Immigrazione – Le politiche di integrazione

Il testo unico delle leggi sull’immigrazione del 1998[1] disciplina sia il diritto dell’immigrazione in senso stretto, ossia l’insieme delle regole e delle procedure relative alla gestione complessiva dei flussi migratori, sia il diritto all’integrazione, consistente nella predisposizione degli strumenti idonei per garantire anche agli stranieri, per quanto è possibile, gli stessi diritti dei cittadini, per rimuovere gli ostacoli all’effettivo esercizio di tali diritti e per favorire la loro integrazione nella società.

La L. 189/2002[2] è intervenuta prevalentemente a modificare la prima parte del testo unico, mentre sono poche e di portata settoriale le innovazioni introdotto in materia di integrazione (vedi il testo a fronte tra il D.Lgs. 286/1998 e le modifiche apportate dalla L. 189/2002). Una disposizione di carattere generale è rinvenibile nell’art. 40, co. 1-bis, introdotto dalla L. 189/2002, che circoscrive l’accesso alle misure di integrazione sociale agli stranieri regolari.

 

Il Documento di programmazione triennale 2004-2006, approvato con D.P.R. 13 maggio 2005[3], ha indicato alcuni obiettivi prioritari relativi alle politiche di integrazione; tra i principali di essi si ricordano:

§      adottare misure di integrazione adeguate nei confronti di coloro che hanno usufruito della regolarizzazione del 2002-2003 (circa 640.000 persone a cui si devono aggiungere i familiari);

§      diffondere le iniziative rivolte all’alfabetizzazione e all’apprendimento della cultura e della lingua italiana;

§      offrire soluzione abitative agli stranieri regolarmente soggiornanti;

§      promuovere iniziative specifiche nei confronti delle “seconde generazioni”, ossia degli stranieri, nati in Italia, figli di immigrati;

§      supportare l’attività del Comitato minori stranieri;

§      valorizzare i consigli territoriali dell’immigrazione quali centri delle reti di raccordo delle iniziative locali;

§      in materia sanitaria favorire la riduzione del ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza e ridurre l’incidenza della sindrome da HIV.

 

Il testo unico contiene un articolato insieme di disposizioni volte a garantire agli stranieri alcuni diritti attribuiti ai cittadini italiani, tra queste:

§         il diritto alla difesa in giudizio (art. 17);

§         il diritto all’unità familiare (ricongiungimenti familiari: artt. 28-29);

§         il diritto alla salute (artt. 34-35);

§         il diritto allo studio (art. 39);

§         il diritto alla casa (art. 40).

Sono previsti una serie di strumenti per accogliere gli stranieri regolari e favorirne l’integrazione; tra di essi:

§         la Commissione governativa per le politiche di integrazione (art. 46), con le seguenti attribuzioni:

-          predisporre un rapporto annuale sullo stato di attuazione delle politiche per l’integrazione degli immigrati;

-          formulare proposte di interventi;

-          fornire pareri al Governo;

§         il fondo nazionale per le politiche migratorie (art. 45), destinato al finanziamento delle seguenti iniziative:

-          accoglienza di stranieri immigrati per cause eccezionali (conflitti, calamità naturali ecc.);

-          istruzione;

-          centri di accoglienza;

-          misure di integrazione quali la diffusione delle informazioni utili all’inserimento degli stranieri nella società e alla conoscenza della cultura originaria degli stranieri;

§         l’azione civile contro la discriminazione (art. 44).

Il diritto all’unità familiare

Specifiche disposizioni del testo unico(artt. 28-33) prendono in esame le forme di garanzia del diritto all’unità familiare, riconosciuto agli stranieri regolarmente soggiornanti, e di tutela dei minori, il cui prioritario interesse deve sorreggere tutti i provvedimenti amministrativi e giurisdizionali in materia di diritto all’unità familiare.

Il testo unico individua le categorie di soggetti per i quali lo straniero regolarmente soggiornante può avanzare richiesta di ricongiungimento familiare e i requisiti necessari perché il questore possa rilasciare il relativo nulla osta (consistenti nella disponibilità di un reddito sufficiente al sostentamento e di un alloggio idoneo). Tali requisiti non sono richiesti nel caso di rifugiato.

Per quanto riguarda il primo profilo, sul quale è intervenuta in senso complessivamente restrittivo la L. 189/2002, possono richiedere il ricongiungimento il coniuge (non legalmente separato), i figli minori e i genitori a carico. La L. 189/2002 da un lato ha esteso il diritto al ricongiungimento anche ai figli maggiorenni, purché a carico e invalidi totali, dall’altro ha circoscritto la possibilità di richiedere il ricongiungimento dei genitori solo nel caso questi non abbiamo altri figli nel Paese di origine, o, se ultrassessantacinquenni, qualora gli altri figli non possano provvedere loro[4].

