La direttiva reca una disciplina del danno ambientale in termini generali e di principio (rispetto ai quadri normativi nazionali, o – per lo meno – rispetto al quadro normativo italiano, anche quello precedente alla entrata in vigore del decreto legislativo n. 152 del 2006).
La direttiva afferma che la
prevenzione e la riparazione, nella misura del possibile, del danno ambientale
“contribuiscono a realizzare gli obiettivi ed i principi della politica
ambientale comunitaria, stabiliti nel trattato”. Dovrebbero, in
particolare, essere attuate applicando il principio “chi inquina paga”,
stabilito nel Trattato istitutivo della Comunità Europea, e coerentemente con
il principio dello sviluppo sostenibile.
La direttiva fornisce all’art. 2 una nozione di danno ambientale, che può assumere tre diverse
tipologie:
§
danno alle specie e
agli habitat naturali protetti;
§
danno alle acque;
§
danno al terreno.
La nuova direttiva in materia di
responsabilità ambientale trova applicazione anche in materia di gestione dei rifiuti.
La direttiva specifica, poi, che
gli Stati membri possono decidere che tali operazioni non comprendono lo spargimento, per fini agricoli, di fanghi
di depurazione provenienti da impianti di trattamento
delle acque reflue urbane, trattati secondo una norma approvata (Allegato III,
par. 1).
Uno dei principi fondamentali
della direttiva dovrebbe essere quindi quello per cui l'operatore la cui attività ha causato un
danno ambientale, o la minaccia imminente di tale danno, sarà considerato
finanziariamente responsabile, in modo da indurre gli operatori ad adottare
misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno
ambientale.
Assecondando
dunque il suddetto principio di
prevenzione, peraltro inserito dall’Atto Unico europeo all’art. 174 del
Trattato che istituisce la Comunità europea, la direttiva disciplina azioni di
prevenzione (art. 5) e azioni di riparazione (art. 6).
Quanto alle azioni di riparazione, l'autorità competente richiede – infatti -
che esse siano adottate dall’operatore. Se questi non
si conforma agli obblighi previsti al paragrafo 1 o al paragrafo 2, lettere b),
c) o d), dell’art. 6 della direttiva, se non può essere individuato o se non è
tenuto a sostenere i costi a norma della direttiva stessa, l'autorità
competente ha facoltà di adottare essa stessa tali misure,
“qualora non le rimangano altri mezzi”.
L’art. 3 specifica
inoltre un secondo principio generale, secondo cui la
nuova disciplina, ferma restando la pertinente legislazione nazionale, non conferisce ai privati un diritto a
essere indennizzati in seguito a un danno ambientale o a una minaccia
imminente di tale danno (art. 3, par. 3).
La direttiva prevede poi all’art. 4, par. 5, oltre ad una
serie di eccezioni, che essa si applichi al danno ambientale o alla
minaccia imminente di tale danno, causati da inquinamento di carattere diffuso
unicamente quando sia possibile accertare un nesso causale tra il danno e le attività di singoli operatori.
L’art. 8, par. 3 e 4, prevede inoltre, in materia di costi di prevenzione e riparazione, che
non sono a carico dell'operatore i costi delle azioni
di prevenzione o di riparazione, se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia
imminente di tale danno sia stato causato
da un terzo e si sia verificato nonostante l'esistenza di opportune misure
di sicurezza; ovvero sia conseguenza
dell'osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una
autorità pubblica; ovvero qualora sia dimostrabile che il danno è stato causato
da un'emissione o un evento
espressamente autorizzati; ovvero da un'emissione o da un'attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione
di un prodotto nel corso di un'attività, che l'operatore dimostri non essere
state considerate probabile causa di danno ambientale. In tali casi gli Stati
membri adottano le misure appropriate per consentire all'operatore di
recuperare i costi sostenuti.
