Trattamento penitenziario

La principale finalità della legge 23 dicembre 2002, n. 279[1] è derivata dalla necessità del superamento del regime del trattamento penitenziario speciale di cui all’art. 41-bis, comma 2, dell’ordinamento penitenziario, caratterizzato fin dal 1992 (anno della sua introduzione) dal principio della temporaneità e dalla conseguente disciplina delle proroghe.

 

Il regime del cd. “carcere duro” ha storicamente avuto come scopo la necessità di interrompere i collegamenti di pericolosi esponenti delle criminalità organizzata con i propri referenti criminali, sia all'interno che all'esterno del carcere.

Il comma 2 dell'art. 41-bis, aggiunto dall’art. 19 del D.L. 8 giugno 1992, n. 306[2] (c.d. decreto “Scotti-Martelli”) prevede che per i detenuti per delitti di criminalità organizzata e altri gravi delitti il Ministro della giustizia, anche su richiesta del Ministro dell'interno, possa sospendere l'applicazione delle ordinarie regole di trattamento in presenza di requisiti che la norma lascia sostanzialmente indeterminati: erano, infatti, sufficienti gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica. La disposizione, secondo quanto disposto dall'art. 29 del citato D.L. n. 306/1992 aveva durata temporanea: tre anni (scadenza: 8 agosto 1995). Tale termine è stato prorogato prima al 31 dicembre 1999 dall’art. 1 della legge 16 febbraio 1995, n. 36; successivamente l’art. 1 della legge 26 novembre 1999, n. 446 aveva previsto la perdita di efficacia della norma alla data del 31 dicembre 2000[3] agganciandone la vigenza a quella della disciplina delle videoconferenze nel processo penale introdotta dalla legge 11/1998. Da ultimo, analogamente, l’art. 12 del decreto legge 24 novembre 2000, n. 341 “Disposizioni urgenti per l'efficacia e l'efficienza dell'Amministrazione della giustizia” convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, aveva ulteriormente disposto il termine di efficacia del 41-bis alla data del 31 dicembre 2002.

La sospensione delle regole di trattamento non riguarda l'istituto carcerario nel suo complesso o nella sua parzialità, ma specificamente una categoria di detenuti: i detenuti, sia definitivi che in attesa di giudizio o in stato di custodia cautelare, per i reati indicati specificamente dalla norma, che fa riferimento all'art. 4-bis, comma 1, O.P.

 

I presupposti applicativi dell'art. 41-bis, comma 2 sono quindi di natura soggettiva (facendo riferimento al titolo del reato commesso dal detenuto) e oggettiva (la sussistenza di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica). Tale secondo requisito è stato mantenuto dal legislatore sostanzialmente indeterminato e rimesso alla valutazione dell'amministrazione.

 

Nella prassi, i decreti attuativi della misura hanno individuato i gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica in fenomeni di pericolosità esterna al carcere, il più ricorrente dei quali è quello della permanenza dei collegamenti del detenuto con i gruppi criminali operanti all'esterno. Tra gli altri motivi si ricordano:

-      l'azione diffusa e aggressiva della criminalità organizzata;

-      i “gravi episodi di strage avvenuti nelle città di Roma, Firenze, Milano e Palermo nel corso del 1993”;

-      le “emergenze di numerosi procedimenti penali”;

-      la recrudescenza di sequestri di persona a scopo di estorsione, gli ingenti traffici di stupefacenti ed altri gravi reati;

-      la necessità di non allentare la pressione sulla mafia e organizzazioni similari per evitare “azioni di rilancio criminale” e l'inquinamento e il turbamento delle indagini antimafia;

-      il pericolo per gli istituti penitenziari derivante dalla crescita della popolazione detenuta per delitti di mafia e altri delitti ex art. 4-bis Ord. Pen;

-      la necessità di impedire che i capi delle organizzazioni continuino a svolgere tale ruolo direzionale dall'interno del carcere;

-      l'esigenza di adottare tali misure anche nei confronti di chi ha fatto parte dei “gruppi di fuoco” e che possono veicolare all'esterno le disposizioni impartite dai capi.

