Il D.Lgs. 215/2003[1] è stato adottato in
attuazione delle disposizioni recate negli articoli 1 e 29 della L. 39/2002[2] (legge comunitaria 2001),
che hanno delegato il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi di recepimento della direttiva 2000/43/CE
in materia di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla
razza e dall’origine etnica[3].
Si ricorda che il principio della parità di trattamento è solennemente
affermato, in ambito europeo, nella Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea firmata a Nizza il 7 dicembre del
2000. L’articolo 21 della Carta di
Nizza vieta infatti “qualsiasi forma di discriminazione fondata, in
particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o
sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni
personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad
una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le
tendenze sessuali”.
Anche il Trattato che
istituisce la Comunità europea (TCE), come modificato dal Trattato di Nizza
del 2001, all’articolo 13, reca alcune disposizioni in materia di razzismo e
xenofobia. Tale articolo, infatti, conferisce al Consiglio europeo il compito
di adottare gli opportuni provvedimenti volti a combattere qualsiasi
discriminazione, tra cui quelle fondate sulla razza, l’origine etnica o la
religione.
La direttiva 2000/43/CE, il cui recepimento è oggetto del
D.Lgs. 215 in commento, è stata adottata dal Consiglio proprio sulla base di
tali disposizioni.
La parità di trattamento è uno dei princìpi fondamentali
anche della Costituzione italiana
che, all’articolo 3, stabilisce la
pari dignità sociale di tutti i cittadini e la loro uguaglianza, senza
distinzioni basate sulla razza, oltre che sul sesso, sulla lingua, sulle
opinioni politiche e sulle condizioni personali e sociali.
Anche se l’art. 3 si riferisce espressamente ai cittadini,
si ritiene che il principio di uguaglianza sia applicabile anche allo straniero, almeno quando si tratta del rispetto di
diritti inviolabili dell’uomo, la cui tutela è riconosciuta dall’articolo 2
della Costituzione[4].
Il complesso di norme di maggiore organicità in materia di
discriminazione razziale è costituito dalla L. 654/1975[5], di ratifica ed esecuzione
della Convenzione contro il razzismo
adottata dalle Nazioni Unite a New York nel 1966.
La Convenzione condanna qualsiasi forma di discriminazione
razziale, ed in particolare le forme più estreme quali la segregazione razziale
e l’apartheid.
Gli Stati contraenti si impegnano da un lato, a non porre in
essere pratiche di discriminazione razziale e, dall’altro, ad adottare
provvedimenti volti ad eliminare tali pratiche, ove esistano.
In particolare, si prevede che ciascuno degli Stati che
aderiscono alla Convenzione modifica la propria legislazione penale nel senso
di prevedere i delitti di propaganda e
di violenza razziale. Tali modifiche sono state apportate nel nostro
ordinamento dalla stessa L. 654/1975 di ratifica della Convenzione, e in
particolare dall’art. 3.
L’articolo 5 della Convenzione, inoltre, impegna gli Stati
contraenti ad adoperarsi per garantire – senza distinzione di razza o
nazionalità – una serie di diritti
fondamentali quali il diritto all’eguaglianza davanti alla legge, il
diritto alla sicurezza e all’integrità personale, i diritti politici ed altri
diritti civili (tra i quali il diritto di circolazione, alla libertà di
pensiero, di religione, di associazione, diritto al lavoro, alla sanità, all’educazione).
La disciplina in materia di discriminazione razziale dettata
dalla L. 654/1975 è stata integrata ad opera del Testo unico in materia di immigrazione[6] e in particolare dagli articoli 43 e 44, recanti
rispettivamente l’individuazione puntuale degli atti di discriminazione e la
disciplina dell’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione. Come
si vedrà, a tale disciplina il D.Lgs. 215/2003 fa espresso richiamo.
Entrambi gli articoli citati si riferiscono ai comportamenti
discriminatori compiuti non solamente nei riguardi di cittadini stranieri non
comunitari – destinatari della gran parte delle disposizioni del testo unico –
ma anche di cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri
dell’Unione europea presenti in Italia.
L’articolo 43 del
testo unico sull’immigrazione qualifica come discriminatori i comportamenti che, direttamente o indirettamente,
operano una distinzione, un’esclusione, una restrizione o una preferenza per
motivi di razza, colore, nazionalità, etnia, religione e che abbiano l’intento
o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento o l’esercizio, in
condizione di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo
politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita
pubblica.