Inoltre, la L. 189/2002 ha eliminato la possibilità di ricongiungimento dei parenti entro il terzo grado, inabili al lavoro.

Le competenze in materia di nulla osta al ricongiungimento familiare sono trasferite dalla questura allo sportello unico dell’immigrazione (v. paragrafo La disciplina del lavoro nella scheda Immigrazione – Permesso di soggiorno).

Sotto il profilo processuale, il testo unico affida al tribunale in composizione monocratica la giurisdizione sui ricorsi avverso il diniego di nullaosta al ricongiungimento familiare e, in generale, contro tutti i provvedimenti in materia di diritto all’unità familiare.

Si individua, inoltre, una particolare categoria di permesso di soggiorno rilasciato per motivi familiari alle categorie di soggetti espressamente individuate e con durata identica a quella del permesso di soggiorno del familiare in possesso dei requisiti per il ricongiungimento.

 

Le disposizioni a favore dei minori prevedono forme di facilitazione all’ingresso dei medesimi nel territorio nazionale, consistenti nella loro iscrizione automatica nel permesso o nella carta di soggiorno di uno o entrambi i genitori (se conviventi e regolarmente soggiornanti) fino al compimento del quattordicesimo anno di età. Al medesimo minore verrà in seguito rilasciato un permesso di soggiorno per motivi familiari, valido fino al raggiungimento della maggiore età, e che potrà essere successivamente riconvertito in altra categoria di permesso.

La L. 189/2002 ha integrato le disposizioni di cui sopra prevedendo espressamente la possibilità, non considerata nel testo unico, di concedere anche ai minori stranieri di cui non sono stati rintracciati i genitori (i cosiddetti minori non accompagnati: vedi oltre) il permesso di soggiorno per motivi familiari, a condizione che siano ammessi per un periodo di almeno due anni in un progetto di integrazione gestito da enti autorizzati.

Per far fronte alle diverse esigenze collegate alla presenza dei minori, l’art. 33 del testo unico del 1998 ha istituito il Comitato per i minori stranieri, originariamente operante presso la Presidenza del Consiglio, ed oggi presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

Il Comitato svolge compiti di vigilanza e coordinamento sulle modalità di soggiorno dei minori stranieri temporaneamente ammessi sul territorio dello Stato e di tutela dei relativi diritti. Esso è disciplinato dal decreto del Presidente del Consiglio 535/1999[5].

 

Il Comitato per i minori stranieri, nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è composto dai seguenti rappresentanti:

§         uno del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che presiede il Comitato

§         uno del Ministero degli Affari Esteri

§         uno del Ministero di Giustizia

§         uno del Ministero dell’Interno

§         uno dell’Unione province italiane

§         due dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani

§         due di organizzazioni maggiormente rappresentative operanti nel settore dei problemi della famiglia e dei minori.

Il comitato svolge la sua attività soprattutto in relazione ai “minori stranieri non accompagnati” e “minori stranieri accolti”:

Per minori non accompagnati si intende i minorenni senza cittadinanza italiana (o di altro Paese dell’Unione Europea) che non ha presentato domanda di asilo politico e che si trova nel territorio dello Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili.

In relazione ai minori non accompagnati, il Comitato svolge le seguenti attività:

§         accerta lo status del minore non accompagnato;

§         svolge compiti di impulso e di ricerca al fine di promuovere l’individuazione dei familiari dei minori;

§         adotta il provvedimento di rimpatrio assistito;

§         provvede al censimento dei minori presenti non accompagnati.

Al minore non accompagnato sono garantiti i diritti relativi al soggiorno temporaneo, alle cure sanitarie, all’avviamento scolastico e alle altre provvidenze disposte dalla legislazione vigente.

Al fine di garantire l’adeguata accoglienza del minore il Comitato può proporre la stipula di convenzioni con amministrazioni pubbliche e organismi nazionali e internazionali che svolgono attività inerenti i minori non accompagnati in conformità ai princìpi e agli obiettivi che garantiscono il superiore interesse del minore, la protezione contro ogni forma di discriminazione, il diritto del minore di essere ascoltato.

I minori stranieri accolti sono bambini, di almeno sei anni, che hanno fatto ingresso in Italia nell’ambito di programmi solidaristici di accoglienza temporanea promossi da enti, associazioni o famiglie.

In relazione ai minori accolti, il Comitato:

§         delibera, previa adeguata valutazione e secondo criteri predeterminati, in ordine alle richieste provenienti da enti, associazioni o famiglie italiane per l’ingresso di minori accolti nell’ambito dei programmi solidaristici di accoglienza temporanea nonché per l’affidamento temporaneo e per il rimpatrio dei medesimi;

§         provvede alla istituzione e alla tenuta dell’elenco dei minori accolti nell’ambito dei programmi solidaristici;

§         definisce i criteri predeterminati di valutazione delle richieste per l’ingresso di minori accolti.

