubblica amministrazione la pena accessoria dell'estinzione del rapporto di lavoro conseguirebbe come effetto penale indipendentemente dal rito celebrato. Inoltre in caso di condanna alla reclusione compresa fra due anni e tre anni, la stessa pena accessoria conseguirebbe come effetto penale solo per gli imputati che hanno scelto il rito alternativo.
L'articolo 2 propone una novella dell'articolo 445 del codice di procedura penale in materia di effetti dell'applicazione della pena su richiesta delle parti. Al riguardo si ricorda che il testo vigente dell'articolo 445 del codice di procedura penale prevede che, quando la pena detentiva irrogata col patteggiamento non superi i due anni (soli o congiunti a pena pecuniaria), la relativa sentenza non comporta, tra l'altro, l'applicazione di pene accessorie.
Con la modifica introdotta al comma 1 dell'articolo 445 del codice di procedura penale si fa espressamente salva l'applicazione di quanto previsto dall'articolo 32-quinquies del codice penale, consentendo, in tal modo, l'estinzione del rapporto di lavoro anche ai casi in cui la sentenza di patteggiamento preveda una condanna ad una pena detentiva di due anni.
Per quanto riguarda, poi, il successivo articolo 3 del provvedimento in esame, corrispondente a quella contenuta nell'articolo 3 del disegno di legge di iniziativa governativa, tale disposizione reca due novelle all'articolo 5 della legge n. 97 del 2001 in materia rispettivamente di termini per l'avvio o la prosecuzione del procedimento disciplinare a seguito della comunicazione di una sentenza penale irrevocabile di condanna e di responsabilità in casi di mancata applicazione della sanzione disciplinare.
In particolare, la lettera a) introduce una modifica alle procedure previste dal comma 4 dell'articolo 5 per il procedimento disciplinare conseguente alla condanna con sentenza penale irrevocabile, anche se oggetto di sospensione condizionale, di un dipendente di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica.
La disposizione in esame interviene sulle modalità di computo del termine di 90 giorni previsto per l'inizio o la prosecuzione del procedimento disciplinare, prevedendo che esso decorra non dalla mera comunicazione della sentenza, come attualmente previsto, ma dalla ricezione di quest'ultima da parte dell'ufficio competente ad avviare il procedimento disciplinare.