In particolare sono individuati i seguenti atti di discriminazione in ragione dell’appartenenza
a una determinata razza, religione, etnia o nazionalità :
§
compimento o omissione di un atto ingiustamente
discriminatorio nei confronti di un cittadino straniero, da parte di un
pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio o di un esercente un
servizio di pubblica utilità;
§
imposizione di condizioni più svantaggiose o
rifiuto di fornire beni o servizi offerti al pubblico;
§
imposizione di condizioni più svantaggiose o
rifiuto di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione,
alla formazione e ai servizi socio-assistenziali allo straniero regolarmente
soggiornante in Italia;
§
azioni od omissioni dirette ad impedire l’esercizio
di un’attività economica legittimamente intrapresa dallo straniero regolarmente
soggiornante in Italia;
§
atti o comportamenti compiuti dal datore di
lavoro o dai suoi preposti diretti a discriminare anche indirettamente il
lavoratore straniero. La disposizione fornisce, inoltre, una individuazione dei
criteri in base ai quali individuare le fattispecie di “discriminazione indiretta”: è da considerarsi tale ogni trattamento
pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza,
ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione
religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo
svolgimento dell’attività lavorativa.
L’articolo 44 del
Testo unico sull’immigrazione istituisce e disciplina l’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione.
Si prevede la possibilità di agire in giudizio avanti al
tribunale civile in composizione monocratica, con un ricorso privo di
formalità, teso ad ottenere un provvedimento, impugnabile davanti al tribunale
collegiale, che, eventualmente, anche in via di urgenza, possa rimuovere gli
effetti della discriminazione e risarcire il danno subito. L’inosservanza del
provvedimento è perseguita penalmente.
Quando si tratti di discriminazione di carattere collettivo
in ambito lavorativo, il ricorso può essere presentato anche dalle maggiori
organizzazioni sindacali, e sono previste sanzioni accessorie per le aziende.
Infine, si prevede l’istituzione ad opera delle regioni di centri di informazione, assistenza legale e
osservazione sull’andamento del fenomeno.
Il testo unico (art. 46) ha, inoltre, istituito presso la
Presidenza del Consiglio la Commissione
per le politiche dell’integrazione con il compito di formulare proposte di
interventi di adeguamento di tali politiche nonché di fornire risposta a
quesiti posti dal Governo concernenti le politiche per l’immigrazione,
interculturali, e gli interventi contro il razzismo. La Commissione ha,
inoltre, il compito di predisporre il rapporto
annuale sullo stato di attuazione delle politiche per l’integrazione degli
immigrati.
L’articolo 1 del
provvedimento in esame ne definisce l’oggetto,
relativo all’attuazione della parità di trattamento tra le persone
indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. L’intento viene realizzato
attraverso la previsione di misure atte a evitare che le differenze di razza e
di origine etnica siano causa di discriminazione, anche in considerazione del
differente impatto che le medesime forme di discriminazione possano avere:
§
su donne e uomini;
§
sull’esistenza di forme di razzismo a carattere
culturale e religioso.
L’articolo 2
introduce la nozione di discriminazione:
la parità di trattamento è assicurata qualora non sia praticata alcuna
discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica.
Si ha una discriminazione diretta, quando, per la razza o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga.
La discriminazione
indiretta si verifica invece quando una disposizione, un criterio, una
prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono
persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di
particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
Il decreto legislativo fa espressamente salvo quanto
disposto dall’articolo 43, commi 1 e 2, del Testo unico sull’immigrazione, in
materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi
nei confronti di un cittadino straniero (si v. supra).
Sono altresì considerate alla stregua di discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.
Anche l’ordine di discriminare le persone a causa della razza o dell’origine etnica è una forma di discriminazione.
L’articolo 3
specifica l’ambito di applicazione
del provvedimento: il principio di parità di trattamento si applica a tutte le
persone sia del settore pubblico che del
settore privato ed è suscettibile di tutela
giurisdizionale, con particolare riferimento alle seguenti aree:
§
accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo
sia dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione.
§
occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli
avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento;
§
accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento
e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi
i tirocini professionali;
§ attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e accesso alle prestazioni erogate dalle medesime;
§
protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale;
§
assistenza sanitaria;
§
prestazioni sociali;
§
istruzione;
§
accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio.
