Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Titolo: Disposizioni in materia di ineleggibilità e incandidabilità - A.C. 1451 e abb. - Dottrina e giurisprudenza
Riferimenti:
AC n. 1451/XV   AC n. 2516/XV
AC n. 2242/XV   AC n. 2314/XV
AC n. 2563/XV   AC n. 2564/XV
AC n. 2680/XV   AC n. 2681/XV
AC n. 2799/XV     
Serie: Progetti di legge    Numero: 199    Progressivo: 1
Data: 09/10/2007
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni


Camera dei deputati

XV LEGISLATURA

 

SERVIZIO STUDI

 

Progetti di legge

Disposizioni in materia di ineleggibilità
e incandidabilità

A.C. 1451 e abb.

Dottrina e giurisprudenza

 

 

 

 

n. 199/1

 

 

9 ottobre 2007

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIPARTIMENTO istituzioni

SIWEB

 

 

 

 

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File: ac0263a.doc

 

 


INDICE

 

Premessa                                                                                      3

dottrina

Inquadramento generale

V. Di Ciolo, Incompatibilità e ineleggibilità parlamentari, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, Vol. XXI, 1971   9

 

V. Lippolis, L’Art. 66, in Commentario della Costituzione, Bologna, Zanichelli, Art. 64-69, 1986  (paragrafi 4 e 5)   37

 

C. De Cesare, Incompatibilità e ineleggibilità parlamentari, in Enciclopedia giuridica, Roma, Treccani, Vol. XVI, 1989                                                                                                                   45

 

G. Long, Ineleggibilità e incompatibilità, in Digesto pubblicistico, Torino, UTET, Vol. VIII, 1993     51

 

U. Pototschnig, Le condizioni di ammissibilità stabilite dall’art. 51, in Commentario della Costituzione, Bologna, Zanichelli, Art. 97-98, 1994  (paragrafi 5-11)                                             83

 

M. Midiri, Art. 51, in Commentario alla Costituzione, Torino, UTET, Vol. I, 2006     105

 

N. Lupo e G. Rivosecchi, La disciplina di ineleggibilità e incompatibilità a livello europeo, nazionale e locale, in G. Meloni (a cura di), I sistemi di ineleggibilità e incompatibilità ai differenti livelli rappresentativi: profili normativi e orientamenti giurisprudenziali - Riordino e razionalizzazione delle scadenze elettorali, 2007 (www.amministrazioneincammino.luiss.it)                                                     121

 

Ricognizione e commenti della giurisprudenza

S. Cinnera Martino, La partecipazione dell’<<incandidabile>> alle elezioni per il rinnovo dei consigli comunali (e provinciali): nullità dei voti o delle elezioni? (marzo 2000) (www.diritto.it)      159

 

E. Griglio, La giurisprudenza costituzionale in materia di ineleggibilita’, incandidabilita’ e incompatibilita’, in G. Meloni (a cura di), I sistemi di ineleggibilità e incompatibilità ai differenti livelli rappresentativi: profili normativi e orientamenti giurisprudenziali - Riordino e razionalizzazione delle scadenze elettorali, 2007 (www.amministrazioneincammino.luiss.it)                                                              179

 

D. Bolognino, Le pronunce della Corte di Cassazione in tema di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità negli enti locali, in G. Meloni (a cura di), I sistemi di ineleggibilità e incompatibilità ai differenti livelli rappresentativi: profili normativi e orientamenti giurisprudenziali - Riordino e razionalizzazione delle scadenze elettorali, 2007 (www.amministrazioneincammino.luiss.it)       215

 

V. Antonelli, Il contributo del Consiglio di Stato, in G. Meloni (a cura di), I sistemi di ineleggibilità e incompatibilità ai differenti livelli rappresentativi: profili normativi e orientamenti giurisprudenziali - Riordino e razionalizzazione delle scadenze elettorali, 2007 (www.amministrazioneincammino.luiss.it)    233

 

L’elezione degli italiani all’estero: un caso particolare di limitazione dell’elettorato passivo

T. E. Frosini, Una nota sull’elettorato (passivo) degli italiani all’estero, in Forum di quaderni costituzionali, 2002 (www.forumcostituzionale.it)                                                                           245

 

C. Fusaro, Il voto all’estero: quando i costituzionalisti... non ci stanno, in “Quaderni costituzionali”, n. 2/2002                                                                                                                       247

 

E. Grosso, Il voto all’estero: tra difficoltà applicative e dubbi di costituzionalità, in “Quaderni costituzionali”, n. 2/2002                                                                                                                   251

 

G. E. Vigevani, Il voto all’estero: interrogativi sulla «riserva indiana» per i candidati, in “Quaderni costituzionali”, n. 2/2002                                                                                           255

 

Giurisprudenza

Corte costituzionale

Sentenza 20 - 26 marzo 1969, n. 46                                                                        263

Sentenza 21 - 29 ottobre 1992, n. 407                                                                     271

Sentenza 4 - 13 luglio 1994, n. 295                                                                          285

Sentenza 23 aprile - 6 maggio 1996, n. 141                                                             291

Sentenza 17 - 30 ottobre 1996, n. 364                                                                     299

Sentenza 7 - 15 maggio 2001, n. 132                                                                      305

Corte suprema di cassazione

Sezioni unite civili, Sentenza 9 novembre 2001 - 22 gennaio 2002, n. 717                                    315

Sezione I civile, Sentenza 10 gennaio - 24 febbraio 2005, n. 3904                          319

Giurisprudenza amministrativa

TAR Sicilia- Sez. Catania, Sentenza 25 - 27 maggio 1999, n. 102                         337

Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, Sentenza 27 gennaio - 14 marzo 2000, n. 113     347

Consiglio di Stato, Sezione V, Decisione 15 giugno 2000, 3338                                        359

Consiglio di Stato, Sezione V, Decisione 2 maggio 2002, 2333                                         367

Consiglio di Stato, Sezione V, 7 marzo - 23 agosto 2006, n. 4948                                     389

 

 

 

 


Premessa

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il presente dossier raccoglie una selezione di interventi della dottrina più recente e di pronunzie della giurisprudenza, volta ad approfondire la nozione di “incandidabilità” in rapporto a quella di “ineleggibilità”, con riguardo sia ai profili di rilievo costituzionale sia ad alcuni risvolti applicativi.

 

La prima parte del volume reca alcune voci enciclopediche o di descrizione generale della materia.

Sembra utile ricordare al riguardo che l’incandidabilità è un istituto comparso nel diritto positivo in epoca relativamente recente e con afferenza alla sola disciplina delle elezioni regionali ed amministrative; anche per questo la dottrina lo ha solitamente preso in considerazione nell’ambito del più complessivo esame delle limitazioni all’elettorato passivo (comprensive dell’ineleggibilità e dell’incompatibilità).

Gli interventi maggiormente rivolti alla ricostruzione sistematica e all’inquadramento costituzionale della materia dedicano anzi uno spazio limitato all’incandidabilità, a volte assimilandola, nella ratio, all’ineleggibilità, altre volte evidenziando invece la diversità, per natura ed effetti, tra i requisiti per il godimento dell’elettorato passivo[1] i quali, incidendo sulla capacità elettorale passiva, condizionano la stessa possibilità del cittadino di candidarsi, e le cause di ineleggibilità[2], che non escludono (anzi presuppongono) la capacità elettorale del cittadino impedendogli tuttavia di divenire soggetto passivo del rapporto elettorale.

 

I saggi raccolti nella seconda parte del volume consentono un’aggiornata panoramica sulla giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato in tema di incandidabilità ed ineleggibilità. Il primo di essi affronta lo specifico tema degli effetti della declaratoria di incandidabilità in sede giurisdizionale (nullità dell’elezione del singolo candidato o nullità dell’intero procedimento elettorale).

 

La terza parte contiene quattro brevi interventi aventi ad oggetto un particolare caso di limitazione dell’elettorato passivo per le elezioni della Camera e del Senato, introdotto dalla recente legge n. 459 del 2001 sul voto degli italiani all’estero.

Il loro inserimento è parso utile, a prescindere dal merito della questione e dai diversi orientamenti sulla medesima, per le riflessioni di ordine generale in essi svolte sulle disposizioni costituzionali[3] che presiedono alla definizione dei requisiti e dei limiti per l’accesso alle cariche parlamentari.

 

L’ultima parte contiene, come si è detto, le pronunzie della giurisprudenza costituzionale, ordinaria ed amministrativa ritenute più significative in relazione al tema trattato dal dossier.

 

 

 

 


Giurisprudenza

 


Corte costituzionale

 


Sentenza n. 46 del 26 marzo 1969

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici: Prof. Aldo SANDULLI, Presidente, Prof. Giuseppe BRANCA, Prof. Michele FRAGALI, Prof. Costantino MORTATI, Prof. Giuseppe CHIARELLI, Dott. Giuseppe VERZÌ, Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI, Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO, Dott. Luigi OGGIONI, Dott. Angelo DE MARCO, Avv. Ercole ROCCHETTI, Prof. Enzo CAPALOZZA, Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI, Prof. Vezio CRISAFULLI, Dott. Nicola REALE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'articolo 11 del D.P.R. 16 maggio 1961, n. 636; dell'art. 16 del regio decreto 5 febbraio 1891, n. 99; e dell'art. 15, n. 3, del D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (testo unico delle leggi per la composizione e le elezioni degli organi delle amministrazioni comunali), in relazione agli artt. 10 e 14 del regio decreto 3 marzo 1934, n. 283 (testo unico della legge comunale e provinciale) promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 7 luglio 1967 dal tribunale di Sassari sul ricorso di Paba Bachisio, iscritta al n. 220 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 282 dell'11 novembre 1967;

2) ordinanza emessa il 26 giugno 1968 dalla Corte di appello di Napoli sul ricorso di Battaglia Vincenzo, iscritta al n. 191 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 261 del 12 ottobre 1968;

3) ordinanza emessa il 9 ottobre 1968 dalla Corte d'appello di Napoli sul ricorso di Ambrosio Enrico, iscritta al n. 236 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 305 del 30 novembre 1968.

Visti gli atti di costituzione di Battaglia Vincenzo e di Ambrosio Enrico;

udita nell'udienza pubblica del 29 gennaio 1969 la relazione del Giudice Vezio Crisafulli;

udito l'avv. Roberto Gava, per il Battaglia.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza emessa in data 7 luglio 1967 nel corso di un procedimento promosso su ricorso di Paba Bachisio per ottenere la dichiarazione di ineleggibilità di Tetti Virgilio a consigliere comunale nel Comune di Bonorva, il tribunale di Sassari ha sollevato di ufficio questione di legittimità costituzionale delle norme di cui agli artt. 10 e 14 del testo unico delle leggi comunale e provinciale approvato con regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, e di cui all'art. 11 del D.P.R. 16 maggio 1961, n. 636, in relazione agli artt. 18 e 3 della legge 4 marzo 1958, n. 261, con riferimento all'art. 15, n. 3, del D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, per contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione.

L'ordinanza espone che uno dei motivi dedotti nel ricorso si basa sulla circostanza, non controversa in giudizio, che il Tetti era stato nominato, antecedentemente alla sua elezione, rappresentante del Comune in seno al Consiglio di amministrazione del Patronato scolastico di Bonorva, che é ente sovvenzionato dal Comune stesso: da tale carica egli si era dimesso ben prima della sua elezione a consigliere comunale, ma senza che le sue dimissioni fossero state formalmente accettate e che, per conseguenza, si fosse proceduto alla sua sostituzione. Poiché la soluzione costantemente data al problema della efficacia delle dimissioni volontarie da un organo collegiale amministrativo é nel senso di richiedere una loro accettazione formale, il giudice a quo rileva che, se le norme di legge ordinaria innanzi indicate debbono essere interpretate nel modo accennato, non é manifestamente infondata la questione relativa al loro contrasto con il principio costituzionale della eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e con il principio costituzionale che concerne il diritto di tutti i cittadini di accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza e secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Esigere per la cessazione della causa di ineleggibilità non solo la presentazione delle dimissioni prima delle elezioni a consigliere comunale, ma addirittura la loro accettazione e la sostituzione nella carica del membro dimissionario, equivarrebbe, infatti, a rendere i terzi arbitri circa la eleggibilità o meno di un cittadino, potendosi con l'accettare o meno le dimissioni presentate, con il procedere o meno alla sostituzione di coloro che si sono dimessi, operare ingiustificate discriminazioni in ordine alla loro capacità elettorale passiva.

Le circostanze di fatto come sopra descritte in merito alla vicenda elettorale del controricorrente rendono, secondo l'ordinanza, rilevante ai fini del decidere la questione di legittimità costituzionale sollevata.

L'ordinanza é stata ritualmente notificata e comunicata, nonché pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 282 dell'11 novembre 1967.

2. - Con altra ordinanza emessa in data 26 giugno 1968 nel corso di un procedimento promosso su ricorso di Battaglia Vincenzo avverso la sentenza del tribunale di Napoli del 22 marzo 1968, nei confronti di Annunziata Giuseppe, la Corte di appello di Napoli ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata relativamente all'art. 15, n. 3, del testo unico 16 maggio 1960, n. 570, delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione.

La norma di cui trattasi, non disciplinando in modo autonomo - diversamente da come é disposto dall'art. 7 del T.U. 30 marzo 1957, n. 361 - le modalità di cessazione dalle funzioni inerenti alle cariche in essa previste, che determinano la ineleggibilità a consigliere comunale (nella specie trattasi di un componente del consiglio di amministrazione dell'ente comunale di assistenza), postulerebbe necessariamente, secondo l'ordinanza, l'applicazione delle norme di cui agli artt. 10 e 14 del T.U. 3 marzo 1934, n. 383, della legge comunale e provinciale (e successive modificazioni) secondo cui, qualora non sia disposto altrimenti, la dichiarazione della decadenza o l'accettazione delle dimissioni da un determinato ufficio spetta alla medesima autorità che ha proceduto alla nomina, ed inoltre coloro che sono nominati a tempo a un pubblico ufficio, ancorché sia trascorso il termine prefisso, rimangono in carica fino all'insediamento dei successori. Per conseguenza la regolamentazione che ne risulta verrebbe ad apparire in contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione. Queste ultime norme, infatti, che sono svolte ad assicurare l'eguaglianza di tutti i cittadini nell'accesso alle pubbliche cariche, potrebbero non trovare applicazione ove sulle dimissioni tempestivamente presentate dall'interessato non si prevedesse in tempo debito da chi di competenza.

Nel caso in esame la questione di legittimità costituzionale prospettata sarebbe di ovvia rilevanza ai fini del decidere, poiché le dimissioni presentate dal Battaglia in tempo antecedente alla convocazione dei comizi elettorali sarebbero state accettate solo successivamente ad essa.

Anche questa seconda ordinanza risulta ritualmente notificata e comunicata, nonché pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 261 del 12 ottobre 1968.

Si é costituita in giudizio innanzi a questa Corte la difesa del Battaglia, con atto depositato il 31 ottobre 1968, deducendo che secondo costante orientamento della giurisprudenza della magistratura ordinaria gli amministratori degli enti comunali di assistenza debbono essere considerati ancora in carica, e quindi ineleggibili a consiglieri comunali, anche se al momento delle elezioni abbiano presentato le dimissioni, delle quali abbia preso atto la Giunta comunale, perché, a norma dell'art. 16 del R.D. 5 febbraio 1891, n. 99 e degli artt. 10 e 14 del T.U. n. 383 del 1934, essi rimangono in carica fino all'accettazione delle dimissioni ed all'insediamento dei nuovi amministratori.

Le norme innanzi indicate sarebbero pertanto in contrasto con i precetti di cui agli artt. 3 e 51 della Costituzione per vari motivi.

Anzitutto in quanto gli amministratori degli enti comunali di assistenza sarebbero sottoposti ad un trattamento di sfavore rispetto agli amministratori di altri enti, istituti ed aziende, che possono anche essere persone giuridiche private, sovvenzionati e vigilati dal Comune, quando questi nominino direttamente i loro amministratori.

Sotto altro profilo, gli amministratori dell'ente comunale di assistenza non si troverebbero in condizioni di eguaglianza con gli altri cittadini nell'accesso alle cariche elettive, in quanto la rimozione degli ostacoli posti alla loro eleggibilità non dipenderebbe soltanto dalla loro volontà, ma sostanzialmente anche dalla volontà di terzi, tanto più se si considera la brevità del tempo intercorrente tra lo scioglimento dei consigli comunali ed il giorno delle elezioni. Significativo sarebbe al riguardo, invece, il disposto dell'art. 2 della legge 16 maggio 1956, n. 493, riprodotto nell'art. 7 del T.U. 30 marzo 1957, n. 361, che espressamente ha specificato doversi intendere per cessazione dalle funzioni l'effettiva astensione da ogni atto inerente all'ufficio, stabilendo altresì che solo in alcuni casi é necessaria la formale presentazione delle dimissioni (e non mai l'accettazione).

Conclude pertanto, la difesa del Battaglia per la dichiarazione di fondatezza della proposta questione di legittimità costituzionale.

3. - Una terza ordinanza, anch'essa della Corte di appello di Napoli, emessa in data 9 ottobre 1968 nel corso di un procedimento promosso su ricorso elettorale di Ambrosio Enrico contro Ragosta Domenico, ha ritenuto, in base a motivi identici a quelli esposti nell'ordinanza che precede, non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa all'art. 15, n. 3, del testo unico 16 maggio 1960, n. 570, per contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 3 e 51 della Costituzione ed ha altresì sollevato, in riferimento alle stesse norme costituzionali, questione di legittimità relativamente all'art. 16, secondo comma, del regolamento 5 febbraio 1891, n. 99. Quest'ultima disposizione, infatti, in riferimento all'ente comunale di assistenza, ente sovvenzionato dal Comune del quale il Ragosta faceva parte, ha in comune con il primo comma dello stesso articolo, che la prevede esplicitamente, la disciplina della prorogatio nelle funzioni dei componenti la congregazione di carità o le amministrazioni delle istituzioni pubbliche di beneficenza: prorogatio, che non resterebbe esclusa dalla norma sulla immediata convocazione del consiglio comunale per la nomina degli amministratori venuti meno per decadenza, morte o dimissioni. Le disposizioni costituzionali innanzi richiamate, che sono volte ad assicurare la eguaglianza di tutti i cittadini nell'accesso alle pubbliche cariche, potrebbero non trovare quindi applicazione - secondo l'ordinanza - ove non si provvedesse da chi é tenuto o ad accettare tempestivamente le dimissioni presentate dall'interessato, o, se tanto avvenuto, agli ulteriori adempimenti di legge necessari perché i successori del dimissionario assumano l'ufficio in tempo utile.

La questione così proposta sarebbe di evidente rilevanza ai fini del decidere, in quanto in esito alle dimissioni presentate dal Ragosta in tempo anteriore alla convocazione dei comizi elettorali non si era provveduto tempestivamente da chi di competenza agli ulteriori adempimenti per la sua cessazione dalla carica prima di tali comizi.

L'ordinanza risulta ritualmente notificata e comunicata, nonché pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 305 del 30 novembre 1968.

Si é costituita in giudizio innanzi a questa Corte, con atto depositato il 20 dicembre 1968, la difesa dell'Ambrosio, la quale illustra preliminarmente le circostanze di fatto, da cui risulterebbe, fra l'altro, che il Ragosta, dimessosi da amministratore del locale ente comunale di assistenza il 9 maggio 1967, aveva ottenuto la accettazione delle sue dimissioni da parte del Comune e da parte dell'ente comunale di assistenza rispettivamente nei successivi giorni 10 e 14 dello stesso mese, ma non era stato efficacemente ed effettivamente sostituito, in quanto la deliberazione commissariale del 6 giugno 1967, n. 202, che nominava il suo sostituto, pur anteriore alle elezioni, non poteva alla data delle stesse considerarsi già operante, non essendo trascorsi i quindici giorni di pubblicazione, né essendo intervenuta la approvazione prefettizia, né essendo stata essa comunicata all'ente comunale di assistenza, né essendo comunque avvenuto l'insediamento materiale del successore.

In relazione alle questioni dedotte, la difesa dell'Ambrosio sostiene in primo luogo la loro inammissibilità, in quanto esse concernerebbero la legittimità di una norma regolamentare (l'art. 16 del R.D. n. 99 del 1891) e di una norma (l'art. 15, n.3 del D.P. n. 570 del 1960) inserita in un testo unico meramente compilatorio, e al più regolamentare anch'esso, in quanto non emanato in virtù di una delega legislativa.

Nel merito la stessa difesa sostiene la infondatezza delle questioni, in quanto le norme costituzionali invocate non escluderebbero che il legislatore possa determinare condizioni di ineleggibilità, come quelle della fattispecie in esame, con riferimento a categorie di cittadini e nel rispetto di criteri razionali. L'ordinanza della Corte di appello si richiamerebbe, in realtà, secondo questo assunto difensivo, piuttosto ad un ipotetico inconveniente, connesso all'eventualità che l'insediamento del sostituto del dimissionario ritardi ad opera dell'autorità competente, che non alla violazione di norme costituzionali; e l'inconveniente lamentato sarebbe non solo temporaneo, ma verificabile per ogni ipotesi di dimissioni, prevedibile e scontato dall'interessato come eventuale conseguenza di una carica liberamente assunta.

4. - All'udienza la difesa del Battaglia ha insistito nelle argomentazioni e nelle conclusioni precedentemente formulate.

Considerato in diritto

1. - Le tre cause hanno ad oggetto questioni sostanzialmente identiche e possono pertanto essere decise congiuntamente con unica sentenza.

2. - Tutte le ordinanze, infatti, lamentano la violazione degli artt. 3, prima parte, e 51 della Costituzione. Tutte denunciano la disciplina risultante, secondo l'interpretazione dominante nella giurisprudenza, dagli artt. 10 e 14 del T.U. della legge comunale e provinciale del R.D. 3 marzo 1934, n. 383, e dell'art. 15, n. 3, del D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, nel senso che le cause di ineleggibilità a consigliere comunale previste da quest'ultima disposizione non cessino se non dopo che le dimissioni dagli uffici nelle stesse indicati siano state accettate e siasi proceduto alla sostituzione del dimissionario. Le ordinanze presentano, tuttavia, alcune diversità di formulazione per quanto attiene alla specificazione delle disposizioni nei confronti delle quali la questione di legittimità costituzionale é stata da ciascuno sollevata.

Più semplicemente delle altre, l'ordinanza 26 giugno 1968 della Corte d'appello di Napoli conclude denunciando, in dispositivo, il solo n. 3 dell'art. 15 del T.U. n. 570 del 1960, espressamente collegato però, in motivazione, agli artt. 10 e 14 del T.U. comunale e provinciale del 1934; mentre l'ordinanza emessa dalla stessa Corte il 9 ottobre successivo estende altresì la censura all'art. 16, secondo comma, del regolamento 5 febbraio 1891, n. 99, disciplinante la prorogatio nell'ufficio degli amministratori delle congregazioni di carità, oggi enti comunali di assistenza.

A sua volta, l'ordinanza del tribunale di Sassari prospetta la questione, in primo luogo, nei confronti degli artt. 10 e 14 del T.U. del 1934, nonché dell'art. 16 maggio 1961, n. 636, ma con riferimento all'art. 15, n. 3, del T.U. del 1960, ed anche "in relazione" con gli artt. 18 e 3 della legge 4 marzo 1958, n. 261, sul riordinamento dei patronati scolastici.

3. - Il R.D. 5 febbraio 1891, n. 99, é sicuramente un regolamento di esecuzione, come tale previsto dall'art. 104 della legge 17 luglio 1890, n. 6972, cui accede, e denominantesi "regolamento amministrativo": per questa parte, la questione di legittimità costituzionale sollevata nella seconda ordinanza della Corte d'appello di Napoli é quindi inammissibile, in conformità della costante giurisprudenza di questa Corte.

Alla medesima conclusione deve pervenirsi per la questione proposta dal tribunale di Sassari in ordine all'art. 11 del D.P.R. n. 636 del 1961, la natura regolamentare del quale é già stata affermata da questa Corte con la sentenza n. 18 del 1968 e non può che essere qui ribadita, per le ragioni enunciate in detta sentenza.

Quanto poi agli artt. 3 e 18 della legge n. 261 del 1958, la Corte ritiene che il tribunale di Sassari li abbia richiamati nell'ordinanza al solo scopo di tracciare un quadro completo della normativa vigente in materia di rapporti tra il comune e il consiglio di amministrazione del patronato scolastico, di cui si controverteva nella specie: infatti, l'art. 3 si limita a dettare norme sulla composizione, la durata e l'organizzazione interna dei consigli di amministrazione dei patronati, le quali potevano tutt'al più venire in considerazione come presupposti indiretti, essendo in quella sede contestata la eleggibilità a consigliere comunale di un componente del consiglio di amministrazione del patronato scolastico nominato dal consiglio comunale. L'art. 18, dal canto suo, non fa che rinviare ad un regolamento di esecuzione (successivamente emanato con il ricordato D.P.R. n. 636 del 1961) la disciplina delle forme e dei modi del passaggio al nuovo ordinamento dei patronati scolastici e probabilmente é stato indicato nell'ordinanza sol perché su di esso si fonda, tra le altre, la disposizione regolamentare dell'art. 11, in ordine alla quale era proposta questione di legittimità costituzionale, da dichiararsi peraltro, come si é detto, inammissibile.

L'oggetto del presente giudizio risulta perciò circoscritto ai rapporti degli artt. 10 e 14 del T.U. n. 283 del 1934, e 15, n. 3, del T.U. del 1960 con gli artt. 3, prima parte, e 51, primo comma, della Costituzione.

4. - La difesa del ricorrente nel giudizio promosso con l'ordinanza 9 ottobre 1968 della Corte d'appello di Napoli ha eccepito l'inammissibilità della questione di costituzionalità nei confronti dell'art. 15, n. 3, del D.P.R. n. 570 del 1960, trattandosi di testo unico meramente compilatorio, privo di forza di legge perché non adottato sulla base di una delega legislativa.

Ma l'eccezione dev'essere disattesa, perché, se é vero che l'atto in questione non poteva assumere e non ha assunto, in difetto di delegazione, forza di legge, é anche vero tuttavia che il suo art. 15 risulta dalla fusione dell'art. 15 di un precedente testo unico (il D.P.R. 5 aprile 1951, n. 203), emesso in virtù della delega contenuta nell'art. 21 della legge 24 febbraio 1951, n. 84, e quindi rientrante certamente tra gli atti sottoposti al controllo di questa Corte a norma dell'art. 134 della Costituzione, con l'art. 6 della legge 23 marzo 1956, n. 136, portante modificazioni a quel testo unico. Più particolarmente, anzi, la disposizione del n. 3, che qui interessa, costituisce trascrizione testuale del corrispondente n. 3 dell'art. 15 del testo unico delegato (atto con forza di legge) del 1951.

5. - Nel merito, la Corte osserva che, isolatamente riguardati a prescindere dalle conseguenze che ne derivano sul significato del n. 3 dell'art. 15 del T.U. n. 570 (n. 3 dell'art. 15 del testo unico legislativo n. 203 del 1951), gli artt. 10 e 14 del T.U. comunale e provinciale n. 383 del 1934 non contrastano con le norme costituzionali invocate nelle ordinanze di rimessione: l'art. 10 stabilendo che l'accettazione delle dimissioni da un determinato ufficio spetta alla medesima autorità che ebbe a procedere alla nomina e presupponendo quindi il principio, di generale applicazione nel campo giuspubblicistico, che le dimissioni non hanno effetto se non sono state accettate dall'autorità competente; l'art. 14 formulando, con specifico riferimento all'ipotesi di avvenuto decorso del termine di durata, la regola che gli amministratori cessanti restano in carica fino all'insediamento dei loro successori, anche questa applicabile, più largamente, ad ogni altra ipotesi di cessazione dall'ufficio, compresa quella di dimissioni.

Neppure la disposizione dell'art. 15, n. 3, in quanto prescrive l'ineleggibilità a consigliere comunale di coloro che ricevono una retribuzione a carico del comune o di enti o aziende dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a vigilanza del comune stesso nonché "degli amministratori di tali enti, istituti od aziende", appare di per sé censurabile alla stregua delle norme della Costituzione cui si richiamano le tre ordinanze.

Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare (sentenza 3 luglio 1961, n. 42) non é vietato alla legge di stabilire in linea generale ed astratta cause di ineleggibilità per categorie di soggetti che, per gli uffici ricoperti o per i loro rapporti con il comune, si trovino "in situazioni di incompatibilità con la posizione di candidati alle elezioni", sia per l'influenza che da quelle circostanze può derivare sulla libera espressione del voto, sia per l'incidenza che le circostanze medesime possono avere sull'esercizio delle funzioni di consigliere comunale. É da soggiungere che lo stesso art. 51, primo comma, nel ribadire, con particolare riguardo all'ammissione ai pubblici uffici e alle cariche pubbliche elettive, il principio di eguaglianza, riserva alla legge la determinazione dei requisiti di volta in volta necessari, e questi possono essere tanto positivi quanto negativi, come appunto il non trovarsi in situazioni del genere di quella cui si é ora accennato.

6. - Ferme restando tali considerazioni, é tuttavia evidente che le cause di ineleggibilità, derogando al principio costituzionale della generalità del diritto elettorale passivo, sono di stretta interpretazione e devono comunque rigorosamente contenersi entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate. Per l'art. 51 della Costituzione, l'eleggibilità é la regola, l'ineleggibilità l'eccezione.

Ma, ai fini che le cause di ineleggibilità specificamente contemplate nell'art. 15, n. 3, del T.U. n. 570 del 1960 (art. 15, n. 3, del testo unico legislativo del 1951) tendono a perseguire, é manifestamente ultroneo richiedere, per far cessare l'ineleggibilità, che le dimissioni di chi aspiri alla candidatura siano state accettate, senza d'altronde che alcun termine sia prescritto per l'accettazione; così come é ultroneo esigere per di più che il dimissionario sia stato sostituito nell'ufficio.

Un tale sistema, per quanto rispondente alle esigenze e conforme ai principi del rapporto di servizio nel diritto pubblico, si traduce, quando sia applicato senza i necessari temperamenti alla materia delle ineleggibilità, in una ingiustificata limitazione, a danno di particolari categorie di cittadini, del principio dell'art. 51, primo comma: limitazione tanto più grave, in quanto la eleggibilità finisce in tali ipotesi per dipendere da una estranea volontà, per giunta discrezionale almeno in ordine al quando. Ne risulta violata al tempo stesso la riserva di legge posta dall'art. 51, essendo il protrarsi della ineleggibilità concretamente rimesso alla discrezionalità del consiglio comunale, cui spetta accettare le dimissioni e provvedere alla nomina dei nuovi amministratori.

Che la ratio delle ineleggibilità sia soddisfatta a sufficienza con le semplici dimissioni accompagnate da una effettiva astensione del dimissionario ad ogni ulteriore atto di ufficio, é confermato, del resto, dalle apposite disposizioni contenute nell'art. 7 del D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, testo unico delle leggi per la elezione della Camera dei deputati, a termini delle quali le cause di ineleggibilità previste nello stesso articolo "non hanno effetto se le funzioni esercitate siano cessate almeno 180 giorni prima della data di scadenza della Camera dei deputati" (e, in caso di scioglimento anticipato, entro i sette giorni successivi alla data del decreto di scioglimento), precisandosi altresì che "per cessazione delle funzioni si intende la effettiva astensione da ogni atto inerente all'ufficio rivestito, preceduta... dalla formale presentazione delle dimissioni". Disposizioni sostanzialmente analoghe sono dettate anche per le elezioni del Consiglio regionale della Sardegna, del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia, rispettivamente dall'art. 6 del D.P.R. 12 dicembre 1948, n. 1462, dall'art. 12 della legge regionale 20 agosto 1952, n. 24, e dall'art. 8 della legge 3 febbraio 1964, n. 3.

Come si rileva raffrontando fra loro le disposizioni ora menzionate, il legislatore, nella sua discrezionalità, può variamente determinare, purché secondo criteri razionali, la data entro la quale deve verificarsi la cessazione della causa di ineleggibilità, nei sensi sopra esposti; ma in nessun caso tale data può essere successiva a quella prescritta per l'accettazione della candidatura, che rappresenta il primo atto di esercizio del diritto elettorale passivo. Ond'é che, in mancanza di apposite disposizioni, é questo il momento cui deve farsi riferimento.

7. - Deve concludersi pertanto che quel che si pone in contrasto con l'art. 51 della Costituzione é la normativa risultante dal combinato disposto degli artt. 15, n. 3, T.U. n. 570 del 1960 (art. 15, n. 3, testo unico legislativo n. 203 del 1951) e dagli artt. 10 e 14 T.U. comunale e provinciale n. 383 del 1934, nonché dai più generali principi da questi ultimi implicati.

L'accertata violazione dell'art. 51, primo comma, rende superfluo prendere in esame le censure per contrasto con l'art. 3, prima parte, della Costituzione, tanto più che l'art. 51 é la disposizione che, nel fare specifica e circostanziata applicazione del principio di eguaglianza alla materia della eleggibilità, pone i principi direttamente disciplinanti la materia stessa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili:

a) la questione di legittimità costituzionale proposta dal tribunale di Sassari con l'ordinanza di cui in epigrafe, in ordine all'art. 11 del D.P.R. 16 maggio 1961, n. 636;

b) la questione di legittimità costituzionale proposta dalla Corte d'appello di Napoli, con l'ordinanza del 9 ottobre 1968, in ordine all'art. 16, secondo comma, del R.D. 5 febbraio 1891, n. 99;

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, n. 3, del T.U. 16 maggio 1960, n. 570 (art. 15, n. 3, D.P.R. 5 aprile 1951, n. 203), contenente norme per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali, in relazione agli artt. 10 e 14 del R.D. 3 marzo 1934, n. 383, T.U. della legge comunale e provinciale, limitatamente alla inclusione nelle ipotesi di ineleggibilità previste nel n. 3 dell'art. 15 di coloro che, all'atto della accettazione della candidatura, abbiano presentato le dimissioni astenendosi successivamente da ogni attività inerente all'ufficio.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 1969.

Aldo SANDULLI  -  Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE 

Depositata in cancelleria il 26 marzo 1969.


 

Sentenza n. 407 del 29 ottobre 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori: Presidente Dott. Aldo CORASANITI, Giudici Prof. Giuseppe BORZELLINO, Dott. Francesco GRECO, Prof. Gabriele PESCATORE, Avv. Ugo SPAGNOLI, Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Prof. Antonio BALDASSARRE, Prof. Vincenzo CAIANIELLO, Avv. Mauro FERRI, Prof. Luigi MENGONI, Prof. Enzo CHELI, Prof. Giuliano VASSALLI, Prof. Francesco GUIZZI, Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), promosso con ricorso della Provincia autonoma di Trento, notificato il 21 febbraio 1992, depositato in cancelleria il 2 marzo successivo ed iscritto al n. 22 del registro ricorsi 1992.

 

Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 16 giugno 1992 il Giudice relatore Mauro Ferri;

 

uditi l'avv. Valerio Onida per la Provincia di Trento e l'avv. dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.1. Con ricorso notificato il 21 febbraio 1992, la Provincia autonoma di Trento ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), nella parte in cui sostituisce il terzo comma dell'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, ed introduce i nuovi commi 4 bis, 4 ter, 4 septies e 4 octies del medesimo art.15; ciò in riferimento agli artt. 8, n. 1, 49 - nella parte in cui richiama l'art.33 -, 51 - nella parte in cui richiama l'art. 38 - e 54 dello Statuto speciale di cui al d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, nonchè all'art.3 della Costituzione.

 

Premette la ricorrente che la norma impugnata ha dettato un'ampia disciplina riguardante la eleggibilità e la permanenza in carica di amministratori e dipendenti delle regioni e degli enti locali, nonchè dei titolari di incarichi per cui l'elezione o la nomina sia di competenza degli organi regionali, provinciali e comunali, in relazione a condanne penali o alla sottoposizione a procedimenti penali o a misure di prevenzione.

 

Dopo un'ampia disamina delle nuove disposizioni, la ricorrente osserva che, a parte il caso della sentenza definitiva di condanna, si tratta di ipotesi di "incandidabilità" o di sospensione dalla carica collegate alla pendenza di un procedimento penale o per l'applicazione di misure di prevenzione, ipotesi graduate in relazione ai diversi possibili stadi del procedimento (rinvio a giudizio, condanna in primo grado, condanna confermata in appello), con evidente incidenza nella materia del principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza dell'imputato "sino alla condanna definitiva" (art. 27, secondo comma, della Costituzione).

 

Stante questo principio, le limitazioni al diritto di elettorato passivo, e al diritto a ricoprire le cariche elettive, sancita dalle norme in questione, non possono in alcun modo configurarsi come effetti sanzionatori "anticipati" della condanna. Non resta allora, prosegue la Provincia, che configurare tali effetti come misure cautelari intese ad evitare il pregiudizio che potrebbe derivare al pubblico interesse e al "buon nome" delle istituzioni dalla elezione o dalla permanenza nell'esercizio della funzione elettiva di chi sia colpito dalle condanne o dalle misure in questione.

 

Orbene, se tali sono - e non possono essere altre - la portata e la ratio delle disposizioni in esame, i commi 4 bis e 4 ter del nuovo art.15, che prevedono e disciplinano la sospensione, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, dei presidenti delle giunte regionali e provinciali, degli assessori e dei consiglieri regionali e provinciali (con norme che appaiono applicabili alle cariche elettive della Provincia autonoma di Trento, in cui, come è noto, le cariche di consigliere regionale e provinciale coincidono nelle stesse persone), si configurano non già come disciplina dell'elettorato passivo con riguardo alle cariche regionali e provinciali considerate, ma come disciplina di una forma di controllo sugli organi, che dà luogo all'adozione di misure cautelari comportanti sospensione dalle cariche medesime.

 

Come tali, però, dette disposizioni sono illegittime per violazione dell'autonomia costituzionale della Provincia autonoma, garantita dallo Statuto speciale, in quanto configurano una forma nuova di controllo sugli organi, non prevista e non consentita nè dalla Costituzione nè dallo Statuto. Quest'ultimo, infatti, prevede come unico strumento di intervento statale sugli organi provinciali lo scioglimento del Consiglio quando questo compia atti contrari alla Costituzione e gravi violazioni di legge, o non sostituisca la giunta o il suo Presidente che abbiano compiuto analoghi atti o violazioni (art. 33, primo comma, richiamato dall'art. 49, primo comma); e come unica causa di rimozione dalle cariche di Presidente della giunta o di assessore la revoca ad opera dello stesso Consiglio (artt. 38 e 33, primo comma, richiamati rispettivamente dall'art.51 e dall'art. 49, primo comma).

 

La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la "natura costituzionale" conferita all'autonomia regionale, risultante dal "disegno tracciato dal titolo V della parte II della Costituzione, derogabile, ma solo in termini più favorevoli, per le autonomie speciali", comporta "come prima conseguenza, che il complesso sistema delle relazioni tra Stato e Regioni debba trovare la sua base diretta nel tessuto della Costituzione, cui spetta il compito di fissare, in termini conclusi, le stesse dimensioni dell'autonomia, cioé i suoi contenuti ed i suoi confini"; e come ulteriore conseguenza che "ad ogni potere di intervento dello Stato, suscettibile di incidere su tale sfera costituzionalmente garantita, in modo da condizionarne in concreto - così come accade con le forme puntuali del controllo - la misura e la portata, non potrà non corrispondere un fondamento specifico nella stessa disciplina costituzionale" (sent. n. 229 del 1990, recte del 1989).

 

Tali affermazioni si trovano nel contesto di una sentenza relativa ad una forma di intervento o di controllo sugli atti delle regioni e delle province autonome, ma il discorso vale allo stesso modo con riguardo a forme di controllo sugli organi come quella di cui è giudizio, posto che la stessa sentenza non ha mancato di precisare che la disciplina "espressa in tema di controlli negli artt. 126 e 127 della Costituzione", come quella relativa al controllo di legittimità sugli atti amministrativi posta dall'art. 125 della Costituzione, "viene a presentarsi come tassativa e insuscettibile di estensione da parte del legislatore ordinario, in quanto posta a garanzia di una autonomia compiutamente definita in sede costituzionale".