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In proposito, la relazione illustrativa dell'atto Senato evidenzia che con la modifica proposta si intende «escludere dal computo del termine generale di conclusione del procedimento il lasso temporale intercorrente fra la conoscenza dell'esito del giudizio da parte dell'amministrazione e l'avvio del procedimento». Sempre la relazione illustrativa sottolinea che la combinazione della novella in esame con quella prevista dalla lettera b) dell'articolo 3, che introduce il comma 4-bis all'articolo 5 della legge n. 97 del 2001 determinerebbe una concentrazione della responsabilità del procedimento disciplinare nell'ufficio competente ad avviare il procedimento stesso.
Ai sensi del medesimo comma 4, non modificato sul punto dalla disposizione in esame, il procedimento disciplinare dovrà concludersi entro il termine di 180 giorni dal suo avvio o dalla sua prosecuzione, salva la possibilità per i contratti collettivi nazionali di fissare termini diversi. La lettera b) della disposizione in esame, introducendo nell'articolo 5 della legge n. 97 del 2001 il comma 4-bis, tipizza una specifica fattispecie di responsabilità amministrativa, che ha natura integrativa delle ipotesi di responsabilità penale e disciplinare eventualmente configurabili, in capo al soggetto preposto all'istruttoria del procedimento disciplinare, al soggetto titolare del relativo ufficio ovvero, qualora si tratti di soggetti diversi, degli organismi competenti ad adottare o deliberare la sanzione disciplinare. Ai fini dell'integrazione della fattispecie di responsabilità e del conseguente obbligo di risarcimento dei danni cagionati alla pubblica amministrazione, la novella richiede che a causa del comportamento dei soggetti sopra menzionati si determini la mancata applicazione della sanzione disciplinare per decadenza dei termini o per altri motivi attinenti alla regolarità del procedimento disciplinare. Con riferimento all'inquadramento sistematico della fattispecie di responsabilità prevista dalla disposizione in esame, la relazione illustrativa del disegno di legge governativo precisa che la conservazione del rapporto di lavoro o la mancata sanzione disciplinare in conseguenza di una mancata valutazione del comportamento del dipendente pubblico imputabile a vizio procedimentale attribuibile ai soggetti competenti in materia di procedimento disciplinare comporta la responsabilità di questi ultimi per danno all'immagine dell'amministrazione. Si segnala, peraltro, che la formulazione testuale della disposizione in esame non pare escludere la possibilità che, ove ne ricorrano i presupposti, la responsabilità si estenda anche ad eventuali danni di carattere patrimoniale. In ogni caso, potrebbe essere opportuno chiarire meglio la portata normativa della novella proposta. La novella di cui alla lettera b) della disposizione in esame prevede, infine, che la mancata o intempestiva attivazione dei procedimenti disciplinari o la loro inefficace conclusione per motivi di regolarità procedurale costituiscano elementi di valutazione ai fini della responsabilità disciplinare o dirigenziale del soggetto al quale sia imputabile il predetto comportamento. La disposizione prevede infatti che gli organi di controllo interno dell'amministrazione interessata effettuino le necessarie verifiche al riguardo e provvedano alle conseguenti segnalazioni agli organi competenti rispettivamente in materia di accertamento della responsabilità disciplinare e dirigenziale.
Al contenuto dell'articolo 3 è, poi, collegato il successivo articolo 4 del provvedimento, volto ad aggiungere nel capo XI del titolo I delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale una nuova disposizione in base alla quale la cancelleria del giudice che ha emesso una sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti nei confronti di un dipendente di un'amministrazione o di un ente pubblico, ovvero di un ente a prevalente partecipazione pubblica, ne comunica l'estratto all'amministrazione o ente di appartenenza della persona condannata, preferibilmente con modalità di trasmissione telematica. Quando, poi, la condanna o il patteggiamento preveda a carico del pubblico dipendente la reclusione


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minima di un anno ovvero - indipendentemente dall'entità della pena - sia stata inflitta per i reati di peculato, concussione, corruzione, corruzione in atti giudiziari e corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio, l'obbligo di comunicazione è esteso, a livello centrale, anche al Dipartimento della funzione pubblica-Ispettorato per la funzione pubblica, per i relativi adempimenti, compresa la verifica della possibilità di attivare il procedimento disciplinare. Con una modifica introdotta dal Senato, tali obblighi di comunicazione sono stati estesi anche nei confronti dell'Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito nella pubblica amministrazione.
L'articolo 5, introdotto durante l'esame al Senato, reca infine una disposizione di natura finanziaria. La norma «copre» con un'autorizzazione di spesa di 50.000 annui a partire dal 2007 gli oneri collegati agli obblighi di comunicazione introdotti, in capo alle cancellerie degli uffici giudiziari, dall'articolo 4 del provvedimento.
Tale somma è prelevata dall'apposito fondo costituito nello stato di previsione della spesa del Ministero dell'economia ai sensi dell'articolo 1, comma 96, della legge finanziaria 2005. Tale fondo gode di uno stanziamento di 280 milioni di euro per l'anno 2007 e di 360 milioni di euro a decorrere dall'anno 2008.
Prima di concludere ritiene opportuno sottoporre alle Commissioni riunite due questioni di carattere generale attinenti ai rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare nella pubblica amministrazione. La prima questione attiene alla cosiddetta pregiudiziale penale che condiziona i procedimenti disciplinari della pubblica amministrazione. Ritiene che siano maturi oramai i tempi per sopprimere tale principio. Il giudizio disciplinare, infatti, a suo parere, dovrebbe prescindere dall'esito del processo penale, secondo il principio di autonomia dei due giudizi. Sottolinea, a tale proposito, che la valutazione dell'illecito disciplinare è cosa ben diversa da quella dell'illecito penale. Ricorda che nel passato vi sono stati casi eclatanti in cui la pubblica amministrazione aveva a propria disposizione tutti gli elementi per applicare sanzioni disciplinari nei confronti di propri dipendenti, le quali, tuttavia, non sono state applicate proprio perché il procedimento penale era ancora in corso.
La seconda questione attiene alla opportunità di collegare la pena accessoria dell'estinzione del rapporto di lavoro, prevista dall'articolo 32-quinquies del codice penale, alla condanna per determinati reati contro la pubblica amministrazione indipendentemente dall'entità della pena applicata in concreto. Ritiene, infatti, che la circostanza di essere stati condannati per reati contro la pubblica amministrazione dovrebbe essere da sola, indipendentemente dall'entità della pena, causa di estinzione del rapporto di lavoro pubblico.