Il diritto alla salute

Il testo unico garantisce una ampia assistenza sanitaria a tutti gli stranieri, compresi coloro che non sono in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno.

Le disposizioni in materia sanitaria contenute nel testo unico (artt. 34-36), in-dividuano le categorie di stranieri in capo ai quali è posto l’obbligo di iscrizione al Servizio sanitario nazionale, con conseguente parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani (specie in relazione all’obbligo contributivo e all’assistenza erogata dal Servizio): si tratta degli stranieri regolarmente soggiornanti che svolgono una attività lavorativa o che abbiano chiesto il rinnovo del permesso di soggiorno e i familiari a carico. Al di fuori di questi casi, lo straniero in posizione regolare è comunque tenuto ad assicurarsi contro il rischio di malattie, infortunio e maternità, mediante la stipula di una polizza assicurativa o mediante iscrizione al Servizio sanitario nazionale con compartecipazione alla spesa sostenuta.

Per gli studenti stranieri e quelli collocati alla pari l’iscrizione al Servizio sanitario è facoltativa e prevede la corresponsione di un contributo annuale forfetario.

È prevista, infine, l’ipotesi dell’erogazione di prestazioni sanitarie agli stranieri non iscritti al Servizio sanitario nazionale, con garanzia di fornitura dei servizi sanitari essenziali che sono espressamente garantiti anche agli irregolari.

Il diritto all’istruzione

Il testo unico disciplina le condizioni e le forme in cui è consentito agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia l’iscrizione agli ordini o collegi professionali (art. 37)

Inoltre, viene posto l’obbligo scolastico per i minori stranieri presenti sul territorio nazionale e sono fissati i principi per l’effettiva garanzia – da parte di Stato, Regioni ed enti locali – del diritto all’istruzione degli stranieri, anche con l’obiettivo di non provocare uno “sradicamento” dello straniero dalla propria lingua e cultura d’origine. La tutela della cultura d’origine e le attività interculturali comuni sono organizzate mediante una programmazione territoriale integrata, strumento che le scuole elaborano anche in regime di convenzione con le associazioni degli stranieri, le loro rappresentanze diplomatiche o consolari e con le organizzazioni di volontariato.

 

A questo proposito, si ricorda che nel giugno del 2004 è stato istituito l’Ufficio per l’integrazione degli alunni stranieri presso la Direzione generale per lo studente del Ministero dell’istruzione, al fine di sostenere, potenziare e coordinare gli interventi a sostegno dell’accoglienza e dell’integrazione.

 

Per quanto riguarda l’istruzione superiore, i princìpi generali per l’accesso degli studenti stranieri ai corsi delle università italiane sono disciplinati dall’art. 39 del testo unico e dall’art. 46 del regolamento di attuazione (D.P.R. 394/1999).

Viene sancita in via generale la parità di trattamento degli stranieri con i cittadini italiani per quanto riguarda l’accesso all’istruzione universitaria ed il diritto allo studio.

L’accesso alle università italiane degli studenti stranieri residenti all’estero viene, come del resto già accadeva prima dell’entrata in vigore del testo unico, contingentato nei limiti del numero massimo di visti d’ingresso e permessi di soggiorno determinato annualmente, sulla base delle disponibilità comunicate dalle università, con decreto del ministro degli affari esteri, di concerto con il ministro dell’università (oggi dell’istruzione, dell’università e della ricerca) e con il ministro dell’interno; sul relativo schema le competenti Commissioni parlamentari esprimono il proprio parere.

Nella XIV legislatura risulta approvato un solo decreto di determinazione del contingente di studenti stranieri adottato il 19 dicembre 2001[6] che fissa in 22.019 il numero massimo dei visti di ingresso per l’anno accademico 2001-2002.

Il 22 luglio 2005 il Governo ha presentato alle Camere per il prescritto parere uno schema di decreto ministeriale, relativo all’anno accademico 2005-2006[7], che porta a 40.268 unità la quota di visti di ingresso e di permessi di soggiorno che le ambasciate e i consolati italiani all’estero possono rilasciare a cittadini stranieri residenti all’estero per l’accesso ai corsi universitari presso le Università statali e non statali. L’aumento considerevole della quota è da ricondurre probabilmente alla mancata emanazione dei decreti ministeriali annuali nei tre anni precedenti[8].

 

Al di fuori delle quote annuali, è in ogni caso consentito l’accesso ai corsi universitari (e alle scuole di specializzazione delle università, come specificato dal DL 241/2004[9]) a parità di condizioni con gli studenti italiani (e nei limiti delle disponibilità dei singoli atenei), ad alcune categorie di studenti, definite dall’art. 39, co. 5, del T.U. come modificato dalla L. 189/2002):

§         stranieri titolari di carta di soggiorno, ovvero di permesso di soggiorno per lavoro subordinato o autonomo, per motivi familiari, per asilo politico, per asilo umanitario o per motivi religiosi,

§         stranieri regolarmente soggiornanti da almeno un anno in possesso di titolo di studio superiore conseguito in Italia;

§         stranieri titolari di diplomi conseguiti nelle scuole italiane all’estero o nelle scuole oggetto di intese bilaterali.