 

In subordine, prosegue la ricorrente, la disposizione del comma 4 ter è censurabile in quanto attribuisce la competenza ad adottare il provvedimento di sospensione ad un organo diverso da quello cui lo statuto demanda l'unico potere statale di controllo sugli organi provinciali, vale a dire il Presidente della Repubblica, e prevede un procedimento diverso da quello previsto dallo statuto per lo scioglimento. In particolare, la partecipazione al procedimento del Ministro per le riforme istituzionali non può evidentemente sostituire, ai fini di garanzia per la Provincia, il parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

 

Le disposizioni in questione appaiono illegittime altresì per violazione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto, nel disporre la sospensione e la decadenza nei soli riguardi degli amministratori regionali, provinciali e comunali (nonchè di altri enti locali) realizzano un trattamento irragionevolmente differenziato di tali amministratori nei confronti dei titolari di analoghe cariche elettive statali, come quelle di membro del Parlamento e del Governo.

 

Non sussistono infatti ragioni simili a quelle che hanno condotto questa Corte, nella sentenza n. 310 del 1991, a giustificare l'eccezione alla regola generale introdotta con la norma che sancisce l'ineleggibilità alla sola carica di Sindaco dei condannati (peraltro definitivamente) a certi reati o a certe pene (art. 6, ultimo capoverso, d.P.R. 16 maggio 1960, n.570).

 

Infatti, da un lato le norme qui in discussione estendono il regime di sospensione a tutti i titolari di cariche elettive regionali e locali, compresi i semplici consiglieri; dall'altro lato, lasciano invece esenti da tale disciplina i titolari delle più importanti cariche elettive statali, come i membri del Parlamento, le cui funzioni non sono certo meno delicate di quelle dei consiglieri provinciali, ed i membri del Governo, le cui funzioni a loro volta non sono certo meno delicate di quelle del presidente o di un componente della giunta provinciale.

 

Tale violazione del principio di eguaglianza ridonda nella specie in lesione dell'autonomia e della posizione costituzionale della Provincia autonoma.

 

1.2. Il nuovo terzo comma dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990 stabilisce che le disposizioni del primo comma si applicano a "qualsiasi altro incarico" con riferimento al quale l'elezione o la nomina è di competenza, fra l'altro, del consiglio regionale o provinciale, della giunta regionale o provinciale, dei loro presidenti o di assessori regionali o provinciali.

 

Anche a tali incarichi appaiono applicabili i commi successivi dell'art. 15, salvo il comma 4 quinquies, il quale, stabilendo la decadenza di diritto dalle "cariche indicate al comma 1" nel caso di definitività della condanna o del provvedimento che applica la misura di prevenzione, e omettendo invece qualsiasi richiamo al comma terzo, sembrerebbe riferirsi solo alle cariche elettive elencate nel primo comma dell'articolo.

 

Le disposizioni in questione, osserva la ricorrente, sancendo una causa di ineleggibilità o di non nominabilità, e demandando al prefetto la competenza a disporre la sospensione nel caso di sopravvenienza di una delle condizioni previste, con riferimento a tutti gli incarichi per i quali l'elezione o la nomina sia di competenza degli organi provinciali, e quindi a tutti gli incarichi negli enti dipendenti o vigilati dalla Provincia, nonchè negli altri organismi nei quali essa partecipa eleggendo o nominando taluno dei titolari di cariche di ogni natura, violano la competenza provinciale esclusiva in materia di ordinamento degli uffici provinciali (art. 8, n. 1, Statuto speciale). Violano altresì le competenze attribuite alla Provincia per la nomina di organi o per il controllo sugli organi di altri enti: in particolare, quelle spettanti ai sensi dell'art. 54, primo comma, n. 5, Statuto speciale, che demanda alla giunta provinciale la vigilanza e la tutela sulle amministrazioni comunali, sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, sui consorzi e sugli altri enti o istituti locali, "compresa la facoltà di sospensione e scioglimento dei loro organi in base alla legge", nonchè la nomina di commissari.

 

Infatti tali competenze, in particolare quella di cui all'art.8, n. 1 dello Statuto (da ritenersi comunque comprensiva anche della materia concernente gli enti dipendenti dalla Provincia),comportano da un lato che solo la Provincia possa disciplinare i requisiti per la nomina o l'elezione, le cause di ineleggibilità, di decadenza e di sospensione relative agli uffici e organi indicati; dall'altro lato che solo gli organi provinciali (talora espressamente designati dallo Statuto) siano competenti ad adottare provvedimenti come la sospensione di cui è parola nei commi 4 bis e 4 ter.

 

Anche per quanto riguarda tali incarichi, e per le stesse ragioni sopra illustrate, sussiste altresì la violazione del principio costituzionale di eguaglianza - ridondante in violazione dell'autonomia e della posizione costituzionale della Provincia - che discende dall'aver previsto la sospensione esclusivamente per i titolari degli incarichi per i quali l'elezione o la nomina sia di competenza degli organi provinciali, e non per i titolari di analoghi incarichi per i quali l'elezione o la nomina sia di competenza di organi statali, compresi il Governo e il Parlamento.

 

1.3. Il nuovo comma 4 septies dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990 dispone che, qualora ricorra una delle condizioni di cui al primo comma nei confronti del personale dipendente delle amministrazioni pubbliche, "compresi gli enti ivi indicati" - fra i quali la Provincia e le unità sanitarie locali, i cui dipendenti sono soggetti a disciplina provinciale - "si fa luogo alla immediata sospensione dell'interessato dalla funzione o dall'ufficio ricoperti".

 

Il seguito del comma stabilisce che "per il personale appartenente alle regioni" (ma è disposto che probabilmente deve ritenersi esteso alle Province autonome di Trento e Bolzano) la sospensione è adottata dal presidente della giunta regionale, "fatta salva la competenza, nella regione Trentino-Alto Adige, dei presidenti delle Province autonome di Trento e di Bolzano".

 

Il comma 4 octies a sua volta stabilisce che al personale dipendente di cui al comma 4 septies si applicano altresì le disposizioni dei commi 4 quinquies (decadenza di diritto con la definitività della condanna o del provvedimento che applica la misura di prevenzione) e 4 sexies (esclusione dei casi in cui sia stata concessa la riabilitazione).

 

Ad avviso della ricorrente, per i dipendenti della Provincia e degli enti comunque soggetti alla disciplina provinciale, stabilire i requisiti di accesso all'impiego e le cause di decadenza e di sospensione spetta esclusivamente al legislatore provinciale: è pertanto illegittimo il comma 4 septies in quanto disciplina materie riservate alla competenza provinciale.

 

Il medesimo comma 4 septies si riferisce al "personale dipendente delle amministrazioni pubbliche, compresi gli enti ivi indicati", e quindi sembrerebbe letteralmente dettare una disciplina estesa anche ai dipendenti delle amministrazioni statali e degli enti dipendenti dallo Stato.

 

Tuttavia il fatto che il comma taccia del tutto circa la competenza e le procedure per disporre la sospensione di tali dipendenti, mentre la specifica per quanto riguarda gli enti locali e le regioni; il fatto che nell'ultima parte del comma si preveda la comunicazione dei provvedimenti, da parte della cancelleria del tribunale o della segreteria del pubblico ministero, ai soli "responsabili delle amministrazioni o enti locali indicati al comma 1" (escluse quindi le amministrazioni statali); nonchè infine il riferimento del titolo della legge alle sole "elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali", fanno ritenere che in realtà, anche per quanto riguarda i dipendenti, la disciplina introdotta sia limitata a quelli delle amministrazioni regionali e locali.

 

Ma in tal modo si evidenzia anche a questo riguardo, conclude la ricorrente, una violazione dell'art. 3 della Costituzione, che ridonda a sua volta in lesione dell'autonomia e delle posizione costituzionale della Provincia, in quanto non risulta in alcun modo giustificato il diverso e deteriore trattamento riservato dal legislatore statale ai dipendenti della Provincia e degli enti locali rispetto ai dipendenti delle amministrazioni statali, senza che sussistano ragionevoli motivi connessi alle funzioni rispettivamente esplicate.

 

2.1. Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, deducendo la inammissibilità e l'infondatezza del ricorso e rinviando ad una successiva memoria l'illustrazione dei motivi addotti a sostegno di tali conclusioni.

 

2.2. Con memoria depositata nei termini, l'Avvocatura Generale dello Stato ha ribadito le proprie conclusioni di inammissibilità e di infondatezza del ricorso.

 

La difesa del governo richiama, innanzitutto, talune circostanze relative al contesto in cui la disciplina impugnata è stata proposta al Parlamento e da questo approvata. Tra queste, rileva l'Avvocatura, va ricordata la drammatica realtà dell'allargamento della sfera di influenza territoriale della delinquenza organizzata, che dalle tradizionali regioni di origine si è andata estendendo ormai a tutto il territorio nazionale.

 

Si tratta di una situazione non ulteriormente sostenibile che mina alle radici ogni possibilità di crescita della comunità nazionale e forse anche la sua stessa sopravvivenza.

 

In questo quadro si inserisce la legislazione cosiddetta antimafia, che trae origini nella legge 10 febbraio 1962, n. 57, e poi via via nelle leggi 31 maggio 1965, n. 575; 26 luglio 1975, n. 354 e 13 settembre 1982, n. 646: con una complessa serie di norme, man mano migliorate ed affinate dall'esperienza operativa, ed in relazione alle nuove emergenze che si andavano manifestando nel tempo, si è tentato di arginare il fenomeno mafioso, cercando di costruire una rete di protezione contro le infiltrazioni della delinquenza organizzata nell'esercizio di attività economiche e nell'amministrazione della cosa pubblica, assicurandone nel contempo la trasparenza ed il buon andamento.

 

Negli ultimi anni alla legge 19 marzo 1990, n. 55 (recante "Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre forme gravi di manifestazioni di pericolosità sociale") si è aggiunta la legge 12 luglio 1991, n. 203, che ha convertito il decreto- legge 13 maggio 1991, n. 152, recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa; dopo pochi giorni, è seguita la legge 22 luglio 1991, n.221, che ha convertito il decreto-legge 31 maggio 1991, n.164, recante misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi degli altri enti locali, conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso, ed infine la legge 18 gennaio 1992, n. 16, che, pur recando l'anodino titolo di "norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali", all'art.1 ha innovato profondamente le disposizioni dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990 relative alle elezioni amministrative, nella prospettiva di una lotta sempre più incisiva alla delinquenza organizzata.

 

Tutta la suddetta normativa, quindi, va ricollegata a quel concetto di ordine pubblico risultante dalla legislazione che si è susseguita dagli anni '80 in poi, la cui portata, prima strettamente collegata ai criteri della sicurezza e della quiete pubblica, è stata ampliata e valorizzata sotto il profilo materiale ed empirico come salvaguardia delle condizioni generali della tranquillità pubblica e della impermeabilità del consorzio civile di fronte a qualsiasi forma di aggressione criminosa.

 

La normativa più recente avrebbe, quindi, carattere essenzialmente preventivo, mirando ad eliminare le situazioni in cui - a prescindere da ogni accertamento circa il grado di responsabilità individuale dei componenti del consesso - il governo locale viene assoggettato ad anomale interferenze, che ne alterano la capacità di conformare la propria azione ai canoni fondamentali della legalità.

 

In conclusione, ritiene l'Avvocatura che tutta la normativa antimafia, ivi compresa quella impugnata, sia preordinata alla salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica. Sarebbe quindi vano dolersi di una invasione delle competenze provinciali.

 

Posto che tutta la legislazione contro la delinquenza organizzata mira a fronteggiare un fenomeno gravissimo che mina alle radici la stessa sopravvivenza della comunità nazionale, ne deriva che il fine primario di tutte le norme, ivi compresa quella oggi in esame, appartiene alla competenza dello Stato, anche se sotto qualche profilo secondario può incidere su materie di competenza provinciale.

 

Quello che conta, però, è il fine primario, e cioé la lotta alla delinquenza organizzata per la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica.

 

Il che è sufficiente a giustificare ed a legittimare l'intervento legislativo dello Stato, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (sentt. nn. 138 del 1972, 243 del 1987, 1044 del 1988, 459 del 1989 e 36 del 1992).

 

2.3. Quanto alle singole norme impugnate, l'Avvocatura espone quanto segue.

 

La sospensione immediata e la decadenza di diritto, di cui ai commi 4 bis e 4 quinquies, sono la conseguenza automatica e necessaria del verificarsi dei presupposti indicati nei commi stessi. I provvedimenti di cui al comma 4 ter non avrebbero pertanto natura ed effetti costitutivi, ma solo ricognitivi di una situazione già in atto. Se il concetto di immediatezza - usato dal comma 4 bis - ha un significato, questo non può che essere quello di necessità e di automaticità: una sospensione che per produrre effetti deve prima essere disposta e magari valutata non è immediata. Se si vuol dare, pertanto, un senso ai commi 4 bis e seguenti, non rimarrebbe che riconoscere ad essi natura di disciplina dell'elettorato passivo (con previsione di ipotesi di ineleggibilità, di sospensione cautelare automatica o di decadenza) ma non certamente di nuove forme di controllo sugli organi; non sarebbe, pertanto, invocabile la salvaguardia dell'autonomia speciale che definisce fattispecie tassative di controllo sugli organi.

 

In ordine, poi, alla denunciata violazione dell'art. 3 della Costituzione, l' Avvocatura rileva che il ricorso ex art. 32 della legge 11 marzo 1953, n.87 è previsto ad esclusiva tutela dell'autonomia regionale: solo la ritenuta violazione dei limiti posti a tutela di questa autonomia può esser fatta valere, in sede di impugnazione in via diretta, dalle regioni, che possono impugnare la legge della Repubblica solo se ed in quanto invada la sfera di competenza loro garantita dalla Costituzione.

 

Inoltre, nel caso specifico, non sarebbe neanche ravvisabile un qualsiasi riflesso ancorchè indiretto sull'autonomia e competenza regionali della pretesa violazione dell'art. 3 della Costituzione da parte della legge n.16/92.

 

In ogni caso, a prescindere dall'inammissibilità della questione, essa risulterebbe palesemente infondata.

 

Il principio della parità di trattamento rispetto alle cariche elettive del Parlamento e del Governo sarebbe malamente invocato essendo evidente, da un lato, il differente livello dell'autonomia parlamentare, e, d'altro lato, la valutazione di opportunità politica, esercitata dal legislatore in riferimento alle esperienze pregresse, maturate in sede regionale-locale, in ordine alla necessità di garantire il sistema amministrativo locale dalle infiltrazioni della delinquenza organizzata e comunque dalla occupazione delle relative cariche da parte di personaggi penalmente compromessi.

 

Quanto alla denunciata violazione dell'autonomia provinciale ad opera del comma terzo dell'art. 15, laddove è previsto che le disposizioni del comma primo si applicano "a qualsiasi altro incarico" con riferimento al quale l'elezione o la nomina è di competenza, fra l'altro, del Consiglio regionale o provinciale ecc., l'Avvocatura richiama, nel senso dell'infondatezza della questione, le considerazioni sopra svolte.

 

Quanto, infine, alle ulteriori censure dedotte dalla ricorrente in merito ai commi 4 septies e 4 octies, l'Avvocatura dello Stato ribadisce che l'art.15, come modificato dalla legge n. 16/92, persegue, così come nel suo complesso la legislazione antimafia, obiettivi di competenza dello Stato;

 

che in sede di impugnazione diretta di legge statale, le Regioni possono denunciare esclusivamente la violazione delle proprie sfere di competenza assegnate dalla Costituzione o da leggi costituzionali;

 

che, infine, la legge disciplina compiutamente i presupposti della sospensione e della decadenza graduandoli in relazione alla gravità delle condanne ed alla natura dei reati. La legge mira a combattere, prevenendo e poi reprimendo, la delinquenza organizzata: è una lotta il cui fine ultimo è la tutela dell'ordine pubblico e della pubblica sicurezza, della sopravvivenza stessa della comunità nazionale, con la ovvia conseguenza che, nel condurre questa lotta a tutela dei principi fondamentali della Costituzione, l'interesse del singolo può e deve cedere il passo a quello della intera collettività.

 

Considerato in diritto

 

1. L'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali) ha integralmente sostituito i primi quattro commi dell'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n.55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), aggiungendovi altresì i commi da 4 bis a 4 octies.

 

La Provincia autonoma di Trento solleva questione di legittimità costituzionale - in riferimento a varie disposizioni dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, nonchè all'art. 3 della Costituzione - dei nuovi commi 3, 4 bis, 4 ter, 4 septies e 4 octies del citato art.15 della legge n. 55 del 1990, come appunto introdotti dall'art. 1 della legge n. 16 del 1992.

 

2. La nuova normativa, modificando in senso rigoroso le previsioni contenute in quella previgente, detta un'ampia disciplina in tema di eleggibilità e, in genere, di capacità di assumere e mantenere cariche od uffici di varia natura nelle regioni, nelle province, nei comuni ed in altri enti ed organismi di autonomia locale.

 

In particolare, viene introdotta (comma 1) la regola della "non candidabilità" alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali per coloro che hanno riportato condanna, anche non definitiva, per determinati reati (associazione di tipo mafioso o finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, altri delitti concernenti dette sostanze, ovvero in materia di armi, alcuni delitti commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione); per altri delitti è richiesta la condanna con sentenza definitiva o, quanto meno, confermata in appello; per i delitti più gravi (in materia di mafia, stupefacenti, armi) è, d'altro canto, sufficiente che per i soggetti interessati sia stato disposto il giudizio o che essi siano stati presentati ovvero citati a comparire in udienza per il giudizio; gli stessi effetti, infine, conseguono all'applicazione, anche non definitiva, di una misura di prevenzione in relazione all'appartenenza ad un'associazione di tipo mafioso. Le medesime situazioni comportano che i soggetti in esame "non possono comunque ricoprire" una serie di cariche elettive, anche di secondo grado, e di altri incarichi la cui nomina è di competenza regionale o locale.

 

É poi, in sintesi, stabilito, per quanto qui più specificamente interessa, che le disposizioni del primo comma si applicano "a qualsiasi altro incarico" in riferimento al quale l'elezione o la nomina è di competenza dei consigli o delle giunte regionali o locali o dei loro presidenti, sindaci o assessori (comma 3); che l'eventuale elezione o nomina di chi si trovi nelle condizioni sopra indicate è nulla, con l'obbligo della revoca (comma 4); che, qualora dette condizioni sopravvengano dopo l'elezione o la nomina, ciò comporta "l'immediata sospensione dalle cariche", adottata con procedure diverse a seconda dei casi (commi 4 bis e 4 ter); che, da un lato, la sospensione cessa nel caso in cui venga emessa sentenza favorevole all'interessato, anche se non passata in giudicato, mentre, dall'altro, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna (o la definitività del provvedimento applicativo della misura di prevenzione) determina la decadenza di diritto dalla carica (commi 4 quater e 4 quinquies); che la disciplina in esame non si applica se viene concessa la riabilitazione (comma 4 sexies); che, infine, qualora una delle condizioni di cui al primo comma si verifichi nei confronti del personale dipendente delle amministrazioni pubbliche, "si fa luogo alla immediata sospensione dell'interessato dalla funzione o dall'ufficio ricoperti" (con procedure diverse a seconda dei casi), con successiva decadenza di diritto a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (commi 4 septies e 4 octies).

 

3.1. Seguendo l'ordine delle censure come prospettate nel ricorso, occorre in primo luogo esaminare la questione di legittimità costituzionale dei citati commi 4 bis e 4 ter del nuovo testo dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990, i quali, come già accennato, prevedono il primo l'immediata sospensione dalla carica qualora alcuna delle condizioni di cui al primo comma sopravvenga dopo l'elezione o la nomina, e il secondo che la sospensione dei presidenti delle giunte regionali, degli assessori e dei consiglieri regionali "è disposta con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato su proposta del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro per le riforme istituzionali e gli affari regionali, previa deliberazione del Consiglio dei ministri", mentre negli altri casi la sospensione "è adottata dal prefetto, al quale i provvedimenti dell'autorità giudiziaria sono comunicati a cura della cancelleria del Tribunale o della segreteria del pubblico ministero".

 

Ad avviso della ricorrente, dette norme, nella parte in cui prevedono la sospensione dei presidenti delle giunte regionali e provinciali e degli assessori e dei consiglieri regionali e provinciali, configurano una nuova forma di controllo sugli organi provinciali, non prevista e non consentita dallo Statuto speciale di autonomia, i cui artt. 49 e 51, nel richiamare rispettivamente gli artt. 33 e 38, prevedono come unico strumento di intervento statale sugli organi provinciali lo scioglimento del Consiglio quando questo compia atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge o non sostituisca la giunta o il suo Presidente che abbiano compiuto analoghi atti o violazioni, e come unica causa di rimozione dalle cariche di Presidente della giunta o di assessore la revoca ad opera dello stesso Consiglio.

 

La questione non è fondata.

 

Come esattamente osserva l'Avvocatura dello Stato, deve ritenersi inesatta la premessa su cui la ricorrente fonda le proprie censure, cioé che la disciplina in esame attenga alla materia del controllo sugli organi.

 

Va in primo luogo osservato, invero, che le ipotesi di "non candidabilità" alle elezioni previste dal primo comma non costituiscono altro che nuove cause di ineleggibilità che il legislatore ha ritenuto di configurare in relazione al fatto di aver subito condanne (o misure di prevenzione) per determinati delitti di particolare gravità. Ciò è confermato dal rilievo, da un lato, che, ai sensi del quarto comma, l'elezione di coloro che versano nelle indicate condizioni "è nulla" e, dall'altro, che la sopravvenienza del fatto dà luogo a conseguenze automatiche e necessarie, quali vanno considerate sia la "decadenza di diritto" (a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna) di cui al comma 4 quinquies, sia l'istituto - che forma oggetto specifico di censura - della "immediata sospensione" dalla carica: questa, infatti, ancorchè adottata con procedure complesse, non può avere altra natura che quella di atto meramente dichiarativo e ricognitivo della situazione determinatasi, privo di qualsiasi elemento di carattere valutativo e discrezionale.

 

In ogni caso, e ciò vale anche in ordine alle cosiddette cariche elettive di secondo grado (assessori e presidenti delle giunte), è fuori luogo invocare le norme statutarie in tema di controllo sugli organi, in quanto l'impugnato istituto della sospensione dalla carica non può farsi rientrare in tale categoria giuridica, sia per le caratteristiche di automaticità sopra evidenziate, sia per la sua natura di provvedimento cautelare disposto a carico di singole persone, che non comporta alcuna valutazione sull'attività istituzionale dell'organo.

 

3.2. Parimenti non fondata è la questione - che la ricorrente propone in via subordinata in riferimento alle medesime norme statutarie sopra richiamate - relativa al solo comma 4 ter, nella parte in cui attribuisce la competenza ad adottare il provvedimento di sospensione ad un organo diverso da quello (Presidente della Repubblica) cui lo statuto demanda l'unico potere statale di controllo sugli organi provinciali, e prevede altresì un procedimento diverso da quello stabilito dallo statuto per lo scioglimento, in particolare sopprimendo il parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

 

Appare evidente come le considerazioni sopra svolte in ordine alla non riconducibilità della normativa censurata al tema del controllo sugli organi valgano anche in questo caso ad escludere qualsivoglia violazione delle norme statutarie in materia.

 

3.3. I medesimi commi 4 bis e 4 ter sono altresì censurati in riferimento all'art. 3 della Costituzione, in quanto, nel prevedere la sospensione nei soli confronti dei consiglieri ed assessori regionali e provinciali e non anche dei titolari di analoghe cariche statali, quali i membri del Parlamento e del Governo, realizzerebbero un irragionevole trattamento differenziato a favore di questi ultimi.

 

L'Avvocatura dello Stato eccepisce l'inammissibilità della questione, sostenendo che la dedotta violazione del principio di eguaglianza non avrebbe alcuna influenza - neanche indiretta - sulla sfera di autonomia garantita alla ricorrente. Ma l'eccezione deve essere respinta, in quanto nel caso in esame non può negarsi, contrariamente a quanto ritiene l'Avvocatura, che la dedotta violazione dell'art. 3 della Costituzione, così come prospettata, sia intimamente connessa con la presunta lesione delle invocate competenze provinciali e si rifletta, pertanto, anche su queste ultime (cfr., da ult., sentt. nn. 343 del 1991 e 393 del 1992).

 

Nel merito la questione non è fondata.

 

Invero, non appare configurabile, sotto il profilo della disparità di trattamento, un raffronto tra la posizione dei titolari di cariche elettive nelle regioni e negli enti locali e quella dei membri del Parlamento e del Governo, essendo evidente il diverso livello istituzionale e funzionale degli organi costituzionali ora citati: ne consegue che, anche a prescindere dalle finalità e dalle motivazioni che hanno ispirato la normativa in esame e che saranno appresso illustrate, certamente non può ritenersi irragionevole la scelta operata dal legislatore di dettare le norme impugnate con esclusivo riferimento ai titolari di cariche elettive non nazionali.

 

4.1. La Provincia di Trento impugna, poi, il nuovo testo del comma 3 dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990, il quale estende le disposizioni previste dal primo comma "a qualsiasi altro incarico" con riferimento al quale l'elezione o la nomina è di competenza, fra l'altro, del consiglio regionale o provinciale, della giunta regionale o provinciale, o dei loro presidenti o assessori. Ad avviso della ricorrente, detta norma, unitamente alle successive (e in special modo a quella - comma 4 ter - che attribuisce al prefetto la competenza ad adottare la sospensione dei titolari degli incarichi in esame), viola da un lato la competenza provinciale esclusiva in materia di ordinamento degli uffici provinciali (art. 8, n. 1, dello Statuto speciale), e dall'altro le competenze attribuite alla giunta provinciale in tema di vigilanza e tutela sulle amministrazioni comunali, sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza, sui consorzi e sugli altri enti o istituti locali, "compresa la facoltà di sospensione e scioglimento dei loro organi in base alla legge" (art. 54, primo comma, n.5, dello Statuto speciale).

 

La questione non è fondata.

 

Occorre a questo punto individuare la ratio e le finalità della normativa in esame, tenuto conto anche del contesto legislativo in cui la stessa si colloca.

 

Va innanzitutto osservato che, come già detto all'inizio, l'art. 1 della legge n. 16 del 1992 sostituisce quasi integralmente l'art.15 della legge n. 55 del 1990, la quale, come chiaramente evidenziato dal titolo (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), si inserisce nel filone della cosiddetta legislazione antimafia, rappresentato essenzialmente dalle leggi n. 57 del 1962, n. 575 del 1965, n. 354 del 1975 e n. 646 del 1982, alle quali ha apportato varie modifiche.

 

Il menzionato art. 15 già nel testo originario prevedeva la sospensione da una serie di cariche pubbliche (presidenti di giunte regionali e provinciali, assessori regionali, provinciali e comunali, sindaci, consiglieri comunali e provinciali, ecc.) per coloro che risultassero sottoposti a procedimento penale per il delitto previsto dall'art.416 bis del codice penale, ovvero ad una misura di prevenzione, anche non definitiva, perchè indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso; alla sospensione seguiva la decadenza in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza o della definitività del provvedimento di applicazione della misura di prevenzione.

 

Tuttavia, si è ritenuto, come risulta ampiamente dai lavori preparatori della legge n. 16 del 1992, che tale disciplina non fosse sufficiente ad arginare il fenomeno delle infiltrazioni di stampo mafioso all'interno degli organi dell'autonomia locale, e si è quindi provveduto da un lato, attraverso l'istituto della non candidabilità alle elezioni, ad "impedire che persone gravemente indiziate di crimini ... di stampo mafioso, proprio mediante il metus che incutono, possano pervenire a cariche elettive", e, dall'altro, ad estendere l'ambito dei destinatari della disciplina "a tutta una serie di altri incarichi che spesso formano la fitta rete attraverso la quale si esprime l'intreccio mafia-politica ed il potere clientelare locale".

 

In definitiva, la ratio legis, come esattamente rileva l'Avvocatura dello Stato, è quella di costituire una sorta di difesa avanzata dello Stato contro il crescente aggravarsi del fenomeno della criminalità organizzata e dell'infiltrazione dei suoi esponenti negli enti locali; le finalità che si sono intese perseguire sono la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche.

 

L'intervento dello Stato appare pertanto essenzialmente diretto a fronteggiare una situazione di grave emergenza (che ha imposto tutto un complesso di misure - in vari settori dell'ordinamento - nel cui ambito va inserita anche la legge in esame), emergenza che coinvolge interessi ed esigenze dell'intera collettività nazionale, connessi a valori costituzionali di primario rilievo, in quanto strettamente collegati alla difesa dell'ordine e della sicurezza pubblica. Da ciò consegue, in conclusione, che devono ritenersi sussistenti, nella specie, quei requisiti che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., fra le altre, sentt. nn. 243 del 1987, 459 del 1989, 36 del 1992), legittimano l'intervento legislativo dello Stato anche quando questo venga ad incidere su materie in linea di principio di competenza regionale o provinciale.

 

4.2. Anche il terzo comma dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990, come nel caso dei commi 4 bis e 4 ter precedentemente esaminati, è poi censurato dalla Provincia di Trento per violazione del principio di eguaglianza, in quanto contempla esclusivamente i titolari degli incarichi per i quali l'elezione o la nomina è di competenza degli organi provinciali e non anche per i titolari di analoghi incarichi per i quali l'elezione o la nomina è di competenza di organi statali, quali il Parlamento o il Governo.

 

La questione - da ritenere ammissibile per i motivi già esposti sopra al punto 3.3 - non è fondata.

 

Come si è avuto modo di osservare al punto precedente, il legislatore con la disciplina in esame ha inteso essenzialmente contrastare il fenomeno dell'infiltrazione della criminalità organizzata nel tessuto istituzionale locale e, in generale, perseguire l'esclusione dalle amministrazioni locali di coloro che per gravi motivi non possono ritenersi degni della fiducia popolare. La scelta di intervenire a livello degli enti locali si fonda, come si legge più volte nei lavori preparatori, su dati di esperienza oggettivi, i quali dimostrano che i fenomeni che si intendono arginare trovano in tale ambito le loro principali manifestazioni: tale scelta, pertanto, non può certamente ritenersi viziata da irragionevolezza.

 

5.1. La ricorrente impugna, infine, i nuovi commi 4 septies e 4 octies dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990, i quali estendono al personale dipendente delle amministrazioni pubbliche (compresi gli enti indicati nel primo comma) l'istituto della immediata sospensione dalla funzione o dall'ufficio ricoperti, qualora ricorra alcuna delle condizioni elencate nel medesimo comma 1, nonchè (mediante un rinvio al comma 4 quinquies) quello della decadenza di diritto al verificarsi dei presupposti ivi indicati (passaggio in giudicato della sentenza di condanna, definitività del provvedimento applicativo di una misura di prevenzione). É altresì previsto che per il personale degli enti locali la sospensione è disposta dal capo dell'amministrazione o dell'ente locale ovvero dal responsabile dell'ufficio secondo la specifica competenza, mentre per il personale delle regioni e per gli amministratori e componenti degli organi delle uu.ss.ll. la sospensione è adottata dal presidente della giunta regionale, fatta salva la competenza, nella regione Trentino-Alto Adige, dei presidenti delle province autonome.

 

Ad avviso della ricorrente, le norme in esame violano innanzitutto la competenza provinciale esclusiva in materia di ordinamento degli uffici e del personale ad essi addetto (art. 8, n. 1, dello Statuto speciale), comprensiva ovviamente di tutto ciò che attiene ai requisiti di accesso e alle cause di sospensione e di decadenza dall'impiego.

 

La questione non è fondata per le identiche ragioni - attinenti alla ratio e alle finalità generali della disciplina impugnata - che hanno già condotto al rigetto delle analoghe censure proposte dalla ricorrente avverso il comma 3 della normativa in esame (v., sopra, punto 4.1).

 

5.2. Anche in ordine ai commi ora esaminati, la ricorrente denuncia infine la violazione del principio di eguaglianza, in quanto le norme, riferendosi ai soli dipendenti delle amministrazioni regionali e locali e non anche a quelli delle amministrazioni statali, riserverebbero ai primi un trattamento ingiustificatamente deteriore. La questione, ancorchè ammissibile, non è fondata. Vanno qui richiamate, a tal fine, sia in ordine al rigetto dell'eccezione di inammissibilità dell'Avvocatura dello Stato, sia alla dichiarazione di infondatezza della questione, le considerazioni sopra rispettivamente svolte ai punti 3.3 e 4.2.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

a) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 15, commi 4 bis e 4 ter, della legge 19 marzo 1990, n.55, introdotti dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), sollevate, in riferimento agli artt. 49 e 51 del d.P.R. 31 agosto 1972, n.670, nonchè all'art. 3 della Costituzione, dalla Provincia di Trento con il ricorso in epigrafe;

 

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, della legge n. 55 del 1990, come sostituito dall'art.1 della legge n. 16 del 1992, sollevata, in riferimento agli artt. 8, n. 1, e 54, n. 5, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, nonchè all'art. 3 della Costituzione, dalla Provincia di Trento con il ricorso in epigrafe;

 

c) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 15, commi 4 septies e 4 octies, della legge n. 55 del 1990, introdotti dall'art. 1 della legge n. 16 del 1992, sollevate, in riferimento all'art. 8, n. 1, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 e all'art.3 della Costituzione, dalla Provincia di Trento con il ricorso in epigrafe.

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21/10/92.

 

Aldo CORASANITI, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 29/10/92.


 

Sentenza n. 295 del 13 luglio 1994

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Giudici Prof. Gabriele PESCATORE, Avv. Ugo SPAGNOLI, Prof. Antonio BALDASSARRE, Prof. Vincenzo CAIANIELLO, Avv. Mauro FERRI, Prof. Luigi MENGONI, Prof. Enzo CHELI, Prof. Giuliano VASSALLI, Prof. Cesare MIRABELLI, Prof. Fernando SANTOSUOSSO, Avv. Massimo VARI, Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 4 - quinquies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotto dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), promossi con due ordinanze emesse il 2 settembre 1993 dal Tribunale di Oristano nei procedimenti civili vertenti tra Ghiani Adriano ed il Comune di Mogoro ed altro e tra Ghiani Adriano e la Provincia di Oristano ed altro, iscritte ai nn.42 e 43 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visti gli atti di costituzione di Ghiani Adriano, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 21 giugno 1994 il Giudice relatore Mauro Ferri;

uditi l'avv. Costantino Murgia per Ghiani Adriano e l'avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. Con due ordinanze di identico contenuto emesse il 2 settembre 1993 (r.o. nn. 42 e 43 del 1994), il Tribunale di Oristano ha sollevato questione di legittimità costituzionale "dell'art. 1, comma 4 - quinquies, della legge 18 gennaio 1992, n. 16, parzialmente sostitutiva dell'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55" (rectius: dell'art. 15, comma 4 - quinquies, della legge 19 marzo 1990, n. 55 introdotto dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16), in quanto prevede la decadenza di diritto di colui che ricopre una delle cariche elettive indicate al comma 1 del medesimo articolo, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per taluno dei reati pure ivi elencati.

Il giudice a quo premette in fatto che il ricorrente è stato dichiarato decaduto sia dalla carica di consigliere provinciale che da quella di consigliere del Comune di Mogoro in applicazione della norma impugnata, essendo stata emessa nei suoi confronti, ex art. 444 del codice di procedura penale, sentenza di applicazione della pena di un milione di multa - divenuta irrevocabile - per il reato di cui all'art.328, secondo comma, del codice penale.

Ciò posto, il remittente osserva che è principio ormai riconosciuto, a mente della intervenute pronunzie della Corte Costituzionale (tra le quali assumono specifica rilevanza la n. 971 del 1988 e la n. 197 del 1993), la ineludibile esigenza di escludere sistemi sanzionatori "rigidi", ovvero applicativi di misure punitive senza alcuna valutazione in concreto della fattispecie rispetto alla quale la sanzione viene irrogata, non consentendo in tal modo una "indispensabile gradualità sanzionatoria..." in grado di adeguare la sanzione al fatto.

Ritiene al riguardo il Tribunale che la riferita esigenza, ancorchè le anzidette pronunzie di illegittimità costituzionale abbiano specificatamente interessato il rapporto di pubblico impiego attraverso l'istituto della "destituzione di diritto", debba trovare una tutela diffusa e generalizzata, a prescindere della settoriale ipotesi che ne ha occasionato la pronunzia di illegittimità, in quanto è interesse primario di ogni sistema sanzionatorio adeguare concretamente la misura afflittiva al caso di specie. E ciò in conformità al principio di ragionevolezza dettato dall'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo dell'offesa al "principio di proporzione che è alla base della razionalità che domina il principio di uguaglianza, e che postula sempre l'adeguatezza della sanzione al caso di specie" (citata sent. n. 197/93).

Nella presente fattispecie - prosegue il remittente - è evidente come l'esigenza di "adeguatezza e gradualità sanzionatoria" rispetto al caso concreto abbia maggiore rilevanza in considerazione della pluralità e difformità di ipotesi criminali cui la norma censurata riconduce indiscriminatamen te la sanzione della decadenza di diritto, venendo così a parificare, in chiave di proporzionalità sanzionatoria, situazioni che in concreto potrebbero risultare di diversa gravità e soggiacere a pene "notevolmente differenziate, alcune delle quali certamente non elevate" (ancora sent. n. 197/93).

Inoltre, l'attuale sistema di automatismo sanzionatorio pregiudica il diritto costituzionalmente garantito di tutti i cittadini ad accedere e conservare (trattandosi di una causa sopravvenuta di ineleggibilità) le cariche elettive (art. 51 Cost.), ed impedisce all'interessato di rappresentare in contraddittorio le proprie ragioni di difesa, anche al fine di consentire all'amministrazione una adeguata valutazione del caso di specie (art. 24, secondo comma, Cost.).

2. Si è costituito in entrambi i giudizi Ghiani Adriano, ricorrente nei giudizi a quibus, concludendo per l'accoglimento della questione sollevata dal Tribunale di Oristano.

3. É intervenuto nel giudizio introdotto con l'ordinanza n. 42 del 1994 il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.

Osserva l'Avvocatura dello Stato che le ipotesi previste nella norma in questione prevedono casi di "non candidabilità" (e quindi, in definitiva, nuovi casi di ineleggibilità) che il legislatore ha ritenuto di configurare in relazione al fatto che l'aspirante candidato abbia subito condanne o misure di prevenzione per delitti connotati da una specifica capacità criminale e/o di particolare gravità (Corte Cost. sent. n. 407/1992).

Si tratta, in sostanza, di "qualifiche negative" o "requisiti negativi" che il legislatore, nel perseguimento di fini di interesse generale, ha ritenuto di individuare come cause ostative finanche alla partecipazione alla competizione elettorale: con la ovvia conseguenza che, se seguono alla elezione, devono logicamente tradursi in decadenza (o in sospensione) dalle cariche conseguite.

La ragione cui si è ispirato il legislatore è quella di impedire che gli organi di governo delle amministrazioni locali siano occupati da persone che abbiano conseguito condanne penali che rivestano particolare qualificazione negativa, rivelando una capacità criminale che potrebbe mettere in pericolo il regolare funzionamento degli organi medesimi.

Sotto questo profilo, dunque, non interessa che i reati contemplati dal primo comma dell'art. 1 della legge n. 16 del 1992 siano equiparabili per la gravità delle fattispecie astratte o di quelle concrete, quanto, piuttosto, che essi rivelino, a prescindere dalla loro gravità, una capacità criminale tale che, a giudizio del legislatore, il suo autore non debba neppure partecipare alla competizione elettorale, o comunque non debba essere eletto, e se eletto debba essere automaticamente privato in via cautelare o definitiva della titolarità della carica.

Quindi, non irragionevole trattamento eguale di situazioni diverse, come ha denunciato il Tribunale di Oristano, ma, al contrario, del tutto ragionevole trattamento eguale di situazioni che sostanzialmente non differiscono.

Quanto poi alla presunta violazione dell'art. 24 della Costituzione, l'Avvocatura osserva che la decadenza di diritto non costituisce un provvedimento sanzionatorio, per cui non è ipotizzabile, in radice, una violazione del principio di difesa.

Neppure sarebbe configurabile, infine, una violazione dell'art. 51 della Costituzione, perchè la decadenza (di diritto) mira alla soddisfazione ed alla salvaguardia di interessi pubblici e principi fondamentali riconosciuti dalla Costituzione (nel caso specifico in particolare l'art.97) ritenuti dal legislatore prevalenti su altri diritti egualmente coinvolti, ma considerati cedenti (come l'art. 51).

4. Ha depositato memoria il ricorrente nei giudizi a quibus Adriano Ghiani, insistendo per l'accoglimento della questione.

Osserva, in particolare, la difesa della parte privata che le fattispecie delittuose di cui agli artt. 314 e seguenti del codice penale (rientranti nella previsione di cui alla lett. c dell'art. 1 della legge n. 16 del 1992) sono tra loro molto di verse, sia per la gravità delle condotte ipotizzate, sia per la natura e misura delle pene previste: è evidente, pertanto, l'irragionevolezza di voler accomunare in un unico regime da un lato reati come il peculato o la concussione, per i quali sono previste pene variabili dai tre ai dodici anni di reclusione, e dall'altro i reati di omissione di atti d'ufficio o abuso d'ufficio, per i quali invece la pena può anche essere - come avvenuto nella fattispecie - soltanto quella della multa.