Il decreto legislativo fa comunque salve le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all’ingresso, al soggiorno, all’accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, né qualsiasi trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti.
Si individuano, inoltre, alcuni casi in cui le differenze di trattamento non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2.
Si tratta delle seguenti ipotesi:
§
nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio
dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze
di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all’origine
etnica di una persona, qualora - nel rispetto
dei principi di proporzionalità e ragionevolezza – si tratti di
caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai
fini dello svolgimento dell’attività lavorativa;
§
non costituiscono atti di discriminazione quelle
differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie,
siano giustificate oggettivamente da finalità
legittime attraverso mezzi adeguati
e proporzionati.
L’articolo 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti dei soggetti che si ritengano lesi dalle forme di discriminazione di cui all’art. 2.
Tale tutela si svolge nelle forme previste dall’articolo 44 del
Testo unico sull’immigrazione, sopra richiamato, per non differenziare gli
strumenti di tutela avvalendosi di quelli già esistenti.
Per coloro che intendono agire in giudizio per il
riconoscimento della sussistenza di una discriminazione e che non ritengano di
avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, si
prevede la possibilità di promuovere il tentativo
di conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile o,
nei casi di rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche, di cui all’articolo
66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165[7]. Il tentativo di conciliazione
può essere promosso anche tramite le associazioni
di cui al successivo art. 5.
Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può inoltre dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che vengono valutati dal giudice nei limiti di cui all’articolo 2729, primo comma, del codice civile[8].
Il giudice che accoglie il ricorso, oltre a provvedere, se
richiesto, al risarcimento del danno
anche non patrimoniale, impartisce le opportune disposizioni per la cessazione del comportamento, della
condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente. Inoltre, al fine
di impedire la ripetizione degli atti di discriminazione, il giudice può ordinare,
entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.
Ai fini della liquidazione del danno, il giudice tiene conto
del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono
ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una
precedente attività del soggetto leso finalizzata ad ottenere il rispetto del
principio della parità di trattamento.
Il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale, a spese del convenuto.
Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per
il personale di cui all’articolo 3, comma 1, del Testo unico sul pubblico
impiego[9].
Ai sensi dell’articolo 5, la legittimazione ad agire è riconosciuta alle associazioni e agli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità[10].
Essi possono agire in giudizio:
§
nei casi di discriminazione individuale, in
forza di delega rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura
privata autenticata, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo
della discriminazione;
§
nei casi discriminazione collettiva, qualora non
siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla
discriminazione.
Gli enti e le associazioni iscritti nell’elenco sono
individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione.
Possono inoltre esservi inseriti gli enti e le associazioni
iscritti nel registro di cui all’articolo 52, comma 1, lettera a) del D.P.R. 394/1999[11] nonché i soggetti di cui
al successivo art. 6.
L’articolo 6 prevede l’istituzione di un apposito registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni, presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio
L’iscrizione è subordinata al possesso dei seguenti requisiti:
§ costituzione dell’ente o dell’associazione, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, da almeno un anno
§ possesso di uno statuto che preveda un ordinamento a base democratica e come scopo esclusivo e preminente il contrasto ai fenomeni di discriminazione, senza fini di lucro
§ tenuta di un elenco degli iscritti, aggiornato annualmente, con l’indicazione delle quote versate direttamente all’associazione per gli scopi statutari
§
predisposizione di un bilancio annuale delle
entrate e delle uscite con indicazione delle quote versate dagli associati e
tenuta dei libri contabili, in conformità alle norme vigenti in materia di
contabilità delle associazioni non riconosciute;
§
svolgimento di un’attività continuativa nell’anno
precedente
§
l’insussistenza nei confronti dei rappresentanti
legali di alcuna sentenza di condanna, passata in giudicato, in relazione all’attività
dell’associazione medesima
§
l’inesistenza per i rappresentanti legali della
qualifica di imprenditori o di amministratori di imprese di produzione e
servizi in qualsiasi forma costituite, negli stessi settori in cui opera
l’associazione.
L’aggiornamento annuale del registro è effettuata dal
Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio.
L’articolo 7 istituisce
presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio
un Ufficio per la promozione della
parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza
o sull’origine etnica.