Maria Fortuna INCOSTANTE (Ulivo), relatore per la I Commissione, ritiene che l'esame del provvedimento in titolo possa costituire l'occasione per un ripensamento complessivo della normativa in materia di procedimento disciplinare, la quale, per inciso, prevede oggi soltanto la sospensione del dipendente pubblico per dieci giorni oppure direttamente il suo licenziamento, senza gradazioni intermedie. Aggiunge che occorre tener presente la specifica normativa sul procedimento disciplinare relativo ai dirigenti della pubblica amministrazione, nonché la circostanza che il Governo sta lavorando ad un provvedimento sulla dirigenza. Per quanto riguarda il merito del provvedimento in esame, dichiara di condividerlo, ritenendo senz'altro inaccettabile che il ricorso al rito abbreviato e al patteggiamento della pena diano luogo ad un differente trattamento, nell'ambito del procedimento disciplinare, del dipendente pubblico condannato in sede penale.

Il sottosegretario Beatrice MAGNOLFI ringrazia i due relatori per l'approfondita attenzione da essi prestata al disegno di legge del Governo e per le proposte di miglioramento formulate. Chiarisce quindi che la scelta del Governo è stata quella di definire un intervento circoscritto soltanto


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al rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale, e non esteso all'intero procedimento disciplinare. Ricorda che la vigente normativa in materia comporta un diverso trattamento in sede disciplinare del dipendente pubblico condannato a seconda del rito da lui scelto in sede di procedimento penale: in sostanza, l'eventuale patteggiamento comporta una significativa riduzione della pena, con conseguenze sul procedimento disciplinare. Sottolinea quindi che, mentre gli articoli 1 e 2 prendono in considerazione i soli reati contro la pubblica amministrazione, gli altri articoli riguardano tutti i reati commessi dal dipendente pubblico. Fa inoltre presente che, a causa della complessità delle istruttorie e della lentezza delle comunicazioni tra gli uffici dell'autorità giudiziaria e quelli della pubblica amministrazione, accade spesso che dipendenti pubblici condannati, anche per reati contro la pubblica amministrazione e quindi commessi in ragione della posizione rivestita all'interno della pubblica amministrazione, rimangano al loro posto e in servizio.

Giampiero D'ALIA (UDC), dopo aver ricordato che il licenziamento dei dipendenti pubblici condannati per reati di mafia è tra le ipotesi prese in considerazione dalla I Commissione nell'ambito dell'esame delle proposte di legge in materia di scioglimento dei consigli comunali per infiltrazione mafiosa (C. 1134 e abbinate), sulle quali, insieme con il deputato Marone, è relatore, invita a riflettere sulla possibilità di introdurre una tale previsione nel provvedimento in esame piuttosto che in quello in materia di scioglimento dei consigli comunali per infiltrazione mafiosa.

Luciano VIOLANTE, presidente, nell'invitare i relatori a riflettere sulla questione sollevata dal deputato D'Alia, esprime personalmente l'avviso che l'ipotesi da quest'ultimo richiamata debba, in ragione della sua specificità, essere valutata nell'ambito del provvedimento in materia di scioglimento dei consigli comunali per infiltrazione mafiosa. Quindi, considerati i lavori delle due Commissioni e d'intesa con il presidente Pisicchio, rinvia il seguito dell'esame ad altra seduta.

La seduta termina alle 15.