Le università – nella loro autonomia e nei limiti delle loro disponibilità finanziarie – promuovono l’accesso degli stranieri ai corsi universitari, stipulando apposite intese con gli atenei stranieri per la mobilità studentesca ed organizzando attività di orientamento e di accoglienza e tenendo conto degli orientamenti comunitari in materia, con particolare riguardo all’inserimento di una quota di studenti universitari stranieri.

Si ricorda infine che la legge comunitaria per il 2005 (legge 29/2006), include nella delega concernente il recepimento della normativa comunitaria la direttiva 2004/114/CE del 13 dicembre 2004[10], riguardante le condizioni e le procedure per l’ingresso e il soggiorno dei cittadini dei Paesi terzi, che si recano nel territorio degli Stati membri, per un periodo superiore ai tre mesi, per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato[11].

Il diritto all’abitazione e all’assistenza sociale

Le disposizioni del testo unico in materia di servizi abitativi e di assistenza sociale per stranieri (artt. 40-41) prevedono che le regioni, in collaborazione con gli enti locali e con le associazioni di volontariato, predispongano centri di accoglienza destinati ad ospitare stranieri regolarmente soggiornanti e impossibilitati, temporaneamente, a provvedere autonomamente alle proprie esigenze abitative e di sussistenza[12].

L’istituzione dei centri di accoglienza è comunque finalizzata a rendere autosufficienti gli stranieri ospitati nel più breve tempo possibile, anche provvedendo, ove possibile, ai servizi sociali e culturali idonei a favorire l’autonomia e l’inserimento sociale degli ospiti.

Il testo unico prevedeva la possibilità di alloggiare nei centri, in situazioni di emergenza (quali sbarchi di massa di clandestini) e con decisione del sindaco, anche gli stranieri non in regola con le disposizioni sull’ingresso e il soggiorno (art. 40, co. 1). La L. 189/2002 ha eliminato dal testo unico tale disposizione, reintroducendone una analoga, ma di carattere transitorio, che prevede la possibilità di accoglienza dei clandestini nei centri di accoglienza fino alla predisposizione di una adeguata rete di centri di permanenza temporanea e di assistenza (art. 34, co. 4, della L. 189/2002).

Un’altra modifica apportata dalla L. 189/2002 consiste nella specificazione che le misure di integrazione sociale sono riservate agli stranieri in regola con le norme relative al soggiorno, precludendone l’accesso agli irregolari e clandestini (art. 40, co. 1-bis). Si tratta di una disposizione che, pur collocata nell’ambito delle norme sui centri di accoglienza, sembra avere un carattere generale, coinvolgendo tutti gli strumenti di integrazione.

È inoltre stabilito il principio dell’accesso degli stranieri (regolari) agli alloggi sociali (pensionati) e alle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.

Anche in questo caso, si registra l’intervento della L. 189/2002 che ha abrogato il co. 5 dell’art. 40, che prevedeva la concessione di contributi regionali agli enti locali per la ristrutturazione di immobili pubblici da destinare agli stranieri regolari; e ha introdotto alcune condizioni ulteriori per l’accesso alle graduatorie delle case popolari da parte degli stranieri (permesso di soggiorno almeno biennale e svolgimento di una regolare attività lavorativa).

 

L’art. 41 del testo unico estende a favore degli stranieri in possesso della carta o del permesso di soggiorno (di durata non inferiore a un anno) anche l’accesso ai servizi socioassistenziali organizzati sul territorio[13].

 

La legge finanziaria 2001 (art. 80, co. 19)[14] ha circoscritto la portata della disposizione precisando che l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concessi agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno (e non anche a coloro in possesso del semplice permesso di soggiorno); per le altre prestazioni e servizi sociali l’equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno.

L’integrazione sociale degli stranieri

Il testo unico individua una pluralità di attività e di interventi finalizzati a garantire, da parte dei soggetti pubblici e delle associazioni di volontariato, l’integrazione sociale degli stranieri soggiornanti in Italia (art. 42). In particolare, lo Stato, le regioni e gli enti locali, in collaborazione con le associazioni del settore devono favorire tutte le iniziative volte sia a diffondere la conoscenza dei diritti e doveri degli stranieri nella società italiana, sia la valorizzazione delle culture dei Paesi di origine.

Per la promozione dell’integrazione il testo unico prevede l’istituzione di appositi organismi.