 

Il provvedimento, che stabilizza il regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario traduce in legge principi su cui si fonda la giurisprudenza costituzionale in materia; prevede l'applicabilità degli articoli 4-bis e 41-bis ad ulteriori delitti rispetto a quelli originariamente previsti; prevede l'attuazione dei principi del giusto processo in relazione al procedimento giurisdizionale di reclamo contro il decreto applicativo delle misure di cui all'articolo 41-bis e la piena sindacabilità di tale provvedimento; è, infine, reso stabile nel processo penale anche il sistema delle videoconferenze. Il testo dell’art. 4-bis è riformulato in considerazione dei rilievi di incostituzionalità che hanno colpito la norma (sentt. 357 del 1994 e 68 del 1995) mentre quello del 41-bis, comma 2 è riscritto in conformità dell’interpretazione restrittiva che di esso ha fornito la stessa Corte costituzionale.

Per quanto concerne lo specifico contenuto della legge, l'articolo 1 modifica l'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario, che ha per oggetto delle limitazioni alla concessione di alcuni benefici previsti dall'ordinamento stesso.

Rispetto alla normativa previgente, si prevede il requisito della collaborazione come precondizione di concessione dei benefici penitenziari anche per i reati di terrorismo (nazionale o internazionale) o di eversione, commessi con atti di violenza, nonché per i reati di riduzione in schiavitù e tratta di persone. Gli altri reati per i quali si può applicare la norma in esame continuano ad essere i delitti di associazione mafiosa, quelli commessi avvalendosi dell'intimidazione mafiosa o per agevolare l'attività delle citate associazioni, il sequestro di persona nonché l'associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri ovvero al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope. Vi è poi un adeguamento del contenuto della norma alle pronunce della Corte costituzionale. Pertanto, i benefici penitenziari risultano ora concedibili, anche in presenza dell'impossibilità di fornire un'utile collaborazione agli inquirenti, purché ciò sia determinato dalla limitata partecipazione al fatto criminoso o da altre ragioni che risultino con sentenza definitiva di accertamento integrale dei fatti e delle responsabilità. In questi casi è necessaria l'assenza di elementi che facciano ritenere l'attualità del collegamento con la criminalità organizzata terroristica o eversiva. Rimangono le ipotesi relative alla collaborazione oggettivamente irrilevante in presenza di specifiche attenuanti.

Un'ulteriore modifica interessa l'ultimo periodo del comma 1 dell'articolo 4-bis che introduce una diversa elencazione dei reati, i cui autori, anche non collaborando con la giustizia, possono accedere ai benefici penitenziari, sempre in assenza di elementi che facciano ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica ed eversiva. Agli illeciti già individuati dalla disposizione previgente, ne sono aggiunti ulteriori in materia di immigrazione clandestina, mentre è espunto il riferimento all'articolo 609-quinquies del codice penale, relativo alla corruzione di minorenne.

L'articolo 2 ha per oggetto le modifiche all'articolo 41-bis, anche se la novità più importanti relativa a tale disposizione è contenuta nell'articolo 3 della legge, che stabilizza nell’ordinamento la vigenza dell'articolo 41-bis.

L'articolo 2 adegua la disciplina del 41-bis alle determinazioni della Corte costituzionale. La norma interviene sui presupposti del decreto applicativo del 41-bis, comma 2; sulla sua natura, sulle modalità di adozione e sulla durata (comma 2-bis); sulla possibile revocabilità (comma 2-ter); sul concreto contenuto della sospensione delle ordinarie regole trattamentali (articolo 2-quater); sul regime delle impugnazioni (2-quinquies e 2-sexies).

Per quanto riguarda i presupposti applicativi delle misure di trattamento speciale, occorre sottolineare in primo luogo che, a differenza della normativa vigente, l'articolo 41-bis, comma 2, può essere applicato anche ai detenuti per i reati di terrorismo (nazionale o internazionale) o di eversione, di tratta e di riduzione in schiavitù, per i quali è pertanto applicabile l'articolo 41-bis.