L'automatica decadenza dall'ufficio elettivo - prosegue la difesa del Ghiani - viene disposta dal la legge a prescindere da una qualsiasi valutazione da parte dell'organo consiliare, rendendo inoltre impossibile il rispetto del principio del contraddittorio (con violazione del principio del giusto procedimento) e determinando un'illegittima disparità di trattamento rispetto ai consiglieri che, in base alla legge n.154 del 1981, possono invece rappresentare le loro ragioni nelle analoghe ipotesi di ineleggibilità e decadenza.

Considerato in diritto

1. Il Tribunale di Oristano, con due ordinanze emesse il 2 settembre 1993, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 4 - quinquies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotto dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992 n. 16.

La questione sollevata è unica, identiche sono le motivazioni; i due giudizi possono perciò essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. Il Tribunale remittente ritiene che la disposizione di legge suindicata, in quanto prevede la decadenza di diritto operante automaticamente per chi ricopre una delle cariche elettive indicate nel comma 1 del medesimo art. 15 (consigliere provinciale e consigliere comunale, per quanto attiene i due giudizi a quibus), dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per taluno dei reati indicati nel precitato articolo (nel caso in esame per un delitto commesso con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, ai sensi della lett.c) dello stesso comma 1), contrasterebbe con gli artt. 3, 24, secondo comma, e 51 della Costituzione.

Secondo il giudice a quo, l'automatismo sanzionatorio violerebbe l'art.3 sotto il profilo del principio di ragionevolezza e del principio di proporzione, che postula l'adeguatezza e la gradualità della sanzione rispetto ai casi concreti, i quali possono essere di gravità notevolmente diversa; sarebbe altresì in contrasto con l'art. 24, secondo comma, essendo impedito all'interessato di rappresentare le proprie ragioni di difesa al fine di consentire all'amministrazione di valutare il caso di specie; violerebbe, infine, l'art. 51 per lesione del diritto all'accesso e al mantenimento delle cariche elettive.

3.1. La questione non è fondata.

Vanno in primo luogo esaminate le censure sollevate in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

Le ordinanze di rimessione, richiamandosi alle precedenti pronunce di questa Corte ed in particolare alla sentenza n. 197 del 1993, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della destituzione di diritto dei pubblici dipendenti anche nei casi previsti dall'art. 1 della legge n.16 del 1992, affermano che i principi sui quali si fonda tale decisione dovrebbero valere in via generale e quindi anche per le ipotesi in cui la legge medesima prevede la decadenza di diritto dei pubblici amministratori che ricoprono cariche elettive.

É palese l'erroneità di siffatta argomentazione.

Nel caso dei pubblici dipendenti, la Corte muoveva dalla sentenza n. 971 del 1988, con la quale l'istituto della destituzione di diritto a seguito di condanna penale, al di fuori del procedimento disciplinare, era stato espunto dall'ordinamento; a tale sentenza il legislatore si era adeguato con la disciplina prevista dalla legge 7 febbraio 1990, n.19. Di conseguenza, la citata sentenza n. 197 del 1993 ha ribadito, per la "particolare categoria di soggetti" in esame, pur nell'ambito delle specifiche finalità della legge n. 16 del 1992 (cfr. sentenza n. 407 del 1992), l'esigenza "che la valutazione della compatibilità del comportamento del pubblico dipendente con le specifiche funzioni da lui svolte nell'ambito del rapporto di impiego ... va ricondotta alla naturale sede del procedimento disciplinare, il quale, del resto, ben può concludersi con la irrogazione della sanzione destitutoria".

Nulla di simile è configurabile nel caso di chi ricopra cariche pubbliche in virtù di un'investitura diretta o mediata del corpo elettorale. É evidente che la previsione di casi di ineleggibilità non può che essere tassativa, non comportando per sua natura alcuna valutazione discrezionale da parte di qualsivoglia organo o autorità. Nel caso poi di ineleggibilità sopravvenuta in seguito a condanna penale passata in giudicato, la declaratoria di decadenza ha carattere meramente ricognitivo, che esclude di per sè qualsiasi problematica procedimentale.

3.2. D'altra parte, la "pluralità e difformità di ipotesi criminali", cui la norma censurata "riconduce indiscriminatamente la sanzione della decadenza di diritto" (come rileva il remittente), non costituisce motivo sufficiente perchè la norma medesima sia ritenuta in contrasto con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità.

Nel comma 1 del precitato art. 15 il legislatore ha graduato gli effetti delle diverse ipotesi criminose ai fini della ineleggibilità, o "non candidabilità", a consigliere regionale, provinciale e comunale, nonchè ad altre cariche pubbliche elettive di secondo grado: essa si verifica, a seconda della gravità dei reati presi in considerazione, a seguito di sentenza di condanna di primo grado, o confermata in appello, ovvero anche nei confronti di chi è sottoposto a procedimento penale se è stato già disposto il giudizio o se è stato presentato o citato a comparire in udienza per il giudizio. Tale complessa disciplina non è comunque in discussione in questa sede. É invece contestata l'unica previsione della decadenza di diritto per chi sia stato legittimamente eletto, ma nei cui confronti sia sopravvenuta sentenza di condanna passata in giudicato. Questa Corte ha già avuto modo di sottolineare (sent. n. 118 del 1994) come la circostanza di aver riportato condanna per una delle fattispecie criminose previste sia stata configurata dalla normativa in esame quale requisito negativo, quasi una sorta di indegnità morale.

Non si tratta perciò di irrogare una sanzione graduabile in relazione alla diversa gravità dei reati, bensì di constatare che è venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire l'ufficio pubblico elettivo: da qui discende l'automatica declaratoria della decadenza.

3.3. Rimane da valutare, per quanto rileva nel caso in esame, se il legislatore, nell'aver esteso la disciplina in questione anche al caso di condanne per qualsiasi delitto commesso con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio, non abbia compiuto una scelta irragionevole, avendo accomunato i più gravi delitti di peculato, concussione, corruzione ecc., a fattispecie molto più lievi, quale quella di cui all'art. 328, secondo comma, del codice penale (omissione di atti d'ufficio), verificatasi nel giudizio a quo.

Non può essere tacciata di irragionevolezza una norma improntata certamente a severità, ma coerente con le finalità della legge in esame, che, come più volte osservato da questa Corte (cfr. cit. sentt. nn.407 del 1992, 197 del 1993, 118 del 1994, nonchè 218 e 288 del 1993) sono quelle di salvaguardare l'ordine e la sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni, valori che coinvolgono gli interessi dell'intera collettività ed hanno primario rilievo costituzionale. La coerenza della norma con le finalità anzidette sta appunto nell'aver dato particolare peso, quale requisito negativo, a delitti che, pur essendo di maggior o minor gravità, sono tutti accomunati dalla connotazione di essere stati commessi con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, o a un pubblico servizio. Tanto basta per escludere qualsiasi sospetto di irragionevolezza della norma adottata dal legislatore.

4. Le considerazioni su svolte, che escludono la violazione dell'art. 3 della Costituzione, valgono anche a dimostrare l'infondatezza del riferimento all'art. 24, secondo comma. Infatti, posta in luce la legittimità della norma che prevede la decadenza automatica in seguito a condanna penale passata in giudicato (v., sopra, punto 3.1), l'esigenza del diritto di difesa è ampiamente soddisfatta dalla facoltà di ricorso al giudice, nei diversi gradi di merito e di legittimità, contro l'intervenuta dichiarazione di decadenza.

5. Parimenti infondata è, infine, la sospettata violazione dell'art. 51 della Costituzione. Una volta accertato che il legislatore ha esercitato non irragionevolmente, nel rispetto dei principi costituzionali, il potere di stabilire requisiti per l'accesso alle cariche pubbliche elettive, così come prevede il primo comma dell'art. 51, non può configurarsi alcun pregiudizio del diritto costituzionalmente garantito di tutti i cittadini ad accedere e conservare le cariche elettive, poichè il possesso dei requisiti stabiliti dalla legge è condizione per l'esercizio di tale diritto, secondo il chiaro dettato dell'art. 51 medesimo.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 4 - quinquies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotto dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992 n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 51 della Costituzione, dal Tribunale di Oristano con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/07/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 13/07/94.

 

 


 

Sentenza n. 141 del 23 aprile 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori: Avv. Mauro FERRI Presidente, Prof. Luigi MENGONI giudice, Prof. Enzo CHELI, Dott. Renato GRANATA, Prof. Giuliano VASSALLI, Prof. Francesco GUIZZI, Prof. Cesare MIRABELLI, Prof. Fernando SANTOSUOSSO, Avv. Massimo VARI, Dott. Cesare RUPERTO, Dott. Riccardo CHIEPPA, Prof. Valerio ONIDA, Prof. Carlo MEZZANOTTE

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), promosso con ordinanza emessa il 26 giugno 1995 dalla Corte costituzionale, iscritta al n. 507 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1995.

 

Visti gli atti di intervento di Mancini Giacomo, Cito Giancarlo e del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 1996 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

 

Ritenuto in fatto

 

1.1. -- Con ordinanza del 10 ottobre 1994, il Tribunale di Patti - giudicando sul ricorso proposto da Luciano Milio per l'annullamento dell'elezione di Vincenzo Roberto Sindoni a Sindaco del Comune di Capo d'Orlando - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), nella parte in cui riconduce la non candidabilità anche alla condotta di detenzione di sostanza stupefacente come regolamentata dal d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171.

 

Ora, osserva il giudice a quo, l'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, stabilisce al comma 1, lettera e), la non candidabilità, con conseguente nullità dell'eventuale elezione (comma 4), di coloro nei cui confronti pende procedimento penale per un delitto di cui all'art. 74 (recte: 73) del testo unico approvato con d.P.R. n. 309 del 1990, "concernente la produzione o il traffico di dette sostanze". Pur essendo il riferimento all'art. 73 di stretta interpretazione, il senso dell'incidentale testé riportata ("concernente la produzione o il traffico") non può tuttavia essere quello di circoscrivere soltanto ad alcune ipotesi la previsione. Esso va inteso come rinvio alla rubrica dell'art. 73 ("produzione e traffico") che coinvolge tutte le condotte descritte, ed è dunque causa di non candidabilità l'essere sottoposti a giudizio per una qualsiasi delle condotte descritte dal citato art. 73.

 

Rileva il Tribunale che a seguito del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 - emesso in forza del risultato positivo del referendum abrogativo del 18 e 19 aprile 1993 - la fattispecie di reato contestata al Sindoni ha rilevanza penale quando la sostanza sia destinata a terzi, dal momento che è stata depenalizzata la detenzione per uso personale. Per altro verso, però, inibendosi al giudice dell'azione elettorale l'accertamento, anche in via incidentale, dell'ipotesi di cui alla contestazione (il discrimine tra illecito penale e amministrativo essendo riservato al giudice penale), si dovrebbe statuire l'ineleggibilità per fatti la cui rilevanza penale è ormai dubbia. Di qui, il sospetto di illegittimità dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge citata, nella parte in cui sancisce la non candidabilità di coloro che siano stati rinviati a giudizio per il reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, potendosi configurare una situazione di detenzione per uso personale - perciò depenalizzata - non accertabile dal giudice dell'azione elettorale. Sì che ad avviso del Collegio rimettente la norma è in contrasto:

 

- con l'art. 3 della Costituzione, perché si vengono a equiparare, in difetto di un potere di valutazione, posizioni diverse come quelle dello spacciatore e del detentore per uso personale, nei confronti del quale sia esercitata l'azione penale sulla scorta della normativa previgente;

 

- con l'art. 51 della Costituzione, perché l'applicazione della norma porterebbe a statuire l'ineleggibilità anche in assenza di una preclusione legislativa.

 

1.2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che si dichiari non fondata la questione.

 

2.1. -- Nel corso di detto giudizio, con l'ordinanza n. 297 emessa il 26 giugno 1995 (e iscritta al n. 507 del registro ordinanze dello stesso anno) questa Corte ha sollevato dinanzi a sé, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, secondo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro per i quali, in relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a), è stato disposto il giudizio, ovvero per coloro che sono stati presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio.

 

Nell'anzidetta ordinanza, la Corte sottolinea come - rispetto alla questione particolare sollevata dal Tribunale di Patti - sia pregiudiziale il vaglio di legittimità costituzionale della norma che stabilisce, in via generale, la non candidabilità a cariche elettive quando sia stato disposto, per determinati reati, il rinvio a giudizio. Il dubbio di legittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1, lettera e), della legge n. 55 del 1990 va posto in riferimento alla presunzione di non colpevolezza dell'imputato sino alla condanna definitiva, di cui all'art. 27, secondo comma, nonché agli artt. 2, 3 e 51, primo comma, della Costituzione.

 

2.2. -- Nel giudizio introdotto dall'ordinanza di questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ricordando come la non candidabilità abbia carattere cautelare; e sostenendo che non rileva il principio costituzionale di non colpevolezza, per cui la questione sarebbe infondata anche sulla base della considerazione che nell'ordinamento sussistono cause di ineleggibilità non ancorate ad alcuna presunzione, né ad alcun indizio o sospetto d'illecito, ma a semplici ragioni di opportunità o di convenienza (si richiama in proposito l'art. 10 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361).

 

2.3. -- E' stato depositato, il 22 settembre 1995, atto di intervento di Giacomo Mancini, sospeso dalla carica di Sindaco di Cosenza, ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, della legge in esame, il quale afferma di avere interesse all'esito del presente giudizio di costituzionalità, perché la decisione relativa alla non candidabilità non potrà non riflettersi sulla sospensione dei candidati eletti.

 

Nell'imminenza della camera di consiglio (il 12 gennaio 1996) è stato infine depositato, tardivamente, atto di intervento di Giancarlo Cito, anch'egli sospeso dalla carica di Sindaco di Taranto.

 

Considerato in diritto

 

1. -- Questa Corte è stata investita dal Tribunale di Patti della questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella parte in cui sancisce la non candidabilità, con conseguente nullità dell'elezione, di coloro i quali sono stati rinviati a giudizio per un delitto di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, pur potendosi configurare in concreto una condotta di detenzione di sostanze stupefacenti, per uso personale, depenalizzata ai sensi del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 (emesso a seguito di referendum abrogativo). I parametri invocati sono l'art. 3, per l'irragionevole equiparazione di situazioni diverse, e l'art. 51 della Costituzione, perché potrebbe sussistere l'ineleggibilità anche nell'ipotesi, accertabile dal giudice penale, di avvenuta depenalizzazione del fatto.

 

Viene ora all'esame la questione di legittimità costituzionale sollevata da questa Corte, in via pregiudiziale, nel corso del giudizio incidentale promosso dal Tribunale di Patti. La questione investe, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, secondo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, lo stesso art. 15, comma 1, lettera e), della citata legge n. 55 del 1990, novellata dalla legge n. 16 del 1992, nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, comunali, provinciali e circoscrizionali di coloro per i quali - in relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a) - è stato disposto il giudizio, ovvero di coloro che sono stati presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio.

 

2. -- Preliminarmente va dichiarato inammissibile sia l'atto di intervento di Giancarlo Cito, perché tardivo, sia quello di Giacomo Mancini, dal momento che, analogamente al Cito, il Mancini non era parte nel giudizio promosso con l'ordinanza emessa dal Tribunale di Patti.

 

3. -- Occorre dunque valutare la legittimità costituzionale della norma che stabilisce, in via generale, la non candidabilità a cariche elettive di coloro per i quali sia stato disposto il giudizio, con riguardo ai reati indicati.

 

La questione è fondata in base ai principi contenuti negli articoli 2, 3 e 51 della Costituzione.

 

Individuando la ratio della legge n. 16 del 1992, la quale ha profondamente modificato l'impianto della legge n. 55 del 1990, questa Corte ha riconosciuto che, nelle sue varie disposizioni, essa tutela beni di primaria importanza, minacciati dall'infiltrazione della criminalità organizzata di stampo mafioso negli enti locali: le misure eccezionali adottate tendono a salvaguardare il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, l'ordine e la sicurezza, la libera determinazione degli organi elettivi (sentenze nn. 118 del 1994, 197 del 1993 e 407 del 1992). Proprio al fine di garantire questi valori, la legge n. 16 del 1992 integra le misure interdittive, provvisorie, già previste dalla legge n. 55 del 1990 nei confronti dei titolari di organi di amministrazione attiva, e per la prima volta introduce fattispecie di non candidabilità che incidono sulla costituzione delle assemblee elettive; fattispecie che, interferendo sulla formazione della rappresentanza, devono essere sottoposte a un controllo particolarmente stringente. In tale ipotesi, infatti, la norma incide direttamente sul diritto di partecipazione alla vita pubblica, quindi sui meccanismi che danno concretezza al principio della rappresentatività democratica nel governo degli enti locali, in quanto enti esponenziali delle collettività sottostanti (cfr. sentenza n. 97 del 1991).

 

La normativa in esame prevede la non candidabilità alle elezioni comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché regionali, di coloro i quali sono stati condannati, anche con sentenza non definitiva, per alcuni delitti (ad es. associazione di tipo mafioso, di cui all'art. 416-bis del codice penale, o peculato, art. 314, concussione, art. 317, etc.), e di coloro per i quali è disposto il giudizio limitatamente ad alcuni dei delitti previsti, nella specie quelli, di notevole gravità, indicati alla lettera a) dell'art. 15 citato. La legge n. 16 interviene, dunque, anche sulla posizione dei componenti le assemblee rappresentative e di coloro che intendono concorrere alle cariche elettive, nell'esercizio del diritto di elettorato passivo.

 

Ora, tale non candidabilità va considerata come particolarissima causa di ineleggibilità (sentenza n. 407 del 1992) che il legislatore ha configurato in relazione a vicende processuali (condanna o rinvio a giudizio), e anche nel caso in cui siano adottate misure di prevenzione per indiziati di appartenenza a una delle associazioni di cui all'art. 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall'art. 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646. L'elezione di coloro che versano nelle condizioni di non candidabilità è nulla (art. 15, comma 4), senza che sia in alcun modo possibile per l'interessato rimuovere l'impedimento all'elezione, come invece è ammesso per le cause di ineleggibilità derivanti da uffici ricoperti attraverso la presentazione delle dimissioni o il collocamento in aspettativa (cfr. ancora la sentenza n. 97 del 1991).

 

La verifica di legittimità costituzionale deve effettuarsi innanzitutto alla luce del diritto di elettorato passivo, che l'art. 51 della Costituzione assicura in via generale, e che questa Corte ha ricondotto alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall'art. 2 della Costituzione (sentenze nn. 571 del 1989 e 235 del 1988). Né tale controllo può arrestarsi dinanzi all'osservazione che esiste un nesso di strumentalità tra la non candidabilità e i valori di rilievo costituzionale testé ricordati: le restrizioni del contenuto di un diritto inviolabile sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi di rango costituzionale, e ciò in base alla regola della necessarietà e della ragionevole proporzionalità di tale limitazione (sentenza n. 467 del 1991, cons. dir., n. 5; sui limiti posti a diritti inviolabili da esigenze di conservazione dell'ordine pubblico, v., fra le varie, le sentenze nn. 138 del 1985 e 102 del 1975). Qui si deve accertare se la non candidabilità sia dunque indispensabile per assicurare la salvaguardia di detti valori, se sia misura proporzionata al fine perseguito o non finisca piuttosto per alterare i meccanismi di partecipazione dei cittadini alla vita politica, delineati dal titolo IV, parte I, della Carta costituzionale, comprimendo un diritto inviolabile senza adeguata giustificazione di rilievo costituzionale.

 

Nel compiere tale verifica, non bisogna dimenticare che "l'eleggibilità è la regola, e l'ineleggibilità l'eccezione": le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono contenersi entro i limiti di quanto è necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate (v. già la sentenza n. 46 del 1969, indi la sentenza n. 166 del 1972, fino alle sentenze nn. 571 del 1989 e 344 del 1993). Considerazioni che questa Corte ha già svolto con riguardo alle cause di ineleggibilità, peraltro sempre rimovibili dall'interessato: e, perciò, si richiede che il limite sia effettivamente indispensabile.

 

4. -- Ora, la previsione della ineleggibilità, e della conseguente nullità dell'elezione, è misura che comprime, in un aspetto essenziale, le possibilità che l'ordinamento costituzionale offre al cittadino di concorrere al processo democratico. Chi è sottoposto a procedimento penale, pur godendo della presunzione di non colpevolezza ai sensi dell'art. 27, secondo comma, della Costituzione, è intanto escluso dalla tornata elettorale: un effetto irreversibile che in questo caso può essere giustificato soltanto da una sentenza di condanna irrevocabile. Questa, d'altronde, è richiesta per la limitazione del diritto di voto, ai sensi dell'art. 48 della Costituzione; sotto questo specifico profilo l'art. 51, primo comma, e l'art. 48, terzo comma, fanno sistema nel senso di precisare e circoscrivere, per quanto concerne gli effetti di vicende penali, il rinvio alla legge che l'art. 51 opera per i requisiti di accesso alle cariche elettive.

 

La sancita ineleggibilità assume i caratteri di una sanzione anticipata, mancando una sentenza di condanna irrevocabile e, nel caso di semplice rinvio a giudizio, addirittura prima che il contenuto dell'accusa sia sottoposto alla verifica dibattimentale; e inoltre, ove si guardi al rapporto tra rappresentanti e rappresentati, viene alterata - senza che ciò sia imposto dalla tutela dei beni pubblici cui è preordinata la legge in esame - quella "corretta e libera concorrenza elettorale" che questa Corte ha considerato valore costituzionale essenziale, tanto da sindacare in suo nome disposizioni con cui si statuiscono cause di ineleggibilità irragionevoli e dagli effetti sproporzionati, come nel caso dell'art. 7, primo comma, lettera a), del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, che approva il testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione alla Camera dei deputati (cfr. in tal senso, da ultimo, la sentenza n. 344 del 1993).

 

Finalità di ordine cautelare - le uniche che possono farsi valere in presenza di un procedimento penale non ancora conclusosi con una sentenza definitiva di condanna - valgono a giustificare misure interdittive provvisorie, che incidono sull'esercizio di funzioni pubbliche da parte dei titolari di uffici, e anche dei titolari di cariche elettive, ma non possono giustificare il divieto di partecipare alle elezioni.

 

L'art. 15 della legge in esame è d'altronde inficiato da interna contraddizione. Quelle stesse situazioni che - se presenti al momento dell'elezione - determinano, ai sensi del comma 1, l'ineleggibilità di coloro che vi si trovano, qualora invece sopravvengano dopo l'elezione comportano la mera sospensione dell'eletto, e non la decadenza (comma 4-bis), mentre questa consegue solo alla condanna definitiva (comma 4-quinquies). Sono dunque evidenti l'incongruenza e la sproporzione di una misura irreversibile come la non candidabilità, in forza di quei presupposti ai quali la legge attribuisce fisiologicamente - ove sopravvenuti - l'effetto meramente sospensivo. La previsione della sospensione appare adeguata a tutelare le pubbliche funzioni, mentre la non candidabilità risulta sproporzionata rispetto ai valori salvaguardati dalla legge n. 16, con particolare riguardo al buon andamento e alla libera autodeterminazione degli organi elettivi locali (sentenze nn. 118 del 1994 e 407 del 1992), sì che è illegittima anche alla luce del principio di ragionevolezza.

 

Solo una sentenza irrevocabile, nella specie, può giustificare l'esclusione dei cittadini che intendono concorrere alle cariche elettive; né vale obiettare che si tratta di elezioni amministrative, e non di quelle politiche generali, perché pure in questo caso è in gioco il principio democratico, assistito dal riconoscimento costituzionale delle autonomie locali.

 

E' assorbita la questione sollevata in riferimento all'art. 27, secondo comma, della Costituzione.

 

5. -- Le ragioni che inducono questa Corte a ritenere incostituzionale la norma sulla non candidabilità prevista dall'art. 15, comma 1, lettera e), nell'ipotesi di rinvio a giudizio, valgono allo stesso titolo con riguardo alle altre fattispecie che la legge collega a sentenze di condanna non ancora passate in giudicato o a provvedimenti giurisdizionali non definitivi che comportano l'applicazione di misure di prevenzione. Ciò sulla base del fondamento costituzionale del diritto di elettorato passivo, quale aspetto essenziale della partecipazione dei cittadini alla vita democratica, vulnerato in egual misura dalle varie ipotesi di non candidabilità, di cui all'art. 15: di modo che la declaratoria di illegittimità costituzionale della lettera e) deve essere estesa, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, alle altre fattispecie di non candidabilità, di cui all'art. 15, comma 1, lettere a), b), c), d), f), che hanno come presupposto una sentenza non ancora passata in giudicato ovvero un provvedimento applicativo di una misura di prevenzione non definitiva. Così assicurandosi, per il profilo considerato, razionalità e, insieme, coerenza interna e certezza alla disciplina elettorale.

 

Va precisato altresì che i principi sin qui affermati da questa Corte valgono anche per la disposizione di cui alla citata lettera f), che fa discendere la non candidabilità dall'applicazione di una misura di prevenzione pure quando il relativo provvedimento non abbia carattere definitivo. E' sintomatico che l'art. 2, comma 1, lettera b), del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, modificato da ultimo dalla legge 16 gennaio 1992, n. 15 - significativamente coeva alla n. 16, oggetto del presente giudizio - fa venir meno il diritto di elettorato attivo per coloro che sono sottoposti, in forza di provvedimenti definitivi, alle misure di prevenzione di cui all'art. 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come modificato dall'art. 4 della legge 3 agosto 1988, n. 327. Il citato art. 15, comma 1, lett. f), estende invece la non candidabilità a coloro nei cui confronti il tribunale ha applicato, "anche se con provvedimento non definitivo", una misura di prevenzione.

 

La declaratoria di illegittimità costituzionale non tocca la disposizione dell'art. 15, comma 4-bis, che sancisce la sospensione di diritto degli eletti per i quali sopraggiunga una delle situazioni di cui al medesimo art. 15, comma 1. Disposizione, questa, che - letta nel sistema - dovrà considerarsi applicabile anche al caso in cui tali situazioni sussistano già al momento dell'elezione, sì che una contraria interpretazione risulterebbe gravemente irragionevole e fonte di ingiustificata disparità di trattamento.

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro per i quali, in relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a), è stato disposto il giudizio, ovvero per coloro che sono stati presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio;

 

b) dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1, lettere a), b), c), d), nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, di coloro i quali siano stati condannati, per i delitti indicati, con sentenza non ancora passata in giudicato;

 

c) dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, l'illegittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1, lettera f), nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro nei cui confronti il tribunale ha applicato una misura di prevenzione quando il relativo provvedimento non abbia carattere definitivo.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1996.

 

 


 

Sentenza n. 364 del 30 ottobre 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori: Presidente Avv. Mauro FERRI, Giudici Prof. Luigi MENGONI giudice Prof. Enzo CHELI, Dott. Renato GRANATA, Prof. Giuliano VASSALLI, Prof. Francesco GUIZZI, Prof. Cesare MIRABELLI, Prof. Fernando SANTOSUOSSO, Avv. Massimo VARI, Dott. Cesare RUPERTO, Dott. Riccardo CHIEPPA, Prof. Gustavo ZAGREBELSKY, Prof. Valerio ONIDA, Prof. Carlo MEZZANOTTE

 

ha pronunciato la seguente

 

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera a), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), promossi con ordinanze emesse: 1) il 18 aprile 1995 dalla Corte d'appello di Catanzaro sui ricorsi, riuniti, proposti da Parrotta Domenico contro il Presidente del Consiglio comunale di Pietrapaola ed altro e dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Rossano contro Parrotta Domenico ed altri, iscritta al n. 395 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1995; 2) il 27 giugno 1995 dalla Corte d'appello di Catanzaro sul ricorso proposto da Rocchetti Saverio contro il Prefetto di Cosenza, iscritta al n. 614 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.42, prima serie speciale, dell'anno 1995.

 

Visto l'atto di costituzione di Rocchetti Saverio, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 14 maggio 1996 il Giudice relatore Francesco Guizzi;

 

uditi l'avvocato Luigi Monterossi per Rocchetti Saverio e l'avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.1. -- La Corte d'appello di Catanzaro, investita dei ricorsi proposti da Domenico Parrotta e dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rossano avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale civile di Rossano il 17 gennaio 1995, nella causa elettorale fra lo stesso Parrotta, Giuseppe Vitale e il Presidente del Consiglio comunale di Pietrapaola, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera a), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), nella parte in cui prevede la non candidabilità di coloro i quali hanno riportato condanna per delitto concernente <l'uso o il trasporto di armi, munizioni o materie esplodenti>.

 

La Corte rimettente si duole dell'assoluta genericità di tale inciso, suscettibile di diversa interpretazione, mentre la giurisprudenza costituzionale richiede che le cause di ineleggibilità siano tipizzate dalla legge, con precisione, al fine di evitare situazioni di incertezza e contestazioni troppo frequenti. In questo caso, prosegue il Collegio, la formulazione della lettera a) non consente di individuare univocamente le fattispecie di reato per le quali il legislatore ha inteso porre la causa di ineleggibilità: l'espressione <uso di armi>, infatti, non equivale a quella di porto e detenzione, dal momento che usare l'arma e' cosa diversa dal detenerla o trasportarla.

 

Volendo seguire un'interpretazione restrittiva della norma, sarebbe eleggibile chi abbia riportato condanna per il grave reato di porto abusivo di arma da guerra (art. 4 della legge 2 ottobre 1967, n. 895, come sostituito dalla legge 14 ottobre 1974, n. 497: la pena e' fino a dieci anni di reclusione), mentre sarebbe ineleggibile il condannato per il più lieve delitto del semplice trasporto di armi (art. 18 della legge 18 aprile 1975, n. 110: la pena e' fino a un anno di reclusione). Secondo l'interpretazione estensiva, sarebbero invece accomunate ipotesi di ben diversa rilevanza: e, così, insieme con il condannato per gravi reati di porto e detenzione di armi, munizioni, esplosivi, congegni di guerra, sarebbe ineleggibile l'incauto erede che non abbia provveduto a denunciare nuovamente l'arma del suo dante causa.

 

1.2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo nel senso della infondatezza. In memoria, l'Avvocatura osserva che la nozione uso dell'arma, per quanto possa sembrare atecnica, non e' circoscritta all'impiego direttamente finalizzato all'offesa, ma ricomprende, almeno, il porto dell'arma stessa. A tal proposito, richiama l'art. 42 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, secondo cui il porto dell'arma e' soggetto alla verifica del dimostrato bisogno;

 

e menziona l'art. 74 del regolamento di esecuzione, ove si prevede che l'andare armati di determinati soggetti e' disposto nell'interesse pubblico. Il portare l'arma o l'andare armati sono attività che realizzano, dunque, un uso giuridicamente significativo. Ne' e' dubbio che costituisce abuso anche il porto dell'arma in una riunione pubblica (vietato dall'art. 4 della legge n. 110 del 1975) o l'omessa custodia della stessa (art.20- bis di detta legge). Il porto dell'arma senza licenza, che pure e' autonomo reato, può inoltre essere valutato come abuso ai fini del divieto di detenzione di cui all'art. 39 del citato testo unico.

 

L'Avvocatura sottolinea, infine, come il legislatore abbia utilizzato termini ampi che - evitando la specifica indicazione di titoli di reato - sono idonei a ricomprenderli tutti, in un settore dove e' necessaria la massima trasparenza.

 

2.1. -- La Corte d'appello di Catanzaro, investita del ricorso proposto da Saverio Rocchetti, avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale civile di Paola il 21 febbraio 1995, nella causa elettorale tra il Prefetto di Cosenza e il Rocchetti, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della stessa disposizione, con argomenti identici a quelli della precedente ordinanza.

 

2.2. -- Anche in questo giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo nel senso della non fondatezza.

 

2.3. -- Si e' costituito Saverio Rocchetti, ricorrente in appello avverso la sentenza emessa il 21 febbraio 1995 dal Tribunale civile di Paola, sostenendo l'illegittimità costituzionale della norma e rilevando come non sia possibile l'equiparazione o l'assimilazione del reato di porto illegale a quello di uso illegale di armi o del trasporto illegale.

 

In memoria, egli insiste sulla fondatezza della questione di legittimità costituzionale (e, comunque, sulla necessità di un'interpretazione adeguatrice della norma denunciata), sottolineando come il delitto di porto illegale di armi configuri una fattispecie criminosa autonoma, che non ha alcun rapporto con i delitti ricompresi nell'art. 15, comma 1, lettera a), della citata legge n. 55 del 1990; mentre il trasporto illegale, regolato dall'art. 18 della legge n. 110 del 1975, e' delitto che ben s'inquadra nell'elenco di cui alla lettera a), perchè rivela una particolare capacità criminale del suo autore, costituendo l'ultimo anello del commercio illegale di armi. D'altra parte, nella relazione della prima commissione del Senato sul disegno di legge n. 3021, poi divenuto legge n. 16 del 1992, si indicano soltanto i delitti concernenti la fabbricazione, l'importazione, l'esportazione e il commercio di armi (e i reati connessi al traffico di stupefacenti e di armi) e non si fa menzione del porto e della detenzione, sì che si dovrebbero escludere dall'elenco di cui alla lettera a) i reati di porto illegale e di detenzione abusiva.

 

Considerato in diritto

 

1. -- E' al vaglio di legittimità costituzionale la questione, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, dell'art. 15, comma 1, lettera a), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n.

 

16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), nella parte in cui stabilisce la non candidabilità di coloro i quali hanno riportato condanna per un delitto concernente l'uso o il trasporto di armi, munizioni o materie esplodenti, sotto il profilo che tale disposizione introduce una causa di ineleggibilità priva dei necessari requisiti di precisione e determinatezza.

 

Dopo la sentenza n. 141 del 1996 di questa Corte, la citata lettera a) vige solo nella parte in cui prevede la non candidabilità a seguito di condanna irrevocabile, come e' avvenuto nei casi in esame.

 

Il Parrotta (ord. n. 395/95) e' stato infatti condannato - con sentenza del Tribunale di Rossano del 2 dicembre 1987, divenuta irrevocabile il 2 gennaio 1988 - per il delitto di cui agli artt. 12 e 14 della legge n. 497 del 1974 per aver illegalmente portato in luogo pubblico un fucile da caccia; il Consiglio comunale di Pietrapaola ha quindi revocato, ai sensi del comma 4 dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990, novellato dalla legge n. 16 del 1992, la convalida dell'elezione, e contro tale delibera il Parrotta ha presentato ricorso ai sensi degli artt. 9-bis e 82 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, proponendo poi appello avverso la sentenza del Tribunale di Rossano del 17 gennaio 1995, di rigetto del ricorso stesso; in tale giudizio e' stata sollevata la presente questione di legittimità costituzionale.

 

Analoga la vicenda processuale del Rocchetti (ord.n.614/95), condannato dal Tribunale di Paola con sentenza del 5 novembre 1980, irrevocabile il 20 dicembre 1980, per il delitto di cui agli artt.12 e 14 della legge n. 497 del 1974. Il Tribunale di Paola, investito del ricorso del prefetto di Cosenza ex art. 82 del d.P.R. n. 570 del 1960, dichiarava l'ineleggibilità del Rocchetti; quest'ultimo ricorreva innanzi alla Corte d'appello di Catanzaro, che ha sollevato, anche in questo procedimento, questione di legittimità costituzionale dell'art.15, comma 1, lettera a).

 

I due giudizi hanno a oggetto la medesima norma e vanno pertanto decisi con unica sentenza.

 

2. -- La questione sollevata da entrambi i Collegi non e' fondata.

 

La lettera a) citata, nella formulazione che risulta dopo la declaratoria parziale di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 141 del 1996, stabilisce la non candidabilità di coloro i quali hanno riportato condanna, passata in giudicato, per il delitto previsto dall'art. 416-bis del codice penale, per quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti e anche per i delitti concernenti la fabbricazione, l'importazione, l'esportazione, la vendita o cessione, l'uso o il trasporto di armi, munizioni o materie esplodenti.

 

Secondo il Collegio rimettente l'ampia formulazione della norma ricomprende fattispecie di ben diverso allarme sociale, consentendo oscillazioni giurisprudenziali inammissibili, perchè incidono sull'esercizio del diritto di elettorato passivo.

 

Non vi e' dubbio che le cause di ineleggibilità devono essere tipizzate dalla legge con sufficiente precisione, al fine di evitare - o quanto meno limitare - le situazioni di incertezza. E invero la disposizione denunciata, nella parte finale concernente l'uso e il trasporto di armi, può far sorgere qualche perplessità: sì che sarebbe stato consigliabile evitare il ricorso a formule legislative descrittive di più fattispecie, richiamando invece puntualmente i singoli delitti, in modo da rendere più agevole il lavoro dell'interprete e degli operatori giudiziari, e da salvaguardare il bene essenziale della chiarezza normativa.

 

Ma tali rilievi non si tramutano, di per se', in vizi di legittimità costituzionale: eventuali dubbi interpretativi potranno essere superati dall'elaborazione giurisprudenziale.

 

Spetta infatti al giudice, utilizzando i comuni canoni ermeneutici, precisare le formule normative prima indicate, dando a esse un contorno più netto (cfr., sempre sulle cause di ineleggibilità, la sentenza n. 280 del 1992), conformemente al principio costituzionale che assume a regola l'eleggibilità, e configura l'ineleggibilità quale eccezione. Le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono contenersi nei limiti di quanto e' necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate (v. la sentenza n.46 del 1969, indi la sentenza n. 166 del 1972, fino alle sentenze nn.571 del 1989, 344 del 1993, 141 del 1996). Soccorrono, d'altronde, anche i lavori preparatori nel senso di un'interpretazione rigorosa della norma denunciata.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera a), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art.1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Catanzaro, con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17/10/96.

 

Mauro FERRI, Presidente

 

Francesco GUIZZI, Giudice relatore

 

Depositata in cancelleria il 30/10/96.

 

 


 

Sentenza n. 132 del 15 maggio 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori: Fernando SANTOSUOSSO Presidente, Massimo VARI Giudice, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, lettera c, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall’art. 1 della legge 13 dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all'articolo 15 della L. 19 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni), promosso con ordinanza emessa il 12 settembre 2000 dalla Corte di appello di L’Aquila, iscritta al n. 731 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2000.

 

Visti gli atti di costituzione di Salini Rocco e di Coletti Tommaso ed altri nonchè l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell’udienza pubblica del 3 aprile 2001 il Giudice relatore Valerio Onida;

 

uditi gli avvocati Franco G. Scoca, Adriano Rossi e Vincenzo Camerini per Salini Rocco, Federico Sorrentino e Giampaolo Rossi per Coletti Tommaso ed altri e l’avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. – Nel corso di un giudizio d’appello avverso una pronuncia del Tribunale che aveva dichiarato ineleggibile un consigliere regionale dell’Abruzzo, in quanto colpito da condanna definitiva, sia pure con pena condizionalmente sospesa, alla reclusione per oltre sei mesi per un delitto commesso con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, la Corte d’appello di L’Aquila, con ordinanza emessa il 12 settembre 2000, pervenuta a questa Corte il 6 novembre 2000, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, primo e secondo comma, 27, terzo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, dell’art. 15, comma 1, lettera c, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall’art. 1 della legge 13 dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all'articolo 15 della L. 19 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni), nella parte in cui "non prevede l’estensione all’ipotesi di ineleggibilità di cui al predetto articolo degli effetti di cui all’art. 166, primo comma, cod. pen. e non prevede limiti temporali ragionevolmente proporzionati all’entità della pena".

 

La Corte remittente rileva che la disposizione dettata dall’art. 15, comma 1, della legge n. 55 del 1990, che, alla lettera c, stabilisce che non possono essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, e dunque sono ineleggibili, coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva alla pena della reclusione superiore a sei mesi per delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, é interpretata dalla Corte di cassazione nel senso che essa prevede non già una pena accessoria, ma un effetto extra-penale della condanna: pertanto, mentre l’ineleggibilità conseguente alla irrogazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici non opera allorquando la pena sia stata condizionalmente sospesa (art. 166, primo comma, del codice penale), invece l’ineleggibilità derivante come effetto extra-penale della condanna, in forza della norma denunciata, opera anche quando la pena sia stata sospesa. Secondo il giudice a quo, trattandosi di situazioni sostanzialmente identiche, si verificherebbe, in primo luogo, una disparità ingiustificata e irragionevole, non conforme al principio di cui all’art. 3 della Costituzione, fra le due ipotesi: non vi sarebbe ragione perchè il beneficio della sospensione condizionale della pena determini effetti diversi in relazione a situazioni contraddistinte legislativamente da una comune caratteristica, perchè comportanti entrambe la perdita del diritto alla eleggibilità.