Presso il CNEL, opera l’Organismo nazionale di coordinamento per le politiche di integrazione sociale dei cittadini stranieri a livello locale, previsto dall’art. 42, co. 3 del T.U., insediatosi il 10 dicembre 1998.

L’Organismo di coordinamento promuove il confronto fra soggetti istituzionali e sociali a livello locale al fine di individuare e valutare percorsi e modelli efficaci di intervento.

Presso la Presidenza del Consiglio dei ministri è inoltre istituita una Consulta per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie, si tratta di organo prevalentemente consultivo con il compito di verificare l’attuazione del testo unico e di elaborare proposte e suggerimenti per una migliore integrazione degli stranieri. La Consulta, inoltre, acquisisce le osservazioni degli enti e delle associazioni nazionali maggiormente attivi nell’assistenza e nell’integrazione degli immigrati in vista dell’elaborazione del documento di programmazione triennale.

Il testo unico prevede l’istituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri di un Fondo nazionale per le politiche migratorie (art. 45) e di una Commissione per le politiche di integrazione (art. 46).

Il Fondo nazionale per le politiche migratorie è destinato a finanziare una pluralità di iniziative e interventi richiamati in precedenti articoli del decreto; tra di essi si segnalano quelli relativi alle misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali, all’istruzione degli stranieri e all’educazione interculturale, ai centri di accoglienza, e alle misure di integrazione sociale. L’entità della dotazione del Fondo è disposta direttamente dal testo unico per il triennio 1997/1999, per gli anni successivi, la determinazione degli importi è fissata dalla Tabella C della legge finanziaria, ai sensi della L. 468/1978. Si prevede comunque che nel fondo possano poi confluire eventuali ulteriori risorse di entrata provenienti da privati, da organizzazioni internazionali e dall’Unione europea. Il Fondo è annualmente ripartito con D.P.C.M., di concerto con i ministri interessati.

Lo Stato, le regioni e gli enti locali sono tenuti ad adottare, nelle materie di propria competenza, programmi annuali o pluriennali delle iniziative e attività concernenti l’immigrazione, con particolare riguardo a quelle attuative del testo unico e del regolamento di attuazione, alle attività culturali, formative, informative, di integrazione e di promozione di pari opportunità. I programmi sono adottati se-condo i criteri e le modalità indicati dal regolamento di attuazione e indicano le iniziative pubbliche e private prioritarie per il finanziamento da parte del Fondo, compresa l’erogazione di contributi agli enti locali per l’attuazione del programma.

La Commissione per le politiche di integrazione, con sede operativa presso la Presidenza del Consiglio, ha i compiti di predisporre per il Governo, anche ai fini dell’obbligo di riferire al Parlamento, il rapporto annuale sullo stato di attuazione delle politiche per l’integrazione degli immigrati, di formulare proposte di interventi di adeguamento di tali politiche nonché di fornire risposta a quesiti posti dal Governo concernenti le politiche per l’immigrazione, interculturali, e gli interventi contro il razzismo. La Commissione ha curato due rapporti sull’attuazione delle politiche per l’integrazione, nel 1999 e nel 2000. Non risulta che nella XIV legislatura la Commissione si sia costituita.

Tra le strutture attive nelle politiche dell’integrazione si ricordano i Consigli territoriali per l’immigrazione, istituiti dall’art. 3, co. 6, T.U., operanti presso le prefetture e composti dai rappresentanti delle amministrazioni locali dello Stato, delle regioni, degli enti locali e dalle associazioni di settore con compiti di analisi delle esigenze e di promozione degli interventi a livello locale.

Lotta alla discriminazione razziale

Nell’ambito delle azioni per l’integrazione degli immigrati, il testo unico prevede alcune disposizioni volte a contrastare la discriminazione razziale.

In particolare gli articoli 43 e 44 recano rispettivamente l’individuazione puntuale degli atti di discriminazione e la disciplina dell’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione[15].

L’art. 43 del testo unico sull’immigrazione qualifica come discriminatori i comportamenti che, direttamente o indirettamente, operano una distinzione, un’esclusione, una restrizione o una preferenza per motivi di razza, colore, nazionalità, etnia, religione e che abbiano l’intento o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento o l’esercizio, in condizione di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

 

In particolare sono individuati i seguenti atti di discriminazione in ragione dell’appartenenza a una determinata razza, religione, etnia o nazionalità :

§         compimento o omissione di un atto ingiustamente discriminatorio nei confronti di un cittadino straniero, da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio o di un esercente un servizio di pubblica utilità;

§         imposizione di condizioni più svantaggiose o rifiuto di fornire beni o servizi offerti al pubblico;

§         imposizione di condizioni più svantaggiose o rifiuto di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia;

§         azioni od omissioni dirette ad impedire l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa dallo straniero regolarmente soggiornante in Italia;

§         atti o comportamenti compiuti dal datore di lavoro o dai suoi preposti diretti a discriminare anche indirettamente il lavoratore straniero. La disposizione fornisce, inoltre, una individuazione dei criteri in base ai quali individuare le fattispecie di “discriminazione indiretta”: è da considerarsi tale ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.