Dalla nuova formulazione del comma 2 dell’art. 41-bis si evince che la sospensione del trattamento «ordinario» potrà riguardare solo le restrizioni necessarie alle esigenze di ordine e sicurezza pubblica e quelle idonee ad impedire i collegamenti con l'organizzazione criminale di appartenenza.

In ordine alle modalità di adozione, è confermata la natura amministrativa del provvedimento, ribadendo la titolarità del ministro della giustizia, per quanto si preveda che il decreto debba essere motivato. Per evitare che la natura di organo politico di vertice dell'amministrazione, quale è quella del ministro, si rifletta negativamente sulle competenze ad esso attribuite in materia di trattamento penitenziario, si prevede che, nelle more dell'adozione, debba essere sentito l'ufficio del pubblico ministero competente per le indagini preliminari o del giudice procedente e che vada acquisita ogni altra informazione presso la DNA, la DIA e altri organi di polizia.

I decreti applicativi dell'articolo 41-bis, comma 2, hanno una durata minima di un anno e massima di due anni e sono prorogabili per periodi successivi di un anno. Una novità importante mira ora a garantire il detenuto da proroghe inutilmente afflittive e vessatorie: infatti, è introdotto in capo all'amministrazione - nella proroga del decreto - l'obbligo di verifica della permanenza nel soggetto della capacità di mantenere i collegamenti con l'associazione criminale, terroristica o eversiva. Sempre in questa ottica, è stabilito che il decreto deve essere revocato, anche d'ufficio, dal ministro della giustizia ove, prima della scadenza, vengano meno le condizioni che hanno determinato l'adozione o la proroga. La revoca può essere chiesta dall'interessato o dal suo difensore e decorsi trenta giorni dall'istanza si intende non accolta. Il provvedimento che non accoglie l'istanza è impugnabile davanti al tribunale di sorveglianza ed, eventualmente, in Cassazione.

Sono poi dettate delle norme sul regime delle impugnazioni, che si richiamano al procedimento attualmente vigente, relativo alla sindacabilità dei provvedimenti applicativi del regime di sorveglianza particolare di cui all'articolo 14-ter dell'ordinamento penitenziario, sia pure con una maggiore attenzione ai principi del nuovo articolo 111 della Costituzione.

La procedura prevede ora termini certi e rapidi per ottenere una decisione dal tribunale di sorveglianza sull'eventuale reclamo proposto. Entro 10 giorni dalla comunicazione del decreto applicativo dell'articolo 41-bis, l'interessato o il suo difensore possono proporre reclamo davanti al tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sull'istituto penitenziario; il successivo eventuale trasferimento del detenuto o internato non sposta la competenza; inoltre, viene precisato che il decreto ha efficacia immediata: quindi, la proposizione del reclamo non sospende l'efficacia. È importante sottolineare che, nei successivi 10 giorni dal ricevimento del reclamo, il tribunale verifica, oltre la sussistenza dei presupposti per l'adozione del provvedimento, anche la congruità del contenuto rispetto alle esigenze di cui al comma 2. La decisione è presa con ordinanza, resa in camera di consiglio con le modalità procedurali previste dagli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale. Attualmente, il reclamante non ha diritto di partecipazione all'udienza. Negli ulteriori successivi dieci giorni dalla comunicazione dell'ordinanza del tribunale di sorveglianza sia l'interessato che il suo difensore, che il pubblico ministero, possono proporre ricorso per Cassazione per violazione di legge; il ricorso non produce effetti sospensivi sull'esecuzione del provvedimento.

Sempre all'articolo 2 sono espressamente previste le misure applicabili, fino ad allora invece indeterminate, in quanto individuate dai decreti ministeriali.