 

In secondo luogo, si verificherebbe una violazione del diritto di elettorato passivo, garantito dall’art. 51, primo comma, della Costituzione, diritto che potrebbe essere eccezionalmente limitato solo a tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti, "quali quelli propri dell’intera collettività nazionale e strettamente collegati a valori costituzionali di primario rilievo come la difesa dell’ordine e della sicurezza pubblica".

 

A tali profili di illegittimità costituzionale, prospettati dall'appellante e fatti propri dalla Corte remittente, questa aggiunge, d’ufficio, un profilo ulteriore, affermando che si verificherebbe un pregiudizio assoluto del recupero sociale del condannato, e quindi una violazione dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto non sarebbe ipotizzabile per il condannato un "procedimento di riabilitazione e di riscatto" dall’effetto extra-penale derivante dalla norma impugnata, possibilità riconosciuta invece per le pene principali ed accessorie, pur aventi più pregnante carattere afflittivo.

 

Infine, secondo il giudice a quo, si verificherebbe una irragionevole sproporzione rispetto ai soggetti condannati alle pene accessorie temporanee, per reati anche più gravi, per la mancata previsione di una limitazione temporale all’effetto extra-penale in questione: ciò comporterebbe la violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzione di cui all’art. 3 della Costituzione.

 

2. – Si é costituito l’appellante nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione ovvero, in subordine, una pronuncia interpretativa di rigetto che fornisca una lettura "costituzionalmente orientata" della norma denunciata, nel senso che l’ineleggibilità in discorso sia da considerarsi pena accessoria, come tale non operante quando sia stata concessa la sospensione condizionale della pena.

 

Mentre per un verso la parte condivide interamente le censure mosse dall'ordinanza di rimessione, per altro verso osserva che l'autorità remittente non avrebbe cercato di dare alla norma impugnata una interpretazione conforme alla Costituzione. Alla luce dell'art. 28 del codice penale, secondo cui la legge determina i casi in cui l'interdizione dai pubblici uffici é limitata ad alcuni di essi, la norma censurata potrebbe essere intesa nel senso di sancire, in via esaustiva, una pena accessoria limitata alla sola ineleggibilità ivi disposta. Non si comprenderebbe, secondo la parte, come la stessa deminutio, prevista dalla norma in esame e dall'art. 28, secondo comma, numero 1, del codice penale come conseguenza di una sentenza penale di condanna, possa atteggiarsi diversamente sul piano della natura dell'istituto. Interpretando la norma in questione nel senso proposto, si eviterebbe la conseguenza aberrante di concludere che i condannati, per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, ad una pena superiore a sei mesi di reclusione soggiacciano a due contestuali forme di ineleggibilità, una ai sensi della norma impugnata, l'altra ai sensi dell'art. 31 del codice penale, soggette a regimi diversi quanto agli effetti della sospensione condizionale della pena.

 

L'esclusione dal beneficio, nel caso della norma denunciata, non sarebbe in alcun modo giustificata dalla tutela di altri interessi di rango costituzionale: questi ultimi sarebbero ritenuti già protetti all’esito della prognosi, favorevole, compiuta dal giudice penale in sede di concessione della sospensione condizionale.

 

Considerando il fatto che la norma impugnata é successiva all'art. 31 del codice penale, la parte sostiene che essa modifichi parzialmente tale articolo, nel senso di escludere l'operatività della ineleggibilità come aspetto della interdizione dai pubblici uffici, comminata per i delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, nel caso di condanna a pena della reclusione inferiore a sei mesi.

 

Il carattere di pena accessoria della ineleggibilità in questione sarebbe confermato, secondo la parte, dal comma 4-sexies dello stesso art. 15 della legge n. 55 del 1990, secondo cui l'ineleggibilità non si applica quando sia concessa la riabilitazione. Poichè quest'ultima estingue, ai sensi dell'art. 178 del codice penale, "le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna", se ne desumerebbe che detta ineleggibilità sia configurata come effetto penale della condanna, e in particolare come pena accessoria.

 

La parte svolge infine alcune considerazioni sul testo dell'art. 122 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, a tenore del quale i casi di ineleggibilità dei consiglieri regionali sono determinati con legge regionale nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, sostenendo che esso dovrebbe intendersi nel senso che le ipotesi di ineleggibilità disciplinabili con legge regionale sarebbero solo quelle che non trovano il proprio presupposto in una sentenza penale di condanna, e pertanto non hanno natura di pena accessoria: in caso contrario si avrebbero regimi penalistici differenziati dell'esercizio del diritto fondamentale di elettorato passivo.

 

3. – Si sono costituiti altresì gli appellati nel giudizio a quo, concludendo per l'infondatezza della questione. In un atto successivamente depositato, le parti sostengono che la norma denunciata, contenuta in una legge intesa a combattere le infiltrazioni criminali nelle amministrazioni locali e a ridare credibilità alla rappresentanza politico-amministrativa, contiene una disciplina volta a contemperare il diritto di elettorato passivo con il diritto-dovere dello Stato di difendere i cittadini da possibili infiltrazioni di criminalità. Richiamando diverse decisioni di questa Corte, la parte afferma che si tratta di norma posta a tutela di interessi della collettività connessi a valori costituzionali di primario rilievo, in quanto strettamente collegati alla difesa dell'ordine e della sicurezza pubblica: il che varrebbe anche ad escludere la lamentata violazione dell'art. 51 della Costituzione.

 

In questo caso, la condanna penale sarebbe assunta come mero presupposto oggettivo cui si ricollega un giudizio di indegnità morale rispetto a determinate cariche elettive. La ineleggibilità sancita non avrebbe natura sanzionatoria, ma rappresenterebbe la conseguenza del venir meno di un requisito ritenuto essenziale per ricoprire l'ufficio pubblico. Perciò, anche le cause estintive della condanna o la riabilitazione in ambito penale potrebbero comportare effetti su tale ineleggibilità solo se lo preveda espressamente la legge speciale che la disciplina, come fa appunto l'art. 15, comma 4-sexies, della legge n. 55 del 1990 allorquando stabilisce che la riabilitazione fa venir meno la ineleggibilità.

 

Sarebbero dunque da escludere, secondo le parti, i sospetti di irragionevole disparità di trattamento, in ragione della diversa natura e delle differenti finalità degli istituti posti a confronto.

 

4. – E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.

 

L'Avvocatura erariale esclude che si possa ravvisare una identità di situazioni fra l'ipotesi di ineleggibilità considerata e quella derivante dalla applicazione della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici. Esse si porrebbero invece in termini di necessaria complementarietà per una sola, circoscritta categoria di destinatari, cioé per i soggetti che intendano candidarsi alle elezioni amministrative o aspirino a cariche amministrative in ambito locale. Ciò varrebbe ad escludere la dedotta violazione degli artt. 3 e 27 della Costituzione.

 

Quanto all'art. 51 della Costituzione, la difesa del Presidente del Consiglio sostiene che il pubblico interesse cui la disposizione denunciata sacrifica il diritto di elettorato passivo riflette valori di primario rilievo a tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti, così che si giustificherebbe la eccezionale limitazione di quel diritto. I delitti contemplati dall'art. 15 della legge n. 55 del 1990 costituirebbero, secondo il legislatore, espressione sintomatica di una personalità che esclude nel reo l'idoneità a ricoprire determinate cariche elettive. Tale scelta, ad avviso dell'Avvocatura erariale, non sarebbe priva di una coerente e logica razionalità, e non configurerebbe una reazione sproporzionata dell'ordinamento.

 

5. – Nell'imminenza dell'udienza, hanno depositato memoria gli appellati nel giudizio a quo, illustrando i motivi per i quali l’ineleggibilità prevista dalla norma denunciata non sarebbe assimilabile ad una pena accessoria.

 

Oltre a non essere espressamente qualificata come tale, infatti, essa troverebbe la sua giustificazione logico-giuridica in ambito extra-penale, nella valutazione astratta, compiuta dal legislatore, che il fatto storico di una determinata condanna penale faccia venir meno l’onorabilità che deve distinguere l’aspirante a determinate cariche pubbliche elettive. L’equiparazione alla condanna della pronuncia giudiziale di applicazione della pena su richiesta delle parti, stabilita dal comma 1-bis dell’art. 15 della legge n. 55 del 1990, poi, avvalorerebbe ulteriormente quanto sostenuto, perchè se la ineleggibilità in esame fosse una pena accessoria la sua applicazione, a norma dell’art. 445 del codice di procedura penale, non sarebbe consentita.

 

In ordine alla dedotta violazione dell’art. 27 della Costituzione, le parti osservano fra l’altro che, per espressa previsione del comma 4-sexies dell’art. 15 della legge n. 55 del 1990, la riabilitazione esclude l’ineleggibilità in discorso, prevista dal comma 1, lettera c, del medesimo articolo.

 

Considerato in diritto

 

1. – La questione sollevata investe l'art. 15, comma 1, lettera c, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 13 dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all'articolo 15 della L. 19 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni), a tenore del quale non possono candidarsi alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali coloro che siano stati condannati, con sentenza definitiva, alla pena della reclusione complessivamente superiore a sei mesi per uno o più delitti – diversi da quelli contemplati dalla precedente lettera b (delitti nominati a cui, in caso di condanna definitiva, a sua volta consegue il divieto di candidarsi alle elezioni regionali e amministrative) – commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio. La norma é impugnata nella parte in cui non prevede che a detta ipotesi di ineleggibilità - costituente, secondo l'interpretazione affermata dalla Corte di cassazione, un effetto extra-penale della condanna, come tale operante anche in caso di sospensione condizionale della pena - si applichi la disciplina dell'art. 166, primo comma, del codice penale, secondo cui la sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie; nonchè nella parte in cui non prevede "limiti temporali ragionevolmente proporzionati all'entità della pena". Essa sarebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto prevederebbe un trattamento ingiustificatamente diverso della ipotesi di ineleggibilità ivi contemplata rispetto a quella, identica negli effetti, che discenderebbe dalla applicazione della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, che non opera in caso di sospensione condizionale; con l'art. 51, primo comma, della Costituzione, in quanto limiterebbe il diritto di accesso alle cariche elettive senza una ragione costituzionalmente fondata; con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto l'effetto da essa sancito, a differenza delle pene principali ed accessorie, pur aventi più pregnante carattere afflittivo, escluderebbe la possibilità "di riabilitazione e di riscatto", con ciò pregiudicando il recupero sociale del condannato; infine, ancora una volta, con l'art. 3 della Costituzione, in quanto, mancando una limitazione temporale dell'effetto in questione, vi sarebbe una irragionevole sproporzione rispetto al trattamento dei soggetti condannati alle pene accessorie temporanee per reati anche più gravi.

 

2. – La questione non é fondata.

 

La Corte remittente non contesta la norma sotto il profilo della adeguatezza dell'impedimento all'assunzione di determinate cariche elettive, ivi stabilito, rispetto alla natura e alla gravità dei reati in essa contemplati, bensì sotto due più limitati profili, concernenti, da un lato, la mancata estensione a tale ipotesi di ineleggibilità degli effetti della sospensione condizionale, che si estende invece alla pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici; dall'altro lato, l'asserita assenza di limitazioni temporali all'ineleggibilità in questione, che comporterebbe a sua volta una ingiustificata sproporzione rispetto agli effetti della interdizione temporanea dai pubblici uffici, comminata per reati anche più gravi di quelli contemplati dalla norma denunciata.

 

In sostanza, il giudice a quo lamenta le conseguenze, a suo avviso incostituzionali, discendenti dal fatto che l'ipotesi di ineleggibilità sancita dalla norma in questione si atteggia come effetto, sul piano amministrativo, della condanna penale intervenuta, anzichè come pena accessoria alla stregua della interdizione dai pubblici uffici, che dà anch'essa luogo ad ineleggibilità (fra le altre) alle stesse cariche; onde non segue il regime di quest'ultima, in particolare per quanto concerne la sospensione condizionale e la durata nel tempo.

 

In realtà non sussiste la identità od omogeneità di situazioni, alla quale si collegherebbe l'irragionevolezza del diverso trattamento delle due ipotesi. Le fattispecie di "incandidabilità", e quindi di ineleggibilità, previste dall'art. 15 della legge n. 55 del 1990, e successive modificazioni, si collocano su un piano diverso, quanto a ratio giustificativa, rispetto a quello delle pene, principali ed accessorie. Esse non rappresentano un aspetto del trattamento sanzionatorio penale derivante dalla commissione del reato, e nemmeno una autonoma sanzione collegata al reato medesimo, ma piuttosto l'espressione del venir meno di un requisito soggettivo per l'accesso alle cariche considerate (cfr. sentenze nn. 118 e 295 del 1994), stabilito, nell'esercizio della sua discrezionalità, dal legislatore, al quale l'art. 51, primo comma, della Costituzione, demanda appunto il potere di fissare "i requisiti" in base ai quali i cittadini possono accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza.

 

Ciò é tanto vero che, secondo l'originaria scelta legislativa, l'ineleggibilità in questione si collegava a condanne anche non definitive, e perfino, in alcuni casi, al semplice rinvio a giudizio (art. 15 della legge n. 55 del 1990, come modificato dall'art. 1 della legge n. 16 del 1992). Questa Corte, con la sentenza n. 141 del 1996, giudicò costituzionalmente illegittime, per violazione dell'art. 51 della Costituzione, dette ipotesi, ma limitò la dichiarazione di illegittimità – pur estesa, ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, a norme ulteriori rispetto a quelle allora denunciate – alle fattispecie di non candidabilità che avevano come presupposto il solo rinvio a giudizio o una sentenza di condanna non ancora passata in giudicato o un provvedimento applicativo di una misura di prevenzione non definitiva: nell'implicito presupposto che, invece, non fosse illegittima l'esclusione della eleggibilità a seguito di condanna definitiva, secondo quanto, del resto, si ricava anche dall'art. 48, quarto comma, della Costituzione, che ammette possa farsi discendere da una condanna penale la perdita dell'elettorato attivo, e dunque anche di quello passivo.

 

A seguito di tale pronuncia il legislatore, con l'art. 1 della legge n. 475 del 1999, ha riformulato le ipotesi di "incandidabilità" già previste dall'art. 15 della legge n. 55 del 1990, limitandole ai casi di condanna definitiva o di applicazione, con provvedimento definitivo, di una misura di prevenzione, ma senza mutarne l'originario carattere di requisito negativo per l'accesso alle cariche.

 

In questi casi la condanna penale definitiva, al di là degli effetti penali ad essa propri, che seguono il regime per essi previsto dalla legge, costituisce presupposto oggettivo dell'operatività di un effetto ulteriore: in una logica che non é più quella del trattamento penale dell'illecito commesso, ma piuttosto quella della determinazione di condizioni – nella specie, l’avvenuto accertamento definitivo della commissione di un delitto – che non consentono, a giudizio del legislatore, e in vista di esigenze attinenti alle cariche elettive e all'esercizio delle relative funzioni, l'accesso alle medesime cariche. A conferma di ciò, si può osservare anche che lo stesso art. 15, al comma 4-sexies, stabilisce che l’ineleggibilità non si applica se é concessa la riabilitazione. Tale statuizione sarebbe superflua, se si trattasse di un effetto penale, destinato di per sè ad estinguersi con la riabilitazione (art. 178 cod. pen.): mentre essa vale ad estendere l’effetto di rimozione, derivante dalla riabilitazione, al di fuori dell’ambito degli effetti penali della condanna, e precisamente a questa particolare causa di ineleggibilità.

 

E’ dunque bensì possibile, astrattamente, sindacare la legittimità costituzionale della norma impugnata alla luce dei principi costituzionali, in specie di quelli ricavabili dall’art. 51 della Costituzione (profilo, a sua volta sollevato dalla Corte remittente, del quale si dirà più avanti): ma non può invocarsi semplicemente, come ragione di incostituzionalità, la diversità di regime tra l'ineleggibilità sancita a tale titolo e quella che possa costituire il contenuto di una pena accessoria irrogata con la condanna per un determinato reato.

 

3. – Per le stesse ragioni, non può dirsi che la norma denunciata sia in contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione. L'ineleggibilità da essa sancita non ha a che fare, come si é detto, con il trattamento penale o con le conseguenze penali dei reati, ma attiene alla definizione dei requisiti di accesso alle cariche elettive: onde non può venire in considerazione il principio di rieducatività della pena. Ciò, anche a prescindere dal rilievo che la Corte remittente erra là dove sembra ritenere che l'effetto derivante dalla condanna, in questo caso, si sottragga ad ogni possibilità di rimozione: infatti, come si é ricordato, l’art. 15, comma 4-sexies, della legge n. 55 del 1990 prevede espressamente che la causa di ineleggibilità discendente dalla norma impugnata venga meno per effetto della riabilitazione.

 

4. – La Corte remittente evoca bensì anche il parametro dell'art. 51, primo comma, della Costituzione, nell'affermare genericamente, recependo le censure avanzate dall'appellante, che il diritto di accesso alle cariche elettive può essere limitato solo eccezionalmente, a tutela di interessi di primario rilievo costituzionale: ma non articola la censura motivando le ragioni per le quali l'ineleggibilità – in quanto effetto non soggetto al regime delle pene accessorie – non risponderebbe a interessi costituzionalmente rilevanti, atti a giustificare la scelta legislativa.

 

Al contrario, questa Corte ha ripetutamente affermato che le norme dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990 perseguono finalità di salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, di tutela della libera determinazione degli organi elettivi, di buon andamento e trasparenza delle amministrazioni pubbliche (sentenze n. 407 del 1992, nn. 197, 218 e 288 del 1993, nn. 118 e 295 del 1994, n. 141 del 1996), finalità, queste, "di indubbio rilievo costituzionale" (sentenza n. 197 del 1993), connesse "a valori costituzionali di rilevanza primaria" (sentenza n. 218 del 1993). Nè la Corte remittente offre specifiche argomentazioni idonee a dimostrare che, con riguardo alla ipotesi da essa considerata, non sussisterebbero interessi di rilievo costituzionale che valgano a giustificare la scelta legislativa di collegare l'ineleggibilità alla sussistenza di una condanna, passata in giudicato, ad oltre sei mesi di reclusione per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione.

 

5. – Non é fondata nemmeno l'ultima censura mossa dalla Corte remittente, secondo cui l'assenza di una limitazione temporale alla ineleggibilità in questione darebbe luogo ad una conseguenza irragionevolmente sproporzionata, contraria all'art. 3 della Costituzione, rispetto ai soggetti condannati alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici, anche per reati più gravi di quelli contemplati dalla norma denunciata.

 

Da un lato, infatti, si deve ribadire la diversità del piano su cui si muove la ineleggibilità sancita da quest'ultima norma, rispetto agli analoghi effetti derivanti dalle pene accessorie irrogate con la condanna per certi reati. Dall'altro lato, non é esatto che l'ineleggibilità di cui si discute non conosca limiti temporali: si é già richiamata la previsione dell’art. 15, comma 4-sexies, della legge n. 55 del 1990, a norma del quale essa cessa di operare ove intervenga la riabilitazione ai sensi dell’art. 178 del codice penale; e la riabilitazione può intervenire, di norma, quando siano decorsi cinque anni dal giorno in cui la pena principale si sia estinta (art. 179, primo comma, del codice penale). In tal modo si rende possibile evitare che l'esclusione dall'elettorato passivo, derivante dalla condanna definitiva, abbia una durata illimitata e si sottragga ad ogni possibilità di rimozione.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera c, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato, da ultimo, dall'art. 1 della legge 13 dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all'articolo 15 della L. 19 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni), sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo e secondo comma, 27, terzo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di L'Aquila con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2001.

 

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

 

Valerio ONIDA, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 15 maggio 2001.

 

 

 


Corte Suprema di Cassazione

 


 

Cassazione, Sezioni - unite civili Sentenza 9 novembre 2001 - 22 gennaio 2002, n. 717

 

 

Svolgimento del processo

1. - La seconda sottocommissione elettorale circondariale di Patti, essendo state indette per il 24 maggio 1998 le elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di S. Marco D'Alunzio, nella seduta del 30 aprile 1998 approvava la lista per l'elezione dei candidati alla carica di consigliere denominata Movimento per San Marco.

 

Ne eliminava però il nome di Amedeo Basilio Arcodia.

 

L'eliminazione veniva disposta in base all'art. 18, primo comma, lett. b), del Testo Unico delle leggi per la elezione dei consigli comunali nella Regione Siciliana approvato con d. Pres. Reg. Sicilia 20 agosto 1960, n. 3, ed in applicazione dell'art. 15, primo comma, lett. c), della L. 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1 della L. 18 gennaio 1992, n. 16.

 

Ciò sul presupposto che tale ultima norma fosse applicabile nel caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta, emessa in relazione ad una imputazione per i reati di abuso di ufficio e turbata libertà degli incanti (art. 323, secondo comma, cod. pen. e art. 353 cod. pen. ) e divenuta definitiva.

 

Questi fatti erano accertati dalla sottocommissione a seguito di opposizione proposta da Alfredo Monici e Salvatore Cinnera, rispettivamente delegato e candidato a consigliere in altra lista.

 

2. - Amedeo Basilio Arcodia ha proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia sezione di Catania.

 

3. - Alfredo Monici e Salvatore Cinnera, già intervenuti nel giudizio davanti al Tribunale amministrativo, hanno presentato ricorso per regolamento di giurisdizione, chiedendo che le sezioni unite risolvano la questione affermando la giurisdizione del giudice ordinario.

 

4. - Il pubblico ministero, nelle richieste presentate per iscritto, ha concluso nello stesso senso.

 

 

 

Motivi della decisione

 

1. - La giurisdizione in materia di contenzioso elettorale amministrativo è distribuita tra giudice ordinario e giudice amministrativo in base al criterio per cui appartiene al primo conoscere delle questioni che attengono alla eleggibilità (art. 1, L. 23 dicembre 1966, n. 1147), mentre spetta al secondo conoscere dei ricorsi in materia di operazioni elettorali (art. 6, L. 6 dicembre 1971, n. 1034).

 

Le Sezioni Unite, nella sentenza 10 marzo 1992 n. 2854, hanno affermato che, pur insorta in seguito ad operazione elettorale e perciò nel procedimento elettorale preparatorio, la controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, se ha ad oggetto il diritto a prendere parte al procedimento come candidato e non la regolarità dell'operazione.

 

2. - Il caso sottoposto all'esame della Corte ricade sotto il principio appena richiamato.

 

L'art. 1 della L. 18 gennaio 1992, n. 16 (che ha modificato l'art. 15 della L. 19 marzo 1990, n. 55 ed è stato in parte dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza 6 maggio 1996 n. 141) stabilisce che non possono essere candidati alle elezioni amministrative le persone nei cui confronti è stata pronunciata condanna per determinati reati.

 

L'art. 2 della stessa legge (che ha modificato varie norme del testo unico per la composizione degli organi delle amministrazioni comunali, approvato con D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570) da un lato ha stabilito che la dichiarazione di accettazione della candidatura deve contenere l'espressa dichiarazione di non versare in alcuna delle condizioni che impediscono d'essere candidato, dall'altro ha previsto che la commissione elettorale elimina dalle liste i nomi dei candidati a carico dei quali viene accertata la sussistenza di alcuna delle condizioni ostative o per i quali la dichiarazione di accettazione della candidatura manca o è incompleta.

 

La sottocommissione elettorale circondariale di Patti ha applicato l'art. 18, primo comma, lett. b), del Testo Unico delle leggi per le elezioni comunali nella Regione Siciliana nel modo previsto dall'art. 2 della legge statale.

 

Il nome del candidato è stato eliminato dalla lista.

 

Ma ciò non perché la dichiarazione non fosse completa, bensì perché la sottocommissione ha ritenuto che la persona versasse in una condizione che le impediva di candidarsi.

 

Dunque, dalla operazione elettorale è sorta una questione che attiene alla possibilità d'essere candidato e quindi alla eleggibilità, non una questione che riguarda la legittimità in sé dell'operazione.

 

3. - La questione di giurisdizione deve essere risolta statuendo che conoscere della, controversia spetta al giudice ordinario.

 

4. - Le spese del processo, di questa fase come del giudizio davanti al T.A.R., possono essere dichiarate compensate tra le parti.

 

 

P.Q.M.

 

La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e compensa le spese dell'intero processo.

 

 

 

Così deciso il 9 novembre 2001, in Roma, nella camera di consiglio delle sezioni - unite civili della Corte di cassazione.

 

 

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 22 GENNAIO 2002

 


 

Cassazione, Sezione I civile Sentenza n. 3904 10 gennaio - 24 febbraio 2005, n. 3904

 

 

Svolgimento del processo

 

1.1 Con ricorso ex art. 70 del d.lgs. n. 267 del 2000 al Tribunale di Lagonegro, notificato il 19 settembre 2003 Francesco Antonio Belsito e Giovanni Ruggiero, cittadini elettori e consiglieri dei Comune di Castelluccio Superiore (PZ) chiesero che Mauro Martorano eletto sindaco del predetto Comune, la cui elezione era stata convalidata con deliberazione consiliare n. 12 del 9 giugno 2003 - fosse dichiarato decaduto dalla carica.

 

In proposito i ricorrenti dedussero che il Martorano versava in condizione di incompatibilità a ricoprire la carica di sindaco, ai sensi dall'art. 631 n. 4) del d.lgs. n. 267 del 2000, in quanto lo stesso aveva lite pendente con il comune di Castelluccio Superiore dinanzi al Tribunale amministrativo regionale della Basilicata; e che tale giudizio era stato promosso nei confronti del Comune dall'Ing. Antonio Tancredi - quale capogruppo del Raggruppamento temporaneo di professionisti di cui faceva parte anche il Martorano avverso il provvedimento del responsabile del servizio tecnico comunale, con il quale era stato conferito ad altri professionisti l'incarico per la redazione del progetto esecutivo, avente ad oggetto la ristrutturazione e l'ampliamento dell'impianto comunale di illuminazione pubblica.

 

Costituitosi, il Martorano - nel chiedere, tra l'altro, la reiezione del ricorso eccepì che la denunciata causa di incompatibilità doveva considerarsi tempestivamente rimossa alla data anteriore alla convalida degli eletti - dei del 5 giugno 2003 in quanto, con due distinti atti in pari data, egli aveva formalmente rinunciato al ricorso giurisdizionale, notificandolo ai controinteressati e depositandolo nella segreteria del t.a.r. il 29 settembre 2003, ed aveva comunicato all'Ing. Tancredi ed agli altri professionisti del raggruppamento temporaneo la propria volontà di recedere dal Raggruppamento medesimo.

 

Il Tribunale adito, con sentenza n. 389/03 del 22 ottobre rigettò il ricorso.

 

In particolare, il Tribunale ritenne per un verso, che l'atto di rinuncia al ricorso non era "idoneo a determinare l'estinzione del processo in quanto proviene da soggetto diverso dal capogruppo (Ing, Antonio Tancredi, unico rappresentante processuale e sostanziale del Raggruppamento e come tale unico legittimato a rinunziare al giudizio per l'altro, che doveva considerarsi decisiva ai fini della tempestiva rimozione della causa di incompatibilità, la volontà, manifestata dal Martorano e debitamente comunicata al Tancredi ed agli altri membri del Raggruppamento, di voler; recedere da esso.

 

1.2 Avverso tale sentenza, nella parte a se sfavorevole il Belsito propose appello dinanzi alla Corte di Potenza.

 

Costituitosi, il Martorano nel chiedere la reiezione del gravame e la conferma della sentenza di primo grado ribadì che la denunciata causa di incompatibilità era stata tempestivamente rimossa con l'atto di rinuncia al ricorso del 5 giugno 2003.

 

La Corte di appello di Potenza con sentenza n. 79/04 del 6 giugno 2004, rigettò il gravame e per l'effetto confermò la sentenza impugnata.

 

In particolare la Corte ha così motivato la propria decisione:

 

a) in primo luogo, i giudici di appello correggendo la motivazione in diritto della sentente di primo grado - hanno affermato l'idoneità della comunicazione del Martorano di voler recedere dal Raggruppamento temporaneo di professionisti alla rimozione della causa di incompatibilità A1) il Raggruppamento temporaneo di Professionisti si realizza attraverso un accordo di collaborazione tra due o più professionisti per lo svolgimento congiunto di una determinata attività o di un affare complesso limitatamente al periodo necessario: per il suo compimento. Trattasi di un modulo organizzativo che si rende necessario allorquando l'effettuazione di attività di progettazione dei lavori e accessoria abbiano un oggetto complesso vario ed articolato di carattere multidisciplinare.

 

La cooperazione dei soggetti raggruppati risponde pertanto, ad esigenze di carattere tecnico, ma i singoli membri del raggruppamento, pur essendo collegati e coordinati con i restanti, conservano la loro autonomia operativa senza giammai dar vita ad un organismo di tipo societario. I professionisti temporaneamente raggruppati presentano un'offerta congiunta e si obbligano congiuntamente ad eseguire la complessiva prestazione, dando mandato ad uno di essi (c.d. capogruppo) di gestire unitariamente i rapporti con il committente e di coordinare la fase operativa della prestazione. L'attenzione del legislatore si è polarizzata sui rapporti esterni tra il raggruppamento temporaneo di professionisti (parte soggettivamente complessa) e l'Amministrazione committente, mentre, per quanto attiene alla struttura organizzativa e alla disciplina dei rapporti interni al raggruppamento l'unico dato rilevante è che non si dà vita ad un nuovo soggetto distinto dai singoli membri. Pur in assenza di un'espressa disciplina legislativa, deve ritenersi consentito il recesso da detta struttura associativa di tanto da atto il primo giudice reputando non costituzionalmente orientata una lettura dell'art. 13 comma 5^ bis legge 109/94 dalla quale si voglia inferire la inscindibilità del vincolo associativo per tutta la durata dell'appalto. Ovviamente una modificazione della composizione del RTP dopo la presentazione dell'offerta operata in spregio al divieto di cui all'art. 13 comma 5^ bis legge 109/94, richiamato dal succitato art. 17 1^ comma g, non potrà che comportare le sanzioni (annullamento della aggiudicazione, nullità del contratto etc.) espressamente previste dal 6^ comma del succitato art. 13. A2) Va detto che, il Raggruppamento temporaneo involge un accordo di collaborazione tra professionisti che nel suo aspetto organizzativo lascia cogliere un fenomeno associativo, il recesso da detta struttura deve essere destinato agli altri membri della medesima (dovendosi, semmai, stabilire se il capogruppo possa o meno rappresentare i vari professionisti raggruppati nei loro rapporti interni) ma non certamente alla P.A. dinanzi alla quale il raggruppamento medesimo s'è presentato. Alla P.A. verrà dato atto all'intervenuto scioglimento del gruppo, per ogni ulteriore conseguenza indipendentemente alla ricorrenza di una vera e propria rappresentanza del singolo professionista nei rapporti con gli altri membri del gruppo, la comunicazione di recedere dal raggruppamento indirizzata al comune mandatario non può ritenersi effettuata a soggetto del tutto terzo rispetto ai sostanziali destinatari dell'atto, e ciò, anche ove si consideri - per un utile parallelismo - che, nell'ambito delle associazioni non riconosciute, la dichiarazione di recesso va comunicata agli amministratori, ai sensi dell'art. 24 2^ comma c.c. e non già a tutti i restanti associati.

 

Ma anche volendo ritenere necessario il formale indirizzo della dichiarazione di voler uscire dal raggruppamento a tutti i membri del medesimo, sta di fatto che l'atto di rinuncia al giudizio innanzi al T.A.R., portando debitamente a conoscenza anche di vari professionisti raggruppati, involge, ineludibilmente, il recesso, ove si consideri che nel detto documento il Martorano si qualifica già componente del gruppo, impegnandosi a dar corso a tutte quelle formalità, qualora necessarie. L'atto di rinuncia al giudizio amministrativo non contiene, dunque, una sorta di preavviso di recesso o anche una promessa di recesso. E' una dichiarazione che va intesa nel suo effettivo significato, vieppiù considerando che per manifestare la volontà di recedere dal gruppo non occorreva l'adozione di formule sacramentali. La fuoriuscita, in concreto, del Martorano dal R.T.P. comporta di venir meno dell'effettiva contrapposizione tra il predetto professionista ed il Comune di Castelluccio nell'ambito del giudizio instaurato dinanzi al T.A.R. del Raggruppamento nei confronti dell'Ente locale.

 

b) - in secondo luogo, i giudici a quibus hanno affermato - previa esclusione che, sulla relativa questione, si fosse formato il giudicato interno che anche la rinuncia del Martorano al giudizio promosso davanti al TAR della Basilicata integra atto idoneo a rimuovere la denunciata causa di incompatibilità di interessi "ma l'infondatezza del ricorso, come proposto in primo grado, si manifesta anche per un altro verso". B1) La questione riflettente la ritualità della rinuncia al giudizio e la sua efficienza causale in ordine alla rimozione dell'incompatibilità risulta riproposta, evidentemente ai sensi dell'art. 346 c.p.c. (norma applicabile anche al giudizio elettorale), dall'appellato che, risultato vittorioso in primo grado non aveva l'onere di interporre appello incidentale per consentire al giudice del gravame una riconsiderazione dei rilievi difensivi non accolti in primo grado. Ed infatti, nel controricorso in appello, il Martorano, nel chiedere il rigetto del diverso gravame, espressamente deduce di avere in data 5/6/2003 formalmente rinunziato alla lite pendente contro il Comune di Castelluccio Superiore, notificando l'atto di rinunzia ai controinteressati e, in data 29/9/2003, di aver depositato formalmente l'atto di rinunzia presso la Cancelleria del TAR di Basilicata, sottolineando che, non avrebbe potuto fare di più. Richiesta a tal proposito la riflessione giurisprudenziale secondo la quale il riferimento alla parte in tema di rimozione alla lite pendente deve essere inteso in senso processuale, sicchè non può essere affermata l'imcompatibilità nel caso in cui il soggetto non sia più parte del processo per intervenuta rinunzia. Il profilo, pertanto, può essere riesaminato dal giudice distrettuale. B2) L'art. 46 del R.D. 17/8/1907 n. 642 si limita a stabilire che in qualunque stadio della controversia si può rinunciare al ricorso mediante dichiarazione sottoscritta dalla parte o dell'avvocato munito di mandato speciale e depositata nella segreteria o mediante dichiarazione verbale di cui è steso processo.

 

Il secondo comma della surriferita disposizione prevede che il rinunziante debba pagare le spese degli atti di procedura compiuti mentre il terzo ed ultimo comma dispone che la rinunzia debba essere notificata alla controparte, eccetto il caso in cui sia fatta oralmente all'udienza. Il chiaro parallelismo che può ravvisarsi con l'art. 306 c.p.c. consente di utilizzare principi elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento a quest'ultima norma.

 

Quanto alla legittimazione a farla valere (la rinuncia), occorre, innanzitutto, stabilire che sia parte in senso processuale. Non si obliteri, infatti, che l'incompatibilità va accertata con riferimento al concetto di parte inteso in senso processuale e non già in chiave sostanzialistica, con riferimento alla diversa figura del soggetto genericamente interessato all'esito della lite per le ricadute patrimoniali che possano derivargliene. Orbene, si è già detto il raggruppamento temporaneo di Professionisti non da vita ad un soggetto giuridico diverso dai singoli membri e che al capogruppo spetta la rappresentanza processuale, attiva e passiva, relativa a tutti i rapporti facenti capo unitariamente ai professionisti raggruppati nei confronti della committente P.A.. Tuttavia, la rappresentanza processuale del capogruppo non è esclusiva ben potendo i professionisti mandanti agire autonomamente in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimo, sia nei confronti dell'ente appellante che di eventuali terzi. Ne discende che il ricorso giurisdizionale proposto dal Tancredi quale capogruppo del R.T.P risulta fatto valere anche nell'interesse del rappresentato Martorano, che, pertanto, riveste la qualità di parte in quel giudizio. Secondo la riflessione giurisprudenziale il rappresentante non è titolare di una legittimazione escludente quella originaria del rappresentato che conserva la legittimazione primaria sostanziale, per cui quest'ultimo può sempre costituirsi nel giudizio in vece o comunque parallelamente al primo, impugnare la sentenza etc. Certamente il rappresentato può rinunciare al giudizio promosso anche nel suo interesse. Nè può sostenersi che in tal caso il rappresentato debba prima costituirsi in giudizio direttamente e poi rinunciare, non essendo ciò richiesto per la realizzazione degli effetti di cui all'art. 46 R.D. 642/1907, così come per quelli dell'art. 306 c.p.c.. L'atto di rinuncia proveniente dalla parte rappresentata deve contenere sottoscrizione autenticata per assicurare la "suitas" dello scritto e nel caso di specie la sottoscrizione del Martorano risulta autenticata. La rinuncia va notificata alla controparte e non al procuratore costituito della medesima trattandosi di attività extra processuale e depositata presso la segreteria del G.A. procedente, cosa occorsa nel caso di specie. Una volta intervenuta la rinuncia al giudizio, debitamente portata a conoscenza dell'Ente, risulterà rimossa la causa di incompatibilità dovuta alla lite pendente, pur senza il compimento delle formalità necessarie per la dichiarazione di estinzione del processo. Ed infatti, a differenza della precedente legislazione, che faceva riferimento ad una lite "meramente potenziale", l'art. 3 n. 4 della legge 154/81 (così come il vigente ordito normativo) richiede una lite "effettivamente pendente" ossia una contrapposizione sostanziale di interessi che si coniughi al dato formale dell'esistenza del procedimento civile o amministrativo nel quale risultino coinvolti l'eletto e l'ente. Ne consegue che il giudice del contenzioso elettorale, dinanzi al quale venga dedotta la questione dell'incompatibilità per lite pendente, deve valutare la concreta sussistenza della detta effettività, senza arrestarsi al solo elemento della pendenza della lite ed escluderla in presenza di quegli elementi che implicano il sostanziale venir meno del confronto, quale appunto la rinuncia agli atti del giudizio da parte del neo eletto ovvero la manifesta infondatezza della pretesa (configurabile quest'ultima quando la domanda risulti priva di fondamento prima facie) o il carattere pretestuoso della lite (inteso come artificiosa e maliziosa creazione di una situazione di fatto diretta a danneggiare il candidato. E dubbio non v'è che nel caso di specie la sostanziale contrapposizione di interessi tra il Martorano ed il Comune di Castelluccio sia venuta meno per le esposte considerazioni". 1.3 - avverso tale sentenza Francesco Antonio Belsito ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo quattro motivi di censura, illustrati con memoria.

 

Resiste, con controricorso, Mauro Martorano.