Riguardo poi all'applicazione della direttiva stessa nel
tempo, l'art. 17 stabilisce che le disposizioni in essa
contenute non si applicheranno:
§
al danno causato da una
emissione, un evento o un incidente verificatosi prima del 30 aprile 2007;
§
al danno verificatosi dopo la medesima data, se derivante da
una specifica attività posta in essere e terminata prima di detta data;
§
al danno in relazione
al quale sono passati più di 30 anni dall'emissione,
evento o incidente che l’ha causato.
Un punto particolarmente delicato è quello del tipo di responsabilità (oggettiva o
meno) individuata dalle norme comunitarie. In proposito, il 20° considerando
della stessa direttiva dispone che “Non
si dovrebbe chiedere ad un operatore di sostenere i costi di misure di
prevenzione o riparazione adottate conformemente alla presente direttiva in
situazioni in cui il danno in questione o la minaccia imminente di esso derivano da eventi indipendenti dalla volontà
dell'operatore. Gli Stati membri possono consentire che gli operatori, di cui
non è accertato il dolo o la colpa, non debbano sostenere il costo di misure di
riparazione in situazioni in cui il danno in questione deriva da emissioni o
eventi espressamente autorizzati o la cui natura dannosa non era
nota al momento del loro verificarsi”.
Il legislatore comunitario non ha optato
pertanto per un sistema basato sulla responsabilità oggettiva, ma piuttosto per
un sistema articolato.
Si considerino – in proposito - l’8°
e il 9° considerando della direttiva, dove si distinguono due possibili origini
del danno ambientale:
§
Le attività professionali che presentano un rischio per la salute
umana o l’ambiente (individuate con riferimento a specifiche normative
comunitarie);
§
Le attività professionali che non sono già direttamente o indirettamente
contemplate nella normativa comunitaria come comportanti un rischio reale o
potenziale per la salute umana o l'ambiente.
Per questo secondo genere di attività professionali, “l'operatore sarebbe responsabile ai sensi della presente direttiva, soltanto
quando vi sia il dolo o la colpa di detto operatore”
Coerentemente con questa differenziazione, l’art. 3, par. 1 della direttiva
distingue due ipotesi separate e – per le attività non espressamente elencate
nell’Allegato III – circoscrive il
proprio ambito di applicazione alle sole ipotesi di dolo e colpa dell’operatore.
Infine, è utile riportare una
serie di riferimenti – introdotti nella normativa comunitaria – a quello che
può definirsi un principio generale di
ragionevolezza nella disciplina del risarcimento del
danno ambientale.
Nel 1° considerando: “la prevenzione e la
riparazione, nella misura del possibile, del danno ambientale”. Nel 3°
considerando: “riparazione del danno ambientale a costi ragionevoli per la società”, con il
richiamo allo stesso “principio di
proporzionalità” (art. 5 del Trattato). Nel 6° considerando : “Si dovrebbe
tuttavia tener conto di situazioni specifiche in cui la legislazione
comunitaria o la legislazione nazionale equivalente consentono deroghe al
livello di protezione stabilito per l’ambiente”. Anche all’Allegato II, il
punto 1.3.3 chiarisce che “l'autorità competente può decidere di non
intraprendere ulteriori misure di riparazione qualora
… i costi delle misure di riparazione da adottare per raggiungere le condizioni
originarie o un livello simile siano sproporzionati rispetto ai vantaggi
ambientali ricercati”.
Tuttavia, tali riferimenti non escludono che gli Stati
membri adottino normative più severe, come esplicitato
nel 29° considerando, ove si chiarisce che la direttiva stessa “non preclude agli Stati membri di mantenere
o emanare norme più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno
ambientale” (parallelamente, dispone in tal senso l’art. 16 della
direttiva).
Interessante, infine, il 27° considerando: “Gli Stati membri dovrebbero adottare misure
per incoraggiare gli operatori a munirsi di una copertura assicurativa appropriata
o di altre forme di garanzia finanziaria e per
favorire lo sviluppo di strumenti e mercati di copertura finanziaria onde
fornire un'efficace copertura degli obblighi finanziari derivanti dalla
presente direttiva”.