 

L’articolo 44 del testo unico sull’immigrazione istituisce e disciplina l’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione.

Si prevede la possibilità di agire in giudizio avanti al tribunale civile in composizione monocratica con un ricorso privo di formalità, teso ad ottenere un provvedimento, impugnabile davanti al tribunale collegiale, che, eventualmente, anche in via di urgenza, possa rimuovere gli effetti della discriminazione e risarcire il danno subito. L’inosservanza del provvedimento è perseguita penalmente.

Quando si tratti di discriminazione di carattere collettivo in ambito lavorativo, il ricorso può essere presentato anche dalle maggiori organizzazioni sindacali, e sono previste sanzioni accessorie per le aziende[16].

Infine, si prevede l’istituzione ad opera delle regioni di centri di informazione, assistenza legale e osservazione sull’andamento del fenomeno.

Si ricorda, inoltre, che la citata Commissione per le politiche dell’integrazione esplica la sua attività consultiva nei confronti del Governo anche in relazione agli interventi contro il razzismo (vedi sopra).

Le norme sopra descritte non esauriscono quanto previsto dall’ordinamento sul contrasto alla discriminazione razziale.

 

Il complesso di norme di maggiore organicità in materia di discriminazione razziale è costituito dalla legge 13 ottobre 1975, n. 654[17], di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo adottata dalle Nazioni Unite a New York nel 1966.

La Convenzione condanna qualsiasi forma di discriminazione razziale, ed in particolare le forme più estreme quali la segregazione razziale e l’apartheid.

Gli Stati contraenti si impegnano da un lato, a non porre in essere pratiche di discriminazione razziale e, dall’altro, ad adottare provvedimenti volti ad eliminare tali pratiche, ove esistano.

In particolare, si prevede che ciascuno degli Stati che aderiscono alla Convenzione modifichi la propria legislazione penale nel senso di prevedere i delitti di propaganda e di violenza razziale. Tali modifiche sono state apportate nel nostro ordinamento dalla stessa legge n. 654 del 1975 di ratifica della Convenzione, ed in particolare dall’articolo 3 che ha introdotto alcune nuove fattispecie penali, quali l’attività di discriminazione razionale, la diffusione idee razziste, la violenza per motivi razziali, la partecipazione ad organizzazioni o movimenti razzisti. Il D.L. n. 122 del 1993 [18].(il c.d. “decreto Mancino”) ha provveduto ad inasprire le pene per le fattispecie di cui sopra e ha introdotto la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico. Per qualsiasi reato, ad eccezione di quelli per i quali è previsto l’ergastolo, se commesso per le finalità di cui sopra, la pena viene aumentata fino alla metà. Il D.L. 122 ha introdotto, inoltre, due nuove fattispecie di reato: la prima incrimina il comportamento di chiunque in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli di tipo razzista, o basati sull’odio etnico, nazionale o religioso propri o usuali di organizzazioni razziste; la seconda fattispecie di reato consiste nel divieto di accesso ai luoghi ove si svolgono competizioni agonistiche per i soggetti che vi si rechino con gli emblemi o i simboli sopracitati.

L’articolo 5 della Convenzione, inoltre, impegna gli Stati contraenti ad adoperarsi per garantire - senza distinzione di razza o nazionalità – una serie di diritti fondamentali quali il diritto all’eguaglianza davanti alla legge, il diritto alla sicurezza e all’integrità personale, i diritti politici ed altri diritti civili (tra i quali il diritto di circolazione, alla libertà di pensiero, di religione, di associazione, diritto al lavoro, alla sanità, all’educazione).

Si segnalano i seguenti provvedimenti recanti ulteriori disposizioni per la repressione dei fenomeni di discriminazione razziale:

§         L. 11 marzo 1952, n, 153, che ratifica della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Le norme attuative della Convenzione sono state adottate con la legge 9 ottobre 1967, n. 962, recante la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio: l’articolo 8 prevede la reclusione da 3 a 12 anni per il delitto di istigazione a commettere genocidio e apologia di genocidio;

§         L. 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. “Legge Scelba”) relativa al divieto di ricostituzione del partito fascista: l’art. 1 comprende la propaganda razzista tra le caratteristiche che denotano un movimenti o un partito come fascista; l’art. 4 (come modificato dal DL 122/93) che comprende tra le forme di apologia del fascismo l’esaltazione di principi razzisti;

§         L. 8 marzo 1989, n. 101, di recepimento dell’intesa tra lo Stato italiano e le Comunità ebraiche: l’art. 2 stabilisce che le fattispecie di reato connessi alla discriminazione razziale (di cui all’articolo 3 della L. 654 del 1975), si intendono riferiti anche alle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso.