 

Motivi della decisione

 

2.1 Con il primo (con cui deduce: "Violazione e falsa applicazione della legge: art. 63 comma 1 n. 4 D.Lgs. n. 267/00. Difetto di motivazione") e con il quarto motivo (con cui deduce: "Violazione e falsa applicazione della legge: art. 63 comma 1 n. 4 D.Lgs. n. 267/00, 13 e 17 L. n. 109/94 e art. 95 DPR 554/99, nonchè artt. 24, 1723 e 1726 c.c. difetto di motivazione") i quali possono essere esaminati congiuntamente avuto riguardo alla loro stretta connessione il ricorrente critica la sentenza impugna (cfr. supra n. 1.2 lett. A) anche sotto il profilo della sua motivazione, sostenendo: a) che siccome la causa di incompatibilità denunciata e quindi, l'oggetto del giudizio sarebbe costituito unicamente dalla pendenza della lite amministrativa tra il Martorano e il Comune di Castelluccio Superiore sia la sentenza di primo grado, sia, parzialmente, quella d'appello avrebbero erroneamente posto a fondamento delle rispettive decisioni la circostanza, secondo cui il Martorano "avrebbe espresso la volontà di recedere dal Raggruppamento temporaneo di professionisti del quale faceva parte" infatti, questo aspetto della evidenza è assolutamente irrilevante ai fini della decisione della causa elettorale, per la quale l'unico profilo determinante risiede nella rimozione della lite pendente intesa come rinuncia idonea a far immediatamente e direttamente venir meno la qualità da parte del processo sicchè, la sentenza di secondo grado va cassata nella parte in cui esamina nel merito tale circostanza, ponendola parzialmente a fondamento della propria decisione (cfr. ricorso pag. 3) b) che, in ogni caso siccome il raggruppamento temporaneo di professionisti sarebbe caratterizzato dalla occasionalità e dalla temporaneità, non creerebbe un nuovo soggetto giuridico ne una nuova associazione e costituirebbe rapporti obbligatori tra i professionisti medesimi e tra questi e la P.A., riconducibili all'istituto del mandato collettivo speciale a tale fattispecie di mandato non sarebbe applicabile la revoca, vertendosi, ai sensi degli artt. 1723 comma 2 e 1726 cod. civ. in tema di mandato irrevocabile; c) che, alla stregua della disciplina speciale artt. 13 comma 5-bis, 17 comma 1 lett. g) della legge n. 109 del 1994), la revoca del mandato sarebbe consentita soltanto per giusta causa ed avrebbe effetto unicamente nei rapporti interni tra i professionisti facente parte del raggruppamento e non già nei confronti della P.A. appaltante, sicchè, nella specie, la revoca del Martorano non avrebbe avuto effetti nei confronti del comune di Castelluccio Superiore e, quindi, sarebbe inidonea a rimuovere la causa di incompatibilità di interessi de qua; d) che contrariamente affermato dalla corte potentina all'istituto del raggruppamento temporaneo di professionisti sarebbe inapplicabile l'art. 24 comma 2 cod. civ., che presuppone una associazione costituita per un tempo indeterminato; e che, in ogni caso, anche se dovesse trattarsi di un'associazione a tempo indeterminato il recesso espresso dal Sig. Martorano risalendo al mese di giugno 2003, avrebbe comunque esplicato i suoi effetti soltanto a far data dal 31.12.2003, con la conseguenza che, poichè, al fine di evitare la decadenza il resistente avrebbe dovuto eliminare la causa di incompatibilità entro e non oltre il termine perentorio di dieci giorni dalla data di notificazione del ricorso in primo grado (19.9.2003 - 29.9.2003), la dedotta decadenza si era comunque irrimediabilmente prodotta, in quanto il recesso è divenuto efficace in data 31.12.2003 e, quindi, il conflitto di interessi tra il comune e il resistente sarebbe stato semmai rimosso solo tardivamente (cfr. ricorso, pagg. 10 - 11), e) che, siccome, nel raggruppamento temporaneo, il capogruppo avrebbe poteri di rappresentanza e non decisionali e non potrebbe considerarsi alla stregua di un amministratore, la dichiarazione di recesso avrebbe dovuto essere comunicata a tutti i professionisti e non anche, come è avvenuto nella specie, al solo mandatario.

 

Con il secondo motivo (con cui deduce "violazione e falsa applicazione della legge: art. 63 comma 1 n. 4 d.lgs n. 267/00.

 

Difetto di motivazione"), il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr. supra n. 1.2. lett. b1), anche sotto il profilo della sua motivazione, sostenendo che sulla statuizione dei giudici di primo grado secondo cui l'atto di rinuncia al ricorso non era idoneo a determinare l'estinzione del processo in quanto proviene da soggetto diverso dal capogruppo (Ing. Antonio Tancredi), unico rappresentante processuale e sostanziale del raggruppamento e come tale unico legittimato a rinunziare al giudizio si sarebbe formato il giudicato interno, sia perchè avverso tale punto autonomo della decisione il Martorano avrebbe dovuto proporre appello incidentale, pacificamente non interposto, sia perchè il Martorano stesso non ha neanche chiaramente riproposto il motivo ex art. 346 c.p.c., come si evince dal fatto che il Sig. Martorano in secondo grado ha chiesto esplicitamente soltanto la conferma della sentenza del tribunale di Lagonegro, rinunciando così espressamente alla volontà di riproporre la questione. (cfr. ricorso pag. 4).

 

In fine, con il terzo motivo con cui deduce: Violazione e falsa applicazione della legge art. 63 comma 1 n. 4 D.Lgs n. 267/00, art. 46 r.d. 17/8/1907 n. 642 nonchè artt. 75, 77, 81, 82, 306, c.p.c. difetto di motivazione), il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, n. 1.2. lett. b"), anche sotto il profilo della sua motivazione, sostenendo, in primo luogo, che il Martorano avrebbe potuto validamente rinunciare al ricorso giurisdizionale proposto dal "capogruppo", ing. Tancredi soltanto ove si fosse previamente e ritualmente costituito ne giudizio amministrativo a mezzo di un proprio procuratore; in secondo luogo, che - contrariamente a quanto affermato dalla Corte potentina - la sottoscrizione, apposta dal Martorano in calce all'atto di rinuncia non sarebbe stata autenticata nè dal proprio difensore, ne da altri pubblici ufficiali; ed in fine, che l'atto di rinuncia avrebbe dovuto essere notificato ai procuratori costituiti delle controparti, mentre, nella specie, sarebbe stato notificato alle parti personalmente; sicchè, l'atto di rinuncia medesimo sarebbe radicalmente inefficace ai fini della rimozione della causa di incompatibilità denunciata.

 

2.2. il ricorso deve essere respinto, previa parziale correzione ed integrazione della motivazione in diritto della sentenza impugnata - ai sensi dell'art. 384 comma 2 cod. proc. civ. - essendo il suo dispositivo conforme al diritto.

 

La fattispecie in esame - che attiene alla causa di incompatibilità prefigurata dall'art. 63 comma 1 n. 4 primo periodo del d.lgs n. 267 del 2000, nella parte in cui prevede che "non può ricoprire la carica di sindaco... colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile o amministrativo, ... con il comune", è caratterizzata dalle seguenti circostanze, emergenti dagli atti acquisiti nei precedenti gradi del processo (che, come è noto, secondo costante giurisprudenza, possono essere riesaminati da questa Corte, in quanto anche giudice di merito: cfr., e pluribus e tra le ultime, Cass. nn. 14199 del 2004 e 1733 del 2001): a) - il Martorano della cui compatibilità a ricoprire la carica di sindaco si tratta - aveva partecipato nel 2001 - quale membro di una associazione temporanea di professionisti in cui "il capogruppo" era l'Ing. Antonio Tancredi - ad una gara, bandita dal comune di Castelluccio Superiore ad avente ad oggetto la redazione del progetto esecutivo afferente alla ristrutturazione ed all'ampliamento dell'impianto comunale di illuminazione pubblica; b) - dopo che, all'esito della gara, il comune aveva deliberato di affidare l'incarico ad altri professionisti, l'Ing. Tancredi, nella sua qualità di capogruppo del Raggruppamento Temporaneo di Professionisti (RTP), aveva impugnato la relativa deliberazione comunale dinanzi al TAR della Basilicata chiedendone l'annullamento, in contraddittorio con il comune; c) - a seguito della sua proclamazione alla carica di sindaco del Comune di Castelluccio Superiore ed anteriormente alla prima seduta consiliare - tenutasi il 9 giugno 2003 - il Martorano in data 5 giugno 2003, a sottoscritto tre distinti atti: - con il primo, intitolato "atto di rinuncia" - dopo aver premesso le sopra ricordate circostanze - ha dichiarato, testualmente, che "con la presente rinuncia alla presente azione ed al ricorso relativamente alla sua posizione, rendendosi disponibile sin d'ora al pagamento di eventuali spese processuali conseguenti alla rinuncia di cui sopra", provvedendo, altresì, nel giorno successivo alla sua notificazione, tra gli altri, al Sindaco del Comune di Castelluccio Superiore ed al "capogruppo" Ing. Tancredi; - con il secondo (si tratta di una dichiarazione rilasciata al segretari generale del Comune, redatta in pari data e con sottoscrizione autenticata) - richiamate le stesse premesse - ha dichiarato "per quanto di sua afferenza e spettanza, di voler rinunciare, come di fatto espressamente rinuncia per la propria parte al ricorso predetto ed ogni istanza connessa, conseguente e/o consequenziale, in contrasto processuale e/o sostanziale con il Comune di Castelluccio Superiore" e che darà seguito ogni ulteriore e necessario impulso processuale e procedurale e conseguente e volto a scindere il raggruppamento temporaneo da professionisti R.T.P. di Tancredi Antonio, provvedendo a comunicarlo al capogruppo ed agli altri professionisti del raggruppamento; - con il terzo, sempre redatto nella predetta data ed indirizzato e ricevuto dall'Ing. Tancredi - premesse ancora una volta le medesime circostanze - ha comunicato al capogruppo la volontà di uscire dal R.T.P., precisando, altresì, che in data odierna sono stati predisposti gli ulteriori adempimenti relativi all'atto di rinuncia; d) in data 29 settembre 2003 e cioè il decimo giorno successivo alla notificazione del ricorso introduttivo del presente giudizio in Martorano ha depositato presso la segreteria del TAR della Basilicata il predetto atto di rinuncia, ivi pendente.

 

2.3. Ciò premesso, per evidenti ragioni di priorità logico- giuridico, deve essere preliminarmente esaminato il secondo motivo del ricorso, con il quale il ricorrente, in contrasto con quanto affermato dalla Corte di Potenza, ribadisce la propria tesi, secondo cui sulla inidoneità dell'atto di rinuncia al ricorso pendente dinanzi al TAR a rimuovere la denunciata causa di incompatibilità affermata dal Tribunale di Lagonegro sul rilievo che l'atto di rinuncia al ricorso non era idoneo a determinare l'estinzione del processo, in quanto proviene da soggetto diverso dal capogruppo (ing. Antonio Tancredi), unico rappresentante processuale e sostanziale del Raggruppamento e come tale unico legittimato a rinunziare al giudizio si sarebbe formato il giudicato interno.

 

Come emerge chiaramente dalla motivazione della sentenza di primo grado, il Tribunale di Lagonegro a fronte dell'azione popolare di decadenza dalla carica di sindaco, promossa dagli originari ricorrenti; ed a fronte della eccezione sollevata dal Martorano il quale ha dedotto e documentato due distinti fatti che, in tesi, congiuntamente e/o separatamente considerati, ostavano alla pronuncia di decadenza, in quanto idonei alla tempestiva rimozione della causa di incompatibilità: e cioè, l'atto di rinuncia al ricorso giurisdizionale e l'atto di recesso dal Raggruppamento mentre ha ritenuto l'inidoneità del primo alla predetta rimozione, ha, invece, ritenuto idoneo allo scopo il secondo, affermando testualmente che lo scioglimento del vincolo associativo appare pienamente idoneo a rimuovere la condizione di incompatibilità, facendo venir meno quel conflitto di interessi che è la ratio ispiratrice della disposizione in esame (cfr. sent., pag. 4).

 

Orbene come esattamente rilevato dalla Corte d'appello (cfr., supra, n. 1.2 lett. b1), il Martorano, vittorioso in primo grado a fronte dell'appello proposto dal soccombente Belsito, il quale aveva ribadito la tesi dell'inidoneità dell'atto di recesso dal raggruppamento ad integrare una valida ed efficace rimozione della causa di incompatibilità nel controricorso, depositato il 2 dicembre 2003, oltre a contrastare i motivi di gravame dell'avversario, ha inequivocabilmente riaffermato l'idoneità allo scopo (anche) dell'atto di rinuncia al ricorso giurisdizionale pendente dinanzi al TAR della Basilicata (cfr. pag. 4 del controricorso).

 

La Corte potentina, per tanto affermando che il Martorano non aveva l'onere di proporre appello incidentale avverso il punto della sentenza a sè sfavorevole e passando all'esame ed alla decisione del merito della relativa questione si è correttamente uniformata al consolidato orientamento di questa Corte (cfr., e pluribus sentt. nn. 1005 del 2003, pronunciata a S.U., e 18169 del 2004), integralmente condiviso dal Collegio, secondo cui la parte vittoriosa nel merito la quale, in caso di gravame proposto dal soccombente, chieda la conferma della decisione impugnata, eventualmente anche in base ad una diversa soluzione delle questioni dalla stessa proposte nel precedente grado di giudizio difetta di interessa alla proposizione dell'impugnazione incidentale ed ha soltanto l'onere di riproporredette questioni, ai sensi dell'art. 346 cod. proc. civ., per superare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo:

 

riproposizione, che, come dianzi rilevato è stata puntualmente e specificatamente effettuata.

 

2.4. Anche gli altri motivi del ricorso che possono essere esaminati congiuntamente risultano privi di fondamento sulla base delle considerazioni che seguono. a) E' noto che apparte le causa di incandidabilità alla carica di amministratore locale (cfr. art. 56 e 58 del d.lgs n. 267 del 2000), che si riferiscono ad uno status di inidoneità funzionale assoluta e non rimovibile da parte dell'interessato le cause di inelegibilità (cfr. artt. 60 e 61 del TU) sono stabilite allo scopo di garantire la eguale e libera espressione del voto, tutelata dall'art. 48 co. 1 primo periodo cost. (il voto è personale ed eguale libero e segreto), rispetto a qualsiasi possibilità di captatio benevolentias esercitabile dal candidato o di metus potestatis nei confronti dello stesso e che la loro violazione determina la loro invalidità della elezione del soggetto ineleggibile, il quale non abbia tempestivamente rimosso la relativa causa mentre le cause di incompatibilità di interessi (cfr. art. 61 del TU), quale quella contestata nel caso di specie, sono previste al fine di assicurare il corretto adempimento del mandato elettivo da parte dell'eletto alla carica pubblica e, quindi, prevalentemente di garantire la realizzazione degli interessi tutelati dall'art. 47 co. 1 cost., secondo cui i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Più specificamente, e con riferimento alla fattispecie, la ratio (anche) della causa di incompatibilità in esame (annoverabile, appunto, tra le c.d. incompatibilità di interessi) consiste nel impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzione dei consigli comunali soggetti portatori di interessi configgenti con quelli del comune o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità (così, Corte Costituzionale, sent. n. 44 del 1997, cfr. anche, e pluribus e tra le ultime, sentt. nn. 450 del 2000 e 220 del 2003.

 

Del resto, in conformità a questi principi, lo stesso art. 78 comma 1 del d.lgs. n. 267 del 2000, nel disciplinare lo status degli amministratori locali (quali individuati nel precedente art. 77 commi 1 e 2) e, più in particolare, i loro doveri, sancisce, tra l'altro, che il loro comportamento, nell'esercizio delle loro funzioni, deve essere improntato all'imparzialità e al principio di buona amministrazione.

 

Il fondamento costituzionale della previsione (anche) delle cause di incompatibilità di interessi all'esercizio della carica di amministratore locale sta, oltrechè nell'art. 97 comma 1, anche nell'art. 51 comma 1 primo periodo Cost., giusta il quale tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere alle cariche elettive, secondo i requisiti stabiliti dalla legge: il che significa che il diritto di accesso alle cariche elettive non è incondizionato, ma si realizza e può essere esercitato solo in presenza di detti requisiti, anche se la dottrina ha giustamente sottolineato che l'impedimento all'esercizio della carica validamente conseguita incide solo indirettamente, a differenza di quanto accade per le cause di ineleggibilità, sul diritto di elettorato passivo e ne costituisce una limitazione soltanto nel senso che l'esistenza di una causa siffatta - peraltro sempre tempestivamente rimovibile - potrebbe rappresentare una remora al concreto esercizio di quel diritto, scoraggiando la presentazione della candidatura da parete di chi si trovi in una situazione di incompatibilità di interessi.

 

In ogni caso, la giurisprudenza della Corte costituzionale è ferma nel ritenere che il diritto di elettorato passivo - quale diritto politico fondamentale, intangibile nel suo contenuto di valore ed annoverabile tra quelli inviolabili, riconosciuti e garantii dall'art. 2 Cost. - può essere unicamente disciplinato da leggi generali, che possono limitarlo soltanto al fine di realizzare altri interessi costituzionali parimenti fondamentali e generali (quali, appunto, quelli tutelati dall'art. 97 comma 1 Cost. cfr, e pluribus, Corte costituzionale, sentt. nn. 235 del 1988, 539 del 1990 e 141 del 1996); che - anche se è vero che l'incompatibilità, a differenza dell'ineleggibilità, non incide sul rapporto di elettorato, nè spiega alcuna influenza sulla validità dell'elezione - la predetta natura del diritto di elettorato passivo implica che esso non può riguardare ogni vicenda relativa alla preposizione del cittadino ad una carica elettiva (cfr., e pluribus, sent. n. 60 del 1966); che ogni limitazione al diritto medesimo ha carattere di eccezione rispetto al generale e fondamentale principio del libero accesso, in condizioni di eguaglianza, di tutti i cittadini alle cariche elettive (cfr. e pluribus, sett. nn. 166 del 1962 e 1020 del 1998); che, conseguentemente ed in particolare, è necessario che il legislatore, nello stabilire i requisiti di elegibilità, deve tipizzarli con determinatezza e precisione, sufficienti ad evitare, quanto più possibile, situazione di persistente incertezza, troppo frequenti contestazioni, soluzioni giurisprudenziali contraddittorie, che finirebbero per incrinare gravemente, in fatto, la proclamata, pari capacità elettorale passiva dei cittadini (cfr. sett. n. 166 del 1972 cit.); e che fermo il divieto di interpretazione analogica in materia di cause di inelegibilità e di incompatibilità le relative disposizioni possono, tuttavia essere interpretate, nel rispetto del canone della ragionevolezza, in senso estensivo rispetto alla mera littera legis (cfr. la fattispecie di incompatibilità di interessi esaminata dalla corte costituzionale nella sent. n. 44 del 1997 cit., segnatamente nel numero cinque del considerato in diritto).

 

Siffatti principi sono stati integralmente recepiti dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., e pluribus e da ultime, sentt. nn. 489 del 2000 e 1073 del 2001). Dall'analisi della quale, peraltro, emerge la conferma della legittimità del ricorso alla interpretazione estensiva delle disposizioni che stabiliscono cause di inelegibilità (cfr., ad es. sentt. n. 10845 del 1993, che ha esteso la causa di inelegibilità, prevista dall'art. 2 co. 1 n. 6 della legge n. 154 del 1981 per i giudici conciliatori, anche ai vice conciliatori; nonchè sent. n. 2195 del 2003, che ha esteso la causa di inelegibbilità prevista dall'art. 60 co. 1 n. 6 del d.lgs n. 267 del 2000 ai magistrati onorari addetti ai tribunali ordinari ai sensi dell'art. 42/bis ordinamento giudiziario, aggiunto dall'art. 8 n. 12 del d.lgs n. 51 del 1998.

 

Può aggiungersi, con specifico riferimento alle cause di incompatibilità di interessi che fermo il divieto di interpretazione analogica delle disposizioni che le prevedono a maggior ragione la interpretazione estensiva delle stesse è giustificata dalla loro ratio: infatti posto che esse sono volte ad impedire l'esercizio della carica elettiva, validamente conseguita, da parte di coloro i quali, espressamente menzionati, si trovino in una delle situazioni di potenziale conflitto di interessi tipizzate dal legislatore è ben possibile, estendere al di là della interpretazione letterale della disposizione, la causa di incompatibilità a soggetti che, pur non essendo stati esplicitamente considerati dalla disposizione stessa per la loro posizione giuridica personale nei confronti dell'ente locale ed in ragione della sussistenza di un potenziale conflitto di interessi, siano assimilabili ai soggetti espressamente considerati:

 

altrimenti opinando, infatti, resterebbe frustrata l'intenzione del legislatore di dire a tali soggetti, i quali si trovino nella predetta situazione personale di incompatibilità di interessi, l'esercizio della carica medesima.

 

Infine, ribaditi questi principi ed in particola che l'interpretazione della disposizione applicabile alla fattispecie deve essere operata esclusivamente alla luce di essi; e che le fattispecie concrete di inelegibilità e di incompatibilità debbono essere giudicate esclusivamente alla luce della specifica disciplina dettata per la loro regolazione non è inutile sottolineare che la disciplina legislativa, non immediatamente volta a regolare le limitazioni al diritto di elettorato passivo, può rilevare soltanto nella misura in cui essa sia coerente, ovvero collida, sotto il profilo della ragionevolezza, con le ragioni della scelta del legislatore di stabilire o di non stabilire le predette limitazioni. b) nella prospettiva delineata dalla riaffermazione di tali principi, è indispensabile sottolineare con specifico riferimento al caso di specie, che la disciplina della rinuncia al ricorso giurdisdizionale proposto dinanzi al giudice amministrativo (cfr., artt. 46 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642, recante il regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del consiglio di stato, 19 comma 1 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, recante istituzione dei tribunali amministrativi regionali) e quella relativa alle associazioni (o raggruppamenti) temporanee di imprese di professionisti negli appalti pubblici (cfr. ad es., artt. 10 c. 1 lett. d), 13 commi 5-bis e 6, 17 c. 1 lett. g) della legge 11 febbraio 1994 n. 109, recante legge quadro in materia di lavori pubblici, e successive modificazioni ed integrazioni v. anche artt. 9395 del dpr 21 dicembre 1999 n. 554, che ha approvato il regolamento di attuazione della legge n. 109 del 1994) ambedue richiamate ed interpretate nella sentenza impugnata non rilevano in quanto tali con riferimento alla specifica sedes materiae loro propria, ma devono essere applicate ed interpretate, tenendo esclusivamente conto dell'oggetto della presente controversia, non attiene, evidentemente, alla materia degli appalti pubblici o al rito giurisdizionale amministrativo, bensì, appunto, al diritto di elettorato passivo, quale diritto politico fondamentale, ed ai requisiti per la sua realizzazione e per il suo esercizio, e tenendo conto, altresì, come già rilevato, che ogni limitazione al diritto medesimo ha carattere di eccezione rispetto al generale e fondamentale principio del libero accesso, in condizioni di eguaglianza, di tutti i cittadini alle cariche elettive.

 

In tale prospettiva, come si richiede, per la sussistenza della causa di incompatibilità derivante dalla pendenza di una lite (amministrativa), che la pendenza della lite stessa sia effettiva e più potenziale (cfr., e pluribus, Cass. nn. 5815 e 6338 del 1981, 3086 del 1986, 4357 del 1992, 10335 del 2001) in quanto espressione di una reale situazione di conflitto d'interessi esistente tra il candidato o l'eletto, e l'ente territoriale così, per la sua valida ed efficace rimozione, è necessario e sufficiente che il soggetto, il quale versi in una situazione siffatta, ponga in essere atti idonei anche se non formalmente perfetti rispetto alla specifica disciplina che eventualmente li regoli a far venir meno, nella sostanza, l'incompatibilità d'interessi realizzatasi a seguito dell'istaurazione della lite medesima (cfr., ad es., Cass. n. 5216 del 1992): e ciò, in quanto se la ratio della causa di incompatibilità in esame trova fondamento e giustificazione nel pericolo che il conflitto d'interessi che ha determinato la lite, possa condizionale le scelte del candidato o dell'eletto in pregiudizio dell'ente territoriale, o, comunque, possa ingenerare, all'esterno, sospetti al riguardo (cfr., Cass. nn. 12627 del 1998 e 10335 del 2001 cit.) il sostanziale ed incondizionato abbandono della lite stessa (cfr., Cass. n. 1859 del 1982) elimina in radice questa ragione di incompatibilità. c) alla luce di tali principi, le specifiche censure, formulate dal ricorrente nel primo, terzo e quarto motivo del ricorso, risultano chiaramente infondate.

 

Quanto a quella di merito per così dire argomentata dal primo motivo (cfr., supra, n. 2.1 lett. a) e con la quale si sostiene, in definitiva l'irrilevanza della questione relativa alla idoneità, o non, dell'atto di recesso del Martorano dal Raggruppamento Temporaneo di Professionisti alla rimozione della causa di incompatibilità in esame è sufficiente, per un verso, ribadire che l'odierno controricorrente ha eccepito l'intervenuta rimozione della causa stessa fondando l'eccezione sia sulla sua formale rinuncia al ricorso giurisdizionale, proposto dal capogruppo del R.T.T. dinanzi al TAR della Basilicata, sia al suo atto di recesso dal Raggruppamento (cfr., supra, n. 2.2.), facendo chiaramente valere tali atti siccome entrambi idonei separatamente e congiuntamente considerati alla rimozione medesima; e per l'altro, osservare che la corte d'appello ha correttamente esaminato e valutato, ai fini della loro idoneità alla rimozione stessa, entrambi gli atti nella loro stretta connessione ed integrazione rispetto allo scopo perseguito dal Martorano se, dunque come si deve tali atti si considerano congiuntamente, non può esservi dubbio sulla loro idoneità a rimuovere la causa di incompatibilità in esame.

 

In proposito, appare decisivo il rilievo, secondo cui ove si convenisse con il ricorrente che legittimato alla rinuncia al ricorso, promosso dinanzi al TAR della Basilicata dal Capogruppo del Raggruppamento, sarebbe stato soltanto quest'ultimo, quale sola parte del relativo processo anche a voler prescindere da ogni altra pur possibile osservazione contraria, ne conseguirebbe che il partecipante ad un gruppo siffatto, in palese contrasto con tutti i principi in questa sede ribaditi, risulterebbe impedito nell'esercizio di un proprio diritto politico fondamentale, quale quello di elettorato passivo, appunto: infatti la effettiva possibilità di esercitare tale diritto sarebbe, in definitiva, subordinata alla mera volontà di un terzo il capogruppo libero di decidere, in base a valutazioni completamente estranee all'esercizio del diritto medesimo, se abbandonare, o non, la lite. E tale rilievo costituisce riprova che la disciplina, dettata in materia di pubblici appalti circa il rapporto di mandato con rappresentanza gratuito ed irrevocabile, anche processuale che si costituisce tra l'impresa o ilprofessionista, capogruppo e le altre imprese, o gli altri professionisti (cfr., e pluribus, Cass. n. 4728 del 1998) non può essere automaticamente trasposta in una materia, quale quella de qua, in cui è in gioco l'esercizio di un diritto politico fondamentale.

 

Sicchè, tutte le altre censure, argomentate dal ricorrente nel quarto motivo (cfr., supra, n. 2.1 lett. a) - e)), risultano del tutto irrilevanti, nella misura in cui a fronte dell'inequivocabile atto di recesso dal R.T.P., e delle inequivocabile volontà di rinunciare al ricorso giurdisdizionale, formalmente espressi dal Martorano (cfr., supra, n. 2.2 lett. c)) le stesse non appaiono decisive nella valutazione in ordine alla idoneità dell'atto medesimo alla rimozione della causa di incompatibilità denunciata.

 

Considerazioni sostanzialmente analoga con riferimento al terzo motivo del ricorso, vanno svolte circa la idoneità a tale rimozione dell'atto di rinuncia del Martorano al ricorso giurisdizionale proposto dal Tancredi dinanzi al TAR della Basilicata (cfr., supra, n. 2.2 lett. c) e d)): infatti, nella specie richiamato il decisivo rilievo di cui sopra; e ribaditi gli orientamenti giurisprudenziali citati sub lett. b) non potevano esigersi dall'odierno controricorrente, ai fini della rimozione medesima, atti e comportamenti ulteriori rispetto a quelli dallo stesso effettivamente posti in essere: vale a dire, la formale rinuncia al ricorso, comunicata al proprio rappresentante e portata ritualmente a conoscenza, mediante deposito presso la segreteria, del Giudice amministrativo investito della lite. Ed anche a tal proposito può predicarsi la parziale irrilevanza della disciplina squisitamente processuali, dettata per la rinuncia al ricorso giurisdizionale amministrativo, rispetto alla materia de qua: come è dimostrato, del resto, dall'orientamento di questa Corte (cfr., ad es., sentt. nn. 7154 del 1983, 690, del 1986, 3678 del 1988, 5216 del 1992 cit., 8271 del 1996), secondo cui, ai fini della rimozione della causa di incompatibilità per lite pendente, può ritenersi sufficiente un atto extraprocessuale, come la transazione, od anche la rinuncia al ricorso stesso, a prescindere dall'accettazione dell'amministrazione ovvero dalla formale pronuncia di estinzione del relativo processo.

 

In definitiva, può affermarsi che nel caso in cui, quale quello di specie, penda, davanti al giudice amministrativo, una lite, promossa dal capogruppo di una associazione temporanea di professionisti, che abbia partecipato, con esito sfavorevole, ad una gara indetta dal comune, nei confronti di quest'ultimo; ed in cui un professionista, partecipante all'associazione, intenda rimuovere, ai fini dell'esercizio del proprio diritto di elettorato passivo, riconosciuto e garantito dall'art. 51 co. 1 primo periodo della Costituzione la causa di incompatibilità prevista dall'art. 63 co. 1 n. 4 primo periodo del d.lgs n. 267 del 2000 è necessario e sufficiente che il professionista medesimo, al di là delle regole specifiche che disciplinano ad altri fini gli istituti dell'associazione temporanea di imprese o di professionisti e della rinuncia al ricorso giurisdizionale amministrativo, manifesti formalmente la propria volontà, volta in modo inequivocabile al sostanziale ed incondizionato abbandono della lite stessa, comunicandola al comune, al proprio capogruppo e dal giudice investito della controversia.

 

E, sulla base di tutte le considerazioni svolte, non v'è alcun dubbio come esattamente ritenuto dalla Corte potentina che il Martorano, mediante l'atto di recesso dal R.T.P. e l'atto di rinuncia al ricorso giurdisdizionale, abbia validamente, tempestivamente ed efficacemente rimosso la causa di incompatibilità denunziata (anche) dall'odierno ricorrente.

 

Ogni altra censura deve ritenersi assorbita.

 

2.5 le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle sperse che liquida in complessivi Euro 5100,00, ivi comprensivi Euro 5000,00 per onorari, oltre alle spese generali ed accessori di legge.

 

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 10 gennaio 2005.

 

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2005

 


Giurisprudenza amministrativa

 


 

TAR Sicilia- Sez. Catania, Sentenza 25 - 27 maggio 1999, n. 1021

 

 

 

Sent. n° 1021 del 25.5.99/27.5.99

 

N° 1021/99 Reg. Sent.

 

N° 2861 Reg. Ric.

 

Anno 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia - Sezione Staccata di Catania - Sez.

 

2a ;

 

composto dai Sigg. Magistrati:

 

Dr. Ettore LEOTTA -Presidente

 

Dr. Giovanni MILANA-Consigliere

 

Dr. Francesco BRUGALETTA 1.o Ref. rel. est.

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

sul ricorso n. 2861/1998 R.G. proposto da Celestino Santo PRIOLA, Adelina MONICI, Giuseppe RUSSO, Margherita MARTINO CINNERA, Luciano MUSARRA, Amedeo SANSIVERI, Rosalba SANSIVERI, Enrico MONASTRA e Salvatore TORTORICI, Sergio RUSSO e Salvatore PEDALA', tutti rappresentati e difesi dall' avv;.Salvatore Cinnera Martino, ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell'avv. Giannitto, in Catania , via Rizzo 29,

 

 

CONTRO

 

-Comune di 5. Marco D'Alunzio, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito;

 

-Commissione e Sottocommissione Elettorale circondariale di Patti, e Prefetto di Messina in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Catania, domiciliataria ex lege.

 

- Procuratore della Repubblica di Catania, non costituito.

 

E NEI CONFRONTI

 

di Duodeci Giuseppe, Mileti Antonio, Latino Amedeo, Musarra Roberto, Furnari Antonino, Latino Celestino Nino, Monastra Cesare, Musarra Salvatore, Tarania Beniamino, Lunghitano Gino, rappr. e difesi dagli avv. Arturo Merlo e Salvatore Librizzi;

 

e di Ferretta Albino, Graziano Salvatore, Arcodia Basilio e Procuratore della Repubblica di Patti, non costituiti;

 

PER L'ANNULLAMENTO

 

- del verbale dell'adunanza dei presidenti seggio 26.5.98;

 

- del verbale della Il sottocommissione elettorale circondariale di Patti - sezione S. Agata n. 54 del 30.4.98 e n. 70 del 13.5.98,

 

-di ogni ulteriore atto presupposto, connesso e conseguenziale.

 

VISTO il ricorso con i relativi allegati

 

VISTA la costituzione in giudizio delle amministrazioni intimate e dei controinteressati;

 

VISTI gli atti tutti della causa;

 

DESIGNATO alla pubblica udienza relatore il Dott. Francesco Brugaletta;

 

UDITI: l'avv. Salvatore Cinnera Martino per i ricorrenti, e l'avv. Arturo Merlo e Librizzi Salvatore per i resistenti e l'avv. Palazzo per le Amministrazioni

 

RITENUTO in fatto e considerato in diritto quanto segue:

 

FATTO

 

Con il ricorso in esame la parte ricorrente chiede l'annullamento del verbale di adunanza dei presidenti di Seggio del 26.5.98, nonchè del verbale della II Sottocommissione elettorale circondariale di Patti - sezione S. Agata n. 54 del 30.4.98 e quello n. 70 del 13.5.98; e infine di ogni ulteriore atto presupposto, connesso e conseguenziale.

 

Invero alle elezioni del sindaco e del consiglio comunale del comune di 5. Marco D'Alunzio svoltesi il 24.5.98 ha partecipato Amedeo Arcodia nonostante fosse stato condannato con sentenza per i reati di cui agli artt. 353 cp e 323 cp.

 

La II sottocommissione Elettorale Patti in un primo momento lo escluse dalla competizione alla quale però veniva ammesso con riserva a seguito di sospensiva del TAR in suo favore.

 

In esito alle elezioni la lista Movimento per S. Marco a cui apparteneva l'Arcodia risultò vincitrice, con uno scarto sulla lista concorrente (a cui si riferiscono i ricorrenti "Alba Aluntina" di 110 voti; il sindaco collegato a quella, lista Giuseppe Duodeci prevalse sull'altro con uno scarto di voti 97 voti (Duodeci 895 - Priola 798).

 

L'Arcodia riporto' nella competizione 147 voti di preferenza.

 

- Da cio' il ricorso in esame con il quale si. denuncia:

 

1) Violazione dell'art. 7 LR 26.8.92 n. 7, modif dalla Lr n. 35/97; violazione dell'art. 17 dpre. sic. 20.8.60 n. 3 cosi' come modif dalle sucessive leggi.

 

Sostiene parte ricorrente che la lista controinteressata sia stata presentata senza le certificazioni comprovanti l'iscrizione dei sottoscrittori nelle liste elettorali del Comune.

 

2) Violazione dell'a.rt. 15 comma 1 lettera c della legge 19.3.90 n. 55. Modif. dalla legge n. 16 del 92, ; violazione dell'art. \18 Co. 1 lett. B DP Reg 20.8.60 n. 3 come mod. dall’art. 18 LR 26/93 e dell’art. 2 legge n. 16/92

 

L'art. 15, CO. i della legge n. 55/90 ha introdotto una nuova figura di incapacità giuridica.

 

Per effetto della norma in parola chi si trova in una delle condizioni ivi previste non puo' essere candidato.

 

Il patteggiamento, per tale discorso, è equiparato ha sentenza di condanna.

 

L'Arcodia che aveva patteggiato la pena di anni i e si 5 di reclusione per i reati di cui agli art. e 353 CP non poteva partecipare alle elezioni.

 

3) Violazione dell’art. 15 della legge 19.3.90 n. 55; violazione e falsa applicazione dell'art. 38 c. 7 DP Reg. Sic. 20.8.60 in relazione agli art. 15 Co. 1 legge 19.3.90, come mod. dalle leggi ssive.

 

La partecipazione alle elezioni dei non candidabile travolge l'intero risultato elettorale.

 

Si è costituita in giudizio l'Avvocatura distrettuale dello stato di Catania per la commissione e sottocommissione elettorale intimata e per la Prefettura di Messina chiedendo il rigetto del ricorso.

 

Si sono costituiti in giudizio i controinteressati Duodeci Giuseppe, Mileti Antonio, Latino Amedeo, Musarra Roberto, Furnari Antonino, Latino Cestino Nino, Monastra Cesare, Musarra Salvatore, Tanania Beniamino Orlando, Lunghitano Gino, chiedendo il rigetto del ricorso in quanto inmmissibile e in ogni caso infondato.

 

All'udienza pubblica del 25.5.99 la causa è stata posta in decisione.

 

DIRITTO

 

Con il ricorso in esame la parte ricorrente chiede l'annullamento del verbale di adunanza dei Presidenti di seggio del 26.5.98, nonchè del verbale Il sottocommmissione elettorale circondariale di Patti - sezione S. Agata n. 54 del 30.4.98 e quello n. 70 del 3.5.98; e infine di ulteriore atto presupposto, connesso e conseguenziale; chiede, altresì, la correzione del risultato elettorale per dichiararsi l'elezione, dei sette candidati della lista "Alba Aluntina" e del candidato sindaco collegato con tale lista o in subordine il totale annullamento degli atti impugnati.

 

Invero alle elezioni del sindaco e del consiglio comunale del comune di S. Marco D'Alunzio svoltesi il 24.5.98 ha partecipato Amedeo Arcodia nonostante fosse stato condannato con sentenza per i reati di cui agli artt. 353 cp e 323 cp.

 

La II sottocommissione Elettorale circondariale di Patti lo escludeva dapprima dalla competizione alla quale pero’ successivamente veniva ammesso a seguito di sospensiva del TAR concessa in altro

 

procedimento giurisdizionale promosso dall’Arcodia.

 

In esito alle elezioni la lista Movimento per S. a cui apparteneva l'Arcodia risultò vincitrice, con uno scarto sulla lista concorrente (cui si riferiscono i ricorrenti) Alba Aluntina 110 voti; il sindaco collegato a quella lista Giuseppe Duodeci prevalse sull'altro concorrente (collegato alla lista a cui si riferiscono i ricorrenti) con uno scarto di voti 97.

 

L'Arcodia riportò nella competizione 147 voti di preferenza.

 

Con il secondo e terzo motivo di ricorso, che per ragioni di logicità e economia del giudizio vengono esaminati congiuntamente e per primi, il ricorrente denuncia la violazione dell'a.rt. 15 comma 1 lettera c della legge 19.3.90 n. 55, modif. dalla L. 16 del 92, ;Violazione dell'art. \18 co.1, lett. B DP Reg. Sic. 20.8.60 n. 3 come mod. dall'art. 18 LR 26/93 e dell'art. 2 legge n. 16/92 nonchè la violazione dell’art. 15 della legge 19.3.9O n. 55; violazione e falsa applicazione dell'art. 38 c. 7 del DP Reg. Sic. 20.8.60 in relazione agli art. 15 Co. 1 legge 19.3.90, come mod. dalle leggi successive.

 

 

Sostiene con la seconda doglianza che l’art. 15, co. i della legge n. 55/90 ha introdotto una nuova figura di incapacità giuridica e che per effetto della norma in parola chi si trova in una delle condizioni ivi previste non puo' essere candidato.

 

Il patteggiamento, sotto tale discorso, è equiparato alla sentenza di condanna.

 

L’Arcodia che aveva patteggiato la pena di anni 1 e mesi 5 di reclusione per i reati di cui agli art.

 

323 e 353 CP non poteva, perciò, partecipare alle elezioni.

 

Con la terza doglianza parte ricorrente sostiene che la partecipazione alle elezioni del non candidabile Arcodia travolge il risultato elettorale e chiede in via principale la correzione del risultato e in via subordinata l'annullamento degli atti.

 

Il ricorso è, per come si dirà, fondato e da accogliere.

 

Il Tribunale intende iniziare la sua disamina dalla sentenza del Tribunale di Patti n. 577 del 12.10.98, depositata in giudizio, divenuta cosa giudicata, con la quale il Tribunale ha dichiarato la incandidabilità di Arcodia Amedeo Basilio e quindi nulla la sua elezione a consigliere comunale.

 

Non vi è contrasto fra le parti sulla sussistenza di tale circostanza, peraltro acclarata con sentenza passata in giudicato, rimane il contrasto sul se e come tale decisione possa rifluire sull'intero risultato elettorale per l'elezione del Consiglio Comunale e del Sindaco, atteso che le elezioni del 24.5.99 vennero vinte dalle lista nella quale era candidato l'Arcodia e dal sindaco collegato a tale lista.

 

La legge n. 55 del 1990 (con le mod. della legge 16 del 96) all'art. 15 cosi' recita: "Non possono essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e non possono comunque ricoprire le cariche di presidente della giunta regionale, assessore e consigliere regionale, presidente della giunta provinciale, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, presidente e componente del consiglio circoscrizionale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all'articolo 23 della legge 8 giugno 1990, n. 142, amministratore e componente degli organi comunque denominati delle unità sanitarie locali, presidente e componente degli organi esecutivi delle comunità montane:

 

a.) coloro che hanno riportato condanna, anche non definitiva, per il delitto previsto dall'articolo 416-bis del codice penale o per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui all'articolo 74 del testo unico approvato con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (32/b), o per un delitto di cui all'articolo 73 del citato testo unico, concernente la produzione o il traffico di dette sostanze, o per un delitto concernente la fabbricazione, l'importazione, l'esportazione, la vendita o cessione, l'uso o il trasporto di armi, munizioni o materie esplodenti, o per il delitto di favoreggiamento personale o reale commesso in relazione a taluno dei predetti reati …"

 

A sua volta l’art. 4 della stessa legge cosi' recita: "L'eventuale elezione o nomina di coloro che si trovano nelle condizioni di cui al comma i è nulla. L’organo che ha deliberato la nomina o la convalida dell'elezione è tenuto a revocarla non appena venuto a conoscenza dell'esistenza delle condizioni stesse".