La nuova disciplina individua quindi i concreti contenuti delle limitazioni imposte ex 41-bis, giurisdizionalizzando il procedimento applicativo dell’istituto e affermando espressamente la piena sindacabilità del provvedimento secondo le indicazioni più volte espresse dalla stessa Consulta.

Le misure applicabili sono le seguenti (art. 41-bis, comma 2-quater):

a)      misure di alta sicurezza interna ed esterna idonee a prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza, contrasti o interazioni con membri di altre organizzazioni;

b)      limitazione dei colloqui con familiari o conviventi ad un massimo di due al mese, in condizioni di massima sicurezza; possibilità di audire o registrare i colloqui stessi (dietro autorizzazione dell'autorità giudiziaria); divieto di colloquio con terze persone (in casi eccezionali, il direttore del carcere o l'autorità giudiziaria possono autorizzare tali colloqui, rispettivamente, per il detenuto definitivo e per l'imputato, fino alla sentenza di primo grado); possibile autorizzazione da parte delle stesse autorità, decorso un anno dall'applicazione del 41-bis, di un solo colloquio telefonico, registrato, di dieci minuti ogni mese; sono ovviamente esclusi da tale regime i colloqui con i difensori;

c)      limitazione del peculio, di beni ed oggetti ricevibili dall'esterno (pacchi o altro);

d)      esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati;

e)      sottoposizione al visto di censura sulla corrispondenza (con provvedimento dell'autorità giudiziaria), esclusa quella inviata ad autorità nazionali od europee (come la Corte di giustizia delle Comunità europee o la Commissione europea dei diritti dell'uomo) competenti in materia di giustizia individuate dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria;

f)        limitazione della permanenza all'aperto, che non potrà svolgersi in gruppi di più di cinque persone e superare le quattro ore al giorno.

 

L’articolo 3 della legge è quello di maggior rilievo, inserendo stabilmente nell'ordinamento – con l’abrogazione delle disposizioni che ne disponevano la temporaneità -  l'istituto dell’art. 41-bis, comma 2, nonchè la disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza (legge 11/1998).

L'articolo 4 introduce una disciplina transitoria in favore dei detenuti e internati per tratta di persone e riduzione in schiavitù (articoli 600, 601 e 602 del codice penale), per terrorismo, anche internazionale, o eversione. A tali soggetti non è applicata la nuova, più penalizzante, disciplina sui benefici penitenziari di cui all'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario introdotta dall'articolo 1 della legge 279, purché al momento della data di entrata in vigore del provvedimento (24 dicembre 2002) siano già in regime di misura alternativa alla detenzione, ovvero fruiscano di permessi premio o siano assegnati al lavoro esterno, e, avendo già rivolto la relativa istanza, abbiano raggiunto un livello rieducativo adeguato al beneficio richiesto.

L'applicazione della citata disciplina transitoria è, in ogni caso, condizionata al negativo accertamento della sussistenza dell'attualità del collegamento con la criminalità organizzata.

Sempre in tema di disciplina transitoria, il comma 2 dell'articolo 4 stabilisce che i decreti applicativi del 41-bis emessi dal ministro della giustizia prima della data di vigenza del provvedimento in esame conservino efficacia fino alla scadenza in essi prevista, anche se successiva alla data citata.

L'articolo 5 della legge prevede, infine, che ogni tre anni, il Presidente del Consiglio dei ministri presenti al Parlamento una relazione sullo stato di attuazione della legge 279/2002. Si tratta chiaramente di una disposizione che mira a rendere più trasparente le funzioni che il ministro della giustizia è chiamato ad esercitare nell'applicazione dell'articolo 41-bis.

 



[1]     La legge reca: Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario.

[2] “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” (convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356)

[3]     Con l’inserimento di un comma aggiuntivo (1-bis) all’art. 6 della legge 7 gennaio 1998, n. 11, la legge 446/1999  prevede infatti la proroga al 31 dicembre 2000 della vigenza del comma 2 dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, così come già stabilito per le disposizioni sulla partecipazione a distanza al procedimento penale (cd. videoconferenze).