 

Nella XIV legislatura alla articolata disciplina in materia si è aggiunto un complesso organico di disposizioni in materia di non discriminazione contenuto m dai decreti legislativi 215 e 216 del 2003, entrambi di attuazione comunitaria, volti a tutelare la parità di trattamento tra le persone, il primo in via generale, il secondo per quanto riguarda specificatamente le condizioni di lavoro (v. anche i capitoli Pari opportunità e non discriminazione e Parità di trattamento nel lavoro).

Il D.Lgs. 215/2003[19], di attuazione della direttiva 2000/43/CE, reca disposizioni relative della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. Il provvedimento dispone a tal fine le misure necessarie per evitare che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di discriminazione, diretta e indiretta, anche in considerazione del differente impatto che le medesime forme di discriminazione possano avere:

§         su donne e uomini;

§         sull’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

 

Nella nozione di discriminazione indiretta si fa riferimento, quali possibili fonti di discriminazione, oltre che ad una disposizione, a un criterio e una prassi anche a “un atto, un patto o un comportamento”.

Il provvedimento, all’articolo 3, specifica che il principio di parità di trattamento senza distinzioni di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia del settore pubblico che del settore privato, con particolare riferimento alle seguenti aree:

§         accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo sia dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;

§         occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento;

§         accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;

§         attività nell’ambito di organizzazioni dei lavoratori o dei datori di lavoro e accesso alle prestazioni erogate da tali organizzazioni;

§         protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale;

§         assistenza sanitaria;

§         prestazioni sociali;

§         istruzione;

§         accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l’alloggio.

Il decreto disciplina anche la tutela giurisdizionale dei diritti, rinviando alla procedura di azione civile fissata dall’art. 44 del testo unico (vedi sopra), integrandola con alcuni strumento correlati, quali la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione previsto dal codice civile e dal decreto legislativo n.165 del 2001, il regime probatorio di cui all’articolo 2729 del codice civile, la possibilità per il giudice (oltre che di risarcire il danno anche non patrimoniale e di impartire le opportune disposizioni per la cessazione del comportamento discriminatorio) di ordinare l’adozione di un piano di rimozione, di tenere conto, ai fini della liquidazione del danno, che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale finalizzata ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento e di ordinare la pubblicazione della sentenza.

Da rilevare il riconoscimento della legittimazione ad agire da parte delle associazioni e agli enti inseriti in un apposito registro approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità[20].

Viene inoltre istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità l’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica[21].

Sulla stessa linea il Governo ha promosso la costituzione di un Comitato interministeriale contro la discriminazione e l’antisemitismo, che opera presso il Ministero dell’interno ed è presieduto dal direttore del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione[22]. Il Comitato ha il compito di vigilare sui pericoli di regressione verso forme di intolleranza, razzismo, xenofobia e antisemitismo e di individuare tutte le misure necessarie per contrastare ogni comportamento ispirato da odio religioso o razziale.

 

Il D.Lgs. 216/2003[23], di attuazione della direttiva 2000/78/CE, stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, contro ogni forma di discriminazione legata a religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale.

 

Per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta (art. 2). In particolare si ha discriminazione:

§         quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga (discriminazione diretta);

§         quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (discriminazione indiretta);

§         quando vengono perpetrate molestie o comportamenti indesiderati che hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo;

Dopo aver stabilito l’ambito di applicazione del principio di parità di trattamento ed aver enucleato una serie di ipotesi che non costituiscono discriminazione (art. 3), il decreto legislativo disciplina la tutela giurisdizionale dei suddetti diritti, riconoscendo anche il ruolo delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative ad agire in giudizio in nome e per conto di chi abbia subito discriminazioni (artt. 4 e 5).

 

Si ricorda, infine, il D.Lgs. 30/2006[24], in materia di professioni (v. scheda Professioni: i principi fondamentali) che vieta, nell’esercizio dell’attività professionale, qualsiasi discriminazione, che sia motivata da ragioni sessuali, razziali, religiose, politiche o da ogni altra condizione personale o sociale, secondo quanto stabilito dalla disciplina statale e comunitaria in materia di occupazione e condizioni di lavoro (art. 1, co. 2).



[1]     D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero.

[2]     Legge 30 luglio 2002, n. 189, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo.

[3]     D.P.R. 13 maggio 2005, Approvazione del documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, per il triennio 2004-2006.