 

Se questa e la cornice normativa a cui riferirsi bisogna ritenere che l'accertamento, avvenuto con la sopra vista sentenza passata in giudicato, della condizione di non candidabilità dell'Arcodia rifluisce indubbiamente a ritroso nel procedimento elettorale sin dal momento in cui tale qualità doveva essere accertata, vale a dire sin dal momento del controllo sui candidati delle liste ammesse alla competizione.

 

A sua volta, poi, la nullità di un atto del procedimento si comunica agli atti successivi quando questi come nel caso in specie, si trovano in un rapporto di dipendenza causale e necessaria con l'atto nullo.

 

Si tratta, più precisamente, di un rapporto di causa ed effetto, potendosi escludere da tale effetto solo un eventuale nesso semplicemente occasionale o accidentale (CFR: Consiglio Stato sez. IV, 29 settembre 1997, n. 1029)

 

Perciò così come l'illegittima esclusione di un candidato da un concorso per pubblici impieghi implica l'annullamento non solo dell'atto impugnato, ma pure di quelli successivi che dal primo siano necessariamente ed immediatamente condizionati determinando un effetto ripristinatorio della sua posizione giuridica che non si limita alla sua partecipazione al concorso medesimo, ma si estende anche alla graduatoria concorsuale e all'atto con cui sono stati approvati i risultati di detto concorso, con l'obbligo della p.a. di rimuovere gli atti di nomina all'impiego dei relativi vincitori e di procedere al rinnovo dell'intero procedimento con la partecipazione dell'interessato, allo stesso modo l'illegittima partecipazione, perchè non candidabile ab initio, di un candidato in una competizione elettorale inficia e travolge tutti gli atti successivi (a quello che lo inserisce fra i candidati della competizione), che in quello annullato trovano il loro antecedente necessario determinando la necessità di ripristinare la situazione anteatta (CFR: Consiglio Stato sez. V, 12 luglio 1996, n° 858 e Consiglio Stato sez. V., 24 maggio 1996, n° 592).

 

In questo senso pertanto l’accertata non candidabilità inficia in modo irreparabile l’intero procedimento elettorale travolgendo tutti gli atti adottati dal momento successivo all’ammissione della lista comprendente l’Arcodia determinando così la nullità di tutti gli atti dell’unico e unitario procedimento sfociato nella elezione del Consiglio Comunale e del Sindaco.

 

Dall’esposto ragionamento consegue logicamente l’accoglimento della domanda subordinata, di cui al ricorso, di annullamento totale di tutti gli atti impugnati con conseguente rinnovo delle elezioni per consiglio comunale e sindaco, non potendo avere accesso, com’è evidente, la mera richiesta di rettifica del risultato elettorale, avanzata in via principale dai ricorrenti.

 

Come abbiamo visto, basta quanto detto per accogliere il ricorso nei termini sopra esposti.

 

Ma, ad abuntantiam, il Collegio precisa che alle stesse conclusioni si perviene anche ragionando sull'influenza che la presenza dell'Arcodia nella competizione ha avuto sul risultato elettorale.

 

Come abbiamo visto in fatto, il distacco tra le due liste (110 Voti) in competizione per il consiglio comunale risulta inferiore ai voti conseguiti dall 'Arcodia (145).

 

Perciò nessun dubbio può sussistere circa la sua presenza determinante sul risultato elettorale conseguito dalla lista dove era candidato per il consiglio Comunale.

 

Lo stesso ragionamento va fatto anche per il risultato dell’elezione a sindaco; invero il distacco tra i due candidati sindaci risulta senz'altro inferiore ai voti conseguiti dall'Arcodia e rifluiti sul sindaco collegato alla stessa lista.

 

Su questo specifico punto il risultato della verificazione disposta dal Tar ha permesso di accertare le diverse tipologie di voto che sono transitati nel conteggio dei voti del candidato a sindaco Duodeci (collegato alla. lista dove era inserito 1 'Arcodia)

 

Basta all'uopo solo tenere conto delle 129 schede in cui l'elettore ha votato sia per la lista che esprimendo la preferenza per Arcodia (S1 ripete sia inserendo il nome Arcodia che mettendo un segno o crocesegno espressamente sulla lista a cui apparteneva).

 

In tale ipotesi il voto si è trasferito anche al candidato sindaco per conseguenza del collegamento alla lista votata.

 

Ebbene non si puoi sostenere (come vorrebbero i controinteressati) che in tale fattispecie il trasferimento del voto al sindaco avvenga autonomamente rispetto alla espressione della preferenza all 'Arcodia.

 

Sia la normativa elettorale che dispone il collegamento, sia la logica sia il senso comune (quando si vota un candidato è in genere questa la molla che motiva tutto il voto nelle sue possibili sfaccettature) depongono per un rapporto di stretta interdipendenza tra l'espressione della preferenza e il voto alla lista che (a sua volta) si trasmette al sindaco collegato; ciò determina la necessaria comunicazione dell'illegittimità conseguente al voto espresso per il non candidabile anche al voto alla lista a cui appartiene e quindi a tutta la scheda avente la esaminata tipologia.

 

Il risultato raggiunto nella disamina (le schede con questa tipologia sono 129 e lo scarto fra i candidati sindaci è solo di 97 voti) rende inutile l'esame delle altre tipologie descritte dal verificatore.

 

In conclusione sia sotto il primo profilo (annullamento del procedimento sin dal momento successivo alla ammissione della lista con il non candidabile), sia sotto il secondo profilo esaminato ( da cui risulta che l'apporto del corpo elettorale convergente con la preferenza all'Arcodia ha un'influenza determinante sul complessivo risultato elettorale) implica la rinnovazione l'intera consultazione (CFR: Consiglio Stato V, 28 febbraio 1987 n. 145). Perciò, assorbiti i profili e le censure non esaminate, il ricorso va accolto con il conseguente annullamento degli atti impugnati.

 

Ricorrono giusti motivi per compensare le spese.

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia Sezione staccata di Catania Sezione 2a accoglie

 

e il ricorso e, per l'effetto, annulla gli atti impugnati e ordina il rinnovo totale delle elezioni del Consiglio comunale e del Sindaco del comune intimato.

 

Spese compensate.

 

Ordina che la presente sentenza sia dall'Autorità amministrativa

 

Manda alla segreteria del Tribunale di trasmettere immediatamente copia della presente sentenza al sindaco del Comune di S. Marco D'Alunzio ed al Prefetto di Messina perchè provvedano agli adempimenti prescritti dall'art. 2 della legge 23 dicembre 1966 n. 1147.

 

Così deciso in Catania nella camera di consiglio del 25.5.99.

 

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

 

Il Segretario


 

Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, Sentenza 27 gennaio - 14 marzo 2000, n. 113

 

 

 

Sent. n° 113 del 27.1.2000/14.3.2000

 

N 113/00 Reg. Dec.

 

N. 935/99 Reg. Ric

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale ha pronunciato la seguente

 

DECISIONE

 

sul ricorso in appello n. 935 del 1999 proposto da DUODECI GIUSEPPE, MILETI ANTONIO, MUSARRA ROBERTO, LATINO AMEDEO, LATINO CELESTINO NINO, MONASTRA CESARE, MUSARRA SALVATORE, TANANIA BENIAMINO e LUNGHITANO GINO, rappresentati e difesi dall'Avv. Arturo Merlo, elettivamente domiciliati presso lo studio dell'Avv. Giovanna Condorelli, in Palermo, via Torricelli 3;

 

- APPELLANTI -

 

contro

 

PRIOLA CELESTINO SANTO, rappresentato e difeso dall'Avv. Fabrizio Guerrera, elettivamente domiciliato presso lo studio dell'Avv. Cirino Gallo, in Palermo, via Gen.Arimondi 2/Q;

 

- APPELLATO E APPELLANTE INCIDENTALE -

 

e contro

 

MONICI ADELINA, RUSSO GIUSEPPE, MARTINO CINNERA MARGHERITA, MUSARRA LUCIANO, SANSIVERI AMEDEO, MONASTRA ENRICO, TORTORICI SALVATORE, RUSSO SERGIO e PEDALA' SALVATORE, non costituiti in giudizio;

 

e nei confronti

 

- del COMUNE DI SAN MARCO D'ALUNZIO, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;

 

- della COMMISSIONE ELETTORALE CIRCONDARIALE DI PATTI, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata presso la stessa, in Palermo, via De Gasperi 81;

 

- della PROCURA DELLA REPUBBUCA DI CATANIA, in persona del Procuratore pro tempore, non costituita in giudizio;

 

- di FURNARI ANTONINO, ARCODIA AMEDEO BASILIO, FERRETTA ALBINO E GRAZIANO SALVATORE, non costituti in giudizio;

 

per l'annullamento

 

della sentenza n° 1021 del 27 maggio 1999, con la quale il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione II di Catania, ha accolto il ricorso proposto da Priola Celestino Santo ed altri per l'annullamento delle operazioni elettorali per il rinnovo degli organi comunali di S. Marco d'Alunzio del 24 maggio 1998, ed ordinato il rinnovo totale delle elezioni del Consiglio Comunale e del Sindaco.

 

Visto il ricorso in appello di cui in epigrafe;

 

Visto il controricorso e ricorso incidentale di Priola Celestino Santo;

 

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Commissione Elettorale Circondariale di Patti;

 

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

 

Vista l'ordinanza n. 629 del 29 luglio 1999, con la quale è stata

 

respinta la domanda incidentale di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata;

 

Visti gli atti tutti della causa;

 

Relatore alla pubblica udienza del 27 gennaio 2000 il Consigliere Giorgio Giaccardi e uditi, altresì, l'Avv. A. Merlo, l'Avv. G. Garraffa, su delega dell'Avv. F. Guerrera, e l'Avv. dello Stato Tutino.

 

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

 

FATTO

 

Con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania, il sig. Celestino Santo Priola e litisconsorti, elettori del Comune di San Marco d'Alunzio e candidati per la lista "Alba Aluntina" alla competizione elettorale tenutasi nel maggio 1998 per il rinnovo del Sindaco e del Consiglio Comunale, impugnavano, chiedendone l'annullamento, il verbale dell'Adunanza dei Presidenti di Seggio del 26 maggio 1998 con cui è stata proclamata l'elezione a Sindaco del Sig. Giuseppe Duodeci, collegato alla lista "Movimento per San Marco", e sono stati assegnati alla medesima lista n.7 seggi di consigliere comunale, a fronte di n. 5 seggi assegnati alla lista "Alba Aluntina". Con il medesimo ricorso venivano altresì impugnati il verbale della Il Sottocommissione elettorale circondariale di Patti, sede di 5. Agata Militello, n. 54 del 30 aprile 1998, nella parte in cui ammetteva alle elezioni la lista "Movimento per San Marco", con contestuale esclusione dalla stessa della candidatura del dott. Amedeo Basilio Arcodia, nonché il verbale della stessa Sottocommissione n. 70 del 13 maggio 1998, con il quale si prendeva atto e si dava esecuzione all'ordinanza n. 1056/98 del T.A.R. Sicilia, Catania, che aveva ammesso con riserva alla competizione elettorale il predetto Arcodia. A sostegno del ricorso venivano dedotti i seguenti motivi:

 

1. Violazione deIl'art. 7 L.R. 26.8.1992. n. 7, modificato dalla L.R. n.35/1997. violazione dell'art. 17 D.P. reg. sic.20.8.1960, n. 3 e successive modificazioni, in quanto la lista "Movimento per San Marco" sarebbe stata presentata senza le certificazioni comprovanti l'iscrizione dei sottoscrittori nelle liste elettorali del Comune;

 

2.Violazione dell'art. 15, comma 1. lett. c L. 19.3.1990. n. 55. modificato dalla legge n. 16 del 1992. violazione dell'art. 18. comma 1,lett. B) D.P. Reg. Sic. n. 3/1960 e successive modificazioni, stante l'illegittima partecipazione alla competizione elettorale, nella lista "Movimento per San Marco", del dott. Amedeo Basilio Arcodia, non candidabile ai sensi della normativa rubricata, avendo patteggiato la condanna di anni 1 e mesi 5 di reclusione per i reati di cui agli artt. 323 e 353 Cod.pen.;

 

3.Violazione dell'art. 15 L. 19.3.1990. n. 55. violazione e falsa applicazione dell'art. 38 c. 7 D.P.Reg.Sic. n. 3/1960. in relazione agli artt. 15. comma 1. L.5511990 e 2 L.1611992, in quanto la partecipazione alle elezioni del non candidabile Arcodia ha inciso con effetto invalidante sull'intero risultato elettorale.

 

Concludevano, i ricorrenti, chiedendo in via gradata: 1) l'annullamento dell'ammissione della lista "Movimento per San Marco"; 2) l'annullamento delle schede recanti voto di preferenza in favore del dott. Amedeo Basilio Arcodia, con conseguente correzione del risultato elettorale, con elezione dei sette candidati della lista "Alba Aluntina" meglio graduati e del candidato Sindaco collegato a tale lista; 3) l'annullamento degli atti impugnati.

 

Disposti incombenti istruttori con ordinanza collegiale n. 11/99 ed espletata la relativa verificazione, con la sentenza di cui in epigrafe il Tribunale adito, in accoglimento del secondo e terzo motivo congiuntamente esaminati, ha annullato in toto le operazioni elettorali, ordinandone l'integrale rinnovazione e dichiarando assorbiti i profili e le censure non esaminati.

 

Ricorrono in appello il Sindaco eletto, Sig. Giuseppe Duodeci, e litisconsorti, deducendo:

 

1) Errore in procedendo, per non avere il primo giudice atteso la definizione del regolamento preventivo di giurisdizione sollevato dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sul ricorso proposto dall'Arcodia avverso il provvedimento di esclusione che lo riguardava, e per non avere quindi riunito i due giudizi in ragione del vincolo di pregiudizialità dell'uno rispetto all'altro.

 

2) Erroneità della sentenza appellata nella parte in cui fa automaticamente discendere dalla dichiarata incandidabilità dell'Arcodia l'effetto derivato della nullità di tutte le operazioni elettorali.

 

3) Erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ha ritenuto che l'istruttoria espletata in corso di giudizio abbia fornito la prova che i voti espressi in favore dell'Arcodia siano stati determinanti per l'elezione a Sindaco del Duodeci e per il conseguimento della maggioranza per la lista alla quale questi risultava collegato.

 

Resiste al gravame il sig. Priola, eccependone l'inammissibilità e/o improcedibilità sotto vari profili, e comunque chiedendone il rigetto nel merito.

 

Il medesimo appellato formula a sua volta appello incidentale con il quale, riproposti integralmente i tre motivi dedotti con il ricorso di primo grado, deduce che erroneamente il T.A.R. ha annullato in toto le operazioni elettorali, imponendone la rinnovazione, anziché limitarsi a correggere il risultato della consultazione a favore della lista "Alba Aluntina" e del candidato Sindaco ad essa collegato.

 

Con due ulteriori motivi, l'appellante incidentale censura inoltre la sentenza di primo grado, da un lato, per eccesso di pronunzia rispetto al petitum originario, e dall'altro per omessa pronunzia sul primo motivo di ricorso, erroneamente assorbito.

 

Delle altre parti intimate si è costituita la Commissione Elettorale Circondariale, con il patrocinio dell'Avvocatura Distrettuale dello Stato, chiedendo in pubblica udienza la propria estromissione dal giudizio per difetto di legittimazione passiva.

 

DIRITTO

 

1. In adesione all'istanza formulata in pubblica udienza dall'Avvocatura dello Stato, deve preliminarmente disporsi l'estromissione dal giudizio della Commissione elettorale circondariale, cui non compete la veste di parte nel giudizio elettorale, attesane la natura di organo straordinario a carattere temporaneo. Unica parte pubblica necessaria è invece, secondo costante giurisprudenza anche di questo Consiglio, l'ente locale (Comune) che si appropria del risultato elettorale e sul quale si riverberano gli effetti dell'annullamento, ovvero della conferma, dell'atto di proclamazione degli eletti.

 

2. Si può prescindere dall'esame delle eccezioni di inammissibilità e/o improcedibilità dell'appello principale sollevate in sede di controricorso ed appello incidentale –eccezioni, peraltro, relative a presunti vizi di notificazione nei confronti di talune soltanto delle parti pubbliche e private presenti nel giudizio di primo grado, in quanto tali suscettibili di eventuale regolarizzazione mediante integrazione del contraddittorio- essendo il suddetto appello comunque infondato nel merito.

 

3. Con il primo motivo gli appellanti deducono un vizio di procedura nel quale sarebbe incorso il giudice di primo grado, tale da comportare, secondo la loro prospettazione, l'annullamento con rinvio, ex art.35 L.10341197 1. Essi assumono, in sintesi:

 

- che avrebbe carattere necessariamente pregiudiziale, rispetto al presente giudizio, la definizione di altra controversia pendente dinanzi al T.A.R. di Catania su ricorso proposto dal sig. Amedeo Basilio Arcodia avverso il provvedimento di esclusione della propria candidatura a consigliere comunale (provvedimento, peraltro, sospeso in via cautelare dallo stesso T.A.R. con ordinanza n. 1056/98, in forza della quale l'Arcodia ha partecipato "con riserva" alla competizione elettorale nella lista "Movimento per S.Marco");

 

- che, a seguito della sospensione obbligatoria della suddetta controversia pregiudiziale, disposta ai sensi dell'art. 367 c.p.c. a seguito della proposizione da parte dei resistenti di regolamento preventivo di giurisdizione, il T.A.R. avrebbe dovuto attendere la pronunzia definitiva della Corte di Cassazione, prima di decidere nel merito il giudizio di impugnazione delle operazioni elettorali;

 

- che, in ogni caso, il T.A.R. avrebbe dovuto procedere alla riunione dei due procedimenti e alla decisione pregiudiziale di quello nell'ambito del quale ha pronunziato la sospensiva che ha consentito all'Arcodia di partecipare alla competizione elettorale;

 

- che, allo stato, la partecipazione dell'Arcodia deve ritenersi legittima, essendo stata provocata da una pronunzia giurisdizionale cautelare tuttora efficace, in quanto non caducata (né comunque caducabile) dalla sentenza del Tribunale di Patti 577 del 12.10.1998, passata in giudicato, che ha nel frattempo di dichiarato la non candidabilità dell'Arcodia, ai sensi dell'art. 15, comma L. l9 marzo 1990, n.55.

 

La complessa doglianza che precede è destituita di fon mento. In particolare, è infondato il presupposto da cui essa trae origine, e cioè che la questione relativa alla legittimità, o meno, dell'esclusione dell 'Arcodia dalla competizione elettorale, originariamente disposta dalla sottocommissione circondariale e formante oggetto del primo giudizio dinanzi al T.A.R., abbia carattere pregiudiziale rispetto al giudizio sulla legittimità delle operazioni elettorali concretamente svoltesi, che forma invece oggetto della presente controversia.

 

Un tale rapporto di pregiudizialità sarebbe invero ipotizzabile ove, a seguito della disposta esclusione, le elezioni si fossero svolte senza la partecipazione dell'Arcodia, atteso che l'eventuale annullamento del provvedimento di esclusione inciderebbe in tal caso, in via di illegittimità derivata, sull'esito della competizione elettorale nel frattempo svoltasi.

 

Nella specie, al contrario, il candidato inizialmente escluso ha nondimeno partecipato "con riserva" alle elezioni, sulla base di un'ordinanza cautelare resa medio tempore dal giudice amministrativo. La successiva sentenza di merito del Tribunale di Patti, con cui e' stata dichiarata la non candidabilità dell'Arcodia, non ha di per sé caducato l'ordinanza cautelare di ammissione con riserva, né tanto meno gli ef-fetti dalla stessa provocati sul complesso delle operazioni elettorali nel frattempo svoltesi, ma ha semplicemente qualificato come illegittima l'avvenuta partecipazione a detta consultazione del non candidabile, sancendo di conseguenza la nullità della nomina a consigliere comunale dal medesimo conseguita, ai sensi dell'art. 15, comma 4, L.55/1990 cit.. L'intervenuto passaggio in giudicato di tale sentenza ha reso, d'altro canto, definitivo ed irretrattabile l'accertatnento di non candidabilità, con la conseguenza che doverosamente il giudice amministrativo ha posto tale pronunzia a fondamento del proprio sindacato di legittimità sulle operazioni elettorali svoltesi con l'indebita partecipazione di un soggetto che avrebbe dovuto invece esserne escluso.

 

Ne deriva, altresì, che il presente giudizio non è in alcun modo condizionato dalla questione di giurisdizione sollevata nel giudizio sull'ammissione/esclusione della candidatura Arcodia, atteso che, da un lato, il regolamento preventivo di giurisdizione esplica effetto so-spensivo nell'ambito del solo processo in cui è stato proposto, e non anche in altri ad esso eventualmente collegati; dall'altro, ciò che rileva in questa sede è unicamente il "fatto" rappresentato dall'avvenuta partecipazione alla competizione elettorale di un soggetto non avente titolo.

 

4. Con il secondo motivo gli appellanti sostengono che err~ neamente il T.A.R. avrebbe fatto discendere dalla dichiarata incandi-dabilità dell'Arcodia l'effetto derivato della nullità di tutte le opera-zioni elettorali: e ciò in quanto, ai sensi del già citato art. 15, comma 4, L.5511990, la non candidabilità dovrebbe assimilarsi all'ineleggibilità, determinando la nullità non già della candidatura (e quindi della par-tecipazione alla competizione), ma della sola elezione eventualmente conseguita dal soggetto direttamente interessato.

 

La censura è priva di pregio.

 

Come esattamente argomentato dal primo giudice, l'art. 15 della legge n. 55/1990 ha introdotto una nuova figura di incapacità giuridica speciale, che inerisce ad una situazione (la candidabilità) prodromica rispetto all'elezione e si traduce nel divieto assoluto di partecipare alla competizione elettorale in capo al soggetto che versi in una delle condizioni ostative previste dalla legge. La stessa collocazione della norma di cui trattasi nel quadro complessivo della legislazione antimafia comprova di per sé come, tra le finalità a cui essa assolve, vi sia anche (ed anzi assuma rilievo prioritario rispetto alla mera funzione sanzionatoria espressa dalla previsione di nullità dell'elezione del diretto interessato) la finalità di tutelare il regolare svolgimento delle operazioni elettorali a fronte di possibili deviazioni e condizionamenti derivanti dalla partecipazione inquinante del non candidabile (cfr. Corte Cost., 21-29 ottobre 1992, n. 407).

 

In tale prospettiva, merita quindi condivisione la linea argomen-tativa seguita dal primo giudice: il quale, data per ferma ed inconte-stabile la situazione di incandidabilità così come accertata con senten-za dell'autorità giudiziaria ordinaria passata in giudicato, si è quindi posto correttatnente il problema dell'incidenza riflessa sul comples-sivo esito elettorale della presenza, in una delle due liste in competizione, di un soggetto che avrebbe invece dovuto esserne escluso.

 

5. Resta da considerare se, rispetto a tale corretta premessa metodologica, sia o meno coerente e conseguente la conclusione tratta dalla sentenza impugnata, e cioè l'annullamento dell'intera tornata elettorale, con conseguente ordine di integrale rinnovazione della stessa.

 

Tale conclusione viene contestata (ovviamente da opposte angolazioni) sia da parte degli appellanti principali (terzo motivo d'impugnazione), sia in sede di appello incidentale.

 

Si sostiene, dagli uni, che la verificazione istruttoria disposta nel corso del giudizio di primo grado non varrebbe ad avallare la conclusione che i voti di preferenza espressi in favore dell'Arcodia, numericamente superiori rispetto allo scarto differenziale tra i voti riportati dalle due liste in competizione e dai candidati sindaci ad esse collegati, inciderebbero con influenza determinante sul complessivo risultato elettorale, sì da determinarne la totale invalidazione: ciò in quanto la maggior parte delle schede recanti preferenza a favore di Arcodia (129 su un totale di 147) contengono anche un'esplicita espressione di voto sul contrassegno di lista, ciò che comporterebbe l'annullarnento del solo voto di preferenza, e non anche di quello a favore della lista e, di riflesso, del candidato Sindaco.

 

Sostiene, di contro, l'appellante incidentale che le preferenze in tal guisa espresse in favore del non candidabile comporterebbero la nullità delle relative schede, in quanto contenenti indicazione vietata ai sensi dell'art. 38, comma 7, D.P.Reg.Sic. n. 3/1960, nel testo sostituito dall'art. 29 L.R. n. 7/1992, ma non invaliderebbero l'elezione nel su complesso: con la conseguenza che il T.A.R. avrebbe dovuto limitare la propria pronunzia alla correzione dell'esito elettorale, con attribuzione alla lista "Alba Aluntina" di sette seggi (anziché cinque) ed elezione a Sindaco del candidato a tale lista collegato.

 

Ambedue i contrapposti profili di censura, ad avviso del Collegio, non sono fondati.

 

Quanto al motivo d'appello principale, è evidente come la fatti specie in esame non possa in alcun modo assimilarsi all'ipotesi, normativamente contemplata, in cui accanto ad un voto di lista validamente espresso figuri un voto di preferenza invalido, in quanto assegnato a candidato appartenente a lista diversa da quella votata. Nell specie, infatti, vi è coincidenza (e non già divergenza) nella manifestazione di volontà dell'elettore complessivamente considerata, mentre l'invalidità del voto di preferenza discende dalla situazione soggettiva di incapacità del candidato votato: sicché non è in alcun modo dimo-strabile se sia stato il voto di preferenza a subire l'influenza dalla scelta della lista, o se al contrario proprio la preferenza accordata al non candidabile (già Sindaco del Comune, ed in quanto tale sicuramente dotato di una propria personale base elettorale) abbia esplicato un effetto di "trascinamento" sul contestuale voto di lista e su quello automaticamente attribuibile al candidato Sindaco con essa collegato.

 

Ma, d'altra parte, proprio l'oggettiva indimostrabilità dei meccanismi psicologici che possono aver indotto gli elettori a votare congiuntamente il candidato Arcodia e la lista nella quale il medesimo risultava inserito, impediscono di accedere alla pur abile prospettazione difensiva dell'appellante incidentale. Ed invero, l'espressione di un voto di preferenza in favore di un candidato che, nel momento storico in cui si svolgeva la votazione, risultava a tutti gli effetti inserito in una delle liste in competizione, ancorché sia stato successivamente dichiarato non candidabile, non può essere equiparata all'ipotesi in cui l'elettore abbia invece votato un nominativo estraneo, in quanto non compreso in alcuna delle predette liste. Mentre infatti quest'ultima espressione di voto costituisce, per la sua anomalia, un'indicazione vietata tale da comportare la totale nullità della scheda, nel caso in esame si è invece in presenza di una normale e fisiologica espressione congiunta di voto di lista e voto di preferenza, con oggettiva ed assoluta impossibilità di discernere se ed in quale misura la preferenza abbia influito sulla scelta della lista, o viceversa.

 

In tale situazione, va quindi confermata la statuizione con cui il primo giudice, accogliendo la richiesta formulata in linea subordinata dagli originari ricorrenti, ha annullato l'intera competizione elettorale in considerazione dell'avvenuta partecipazione alla stessa di un soggetto non candidabile, tale di per sé da incidere con effetto inquinante sulla complessiva espressione di voto resa dal corpo elettorale, sia con riguardo all'elezione del Consiglio Comunale sia, di riflesso, a quella del Sindaco.

 

6. Debbono infine essere disattese le due conclusive censure proposte dall'appellante incidentale, aventi rispettivamente ad oggetto un vizio di ultrapetizione ed un vizio di omessa pronunzia asseritamente inficianti la sentenza impugnata.

 

Sotto il primo aspetto, essendo la sentenza di primo grado intervenuta ad elezioni ormai espletate, ed avendo la stessa correttamente dichiarato l'inscindibilità dell'effetto caducante del complessivo risultato elettorale scaturito dalla consultazione, non era evidentemente ipotizzabile una pronunzia ripristinatoria che ordinasse la rinnovazione soltanto parziale della fase iniziale di ammissione delle liste dei candidati, dovendo necessariamente il nuovo instaurando procedimento elettorale ripartire da zero.

 

Alla stessa stregua, una volta annullata l'intera consultazione elettorale in concreto svoltasi, ed il risultato complessivamente derivatone, è logicamente incensurabile la statuizione di assorbimento del primo motivo del ricorso di primo grado, mirante all'annullamento della sola ammissione della lista "Movimento per San Marco", non potendo l'eventuale accoglimento di tale censura nulla aggiungere, né togliere, al più ampio effetto caducatorio e ripristinatorio scaturente dalla pronunzia appellata.

 

7. Per tutte le suestese considerazioni, ambedue gli appelli -principale ed incidentale- debbono essere respinti, con conferma dell'impugnata decisione di totale annullamento delle operazioni elettorali relative al rinnovo del Sindaco e del Consiglio comunale di San Marco d'Alunzio e conseguente ordine di integrale rinnovazione delle operazioni stesse.

 

Si ravvisano giusti motivi di compensazione delle spese di giudizio.

 

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale: 1) dispone l'estromissione dal giudizio della Commissione Elettorale Circondariale di Patti; 2) rigetta l'appello principale e l'appello incidentale; 3) compensa interamente tra le parti le spese di giudizio.

 

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

 

Così deciso in Palermo, addì 27 gennaio 2000 dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, in camera di consiglio, con l'intervento dei Signori: Guglielmo Serio, Presidente, Raffaele Carboni, Giorgio Giaccardi, estensore, Antonio Andò, Antonino Di Biasi, componenti.

 

Depositata in Segreteria

 

il 14 marzo 2000

 

 


Consiglio di Stato, Sezione V, Decisione 15 giugno 2000, n. 3338

 

REPUBBLICA ITALIANA             N.         REG.DEC.

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO      N.  25  REG.RIC.

 

 

Il  Consiglio  di  Stato  in  sede  giurisdizionale,

Quinta  Sezione

ANNO 2000

ha pronunciato la seguente

decisione

sul ricorso in appello nr. 25/2000, proposto da

Alberto CASORIA, Michelarcangelo PERSICHELLA e Gioconda LOBOZZO, rappresentati e difesi dall’avvocato Felice Eugenio Lorusso ed elettivamente domiciliati in Roma, via della Giuliana, n.50, presso lo studio dell’avvocato Ciro Intino,

 

CONTRO

 

il Comune di Bovino, in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Enrico Follieri, ed elettivamente domiciliato in Roma, viale Mazzini, n.6, presso lo studio Lupis.

 

e contro

 

il dott. Francesco Saverio Marseglia, rappresentato e difeso dall’avv. Michele Fares ed elettivamente domiciliato in Roma, V.le Mazzini 134 presso l’avv. Michele Caruso;

 

per la riforma

 

della sentenza del T.A.R. Puglia, Bari, sezione prima, n. 1484/99 del 3 novembre 1999;

Visto l’atto di appello con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Bovino e quello del dott. Marseglia;

Viste le memorie difensive;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 28 marzo 2000, relatore il consigliere Fabio Cintioli,

uditi gli avv.ti Lorusso e Follieri;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

 

FATTO

 

Con il ricorso di primo grado Alberto CASORIA e Michelarcangelo PERSICHELLA, nella rispettiva qualità di candidati, e Gioconda LOBOZZO, nella qualità di elettore, hanno chiesto l’annullamento delle operazioni elettorali per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale di Bovino, tenutesi in data 13.6.1999.

In particolare, alla competizione elettorale avevano partecipato tre liste:

- la lista “Continuità e sviluppo”, con candidato sindaco Leonardo Lombardi, che ha conseguito 1138 voti, vincendo le elezioni;

- la lista “Polo per Bovino”, con candidato sindaco Alberto Casoria, che ha ottenuto 997 voti;

- la lista “Orizzonte Bovino”, con candidato sindaco Francesco Saverio Marseglia, che ha ottenuto 598 voti.

I ricorrenti hanno osservato che il candidato sindaco Marseglia, titolare dell’ufficio del giudice di pace, ne aveva svolto le funzioni in prossimità della votazione, senza anticiparne la cessazione entro il termine stabilito dall’art. 2, comma 2, della legge 23 aprile 1981, n. 154.

Il candidato sindaco della lista “Orizzonte Bovino”, dunque, versava in stata di ineleggibilità alla carica di sindaco, per effetto del combinato disposto di cui agli artt. 2, comma 1, n.6), della legge n. 154 del 1981, 6 del d.P.R. 16.5.1960, n. 570, e 39 della legge 21.11.1991, n. 374.

Secondo i ricorrenti, questa circostanza avrebbe invalidato tutte le operazioni elettorali, di cui si chiedeva pertanto l’annullamento.

Il T.A.R. ha rigettato il ricorso.

I predetti ricorrenti, quindi, hanno proposto appello, col quale hanno nuovamente dedotto, in via principale, il motivo di gravame basato sull’invalidità di tutte le elezioni comunali ed, in via subordinata, l’eccezione di incostituzionalità della disciplina di cui al d.P.R. 16.5.1960, n. 570, alla legge 25.3.1993, n. 81 ed alla legge 23.4.1981, n. 154, nella parte in cui non sanciscono la radicale nullità delle elezioni svoltesi con la partecipazione di un lista collegata ad un candidato sindaco ineleggibile.

Si è costituito il Comune di Bovino, che ha proposto appello incidentale, al fine di sollevare nuovamente la questione di giurisdizione del giudice adito, resistendo nel merito ai motivi di appello.

Si è, altresì, costituito Francesco Saverio Marseglia, che ha resistito all’appello, chiedendone il rigetto.

La causa è stata discussa e posta in decisione nell’udienza del 28 marzo 2000.

 

DIRITTO

 

1. L’appello incidentale proposto dal Comune di Bovino è infondato.

La domanda dei ricorrenti è volta all’accertamento di un vizio di legittimità del procedimento elettorale, derivante dalla partecipazione di una lista collegata ad un candidato sindaco ineleggibile, e, per l’effetto, si risolve nella richiesta di annullamento di tutte le operazioni elettorali per invalidità derivata.

Il petitum sostanziale coincide con l’annullamento del procedimento e degli esiti di esso. La causa petendi risponde alla posizione di vantaggio che il candidato e l’elettore in genere derivano dalle norme che fissano i requisiti di validità del procedimento elettorale: in sintesi, una situazione soggettiva di interesse legittimo, che radica, secondo tradizione, la giurisdizione del giudice amministrativo in materia elettorale.

L’accertamento sull’ineleggibilità è richiesto al giudice in via incidentale, al fine di verificare l’esistenza di quella che i ricorrenti assumono al rango di causa invalidante, e rimane estraneo al petitum che qualifica la domanda. Il rapporto processuale, pertanto, è ben diverso da quello che si instaura davanti al giudice ordinario per l’indagine sull’esistenza di cause di ineleggibilità

L’art. 8 della legge 6.12.1971, n.1034 e l’art.28 del r.d. 26 giugno 1924, n.1054, consentono al giudice amministrativo di pronunciare incidenter tantum su questioni relative a diritti soggettivi, se la loro definizione è pregiudiziale per la decisione della questione controversa; né l’elettorato passivo rientra tra le questioni di stato delle persone fisiche che il giudice amministrativo non può conoscere neppure in via incidentale, essendo queste limitate solo allo stato di cittadinanza e di famiglia (v. Cons. Stato, sez. V, 13 settembre 1999, n.1052).

2. Con l’unico articolato motivo di appello i ricorrenti sostengono che l’ineleggibilità del candidato sindaco di una delle tre liste partecipanti alla competizione elettorale avrebbe viziato l’intera procedura.

La posizione di vantaggio del candidato che ricopriva l’ufficio del giudice di pace avrebbe compromesso il valido svolgimento delle elezioni: non solo a proprio favore ed in linea unilaterale, mediante il naturale accaparramento di parte dei consensi, quale conseguenza del prestigio personale e della notorietà locale discendente dalla carica ricoperta; ma anche influenzando gli esiti dei risultati nei soli riguardi delle altre liste, quando (come è accaduto nel caso di specie) la lista del candidato ineleggibile resti soccombente. Ed invero, osservano gli appellanti che l’irregolare composizione della lista ha falsato del tutto i risultati, dal momento che essa non avrebbe dovuto trovare spazio alcuno e che tutti i voti da essa conseguiti si sarebbero dovuti ripartire tra le liste residue. La presenza del candidato ineleggibile avrebbe condizionato la scelta concreta del sindaco ed avrebbe, altresì, inciso sulla formazione del consiglio comunale; sia nella ripartizione tra le liste regolari, sia garantendo alcuni seggi a candidati consiglieri che si sono avvalsi del collegamento ad un soggetto non legittimato.

Queste anomalie, secondo gli appellanti, discendono dal rilievo che, nell’assetto delineato dalla legge 25.3.1993, n.81, nelle elezioni dei Comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti i voti conseguiti dal candidato sindaco si intendono automaticamente attribuiti anche alla collegata lista di candidati alla carica di consigliere (v. art.5, comma 6 di tale legge).

Proprio questo automatismo renderebbe palese l’attitudine immediata della partecipazione del candidato ineleggibile all’invalidazione di tutta la tornata elettorale.

A conferma di queste considerazioni gli appellanti richiamano un precedente della Sezione, nel quale si sono affermati i seguenti principi:

a) che, nelle elezioni in Comuni con meno di 15.000 abitanti, tra il candidato sindaco e la lista collegata vi è un rapporto di integrazione, che costituisce un tratto significativo della recente riforma del sistema elettorale amministrativo;

b) che la presentazione della lista è una fattispecie unitaria, di cui sono elementi essenziali sia l’indicazione del candidato alla carica di sindaco, sia l’elenco dei candidati al consiglio comunale, sia il programma amministrativo;

c) che la designazione del candidato sindaco è condizione essenziale per la valida presentazione della lista;

d) che l’ammissione di una lista che propone un soggetto incandidabile ai sensi dell’art.15, comma 1, della legge 19.3.1990, n.55, è illegittima, per carenza di un requisito essenziale, e dà luogo ad un vizio che rende invalido lo svolgimento di tutte le operazioni elettorali (v. Cons. Stato, sez. V, n.1052 del 1999).

3. Il motivo di appello è infondato.

Si prendono le mosse dalla nozione e dal peculiare effetto della causa di ineleggibilità.

Essa è prescritta, per restare più vicini al caso di specie, nei confronti di coloro che, ricoprendo un incarico o funzione pubblica di notevole rilievo sociale, politico od istituzionale, possono trarne immediato giovamento, in termini di prestigio personale e di potenziale aumento del consenso elettorale. Sicché la mera partecipazione di chi abbia questo (sia pur potenziale) vantaggio può alterare, per valutazione legislativa espressa, la regolarità della competizione.

Il rimedio apprestato consiste nell’impedire a coloro che non abbiano previamente rimosso la causa di ineleggibilità di accedere alla pubblica funzione elettiva, comminando una vera e propria causa di decadenza.

In specie, ai sensi dell’art.75 del d.P.R. n.570 del 1960, è il consiglio comunale che, nella seduta immediatamente successiva alle elezioni e prima di ogni altra delibera, esamina le condizioni degli eletti e dichiara le eventuali ineleggibilità.

L’ineleggibilità, pertanto, funziona come temporanea sospensione del diritto di elettorato passivo.

Essa diverge dalla incompatibilità, che offre, invece, al candidato eletto la facoltà di scegliere tra la carica elettiva e l’ufficio o l’incarico da cui discende l’impedimento. Si tratta, in questo caso, di incarico ricoperto anche durante le operazioni di voto, senza che ne derivi alcuna conseguenza sul risultato: il legislatore guarda solo alla fase posteriore alle elezioni, imponendo all’eletto di eliminare concorrenti situazione soggettive che possano minare il proficuo e corretto espletamento del mandato elettorale.

4. La disciplina dell’ineleggibilità, tuttavia, diverge anche dalla peculiare forma di incandidabilità prevista dall’art.15, comma 1, della legge n.55 del 1990 (nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di stampo mafioso), che vieta di candidarsi alle elezioni regionali, provinciali ed amministrative a coloro che hanno riportato condanne od abbiano in corso procedimenti penali per determinate categorie di delitti.

In questo caso al divieto della candidatura si accompagna una previsione di nullità dell’elezione, ma, soprattutto, una disciplina specifica sui poteri di controllo dell’ufficio elettorale in sede di presentazione della lista. Gli artt. 30 e 33, rispettiva lettera c), del d.P.R. n.570 del 1960, come novellati dall’art.2 della legge 18.1.1992, n.16, stabiliscono che la commissione elettorale, nell’eseguire il controllo sulle liste, “elimina il nome dei candidati a carico dei quali viene accertata la sussistenza di alcuna delle condizioni previste dal comma 1 dell’art.15 della legge 19 marzo 1990, n.55”.