L’Ufficio svolge, in modo autonomo e imparziale, funzioni di
controllo e di garanzia delle parità di trattamento e dell’operatività degli strumenti
di tutela; attività di promozione della parità e di rimozione di qualsiasi
forma di discriminazione fondata sulla razza o sull’origine etnica, anche in un’ottica
che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere
su donne e uomini, nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere
culturale e religioso.
In particolare, l’Ufficio:
§
fornisce assistenza, nei provvedimenti
giurisdizionali o amministrativi, alle persone lese da comportamenti
discriminatori
§
svolge, nel rispetto delle prerogative dell’autorità
giudiziaria, inchieste finalizzate alla verifica dell’esistenza di fenomeni
discriminatori;
§
promuove l’adozione - da parte dei soggetti
pubblici e privati, in particolare delle associazioni e degli enti di cui all’articolo
6 - di progetti di azioni positive tesi ad evitare le situazioni di svantaggio
connesse alla razza e all’origine etnica
§
diffonde la massima conoscenza possibile degli
strumenti di tutela vigenti mediante azioni di sensibilizzazione e campagne di
comunicazione;
§
formula raccomandazioni e pareri sulle questioni
connesse alla discriminazione per razza ed origine etnica, nonché proposta di modifica
della normativa vigente;
§
redige due relazioni annuali, una per il
Parlamento sull’effettiva applicazione del principio di parità di trattamento e
sull’efficacia dei meccanismi di tutela, l’altra per il Presidente del
Consiglio dei ministri, sull’attività svolta[12];
§
promuove studi, ricerche, corsi di formazione e
scambi di esperienze, anche in collaborazione con le associazioni e le altre
organizzazioni non governative che operano nel settore e con gli istituti
specializzati di rilevazione statistica, anche al fine di elaborare linee guida
in materia di lotta alle discriminazioni.
L’Ufficio, che può richiedere ad enti, persone e imprese che
ne siano in possesso, informazioni e documenti utili ai fini dei compiti sopra
elencati, è diretto da un responsabile nominato
dal Presidente del Consiglio dei ministri o da un Ministro da lui delegato. Le
modalità organizzative sono fissate con decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri[13].
L’Ufficio può avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivi compresi magistrati, avvocati e procuratori dello Stato, in posizione di comando, aspettativa o fuori ruolo, nonché di esperti e consulenti esterni. Questi ultimi devono essere scelti tra soggetti, anche estranei alla pubblica amministrazione, dotati di elevata professionalità nelle materie giuridiche, nei settori della lotta alle discriminazioni, dell’assistenza materiale e psicologica ai soggetti in condizioni disagiate, del recupero sociale, dei servizi di pubblica utilità, della comunicazione sociale e dell’analisi delle politiche pubbliche.
[1] Decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.
[2] Legge 1° marzo 2002, n. 39, Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2001.
[3] Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, sull’attuazione del principio della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.
[4] Si veda la sentenza della Corte costituzionale del 15 novembre 1967, n. 120.
[5] L. 13 ottobre 1975, n. 654, Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966.
[6] Di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
[7] Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
[8] A norma del quale le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice che non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti.
[9] Si tratta del personale che, in deroga a quanto previsto dall’articolo 2, commi 2 e 3, del T.U. in ordine alla “privatizzazione” del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, rimane in regime di diritto pubblico ed è disciplinato dai rispettivi ordinamenti: Si tratta di: magistrati ordinari, amministrativi e contabili, avvocati e procuratori dello Stato, personale militare e delle Forze di polizia di Stato, personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia e di altre specifiche categorie di personale.
[10] Tale elenco è stato approvato con D.M. 16 dicembre 2005.
[11] Si tratta di associazioni, enti ed altri organismi privati che svolgono attività per favorire l’integrazione sociale degli stranieri ai sensi del D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’art. 1, comma 6, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
[12] Il ministro per le pari opportunità ha
trasmesso alla Presidenza della Camera, il 27 gennaio 2006, la prima Relazione sull’effettiva applicazione del
principio di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza
e dall’origine etnica e sull’efficacia dei meccanismi di tutela, redatta
dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR). Cfr. DOC CCXXV, n. 1.
[13] In attuazione di tale disposizione è stato adottato il D.P.C.M. 11 dicembre 2003.