[4]     La Corte costituzionale (sen. 224/2005) ha escluso che la nuova e più restrittiva disciplina introdotta dalla L. 189/2002 costituisca un ostacolo all’esercizio del diritto inviolabile ad una vita familiare, osservando che tale diritto “deve ricevere la più ampia tutela con riferimento alla famiglia nucleare, eventualmente in formazione e, quindi, in relazione al ricongiungimento dello straniero con il coniuge e con i figli minori”, ma “non ha una estensione così ampia da ricomprendere tutte le ipotesi di ricongiungimento di figli maggiorenni e genitori, in quanto nel rapporto tra figli maggiorenni, ormai allontanatisi dal nucleo di origine, e genitori, l’unità familiare perde la caratteristica di diritto inviolabile costituzionalmente garantito, aprendosi contestualmente margini che consentono al legislatore di bilanciare ‘l’interesse all’affetto’ con altri interessi di rilievo”. In particolare, si ricorda nella sentenza come il legislatore possa ‘corretto bilanciamento dei valori in gioco’, poiché sussiste in materia un’ampia discrezionalità legislativa limitata solo dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli.

[5]     D.P.C.M. 9 dicembre 1999, n. 535, Regolamento concernente i compiti del Comitato per i minori stranieri, a norma dell’articolo 33, commi 2 e 2-bis, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

[6]     DM 19 dicembre 2001, Fissazione del numero massimo di visti di ingresso per l’accesso all’istruzione universitaria degli studenti stranieri. Anno accademico 2001-2002 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 89 del 16 aprile 2002).

[7]     Al 10 maggio 2006 il decreto non risulta ancora pubblicato.

[8]     Così l’interpretazione da parte del relatore della I Commissione (Affari costituzionali) della Camera nel corso dell’esame dello schema (seduta del 4 ottobre 2005). Nella seduta del 12 ottobre 2005 la Commissione ha reso il prescritto parere.

[9]     D.L. 14 settembre 2004, n. 241, Disposizioni urgenti in materia di immigrazione (conv. con mod. in L. 12 novembre 2004, n. 271).

[10]    Direttiva 2004/114/CE del Consiglio del 13 dicembre 2004 relativa alle condizioni di ammissione dei cittadini di paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato (pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 23 dicembre 2004, n. L375).

[11]    Per maggiori dettagli sulla relativa disciplina, si rinvia al dossier progetti di legge “Legge comunitaria 2005” (XIV legislatura, n. 744) del Servizio studi.

[12]    Secondo gli ultimi dati disponibili, pubblicati nel 2006, al 31 dicembre 2004, risultano dislocate nel territorio nazionale 1.870 strutture di accoglienza per extracomunitari, di cui 1.393 strutture residenziali, con una disponibilità di 26.970 posti letto, e 477 non residenziali; si veda Ministero dell’interno, Dipartimento affari interni e territoriali, Problematiche ed iniziative relative all’immigrazione extracomunitaria in Italia. Anno 2004, gennaio 2006, p. 7.

[13]    La Corte costituzionale (sen. n. 432/2005) nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di una norma regionale che non includeva “i cittadini stranieri, residenti nella Regione, fra gli aventi il diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea, riconosciuto alle persone totalmente invalide per cause civili”, ha rilevato che l’art. 41 del T.U. costituisce, a norma dell’art. 1, co. 4, del medesimo T.U., principio fondamentale dello Stato ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, con la conseguenza che qualsiasi scelta del legislatore regionale che introducesse rispetto ad esso regimi derogatori dovrebbe permettere di rinvenire nella stessa struttura normativa una specifica, trasparente e razionale “causa giustificatrice”, idonea a “spiegare”, sul piano costituzionale, le “ragioni” poste a base della deroga.

[14]    Legge 23 dicembre 2000 n. 388, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001).

[15]    Entrambi gli articoli si riferiscono ai comportamenti discriminatori compiuti non solamente nei riguardi di cittadini stranieri non comunitari – destinatari della gran parte delle disposizioni del testo unico – ma anche di cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea presenti in Italia.

[16]    In tema giova menzionare l’art. 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro il quale, aggiungendo un secondo comma all’art. 15 della legge 20 maggio 1970, n, 300 (Statuto dei lavoratori), ha previsto la nullità di patti o atti diretti “a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso”.

[17]    Legge 13 ottobre 1975, n. 654, Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966.

[18]    D.L. 26 aprile 1993, n. 122, conv. con mod. in L. 25 giugno 1993, n. 205, Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa.

[19]    D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

[20]    Si veda Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità, Decreto 16 dicembre 2005, Istituzione dell’elenco delle associazioni ed enti legittimati ad agire in giudizio in nome, per conto o a sostegno del soggetto passivo di discriminazione basata su motivi razziali o etnici di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215.

[21]    Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, 11 dicembre 2003, Costituzione e organizzazione interna dell’ufficio per promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni, di cui all’art. 29 della legge comunitaria 1° marzo 2002, n. 39.

[22]    Decreto del ministro dell’interno 30 gennaio 2004, Istituzione del Comitato contro la discriminazione e l’antisemitismo.

[23]    D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

[24]    D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 30, Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131.