Tale quadro legislativo, a ben vedere, appare razionale, e si comprende come l’illegittima ammissione della lista che propone un sindaco non candidabile possa tradursi in una invalidità che inficia tutte le elezioni, come ritenuto dal citato precedente giurisprudenziale.

Viene comminato il divieto di candidatura, ma viene anche regolato un potere di controllo su questa causa di impedimento, che può risolversi nella radicale eliminazione del candidato consigliere ineleggibile, come anche nell’eliminazione della lista collegata al candidato sindaco ineleggibile. Se non si dispone l’eliminazione e la lista è ammessa, pur in queste condizioni, è integrato un vizio di legittimità, da cui discende l’invalidità di questo cruciale momento della procedura elettorale.

5. Siffatta disciplina non trova riscontro per le cause ordinarie di ineleggibilità, tra le quali è compresa quella di chi abbia svolto le funzioni di giudice di pace senza cessarle entro i termini stabiliti.

Non è previsto in questa ipotesi alcun potere effettivo di controllo della commissione elettorale, che dovrà arrestarsi alla verifica di stampo formale regolata dai citati artt. 30 e 33 del d.P.R. n.570 del 1960. L’unica conseguenza prevista dal legislatore è quella dell’accertamento delle posizioni di ineleggibilità da parte del consiglio comunale nella sua prima seduta, ad elezioni concluse (nel senso che la verifica delle eventuali ineleggibilità è adempimento posteriore alla chiusura del procedimento elettorale, v. Cons. Stato, sez. V, 12 agosto 1991, n.1114).

Si condivide, pertanto, l’affermazione del giudice di prime cure, secondo cui l’ineleggibilità, di regola, non è di ostacolo all’ammissione della lista; neppure quando essa colpisce il candidato sindaco; e neppure quando vi sia una stretta integrazione tra lista e candidato sindaco, trattandosi di elezioni in Comuni aventi meno di 15.000 abitanti. Sicché l’ammissione della lista non integra una causa di invalidità, che possa addirittura trasmettersi alle operazioni successive.

 La ragione della diversità della sanzione di nullità, comminata ai sensi dell’art.15, comma 1, della legge n.55 del 1990, è anzitutto dovuta alle finalità che vogliono perseguirsi ed all’intento di scongiurare il pericolo di infauste infiltrazioni criminali negli uffici elettivi. La gravità del fenomeno ben può giustificare conseguenze così forti in caso di violazione della disciplina, ammettendo che la partecipazione di chi è sospettato di avere legami con la criminalità organizzata possa provocare l’annullamento di tutta la competizione elettorale. In tale evenienza il diritto di elettorato attivo subisce una compressione comunque ragionevole, per effetto di una penetrante politica di repressione della criminalità che è sicuramente compatibile con i valori costituzionali, ordinati secondo logica sistematica.

Sul piano procedimentale, oltretutto, il sistema disegnato dall’art. 15 della legge n.55 del 1990, appare coerente, poiché l’eventuale annullamento delle elezioni è la conseguenza di un vizio che matura nel controllo della commissione sulla regolare composizione delle liste. L’erronea ammissione della lista collegata al soggetto non candidabile realizza una illegittimità che si riverbera sullo svolgimento successivo del procedimento.

6. Riassumendo, l’ineleggibilità ordinaria che colpisca il candidato sindaco, anche sotto la vigenza della legge n.81 del 1993, ha un effetto che può definirsi “unilaterale”: provoca la decadenza dell’ineleggibile, senza estendere la sua portata agli altri esiti del voto (per una ulteriore ipotesi, in cui una violazione di legge -nella specie il divieto di “propaganda istituzionale” durante la campagna elettorale ex art. 7 del d.l. 20.3.1995, n.83- non dà luogo ad alcun vizio del procedimento elettorale e non ne determina la nullità, mancando una previsione ad hoc, v. Cons. Stato, sez. V, 21 settembre 1996, n.1148).

Non è previsto un momento di controllo sulla presentazione delle liste ed ogni verifica è consapevolmente rinviata alla prima seduta consiliare. Sicché il procedimento non può restarne per altro verso viziato.

Se il candidato ineleggibile viene eletto sindaco, la decadenza che lo riguarda rende necessaria la celebrazione di nuove elezioni; se, invece, rimane soccombente, le elezioni resteranno valide e si verifica solo la decadenza del candidato sindaco dalla carica di consigliere comunale.

Questo assetto normativo conserva il necessario riguardo dovuto al diritto di elettorato attivo ed attua un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco. Se fosse altrimenti, dovrebbe ammettersi che la mera partecipazione di un candidato sindaco ineleggibile, pur se dolosamente preordinata ad invalidare le elezioni, avrebbe per effetto l’annullamento e la ripetizione del voto, senza limiti. Deve, invero, rimarcarsi che la commissione elettorale non ha il potere di impedire la presentazione della lista per ragione di ineleggibilità (ordinaria) e che le disposizioni di cui agli artt.30 e 33 del d.P.R. n.570 del 1960, dovendo confrontarsi con il diritto di elettorato passivo costituzionalmente garantito, vanno applicate con criteri restrittivi.

Le conclusioni proposte, del resto, sono le più aderenti al principio di economia procedimentale, che in materia elettorale deve combinarsi con la salvaguardia della libera espressione del voto.

Il rischio che, a seguito della vittoria del candidato sindaco ineleggibile, debbano rinnovarsi le elezioni è compatibile con il ruolo della ineleggibilità e consegue alle novità del sistema elettorale della legge n.81 del 1993. Oltretutto, la ferma consapevolezza di questo effetto, in coerenza con quanto dispone l’art.37 bis della legge 8.6.1990, n.142, sconsiglia la candidatura di soggetti ineleggibili, che possono essere “svelati” ancor prima del voto e perciò indeboliti, e ne confina la ricorrenza a casi del tutto marginali.

La decisione di primo grado, dunque, è condivisibile; ma nei soli limiti in cui si è affermato che l’ineleggibilità ordinaria non invalida l’ammissione della lista e che essa vitiatur sed non vitiat. Le ulteriori indagini sulle concrete espressioni di voto appaiono invece, errate, poiché estranee alla presunzione assoluta che la legge collega all’ineleggibilità; e, per altro verso, appaiono comunque esorbitanti rispetto alla materia del contendere.

7. Il rigetto del primo e fondamentale motivo di appello sorregge anche la valutazione di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, per asserita lesione degli artt. 48, 5 e 128 Cost..

Il regime dell’ineleggibilità e dei suoi effetti è espressione della discrezionalità legislativa ed appare conforme al canone di ragionevolezza. Esso, inoltre, attua un contemperamento tra valori costituzionali opposti, da ricercare nella salvaguardia reciproca del diritto di elettorato passivo e del diritto di elettorato attivo in tutte le sue contingenti espressioni.

La tutela costituzionale delle autonomie, infine, non sembra in alcun modo scalfita dalla disciplina in oggetto.

Ne segue il rigetto dell’appello.

8. Sussistono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del secondo grado del giudizio.

 

P.  Q.  M.

 

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione, definitivamente pronunziando, rigetta l’appello.

Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del secondo grado del giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18 gennaio 2000, con l’intervento dei signori:

Salvatore Rosa                             Presidente

Stefano Baccarini                         Consigliere    

Claudio Marchitiello                       Consigliere

Marco Lipari                                  Consigliere

Fabio Cintioli                                 Consigliere relatore-estensore

In originale firmato:

Salvatore Rosa

Fabio Cintioli

Riccardo Meduri


Consiglio di Stato, Sezione V, Decisione 2 maggio 2002, 2333

 

 

REPUBBLICA ITALIANA                        N. 2333/02 REG.DEC.

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO                  N. 915-949-1002-

 

Il  Consiglio  di  Stato  in  sede  giurisdizionale,

(Quinta Sezione)

873-901/2002

ha pronunciato la seguente

 

DECISIONE

 

1)    sul ricorso in appello n. 873/2002 del 07/02/2002, proposto da PACE GIOVANNI rappresentato e difeso dall’avv. Alessandro Pace con domicilio eletto in Roma, piazza Delle Muse, 8, presso Alessandro Pace

 

contro

DI ROSA ANGELO e ACERBO MAURIZIO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Tullio Buzzelli e Vincenzo Cerulli Irelli, con domicilio eletto in Roma, via Dora, 1, presso il secondo;

e nei confronti

 

- della REGIONE ABRUZZO, rappresentata e difesa dall’avv. Franco Favara, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura dello Stato;

- di SALINI ROCCO, PEZZOPANE STEFANIA, FABBIANI FERNANDO, FALCONIO ANTONIO, AIMOLA UMBERTO, DI MASCI BRUNO, GINOBLE TOMMASO non costituitosi;

- di GENEROSO MELILLA, DI STANISLAO AUGUSTO, LA PENNA LUCIANO, PASSERI BRUNO e D'ALFONSO LUCIANO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Claudio Di Tonno e Ugo Di Silvestre, con domicilio eletto in Roma, via Dora, 1, presso l’avv. Vincenzo Cerulli Irelli;

2)    sul ricorso in appello n. 901/2002 dell’8/02/2002,proposto da PAGANO NAZARIO, STATI EZIO, SCIARRETTA FRANCESCO, DE MATTEIS GIORGIO, DI SABATINO FILIPPO, CASTIGLIONE ALFREDO, D'ORAZIO BENIGNO, AMICONE MARIO, BACCHION MARCO, DESIATI MASSIMO, DI STEFANO FABRIZIO, DI CARLO DOMENICO, NORANTE ANTONIO, ORSINI LEO, TANCREDI PAOLO, TEODORO MAURIZIO, PALMERIO VINCENZO, DI MARCANTONIO GIUSTINO, DI FONZO DONATO, TAGLIENTE GIUSEPPE, DI LUZIO VITTORIO, MILETI ITALO, STUARD ARTURO, DI SAVERIO TONINO,

rappresentati e difesi dagli avv.ti Stelio Mangiameli e Vincenzo Colalillo, con domicilio eletto in Roma, via Cola Di Rienzo, 212, presso il primo;

 

contro

- DE ROSA ANGELO e ACERBO MAURIZIO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Tullio Buzzelli e Vincenzo Cerulli Irelli, con domicilio eletto in Roma, via Dora, 1, presso il secondo;

- SALINI ROCCO, D’ALFONSO LUCIANO, DI STANISLAO AUGUSTO, PEZZOPANE STEFANIA, FABBIANI FERNANDO, PACE GIOVANNI, DI NARDO RAFFAELE, MENNA ANTONIO, PROSPERO ANTONIO, FALCONIO ANTONIO, DI MASCI BRUNO, GINOBLE TOMMASO, non costituitisi;

- GENEROSO MELILLA, DI STANISLAO AUGUSTO, AIMOLA UMBERTO, LA PENNA LUCIANO, PASSERI BRUNO e D'ALFONSO LUCIANO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Claudio Di Tonno e Ugo Di Silvestre, con domicilio eletto in Roma, via Dora, 1, presso l’avv. Vincenzo Cerulli Irelli;

 

e nei confronti

 

della REGIONE ABRUZZO, rappresentata e difesa dall’avv. Franco Favara, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura dello Stato;

3)    sul ricorso in appello n. 915/2002 dell’8/02/2002, proposto da SALINI ROCCO rappresentato e difeso dagli avv.ti Adriano Rossi, Franco Gaetano Scoca e Vincenzo Camerini, con domicilio eletto in Roma, via G. Paisiello, 55, presso il secondo;

 

contro

 

- PACE GIOVANNI, PEZZOPANE STEFANIA, GINOBLE TOMMASO, FABIANI FERNANDO, FALCONIO ANTONIO, DI MASCI BRUNO, non costituitisi;

- DE ROSA ANGELO e ACERBO MAURIZIO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Tullio Buzzelli e Vincenzo Cerulli Irelli, con domicilio  eletto in Roma, via Dora, 1, presso il secondo;

- MELILLA GENEROSO, D’ALFONSO LUCIANO, DI STANISLAO AUGUSTO, LA PENNA LUCIANO, AIMOLA UMBERTO, PASSERI BRUNO, VERTICELLI MARCO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Claudio Di Tonno e Ugo Di Silvestre, con domicilio  eletto in Roma, via Dora, 1, presso l’avv. Vincenzo Cerulli Irelli;

 

e nei confronti

 

- della REGIONE ABRUZZO, rappresentata e difesa dall’avv. Franco Favara, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura dello Stato;

4)    Sul ricorso in appello n. 949/2002 dell’11/02/2002, proposto da MENNA ANTONIO, PROSPERO ANTONIO, DI NARDO RAFFAELE, PALMERIO VINCENZO, rappresentati e difesi dall’avv. Stefano Crisci, con domicilio eletto in Roma, via Parigi 11, presso lo stesso;

 

contro

 

DI ROSA ANGELO e ACERBO MAURIZIO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Tullio Buzzelli e Vincenzo Cerulli Irelli, con domicilio  eletto in Roma, via Dora, 1, presso il secondo;

 

e nei confronti

 

- della REGIONE ABRUZZO, rappresentata e difesa dall’avv. Franco Favara, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura dello Stato;

- di GENEROSO MELILLA, D’ALFONSO LUCIANO, LA PENNA LUCIANO, PASSERI BRUNO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Claudio Di Tonno e Ugo Di Silvestre, con domicilio eletto in Roma, Via Dora, 1, presso l’avv. Vincenzo Cerulli Irelli;

- PEZZOPANE STEFANIA, DI STANISLAO AUGUSTO, GINOBLE TOMASO, GABBIANI FERNANDO, FALCONI ANTONIO, AIMOLA UMBERTO, DI MASCI BRUNO, non costituitisi;

5)    sul ricorso in appello n. 1002/2002 del 12/02/2002,proposto dalla REGIONE ABRUZZO, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Gen. Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi 12, presso la propria sede;

 

contro

 

DI ROSA ANGELO e ACERBO MAURIZIO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Tullio Buzzelli e Vincenzo Cerulli Irelli, con domicilio eletto in Roma, via Dora, 1, presso il secondo;

 

e nei confronti

 

- di SALINI ROCCO, DI STEFANO FABRIZIO, CASTIGLIONE ALFREDO, PAGANO NAZARIO, PROSPERO ANTONIO, MENNA ANTONIO, STATI EZIO, ORSINI LEO, TEODORO MAURIZIO, TAGLIENTE GIUSEPPE, DI FONZO DONATO, DI SABATINO FILIPPO, DI MARCANTONIO GIUSTINO, TANCREDI PAOLO, DI NARDO PASQUALE, D'ORAZIO BENIGNO, BACCHION MARCO, NORANTE ANTONIO, DE MATTEIS GIORGIO, DESIATI MASSIMO, SCIARRETTA FRANCESCO, PEZZOPANE STEFANIA, GINOBLE TOMMASO, GABBIANI FERNANDO, FALCONIO ANTONIO, DI MASCI BRUNO, PACE GIOVANNI, tutti non costituitisi;

- di MELILLA GENEROSO, D’ALFONSO LUCIANO, DI STANISLAO AUGUSTO, LA PENNA LUCIANO, AIMOLA UMBERTO, PASSERI BRUNO, VERTICELLI MARCO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Claudio Di Tonno e Ugo Di Silvestre, con domicilio eletto in Roma, via Dora, 1, presso l’avv. Vincenzo Cerulli Irelli;

per la riforma

della sentenza del TAR ABRUZZO - L'AQUILA n.7/2002, resa tra le parti, concernente ELEZIONI PRESIDENTE GIUNTA REGIONALE REGIONE ABRUZZO;

Visto l’atto di appello con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti sopraindicate;

Viste le memorie difensive;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 16 aprile 2002, relatore il Consigliere Carlo Deodato ed uditi, altresì, gli avvocati Pace, Cerulli Irelli, Buzzelli, Di Tonno, Di Silvestre, Mangiameli, Colalillo, Scoca, Rossi, Camerini, Crisci e l’avv. dello Stato Giannuzzi;

Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue:

 

FATTO

 

Con la sentenza appellata il T.A.R. per l’Abruzzo – L’Aquila, in accoglimento del ricorso proposto da Angelo Di Rosa e Maurizio Acerbo, annullava l’atto di proclamazione degli eletti alla carica di Presidente della Giunta Regionale e di Consigliere Regionale adottato in esito alle elezioni regionali tenutesi in data 16 aprile 2000.

Avverso la predetta sentenza proponevano rituale appello Giovanni Pace (R.G. n.873/2002), Nazario Pagano ed altri (R.G. n.901/2002), Rocco Salini (R.G. n.915/2002), Antonio Menna ed altri (R.G. n.949/2002) e la Regione Abruzzo (R.G. n.1002/2002), denunciando l’erroneità delle statuizioni reiettive delle diverse eccezioni pregiudiziali e preliminari formulate nelle difese svolte in primo grado, contestando la correttezza del convincimento espresso dal T.A.R. circa l’efficacia invalidante dell’intera competizione elettorale riconosciuta alla illegittima partecipazione alla stessa di un candidato ed invocando l’annullamento della decisione impugnata.

Resistevano in tutti i ricorsi, con distinte costituzioni, Angelo di Rosa, unitamente a Maurizio Acerbo, e Melilla Generoso ed altri, contestando la fondatezza dei motivi dedotti a sostegno degli appelli e concludendo per la loro reiezione.

In accoglimento delle istanze cautelari formulate dagli appellanti, veniva sospesa (con le ordinanze rese nella Camera di Consiglio del 19 febbraio 2002) l’esecuzione della sentenza appellata, con espressa limitazione delle funzioni esercitabili dagli organi regionali all’ordinaria amministrazione ed alla trattazione degli affari indifferibili ed urgenti.

Con istanza cautelare ritualmente notificata, i resistenti Di Rosa e Acerbo domandavano, in caso di reiezione dell’appello, l’adozione di misure idonee a definire i limiti dei poteri degli organi regionali nelle more della costituzione, a seguito della rinnovazione delle elezioni, del nuovo Consiglio.

Le parti illustravano ulteriormente le loro tesi mediante il deposito di memorie difensive.

Alla pubblica udienza del 16 aprile 2002 i ricorsi venivano trattenuti in decisione.

 

DIRITTO

 

 1.- L’identità della sentenza impugnata con i cinque ricorsi indicati in epigrafe impone la riunione dei relativi appelli e la loro trattazione congiunta.

 2.- Le parti controvertono sulla validità delle elezioni regionali dell’Abruzzo, tenutesi in data 16 aprile 2002, all’esito delle quali è stato proclamato Presidente della Regione il Dott. Giovanni Pace, con vittoria della lista n.1 definita “Per l’Abruzzo”.

La disamina dell’anzidetta questione impone una preliminare, ancorchè sintetica, ricognizione della vicenda, sostanziale e processuale, controversa.

 2.1- Con ricorso proposto dinanzi al T.A.R. per l’Abruzzo, Angelo Di Rosa e Maurizio Acerbo, nella duplice veste di cittadini elettori e di candidati, non eletti, nella lista soccombente, impugnavano gli atti di proclamazione degli eletti alla carica di Presidente della Giunta Regionale e di Consigliere Regionale adottati dai diversi Uffici centrali circoscrizionali e dall’Ufficio centrale regionale nonché gli atti presupposti, e segnatamente la determinazione ammissiva della candidatura del Dott. Salini, e successivi, e in particolare gli atti di convocazione del Consiglio Regionale e quelli relativi alla seduta del 22 maggio 2000.

Premettevano i ricorrenti che all’esito della consultazione per l’elezione del Presidente della Giunta e del Consiglio Regionale dell’Abruzzo, tenutasi il 16 aprile 2000, era risultava vincitrice la lista n.1 denominata “Per l’Abruzzo” con 382.353 voti su quella n.2 definita “Abruzzo Democratico” che aveva ottenuto 378.739 voti e che, conseguentemente, era stato proclamato eletto, in data 29 aprile 2000, alla carica di Presidente della Giunta Regionale l’On.le Giovanni Pace, quale candidato capolista della lista vincitrice, insieme ai sette candidati del c.d. listino (lista regionale a base maggioritaria) tra i quali figurava il Dott. Rocco Salini.

Sul presupposto che quest’ultimo, candidato sia nella lista regionale che in quella provinciale di Teramo, si trovava nella situazione di “incandidabilità” prevista dall’art. 15 L. 19.3.1990 n.55, per essere stato condannato con sentenza irrevocabile alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione per il reato di falso ideologico in atti pubblici (art. 479 c.p.), i ricorrenti deducevano l’invalidità dell’intera consultazione elettorale in quanto inficiata dalla illegittima partecipazione alla relativa competizione di un candidato che rivestiva una posizione particolarmente rilevante, in quanto inserito nel c.d. listino (lista regionale), e che aveva conseguito un numero particolarmente elevato di preferenze nella lista provinciale di Teramo (12.972).

 2.2- Resistevano in giudizio la Regione Abruzzo, il Presidente della Giunta Regionale On.le Giovanni Pace, il Dott. Rocco Salini ed altri Consiglieri eletti nella lista regionale n.1 eccependo, sotto diversi profili, l’inammissibilità e l’irricevibilità del ricorso, negando la sussistenza della causa di incandidabilità assunta a fondamento del gravame, deducendo l’illegittimità costituzionale dell’art.15 L. n.55/90, e contestando, da ultimo, il presunto effetto invalidante dell’intera consultazione elettorale attribuito dai ricorrenti alla partecipazione di un soggetto incandidabile.

 2.3 Si costituivano anche Melilla Generoso ed altri Consiglieri eletti nella lista n.2, aderendo alle difese svolte nel ricorso ed invocando l’accoglimento delle relative domande.

 2.4- Con la decisione appellata il T.A.R. disattendeva tutte le eccezioni pregiudiziali e preliminari dedotte dalle parti resistenti e controinteressate, negava l’invocata rimessione alla Corte Costituzionale della questione di costituzionalità dell’art.15 L. n.55/90, accertava incidentalmente la sussistenza dell’incandidabilità del Dott. Rocco Salini e giudicava la competizione elettorale radicalmente viziata dalla partecipazione alla stessa del predetto candidato, privo del diritto di elettorato passivo, con conseguente obbligo di ripetizione della consultazione per l’elezione del Presidente della Giunta e del Consiglio Regionale dell’Abruzzo.

 2.5- Avverso l’anzidetta decisione sono stati proposti gli appelli descritti in epigrafe.

Si premette che la sostanziale identità delle questioni di diritto introdotte con i relativi ricorsi (nonostante le trascurabili differenze registrabili tra le relative prospettazioni difensive) ne consente una trattazione congiunta.

 3.- Va preliminarmente esaminata l’eccezione, formulata oralmente dagli appellati nel corso dell’udienza di discussione, di inammissibilità dell’appello in quanto introdotto con la notificazione del relativo ricorso agli appellati anziché con il tempestivo deposito in segreteria, con, conseguente, asserita violazione dell’art.83/11 D.P.R., 16 maggio 1960, n.570.

L’eccezione è infondata e va respinta.

Ai sensi del combinato disposto degli artt.83/12 D.P.R. n.570/60 e 29 L. n.1034/71, che dettano la disciplina del giudizio di appello nelle controversie elettorali, quest’ultimo si svolge, infatti, in deroga alla procedura speciale stabilita per quello di primo grado, secondo le regole ordinarie del processo dinanzi al Consiglio di Stato, ivi comprese quelle relative all’instaurazione del contraddittorio, di talchè l’introduzione del ricorso per mezzo della sua notificazione alle controparti, in quanto conforme al regime procedurale applicabile alla presente fase, si appalesa del tutto rituale ed immune dal vizio denunciato con l’eccezione esaminata.

 4.- Gli appellanti, di contro, ripropongono le eccezioni preliminari, meglio di seguito illustrate, disattese con la decisione appellata.

Si premette che merita dare conto del contenuto delle relative eccezioni pregiudiziali, ancorchè non esaminate per le ragioni appresso precisate, al fine di chiarire il percorso logico che ha condotto alla decisione di prescindere dalla loro disamina.

4.1- Le questioni processuali attengono essenzialmente alla rituale introduzione del giudizio in primo grado.

Viene dedotta, innanzitutto, l’inammissibilità del ricorso originario per omessa notifica all’On.le Giovanni Pace ed alla Regione Abruzzo nonchè agli Uffici elettorali, circoscrizionale e centrale, ritenuti parti necessarie.

Si assume, inoltre, l’irricevibilità del ricorso in quanto tardivamente depositato sia rispetto all’ammissione del Dott. Salini alla competizione elettorale (in relazione alla quale il termine doveva computarsi a far data dalla pubblicazione delle liste o, al più tardi, dallo svolgimento delle elezioni) sia con riferimento alla proclamazione degli eletti da parte dell’ufficio elettorale circoscrizionale di Teramo.

I ricorrenti eccepiscono, ancora, l’inammissibilità del ricorso in primo grado per difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo in ordine alla cognizione, in via incidentale, della questione relativa all’incandidabilità del Dott. Salini, giacchè riservata alla giurisdizione del Giudice Ordinario e sottratta alla delibazione incidenter tantum da parte del T.A.R. ai sensi dell’art.8 L. n.1034/71 (in quanto asseritamente relativa allo stato o alla capacità delle persone).

 4.2- Oltre a contestare la ritualità dell’introduzione del giudizio in primo grado, gli appellanti, ancora in via preliminare, assumono l’inapplicabilità al caso di specie dell’art. 15 L. n.55/90 e successive modificazioni e ne sostengono, comunque, l’incostituzionalità.

Viene, innanzitutto, dedotta l’intervenuta abrogazione esplicita, per effetto dell’art.274 lett.v) D. Lgs. n.267/00, degli artt.1 e 4 II comma L.n.16/1992, modificativi e sostitutivi dell’art.15 L. n.55/90, e, quindi, il difetto della vigenza della disposizione in base alla quale è stata ritenuta l’incandidabilità del Salini.

Alcuni ricorrenti, inoltre, contestano l’applicabilità al caso di specie della causa impeditiva sancita dalla norma citata deducendo, a sostegno di siffatto assunto, il rilievo dell’intervenuta sospensione della condanna penale e della equiparabilità del divieto in questione alle pene accessorie, e segnatamente all’interdizione dai pubblici uffici.

Tutti gli appellanti eccepiscono, ancora, l’incostituzionalità dell’art.15 L. n.55/90, sotto diversi profili, ed invocano la rimessione della questione all’esame del Giudice delle leggi.

Si prospetta, in proposito, l’ingiustificata disparità di trattamento tra i candidati alla carica di consigliere regionale che si trovano in una delle condizioni di cui al comma 1 dell’art.15 L. n.55/90 ed i candidati alla carica di parlamentare, ai quali non si applica il medesimo divieto.

Gli appellanti denunciano, poi, la violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità della disposizione citata nella parte in cui stabilisce il medesimo impedimento quale conseguenza di condanne per reati tra loro non comparabili od equiparabili quanto a gravità e disvalore sociale.

Si critica, infine, la sentenza appellata nella parte in cui non ha pronunciato la cessazione della materia del contendere quale conseguenza delle sopravvenute dimissioni del Dott. Salini dalla carica di consigliere regionale, per avere medio tempore conseguito quella di senatore, e della conforme statuizione della Corte d’Appello dell’Aquila (specificamente investita dell’accertamento dell’incandidabilità).

 4.3- Le parti appellate difendono il convincimento espresso dai primi giudici circa l’infondatezza di tutte le eccezioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, invocandone la reiezione.

 4.4- In sintesi, gli odierni ricorrenti insistono nelle eccezioni intese ad ottenere la declaratoria dell’inammissibilità o dell’irricevibilità del ricorso originario, per il difetto di uno dei presupposti processuali sopra indicati, negando contestualmente, con le diverse tesi appena illustrate, l’applicabilità al caso di specie dell’ipotesi di incandidabilità accertata in prime cure in capo al Dott. Salini.

Il Collegio, ben consapevole della natura logicamente antecedente, nella disamina degli appelli, delle questioni dianzi riassunte, reputa, tuttavia, di prescindere dal loro scrutinio e di definire la controversia nel merito, anche tenuto conto della rilevanza degli interessi pubblici sottesi al dibattito, affrontando e risolvendo la questione centrale della legittimità delle elezioni controverse.

Anche ammettendo, infatti, la (peraltro dubbia) ritualità dell’introduzione del giudizio in primo grado e riconoscendo la sussistenza della situazione di incandidabilità del Dott. Salini, si perviene, comunque, alla reiezione, per come appresso argomentata, dell’azione proposta in primo grado ed intesa ad ottenere l’invalidazione dell’intera consultazione elettorale.

Tenuto, pertanto, conto dell’economia del percorso argomentativo sotteso alla presente decisione nonché degli interessi relativi alle posizioni processuali contrapposte, il Collegio ritiene che l’infondatezza del ricorso originario lo esima dalla delibazione delle eccezioni preliminari, senza che siffatta omissione pregiudichi alcuna delle parti in causa.

 5.- Nel merito, la questione controversa può riassumersi nei seguenti termini.

Ammessa l’illegittimità della partecipazione del Dott. Salini alla competizione elettorale, le parti dibattono sulla misura delle conseguenze invalidanti riconducibili all’anzidetta incandidabilità.

Mentre, infatti, gli originari ricorrenti assumono che la partecipazione alle elezioni di un soggetto incandidabile è idonea ad alterare la regolarità dell’intera consultazione e, quindi, ad inficiarne la validità (vitiatur et vitiat), gli appellanti contestano tale assunto, sostenendo, di contro, che l’elezione di un candidato privo, ai sensi dell’art.15 L. n.55/90, del diritto di elettorato passivo si risolve nella nullità della stessa elezione, senza ulteriori effetti invalidanti (vitiatur sed non vitiat).

Così definite le tesi difensive contrapposte, si devono illustrare le ragioni addotte dalle parti a sostegno dei rispettivi assunti.

 5.1 Gli appellanti sostengono, in estrema sintesi, che la decisione appellata è fondata su congetture, di natura politologica e, perciò, metagiuridica, sfornite di qualsivoglia riscontro probatorio (risolvendosi, così, in un inammissibile “processo alle intenzioni” dell’elettore); assumono, altresì, che la preferenza data al Salini nella lista provinciale si estende, per legge, alla lista regionale maggioritaria e che, quindi, la nullità della prima non si riverbera sulla validità del voto dato alla seconda; deducono, ancora, che, comunque, neanche la presenza del Dott. Salini nel c.d. listino è idonea ad invalidare il voto nel maggioritario, in considerazione della esclusiva visibilità politica del candidato Presidente, e, da ultimo, che non è stata adeguatamente esaminata l’incidenza sul risultato finale del c.d. “voto disgiunto”.

I ricorrenti negano, inoltre, rilevando le differenze tra le diverse fattispecie, l’applicabilità alla presente vicenda dell’orientamento giurisprudenziale, richiamato dalle controparti, formatosi in tema di nullità delle elezioni comunali nei casi di incandidabilità del Sindaco nonché dei principi affermati da questa Sezione in occasione dell’esame del noto caso delle elezioni regionali del Molise. Invocano, da ultimo, l’istituto della surroga, previsto dall’art.16 L. n.108/68 e diretto a disciplinare il caso di seggio rimasto vacante.

 5.2 I resistenti difendono il convincimento espresso dal T.A.R., negando, in particolare, l’applicabilità al caso di specie della surroga, richiamando i precedenti giurisprudenziali sopra ricordati, ribadendo la configurabilità dell’effetto inquinante dedotto a sostegno del ricorso originario e deducendo la correttezza della valutazione compiuta dai primi giudici circa la nullità dell’ammissione della candidatura del Salini e l’invalidità radicale di tutti gli atti conseguenti del procedimento elettorale, ivi compresa la proclamazione degli eletti.

 5.3 Così definiti i limiti del merito della controversia, si deve osservare che il T.A.R. ha fondato il giudizio di illegittimità delle elezioni in contestazione sul rilievo della nullità della determinazione ammissiva della candidatura del Salini per violazione dell’art.10 L.n.108/98, sull’accertamento dell’invalidità, derivata, degli atti conseguenti (ivi compresa la presentazione della lista regionale), sull’esclusione dell’ammissibilità della surroga invocata dai resistenti e, da ultimo, sulla verifica dell’effetto di “trascinamento” desunto dal numero di preferenze conseguito dal Salini nella lista provinciale nonchè dall’esiguità del distacco tra le due coalizioni contendenti.

 6.- Come già rilevato, ammessa la sussistenza della presupposta situazione di incandidabilità del Dott. Salini, la controversia è circoscritta alla disamina della natura degli effetti invalidanti prodotti dalla indebita partecipazione alla competizione elettorale, nella lista provinciale ed in quella regionale, di un candidato sprovvisto della relativa legittimazione e della necessaria capacità.

La questione, per la sua complessità, esige una preliminare, ancorchè sintetica, ricognizione delle modalità di svolgimento, per quanto qui rilevano, delle elezioni del Presidente della Giunta Regionale e del Consiglio Regionale, per come definite dal combinato disposto degli artt. 1 e ss. L. 23 febbraio 1995 n. 43 e 5 L. Cost. 22 novembre 1999 n.1.

 6.1- Il sistema regolato dalla normativa citata prevede un duplice meccanismo di elezione dei Consiglieri Regionali; distinguendosi una quota di seggi (quattro quinti) assegnati sulla base di liste provinciali concorrenti, secondo le disposizioni dettate nella L. n.108/68, dalla porzione residua (un quinto) attribuita con sistema maggioritario, sulla base di liste regionali concorrenti.

Tra una o più liste provinciali e una lista regionale deve essere dichiarato il collegamento al momento della presentazione della seconda.

La votazione avviene su un’unica scheda nella quale sono riportati sia i simboli delle liste provinciali, a fianco dei quali è riservato uno spazio per l’indicazione di un’eventuale preferenza, sia i contrassegni di quelle regionali collegate, con la relativa indicazione del capolista (candidato alla Presidenza della Giunta Regionale).

Quanto alle modalità di voto, è previsto che l’elettore esprime la propria scelta per una lista provinciale, indicando, se lo ritiene, la relativa preferenza; che si può votare anche per una lista regionale non collegata con quella provinciale prescelta e, da ultimo, che, se il voto è limitato alla sola lista provinciale, lo stesso si intende validamente espresso anche a favore della lista regionale collegata.

L’elezione alla carica di Presidente della Giunta Regionale si svolge contestualmente a quella per il rinnovo dei rispettivi Consigli. Viene, infine, proclamato eletto alla suddetta carica il candidato capolista della lista regionale che ha conseguito il maggior numero di voti in ambito regionale.

 6.2- Così sinteticamente descritta la disciplina legislativa delle elezioni contestate, si deve esaminare la questione dell’ampiezza dell’invalidità determinata dall’abusiva partecipazione alla competizione di un candidato compreso in entrambe le liste (proporzionale e maggioritaria) sopra indicate.

 7.- Rileva, innanzitutto, il Collegio, esaminando la principale censura svolta dagli appellanti, che il ricorso a processi logici sforniti di adeguato sostegno normativo è ammissibile nei soli casi in cui la fattispecie considerata non sia specificamente prevista e regolata da una disposizione di legge. Viceversa, nelle ipotesi in cui il caso controverso risulti riconducibile ad una fattispecie astratta positivamente disciplinata, il giudizio va formulato in applicazione del relativo regime normativo.

 7.1 In coerenza con tale premessa metodologica e con il relativo criterio di indagine, si osserva che gli effetti dell’illegittima elezione di un soggetto che si trova in una delle condizioni (che determina l’incandidabilità) previste dall’art.15 I comma L. n.55/90 risultano, a ben vedere, espressamente contemplati e definiti dall’ordinamento sicchè la risoluzione della questione controversa non può prescindere dall’esegesi e dalla conseguente applicazione delle disposizioni specificamente dirette a regolare il caso contestato.

L’art.15 IV comma L. n.55/90 stabilisce, infatti, chiaramente che l’elezione di un soggetto incandidabile è nulla, aggiungendo che l’organo che ha deliberato la convalida dell’elezione è tenuto a revocarla.

L’anzidetta disposizione, incontestabilmente applicabile al caso in esame, sanziona espressamente con la nullità la sola elezione del candidato che si trova in una delle condizioni ostative contemplate dal I comma e circoscrive, dunque, la portata delle conseguenze invalidanti riconducibili a tale fattispecie alla radicale invalidità dell’elezione del solo soggetto incandidabile.

L’ipotizzata illegittimità dell’intera consultazione elettorale, quale effetto dell’indebita partecipazione di un candidato privo della relativa capacità, risulta, pertanto, chiaramente, sebbene implicitamente, esclusa dal Legislatore (con scelta, libera, certamente meditata nelle sue conseguenze e, perciò, vincolante per l’interprete) là dove, occupandosi di regolare le conseguenze della situazione considerata, ha limitato la sanzione della nullità alla sola elezione dell’incandidabile ed ha prescritto all’organo che ne ha deliberato la convalida di provvedere alla sua revoca.

 7.2- In ordine a quest’ultima parte del precetto esaminato, appare chiaro, secondo un’agevole ed univoca lettura logico-sistematica della norma, che l’attribuzione all’organo che ha convalidato l’elezione del soggetto incandidabile, e cioè allo stesso Consiglio Regionale contestualmente eletto (al quale è riservata la convalida dell’elezione dei propri componenti ai sensi dell’art.17 L. n.108/68), del potere di provvedere alla revoca di quest’ultima postula indefettibilmente la validità della costituzione dell’organo elettivo, in quanto titolare della competenza assegnatagli dalla norma, ed esclude, al contempo, qualsivoglia dubbio circa la configurabilità della nullità delle intere elezioni (posto che, se si ammettesse questa possibilità, la disposizione risulterebbe priva di senso).

 7.3- Il regime dianzi delineato, procedendo alla necessaria disamina della sua ratio, risulta precipuamente diretto a realizzare i preminenti interessi pubblici agevolmente ravvisabili nell’esigenza di garantire la stabilità degli organi elettivi, di favorire il rispetto della volontà degli elettori, di assicurare la certezza dei risultati elettorali, di conservare l’efficacia degli atti del procedimento elettorale non direttamente incisi dall’elezione dell’incandidabile e di ripristinare la situazione di legalità, vulnerata da quest’ultima, per mezzo dell’esclusione ex post del solo soggetto illegittimamente eletto e la surroga, come chiarito appresso, del seggio divenuto vacante.

Diversamente opinando, ammettendo, cioè, che la partecipazione di un soggetto incandidabile possa alterare la regolarità della competizione e determinare, quindi, la sua invalidità, si impedirebbe la realizzazione degli interessi pubblici connessi alla certezza ed alla stabilità degli effetti prodotti dalla competizione elettorale, con inammissibile violazione della norma richiamata, per come intesa in relazione alla ratio evidenziata.

La partecipazione di un incandidabile, accedendo alla tesi prospettata dagli originari ricorrenti ed accolta dal T.A.R., determinerebbe, invero, l’inaccettabile conseguenza di esporre i risultati elettorali, e, quindi, i relativi organi elettivi, ad una situazione di precarietà ed incertezza e l’attribuzione al Giudice Amministrativo di una potestà valutativa arbitraria (in quanto basata su parametri metagiuridici) in ordine alla regolarità della consultazione, con conseguente grave nocumento del rigore richiesto dall’esercizio della giurisdizione di legittimità.

 7.4 L’esame della disciplina positiva della situazione controversa conduce, inoltre, al rinvenimento nell’ordinamento della soluzione stabilita per il superamento della situazione di stallo creatasi a seguito della revoca dell’incandidabile eletto.

Non solo, infatti, il legislatore ha provveduto a circoscrivere la portata invalidante dell’elezione del soggetto incandidabile, ma, con diverse disposizioni, ha anche dettato le regole per l’assegnazione del seggio divenuto vacante a seguito della revoca dell’elezione invalida.

Il combinato disposto degli artt.1 e 16 L.n.108/68 e 76 D.P.R. n.570/60 prevede, infatti, espressamente l’attribuzione del seggio rimasto vacante (per qualsiasi causa, ivi compresa la nullità, anche se sopravvenuta) al candidato che, nella stessa lista e circoscrizione, segue immediatamente l’ultimo eletto.

L’univoca formulazione letterale delle disposizioni richiamate, unitamente alla loro portata generale, impone un’esegesi aderente al relativo dato testuale, in coerenza con il noto canone ermeneutico in claris non fit interpretatio, ed impedisce, di conseguenza, ogni lettura che escluda dalla possibilità di surroga situazioni di fatto non espressamente contemplate come estranee all’ambito applicativo della previsione considerata.

In particolare, l’espressione, contenuta nell’art.16 L. n.108/68, “per qualsiasi causa, anche se sopravvenuta” indica la chiara volontà del legislatore di dettare una regola generale per tutte le situazioni nelle quali, in seguito alle elezioni, il seggio, originariamente assegnato, sia rimasto vacante, garantendo così il funzionamento e l’integrità dell’organo elettivo.

 7.5 Non possono perciò condividersi le ragioni addotte dagli originari ricorrenti e dal T.A.R. a sostegno della ritenuta inammissibilità della surroga prevista dall’art.16 L. n.108/68.

Con la decisione appellata è stato, al riguardo, circoscritto l’ambito applicativo della disposizione citata ai soli casi in cui il consigliere da sostituire sia stato legittimamente eletto, con conseguente esclusione delle ipotesi, quale quella in esame, in cui il soggetto da surrogare sia privo del diritto di elettorato passivo.

Gli appellati deducono, a sostegno dell’anzidetta tesi, il rilievo che la possibilità della surroga si rivela confliggente con la specifica funzione della norma, indicata nell’esigenza di evitare che soggetti ritenuti indegni possano ricoprire cariche elettive, nonchè suscettibile di utilizzazioni strumentali e fraudolente, quale la candidatura di un soggetto privo della relativa capacità e la successiva sua surroga con altro candidato, incapace di conseguire lo stesso numero di preferenze del primo.

La suddetta tesi ed i presupposti argomenti appena illustrati, tuttavia, si rivelano incompatibili e confliggenti con il chiaro dettato della disposizione che, autorizzando la sostituzione in tutti i casi in cui “per qualunque causa, anche se sopravvenuta” il seggio sia rimasto vacante, disciplina palesemente anche le situazioni nelle quali la vacanza sia ascrivibile a cause antecedenti l’elezione (quale ad esempio l’incandidabilità).

 7.6 Le medesime deduzioni appaiono, inoltre, afflitte da un insanabile vizio logico.

Gli odierni resistenti assumono, infatti, a fondamento della tesi dell’inapplicabilità dell’art.16 l. cit. (e quale principale argomento contrario) che il riconoscimento dell’ammissibilità della surroga si risolverebbe nella vanificazione dello scopo della norma di impedire l’elezione del soggetto incandidabile.

Senonchè, la disposizione controversa risulta proprio diretta a regolare il caso in cui il candidato, ancorchè privo della relativa legittimazione, sia stato eventualmente eletto, sicchè l’elezione dell’incandidabile non costituisce un effetto dell’applicazione dell’art.16 l. cit., ma la stessa fattispecie disciplinata.

Negando la possibilità della surroga dell’incandidabile non si evita, quindi, che questi possa essere eletto, ma si impedisce l’attuazione del meccanismo di sostituzione del seggio rimasto vacante in seguito alla prescritta revoca e si predilige una lettura della norma che determina, quale grave ed inaccettabile effetto, una incolmabile lacuna nella disciplina della predetta situazione.

Quanto, poi, alle paventate utilizzazioni distorsive della sostituzione successiva, è sufficiente rilevare che l’ordinamento appresta strumenti idonei ad evitare la partecipazione dell’incandidabile alla competizione elettorale (quali l’esercizio dei poteri istruttori attribuiti agli Uffici Elettorali sulla verifica del possesso dei requisiti di capacità dei candidati e l’immediata, tempestiva, impugnazione giurisdizionale degli atti ammissivi della candidatura illegittima) e che la possibile strumentalizzazione fraudolenta (e cioè per fini, illeciti, diversi da quelli perseguiti dal Legislatore) di una norma di legge non può, in ogni caso, costituire argomento idoneo ad escluderne l’applicazione a situazioni palesemente comprese nel relativo ambito applicativo.

 7.8- Il T.A.R. ha, infine, escluso l’ammissibilità della surroga anche sulla base del rilievo, ritenuto a quei fini ostativo, della insanabilità degli atti giuridici nulli.

Detto argomento va respinto in quanto frutto di un palese errore logico nell’analisi della fattispecie considerata.

Con la sostituzione del soggetto rimosso, infatti, non si provvede, come erroneamente ritenuto dal T.A.R., a sanare la situazione colpita dalla sanzione dell’invalidità assoluta (ciò che sarebbe accaduto esclusivamente nel diverso caso della conferma dell’elezione dell’incandidabile) ma solo a garantire la produzione dei (necessari) effetti sostitutivi di quelli che l’atto nullo è inidoneo a costituire (e cioè la copertura del seggio originariamente assegnato all’incandidabile eletto).

 7.9- Va, da ultimo, ricordato che questa Sezione ha già accertato, seppur incidentalmente, l’ammissibilità della sostituzione di un candidato consigliere comunale che si trovi in una delle condizioni previste dall’art. 15 I comma l. cit. (Cons. Stato, Sez. V, 13 settembre 1999, n.1052) e non si ravvisano ragioni, anche tenuto conto dell’univoco significato dell’art.16 L. n. 106/68, per mutare il convincimento già espresso nella citata decisione.

 7.10- Così individuata, interpretata e definita la normativa diretta a disciplinare gli effetti dell’elezione di un candidato privo della relativa capacità, si deve rilevare che ha errato il T.A.R. ad estendere la nullità a tutto il procedimento elettorale, e quindi anche ad atti diversi ed ulteriori rispetto a quelli direttamente colpiti dalla relativa sanzione, anziché attenersi alla puntuale applicazione del regime normativo al caso controverso.

I primi giudici hanno, in particolare, dedotto dalla nullità dell’elezione del Dott. Salini e da quella, presupposta, dell’ammissione della sua candidatura, per violazione dell’art.10 L. n.108/68 (là dove prescrive agli Uffici elettorali la cancellazione dalle liste dei nomi degli incandidabili) la radicale invalidità derivata di tutti gli atti conseguenti del procedimento elettorale, ivi compreso il risultato finale.

Senonchè siffatto procedimento logico, seppure astrattamente corretto nei casi in cui la legge non regola le conseguenze degli atti invalidi, si appalesa del tutto errato e censurabile nelle ipotesi, quale quella in esame, nelle quali gli effetti invalidanti sugli atti procedimentali successivi sono espressamente disciplinati.

 7.11- Si deve, in conclusione, giudicare errata la decisione appellata nelle parte in cui, omettendo la puntuale applicazione degli artt. 15 IV comma L. n.55/90 e 16 L. n.108/68, ha accertato l’invalidità dell’intera consultazione elettorale controversa, quale diretta conseguenza della illegittima partecipazione alla stessa del Dott. Salini, e ha negato la possibilità della sostituzione del candidato invalidamente eletto.

Le considerazioni sopra espresse appaiono sufficienti, in definitiva, ad accogliere l’appello e, in riforma della decisione impugnata, a respingere il ricorso proposto in primo grado.

8.- Il Collegio ritiene, ancora, utile chiarire, ad abundantiam rispetto alle dirimenti considerazioni già svolte, come ad analoghe conclusioni si perverrebbe anche seguendo il diverso iter argomentativo (percorso dal T.A.R.) fondato sull’analisi del voto. Quand’anche, infatti, si intendesse procedere, prescindendo dall’applicazione del dettato dell’art.15 IV comma L. n.55/90, alla disamina dell’incidenza della indebita partecipazione del Dott. Salini sulla regolarità delle elezioni, secondo gli ordinari parametri di valutazione della legittimità delle competizioni elettorali, si giungerebbe, comunque, al convincimento della validità del risultato contestato .

 8.1- Procedendo a tale indagine il T.A.R. ha, in particolare, verificato, sulla base del presupposto esame dell’incidenza della candidatura del Dott. Salini nel c.d. listino (lista regionale su base maggioritaria) nonchè dell’apprezzamento del brillante risultato da lui conseguito nella lista provinciale (su base proporzionale), la sussistenza, in conseguenza di un non meglio definito effetto di “trascinamento”, dell’inquinamento delle intere operazioni elettorali.

A sostegno di tale conclusione viene, inoltre, richiamato, per presunta analogia, l’orientamento giurisprudenziale (come si vedrà, inconferente) formatosi in tema di invalidità delle elezioni comunali nei casi di incandidabilità del Sindaco.

Le parti controvertono sulla correttezza di siffatto giudizio, sostenendo, con dovizia di argomentazioni, le rispettive tesi.

 8.2- Ai fini della risoluzione del problema appena illustrato, giova premettere una sintetica analisi della decisiva questione dei rapporti, secondo il vigente sistema delle elezioni regionali, tra il voto di preferenza (attribuito nella lista provinciale) e quello assegnato alla lista regionale (c.d. listino).

Posto, infatti, che, nel caso in esame, risulta sicuramente viziato il voto di preferenza assegnato al Salini, vanno definiti gli effetti di quest’ultimo su quello contestualmente attribuito alla lista regionale collegata (la cui validità si appalesa determinante nella formulazione del giudizio di legittimità del risultato elettorale).

 8.3 Dalla disciplina dettata dall’art. 2 L. 23 febbraio 1995 n.43 si ricava, innanzitutto, che il voto espresso dall’elettore, quando risulta assegnata una preferenza, si compone necessariamente di una duplice, distinta, manifestazione di volontà: quella, necessariamente esplicita, diretta alla scelta del candidato nella lista provinciale (e quindi a quest’ultima) e quella, esplicita od implicita, intesa alla scelta della lista regionale (e quindi al suo capolista, candidato Presidente).

Va, ancora, rilevato che il voto alla lista regionale si considera sempre espresso e che, per presunzione legale (cfr. ultimo periodo dell’art.2 l. cit.), qualora l’elettore abbia votato solo per la lista provinciale, la scelta si intende validamente manifestata anche a favore della lista regionale collegata.

Si ricorda, da ultimo, che l’art.2 l. cit. autorizza anche il c.d. voto disgiunto, e cioè l’espressione di un voto per una lista regionale non collegata a quella provinciale votata.

 8.4- Dal regime di voto appena descritto, si ricava, innanzitutto, una sostanziale autonomia del voto di lista rispetto a quello di preferenza.

Là dove, infatti, il legislatore stabilisce che l’indicazione del solo voto di preferenza (od a favore della lista provinciale) comporta l’automatica valida espressione del voto a favore della lista regionale collegata, presume, evidentemente, (con insindacabile valutazione astratta) che, con l’indicazione manifestata sulla scheda, l’elettore abbia inteso effettivamente, ancorchè tacitamente, scegliere anche la lista regionale ed il suo capolista quale conseguenza della preferenza accordata ad un candidato in una lista provinciale a quella collegata.

La stessa possibilità del voto disgiunto conferma ed avvalora, inoltre, il convincimento circa l’autonomia del voto di lista rispetto a quello di preferenza.

Si tratta, in sostanza, di due scelte contestuali ma distinte, una, di ordine personale, a favore del candidato ed una, di natura politica, a favore del partito o della coalizione concretamente (anche se presuntivamente) prescelti, che concorrono entrambe, sotto due diversi profili, a palesare la volontà dell’elettore complessivamente riassunta nella compilazione della scheda.

 8.5- I rapporti tra le modalità di voto considerate vanno ulteriormente chiariti evidenziando la prevalenza del voto di lista su quello di preferenza.

Argomentando dal disposto dell’art.57 VII comma D.P.R. n.570/60, richiamato per le elezioni regionali dall’art.1 L. n.108/68 (non abrogato dalla L. n.43/95), che sancisce l’inefficacia della preferenza attribuita a candidati compresi in una lista diversa da quella votata e che conferma, implicitamente, la validità del voto di lista, questo Giudice ha, infatti, affermato, con univoco orientamento, il principio della preminenza di quest’ultimo su quello di preferenza (Cons. Stato, Sez. V, 31 dicembre 1998, n.2002, Cons. Stato, Sez.V, 27 settembre 1996, n.1176, Cons. Stato, Sez. V, 2 maggio 1996, n.503).

Tale orientamento, ancorchè relativo ad una fattispecie diversa da quella in esame (preferenza assegnata a candidato compreso in lista diversa da quella votata), indica, tuttavia, il principio generale della preminente importanza del voto di lista (in conformità alla chiara volontà legislativa ricavabile dalla disposizione sopra richiamata), in applicazione del quale, in presenza dell’indicazione di un’espressione di voto contraddittoria ed incoerente, viene accordata prevalenza al voto di lista rispetto a quello, difforme, di preferenza (che resta, così, inefficace).

 8.6- Dagli anzidetti principi generali (autonomia del voto di lista rispetto a quello di preferenza e prevalenza, comunque, del primo sul secondo) consegue che, con qualsiasi modalità l’elettore abbia compilato la scheda, il voto assegnato alla lista resta immune dal vizio che inficia la validità della preferenza, a causa dell’incandidabilità del soggetto votato.

 Non si pone, innanzitutto, alcun problema, ai fini che qui rilevano, di validità ed efficacia del voto di lista nei casi in cui l’elettore abbia espressamente votato la lista regionale, vuoi quella avversaria (con il c.d. voto disgiunto) vuoi quella collegata. Mentre, infatti, nella prima ipotesi l’eventuale nullità della scheda risulta certamente ininfluente, non avendo concorso quel voto al contestato successo della lista n.1, nel secondo caso la manifesta, ed autonoma, volontà di votare il capolista della lista collegata impedisce di ritenere invalida siffatta scelta.

Anche, comunque, nel caso, meno semplice, in cui l’elettore abbia indicato la sola preferenza per il Dott. Salini nella lista provinciale, l’invalidità del voto dato alla lista collegata va esclusa in considerazione della già rilevata autonomia di quest’ultimo. La ricordata presunzione legale di estensione del voto impone, infatti, di giudicare la tacita scelta della lista collegata come distinta dalla preferenza e, conseguentemente, efficace, nonostante l’invalidità di quest’ultima.

 8.7- Né tale conclusione risulta inficiata dal rilievo, assunto a sostegno della decisione appellata, che la candidatura del Dott. Salini anche nella lista regionale determina, per l’inscindibilità di quest’ultima, l’invalidità del voto dato al listino a prescindere dalle concrete modalità di espressione dello stesso (in maniera esplicita o per presunzione legale).

Dall’osservazione dell’astratta possibilità di attrazione di voti, ad opera del Dott. Salini, a favore del candidato Presidente (capolista del c.d. listino) e dalla verifica delle convergenti indicazioni probatorie desunte dall’esigua misura dello scarto tra le due coalizioni e dalla maggiore entità delle preferenze ottenute dal suddetto candidato nel proporzionale, il T.A.R. ha ricavato la prova dell’alterazione della regolarità del procedimento elettorale, sotto il profilo della lesione della necessaria trasparenza, e, quindi, dell’inquinamento della consultazione.

Secondo i primi giudici, in definitiva, il mero sospetto che l’illegittima partecipazione del Dott. Salini alla competizione nella quota maggioritaria possa aver determinato, in forza di un decisivo trascinamento del consenso personale in favore della lista regionale, la vittoria della coalizione denominata “Per l’Abruzzo”, pur nella riconosciuta impossibilità di verificare, nel listino, quale parte dei voti ottenuti dal capolista sia stata effettivamente determinata dalla sua presenza, autorizzerebbe ed, anzi, imporrebbe la declaratoria dell’invalidità dell’intera consultazione elettorale e l’obbligo della sua rinnovazione.

 8.8- Siffatto assunto non può essere condiviso in quanto privo di ogni fondamento normativo o, comunque, logico.

Premesso, infatti, che, ai sensi dell’art. 5 L. Cost. n.1/99, “è proclamato eletto Presidente della Giunta Regionale il candidato che ha conseguito il maggior numero di voti validi in ambito regionale”, che, in virtù dell’art.2 L. n.43/95, sull’unica scheda per l’elezione dei Consigli Regionali viene indicato, nella parte riservata alla lista regionale, il contrassegno di quest’ultima ed il nome e cognome del suo capolista (quale candidato alla Presidenza della Giunta Regionale) e che, quindi, sulla scheda non figurano i nomi dei candidati nel listino, si osserva che il voto dato, espressamente o presuntivamente, alla lista maggioritaria si intende dato, per esplicita previsione legislativa, al candidato Presidente e, comunque, alla coalizione politica di riferimento. Ne discende che va esclusa ogni rilevanza della ragione psicologica (ritenuta, ai nostri fini, indifferente dallo stesso legislatore) che ha determinato l’elettore ad assegnare il voto in questione.

L’indicazione normativa del beneficiario di quest’ultimo preclude, infatti, qualsiasi indagine (in quanto ininfluente) dell’effettiva intenzione (soggettiva) dell’elettore, posto che il significato (oggettivo) del voto esaminato è già stato definito in via astratta dal legislatore.

Nella situazione appena descritta, in definitiva, si deve presumere che l’elettore che ha votato il Dott. Pace intendeva votare proprio l’anzidetto capolista, palesando con siffatta manifestazione di volontà l’adesione al programma proposto dalla relativa coalizione e, soprattutto, la scelta personale del menzionato candidato quale guida politica della Regione.

 8.9- In ogni caso, la rilevata incertezza circa i motivi che hanno indotto l’elettore a formarsi la volontà concretamente manifestata, se sia, cioè, prevalsa l’intenzione di favorire il candidato o la lista, e l’eventuale dubbio in ordine alla validità del voto dovrebbero, a tutto voler concedere, indurre all’applicazione del principio della conservazione degli atti giuridici (codificato dall’art.1367 c.c. in materia di interpretazione del contratto ma da intendersi quale canone di carattere generale), che impone di intendere un atto dal significato equivoco nel senso in cui può produrre qualche effetto anziché in quello secondo cui sarebbe inefficace, ovvero di quello del favor voti (di formazione giurisprudenziale e dal carattere specifico), che, nel dubbio circa la validità del voto, accorda preferenza, a tutela della salvezza della volontà dell’elettore, alla legittimità dello stesso (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2000, n.673).

 In applicazione di tali principi generali, in conclusione, il mero sospetto del c.d. inquinamento della consultazione, in mancanza di un qualsivoglia riscontro probatorio e nella pacifica impossibilità di ricostruire dall’esterno il processo psicologico formativo della volontà dell’elettore, non solo non consente la caducazione del risultato elettorale, ma impone la conservazione degli atti del procedimento elettorale non direttamente colpiti dall’invalidità dell’elezione del singolo candidato e, nel dubbio circa l’incidenza della candidatura di questi sull’esito delle elezioni, la conferma della legittimità della consultazione.

 8.10- Diversamente opinando, infatti, si perverrebbe all’inaccettabile conclusione di eliminare gli atti di un procedimento elettorale e di negare la valida costituzione di un Consiglio Regionale sulla base di considerazioni di carattere meramente induttivo o presuntivo, la cui esattezza non risulta, quindi, controllabile, e nonostante la presunta legittimità del voto, prettamente politico, dato alla coalizione vincente ed al suo capolista (da valersi, questo sì, quale unico candidato visibile e trainante della lista regionale).

 9.- L’analisi appena svolta del funzionamento delle elezioni regionali e dei rapporti tra il voto di preferenza e quello dato alla lista consente, da ultimo, di negare la sussistenza della dedotta analogia del caso di specie con altre fattispecie decise da questo Giudice nel senso dell’invalidazione dell’intera consultazione, con conseguente obbligo di rinnovo delle elezioni, e di disattendere, quindi, gli argomenti con i quali viene invocata l’applicazione alla presente controversia dei principi affermati con gli orientamenti richiamati.

 9.1- Si tratta, innanzitutto, del caso delle elezioni comunali nelle quali il candidato Sindaco sia risultato privo, in seguito alle elezioni, della relativa capacità giuridica, per come definita dall’art.15 L n.55/90.

 Con diverse decisioni, è stata, invero, ritenuta la radicale illegittimità dell’intera competizione elettorale in quanto viziata dall’incandidabilità del Sindaco (Cons. Stato, Sez. V, 13 settembre 1999 n.1052, Cons. Stato, Sez. V, 15 giugno 2000, n.3338), con conseguente obbligo di rinnovazione della consultazione.

Il predetto giudizio risulta, in particolare, espressamente fondato sul rilievo della peculiare funzione della candidatura del Sindaco nelle elezioni comunali e della conseguente incidenza della regolarità di questa ultima sulla legittima presentazione della lista dei candidati al consiglio comunale, per come definita e disciplinata dall’art.3 V comma L. 25 marzo 1993 n.81.

Il T.A.R., richiamando l’anzidetto indirizzo giurisprudenziale, ha ritenuto applicabile alla presente vicenda gli stessi principi enunciati con i precedenti citati, giudicando il caso oggi controverso analogo alle fattispecie ivi considerate.

Se, invero, l’annullamento delle elezioni comunali a causa della partecipazione di un candidato Sindaco incandidabile è stato motivato con riferimento alla violazione dell’art.3 V comma L. n.81/93, che impone la presentazione, insieme alla lista dei candidati al consiglio comunale, anche del nome e cognome del candidato alla carica di Sindaco e del relativo programma amministrativo, e, quindi, alla ritenuta invalidità della presentazione della lista, anche tenuto conto del carattere unitario di questa e del rapporto di integrazione tra il candidato Sindaco e la lista collegata, il T.A.R. ha reputato equiparabile alla fattispecie appena descritta quella dell’inserimento nel c.d. listino di un soggetto incandidabile.

Le ragioni della ritenuta analogia sono state individuate nell’inscindibilità ed unitarietà della lista regionale, nel rapporto di integrazione tra il candidato Presidente ed i candidati nel listino e nella conseguente illegittimità della presentazione di quest’ultimo in quanto composto da un soggetto incandidabile.

 9.2- L’assunto dell’analogia tra le due fattispecie non può essere condiviso.

Premesso che non pare dubitabile la correttezza dell’orientamento richiamato, la sostanziale differenza tra la posizione assunta dal candidato Sindaco nelle elezioni comunali e quella rivestita dal candidato consigliere regionale nel maggioritario impedisce di riconoscere alcuna analogia tra le due situazioni.

Mentre, infatti, per espressa disposizione legislativa, l’indicazione del candidato Sindaco costituisce un elemento essenziale della valida presentazione della lista, attesa la rilevanza attribuita alla posizione di quello nel vigente sistema delle elezioni comunali, in quelle regionali, ancorchè la quota maggioritaria risulti riservata anche ai candidati nel listino, la medesima funzione costitutiva della valida presentazione della lista regionale può essere riconosciuta al solo candidato alla Presidenza della Giunta Regionale, unicamente indicato nella scheda quale capolista.

Posto, pertanto, che, in entrambi i sistemi, l’elezione dell’organo di vertice avviene con il metodo dell’elezione diretta del relativo candidato, non può non convenirsi che solo la situazione di incandidabilità di quest’ultimo, per la sua esclusiva visibilità politica e per la funzione essenziale della sua candidatura, può determinare la nullità dell’intera consultazione elettorale.

 9.3- Né tale conclusione può ritenersi inficiata dall’obiezione che nelle elezioni regionali, a differenze che in quelle comunali, il candidato Presidente è solo il capolista di una lista formata da altri candidati nella quota maggioritaria e che, quindi, il voto dato al primo si intende espresso in favore dell’intera lista regionale.

Come già osservato, infatti, l’art.5 L. Cost. n.1/91 attribuisce esclusiva rilevanza, all’interno della lista regionale, alla posizione del candidato Presidente, definendo espressamente i voti espressi in ambito regionale come preferenze al capolista, sicchè la natura unitaria ed inscindibile del listino non vale a smentire il convincimento, avvalorato dall’anzidetta disposizione, della preminente ed essenziale funzione assolta dalla candidatura del Presidente nella regolarità della competizione su base maggioritaria.

La normativa di riferimento indica, in definitiva, la chiara volontà legislativa di valorizzare l’aspetto personale della candidatura alla carica di Presidente, concentrando su di essa l’attenzione politica della contesa, e di assegnare alla lista regionale una funzione meramente strumentale e secondaria (si veda, in proposito, Cons. Stato, Sez. V, 29 ottobre 2001, n.5643, relativamente ad un caso nel quale è stata esclusa, nell’ipotesi di dimissioni del candidato Presidente appartenente alla lista perdente, l’ammissibilità della surroga con il primo dei candidati non eletti della medesima lista).

 9.4- Va, quindi, negata l’applicabilità, invocata dagli appellati, dei principi enunciati in tema di invalidità delle elezioni comunali per l’incandidabilità del Sindaco.

 9.5- I resistenti affermano, inoltre, l’analogia della presente fattispecie con quella delle elezioni regionali del Molise, là dove la partecipazione alla consultazione di due liste illegittimamente ammesse aveva indotto questa Sezione ad accertare l’invalidità della competizione ed a stabilire l’obbligo della sua rinnovazione (Cons. Stato, Sez. V, 18 giugno 2001, n.3212).

Si sostiene, al riguardo, che la partecipazione senza titolo di un candidato nel maggioritario appare parimenti idonea, rispetto all’illegittima competizione di una lista, a pregiudicare la regolarità della consultazione elettorale.

 9.6- L’asserita analogia tra i due casi è, tuttavia, smentita dal decisivo rilievo della diversa incidenza dell’indebita partecipazione di una lista o di un candidato, per quanto capace di attirare consenso, sulla determinazione degli equilibri politici, sulla correttezza della competizione e, in definitiva, sul suo esito.

La rilevata prevalenza, nella formazione della volontà dell’elettore, della scelta della lista, rispetto a quella del candidato, e la conseguente maggiore rilevanza dei partiti o delle loro coalizioni, rispetto ai singoli candidati (escluso, beninteso, il candidato Presidente nelle elezioni regionali ed il candidato Sindaco in quelle comunali), nelle dinamiche di una competizione politica impediscono, invero, di ritenere l’illegittima ammissione di un candidato alle elezioni idonea a turbare e ad alterare il regolare svolgimento di queste in misura tale da determinare la radicale invalidità dei risultati e da imporre il loro rinnovamento.

Diversamente, l’abusiva partecipazione alla competizione di una o più liste, come nel caso delle elezioni regionali del Molise, risulta senz’altro capace, squilibrando gli assetti politici delle coalizioni contrapposte, ad incidere sulla regolarità del voto, legittima il fondato sospetto che gli esiti della consultazione, in assenza delle liste da escludere, avrebbero potuto essere diversi ed impone, di conseguenza, la ripetizione delle elezioni.

 9.7- Mentre, inoltre, le conseguenze dell’illegittima ammissione delle liste non risultano regolate dalla legge (né si vede come potrebbero esserlo, non essendo immaginabile un meccanismo analogo a quello della surroga del candidato invalidamente eletto), gli effetti dell’elezione dell’incandidabile sono, di contro, espressamente disciplinati. Se, quindi, le conclusioni raggiunte nel caso delle elezioni molisane erano autorizzate dall’assenza di uno specifico regime normativo, che legittimava il ricorso alle diverse valutazioni logiche ivi svolte, quelle invocate nella presente fattispecie non trovano analoga giustificazione.

 9.8- Le segnalate, decisive, differenze tra il caso in esame e quello delle elezioni regionali del Molise inducono, pertanto, a negare l’applicabilità alla situazione dedotta nel presente giudizio dei principi affermati da questa Sezione con la decisione menzionata.

 10.- Vanno, in definitiva, accolti gli appelli, riuniti, indicati in epigrafe e, in riforma della decisione impugnata, va, quindi, respinto il ricorso proposto in primo grado.

L’annullamento della sentenza impugnata esime, da ultimo, il Collegio dalla pronuncia sull’istanza cautelare proposta dagli appellati Di Rosa ed Acerbo, in quanto espressamente formulata per la sola ipotesi di reiezione degli appelli.

 11.- La novità della questione principalmente controversa giustifica la compensazione delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio.

 

P.Q.M.

 

 Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, accoglie i ricorsi, contestualmente riuniti, indicati in epigrafe, e, per l’effetto, in riforma della sentenza del T.A.R. Abruzzo –L’Aquila n.7/2002 in data 9.1/17.1.2002, respinge il ricorso proposto in primo grado da Angelo di Rosa e Maurizio Acerbo;

dichiaracompensate le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio;

 ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 16 aprile 2002, con l'intervento dei signori:

Agostino Elefante,Presidente

Paolo Buonvino, Consigliere

Francesco D’ottavi, Consigliere

Marzio Branca, Consigliere

Carlo Deodato, Consigliere Estensore

 

L’ESTENSORE                                        IL PRESIDENTE

 f.to Carlo Deodato                                   f.to Agostino Elefante

IL SEGRETARIO

f.to Luciana Franchini

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

il ……………02/05/2002………………

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

IL DIRIGENTE
f.to Pier Maria Costarelli

 


Consiglio di Stato, Sezione V, 7 marzo - 23 agosto 2006, n. 4948

 

 

 

Reg. Dec. 4948/06

N. 8976 Reg. Ric. 

Anno: 2005

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la seguente

 

DECISIONE

sul ricorso in appello n.r.g. 8976 del 2005, proposto dal sig. Francesco Battistoni, rappresentato e difeso dagli avv. Antonio Campagnola e Francesco Rosi ed elettivamente domiciliato presso lo studio del primo, in Roma, via Lutezia, n. 8,

 

contro

 

la Provincia di Viterbo, rappresentata e difesa dagli avv. Eugenio Picozza e Severino Santiapichi ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, via Antonio Bertoloni, n. 44/46,

 

e nei confronti

 

del Ministero dell’interno e dell’Ufficio territoriale del Governo; Prefettura di Viterbo, non costituitasi;

del sig. Alessandro Mazzoli, appellante incidentale, rappresentato e difeso dall’avv. Carmelo Ratano ed elettivamente domiciliato in Roma, in via Famagosta n. 8, presso l’avv. Paola Fabi,

 

per la riforma

 

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione II Ter, n. 6608/2005, pubblicata il 7 settembre 2005.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti indicate sopra;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Designato relatore, alla pubblica udienza del 7 marzo 2006, il consigliere Giuseppe Farina ed uditi, altresì, gli avv. Rosi, Picozza, Ratano come da verbale d’udienza;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

 

FATTO E DIRITTO

 

1. Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, l’attuale appellante ha chiesto che si disponesse l’annullamento:

1.1. della proclamazione dell’eletto a presidente della Provincia di Viterbo, nelle tornate del 3 e 4 e del 17 e 18 aprile 2005, e degli eletti al consiglio provinciale, nonché, per quanto di ragione, della candidatura alla carica di consigliere provinciale del sig. Nazareno Bianchi e di tutte le preferenze di voto da questi ottenute, pari a 1436;

1.2. dei risultati relativi a ventuno sezioni.

2. Il T.A.R. del Lazio ha respinto il ricorso, con l’impugnata decisione n. 6605 del 2005, stabilendo:

2.1. la giurisdizione del giudice amministrativo, perché la controversia riguarda le operazioni elettorali per la nomina del presidente e del consiglio della predetta provincia, ancorché il principale vizio denunciato attenga allo status di un candidato, ritenuto fonte di un effetto di trascinamento che avrebbe viziato la volontà degli elettori;

2.2. l’estromissione dal giudizio degli organi statali evocati, per difetto di legittimazione passiva;

2.3. la tempestività del ricorso, anche se contenente proposizione di censure contro le operazioni del primo turno elettorale, perché l’atto sul quale si impernia il giudizio elettorale è quello di proclamazione degli eletti, sicché il termine per impugnare gli atti della procedura decorrono dalla data in cui l’ufficio centrale ha concluso, con la sottoscrizione del relativo verbale, le operazioni stesse;

2.4. l’inutilità dell’esame della richiesta di integrazione del contraddittorio, perché il ricorso principale era da dichiarare in parte infondato ed in parte inammissibile;

2.5.1. l’inammissibilità, in concreto, della domanda di annullamento delle operazioni elettorali compiute in ventuno sezioni, perché, per effetto della cosiddetta  prova di resistenza, era dimostrato che il quorum per l’elezione alla carica di presidente della provincia non era comunque raggiunto dal ricorrente nel primo turno, “restando pertanto impregiudicata la necessità del turno di ballottaggio”;

2.5.2. la genericità – e dunque l’inammissibilità – delle censure incentrate sull’elevato numero di schede nulle, “o almeno tale ritenuto dal ricorrente”, e sui “rilievi formali” riscontrati sui verbali di 27 sezioni;

2.6. la non fondatezza della principale censura svolta, concernente la nullità dei voti conseguiti da un candidato – dipendente “fuori ruolo” della Provincia dal 4 gennaio 2005 – i quali dovevano, secondo l’assunto del ricorrente, essere sottratti da quelli riportati dalla lista nella quale si era presentato come candidato e da quelli espressi per il candidato presidente, alla lista collegato.

In proposito, il primo giudice, dopo aver rammentato la distinzione fra cause di ineleggibilità e cause di incompatibilità, ha richiamato le pertinenti osservazioni e conclusioni della giurisprudenza (in particolare V Sezione 2 maggio 2002, n. 2333) circa la inesistenza, in simili casi, della nullità – affermata dal ricorrente – delle intere elezioni. Ha perciò precisato che la cause di ineleggibilità non sono di ostacolo all’ammissione della lista, nella quale è ricompreso il soggetto ineleggibile, e non integrano una causa di invalidità che possa trasmettersi alle operazioni successive, ma il solo effetto della decadenza di chi è ineleggibile.

Ha anche aggiunto che l’espressione del voto, mediante apposizione del segno grafico sul contrassegno del gruppo, contiene, “in realtà, almeno tre voti, per il presidente, per il gruppo, e per il candidato consigliere”, come statuisce l’art. 74, comma 5, terzo periodo, del d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267, e come si rileva dall’art. 5, comma 2, del d.p.r. n. 132 del 1993, “in parte qua ancora vigente”.

La corretta composizione, infine, degli organi elettivi è affidata, perciò, a controlli ulteriori e successivi, in occasione dell’insediamento degli organi stessi, “i quali presuppongono la validità delle elezioni e dell’insediamento”.

3. L’appello, dopo la sintesi delle censure dedotte in primo grado, insiste nella tesi della nullità dei voti dati al predetto candidato ineleggibile, che condurrebbe al raggiungimento del quorum, da parte del ricorrente, nel primo turno elettorale, con inutilità del ballottaggio, nel quale egli è rimasto soccombente.

L’assunto è chiaramente sintetizzato nella formula (pag. 16 del ricorso in appello). “nell’ineleggibilità fissata dall’art. 60” del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, “il legislatore ha inteso tassativamente escludere il candidato ineleggibile dalla partecipazione alla tornata elettorale”. Ed inoltre che (pag. 19 dell’appello) “la verifica dell’ineleggibilità svolta a valle della tornata elettorale” – vale a dire in occasione dell’insediamento dell’organo eletto – “ha effetti ex tunc e pertanto è tale da rendere nullo quel voto in quanto non si è mai perfezionato non risultando eleggibile il candidato.”

4. La censura ora riferita, che non tiene conto di tutte le argomentazioni esposte dal primo giudice e desunte anche dalla giurisprudenza già orientata sulla questione, è infondata. Non occorre, perciò, così come ha già ritenuto il primo giudice, disporre per l’integrazione del contraddittorio.

5.1. In primo luogo sembra utile premettere che se il caso in controversia è ricompreso in una fattispecie positivamente regolata, il giudizio va formulato secondo tali regole, non già sulla scorta di esigenze individuate da una delle parti, ma prive di riscontro positivo.

5.2. Orbene, in tema di elezioni negli enti locali, è nulla – a norma dell’art. 58, comma 4, del suddetto d.lgs. – “l’eventuale elezione o nomina di coloro che si trovano nelle condizioni” di incandidabilità enunciate nel comma 1 dello stesso articolo.

Si tratta di cause ostative alla candidatura – come recita la rubrica della norma – tutte collegate a condanne per reati specificamente definiti od a pene superiori ad un certo limite od a misure di prevenzione per appartenenza a determinate associazioni per delinquere.

5.3. Ogni altra ipotesi – sia di ineleggibilità, ex artt. 60 e 61 del d.lgs. In questione, sia di incompatibilità, ex artt. 63 e ss. – non comporta nullità dell’elezione o della nomina.

Invero, il precedente art. 41 stabilisce espressamente che il consiglio, comunale o provinciale, nella prima seduta e “prima di deliberare su qualsiasi altro oggetto”, esamini “la condizione degli eletti a norma del capo II” del titolo III. In quel capo sono ricompresi gli artt. da 55 a 70, nei quali sono inclusi quelli ora esaminati in tema di ineleggibilità, che qui interessa specificamente.

E, aggiunge l’art. 41 che lo scopo dell’esame è quello di “dichiarare la ineleggibilità di essi” eletti, “quando sussista alcuna delle cause ivi previste”, vale a dire alcuna delle cause, per quel che qui interessa, di ineleggibilità. Perciò anche quella riferibile al candidato controinteressato, consistente nell’esser dipendente della Provincia, senza che qui occorra stabilire se la posizione di fuori ruolo assuma una qualche rilevanza (come quella di collocamento in aspettativa non retribuita: art. 60 citato, comma 3).

Per tutti i casi in discussione, è prescritta la procedura di contestazione nei modi regolati dall’art. 69. Si tratta di un preciso rinvio, stabilito nell’art. 41, per il momento della verifica delle condizioni di ineleggibilità.

5.4. Nessuna nullità dei voti espressi verso il candidato ineleggibile è dunque stabilita dalla legge. E meno ancora con riguardo alle connesse espressioni di voto di lista o per il candidato sindaco o presidente.

In conseguenza di ciò, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha escluso che, in caso di ineleggibilità (V Sezione n. 3338 del 15 giugno 2000) o in caso di incandidabilità (V Sezione n. 2333 del 2 maggio 2002) di consiglieri, si dia luogo ad annullamento delle operazioni elettorali. Si procede, invece, alla surrogazione della persona non eleggibile o non candidabile. Anche in quest’ultimo caso, la sanzione di nullità è stabilita soltanto per l’elezione del candidato (cit. n. 2333 del 2002), senza conseguenze invalidanti ulteriori. E la riprova del limitato effetto della ineleggibilità – nel caso che qui interessa – è che è dato allo stesso organo eletto il potere di decidere su tale condizione. Il che postula la validità della sua costituzione, con inconfigurabilità della nullità di qualsiasi operazione elettorale intervenuta.

6. Con un secondo motivo, il ricorrente segnala la necessità di far luogo alla verifica delle operazioni elettorali compiute nelle ventuno sezioni da lui indicate, ove si condivida la tesi da lui svolta, per conoscere se gli elettori, che hanno espresso i 1436 voti in favore del candidato ineleggibile, si siano anche espressi per il candidato presidente. Se non si sono anche espressi, a dire del ricorrente, non si dovevano computare i voti siffatti in suo favore.

Nei limiti in cui è riproposta la censura non merita adesione, poiché non si è condivisa la tesi di nullità dei voti espressi.

Essa va ritenuta, in ogni caso, infondata, come ha già notato il primo giudice, con argomentazione trascurata in appello.

La regola di interpretazione del voto, nelle elezioni del presidente della provincia, è espressa nell’art. 74, comma 5, del T.U. 267 del 2000. Ivi è stabilito che si può votare per uno dei candidati al consiglio provinciale – tracciando un segno sul pertinente contrassegno – o, anche, votare, al contempo, per il candidato presidente e per un candidato consigliere ad esso collegato. “Il voto espresso nei modi suindicati si intende attribuito sia al candidato alla carica di consigliere provinciale corrispondente al contrassegno votato, sia alla carica di presidente della provincia” (citato comma 5, terzo periodo).

Ne segue che, quand’anche tutti i voti contestati col ricorso introduttivo fossero stati espressi unicamente per il candidato consigliere ineleggibile, i voti stessi erano da computare separatamente in favore del candidato presidente della provincia.

7. Alla conclusione di infondatezza del ricorso, testè esaminato, fa seguito l’improcedibilità dell’appello incidentale del controinteressato, eletto presidente della Provincia.

8. Data la materia trattata, si può disporre la compensazione delle spese del grado.

 

 

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), nella camera di consiglio del 7 marzo 2006, con l'intervento dei Signori:

Sergio Santoro, Presidente

Raffaele Carboni , Consigliere

Giuseppe Farina, rel. est. Consigliere

Goffredo Zaccardi ,Consigliere

Marzio Branca,Consigliere

L’Estensore                                                          Il Presidente

f.to Giuseppe Farina                                       f.to Sergio Santoro

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 23 agosto 2006

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

p. IL DIRIGENTE

f.to Francesco Cutrupi

 

 

 


 



[1]     L’individuazione dei quali è rimessa, in generale, alla legge dall’art. 51, co. 1°, Cost., ma con riguardo alle cariche parlamentari è effettuata dagli artt. 56, co. 3° e 58, co. 2°, Cost..

[2]     Cfr. art. 65, co. 1°, Cost..

[3]     Artt. 51 co. 1°, 56, co. 3°, e 58, co. 2°, oltre all’art. 65 Cost..