Le norme in materia
di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera recate dalla
Parte V del d.lgs. n. 152/2006 provvedono ad accorpare in un unico testo una
moltitudine di disposizioni sia di rango primario sia di natura regolamentare e
relative ai diversi settori di attività che generano emissioni nell’atmosfera
(dai grandi impianti di combustione agli impianti termici civili alle emissioni
di composti organici volatili, cd. COV) nonché ai combustibili in esse
utilizzati.
La relazione
illustrativa allo schema presentato per il parere alle Camere sottolineava come
il sovrapporsi nel corso degli anni di questa serie di norme di diverso grado e
di natura eterogenea senza un adeguato coordinamento ha determinato la
progressiva emersione di diversi orientamenti interpretativi, talora
contrastanti, in merito ad aspetti fondamentali della materia, come p.es. la
nozione di impianto o il regime delle attività agricole.
In questo quadro,
secondo la relazione, la parte quinta del decreto si propone l’obiettivo di raccogliere e coordinare in un corpo
normativo unitario tutte le norme in oggetto, e l’obiettivo di razionalizzare (anche adeguandoli
all’attuale contesto tecnico-economico) i diversi orientamenti interpretativi stabilendo
con precisione il campo di applicazione, le nozioni e gli adempimenti da porre
in essere. Tutto ciò “in modo da offrire alle Amministrazioni e agli operatori
di settore un quadro di attribuzioni e di adempimenti estremamente preciso e
rispondente alle esigenze di certezza del diritto che la legge delega
persegue”.
La stessa relazione
illustrativa sottolinea poi che “le disposizioni
di natura strettamente tecnica sono state inserite nei dieci allegati i quali potranno essere in qualsiasi momento
modificati mediante appositi regolamenti o decreti ministeriali. Ciò consentirà
in futuro di adeguare in modo rapido e flessibile al progresso tecnico e alle
nuove acquisizioni tale normativa di dettaglio, ferme restando le norme di
principio contenute negli articoli del provvedimento”.
Nel seguito si dà
conto delle principali novità introdotte dal decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152.
L’art. 267 prevede
che le disposizioni del Titolo I si applicano, ai fini della prevenzione e
della limitazione dell’inquinamento atmosferico, a tutti gli impianti, inclusi
gli impianti termici civili non disciplinati dal titolo II[1],
ed alle attività che producono emissioni in atmosfera e stabilisce i valori di
emissione, le prescrizioni, i metodi di campionamento e di analisi delle
emissioni ed i criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati
ai valori limite.
Sono invece esclusi dal campo di applicazione gli impianti di incenerimento dei rifiuti disciplinati
dal d.lgs. 11 maggio 2005, n. 133 di recepimento della direttiva 2000/76/CE e gli
impianti sottoposti ad autorizzazione integrata
ambientale (AIA).
L’art. 268 contiene una raccolta eterogenea di definizioni che provengono in gran parte dalla normativa vigente. Un aspetto innovativo dell’articolo in
esame è dato invece dall’introduzione di una nuova definizione di impianto diretta, secondo la relazione
illustrativa, a “risolvere una serie di criticità emerse in merito
all’interpretazione della definizione attuale”[2].
L’art. 269 condensa le varie norme procedimentali disseminate in numerosi
articoli del DPR n. 203/1988 (si vedano in particolare gli articoli 6, 7, 8, 9
e 15) provvedendo ad una revisione e semplificazione della disciplina
autorizzatoria.
Le principali novità recate dall’articolo in esame riguardano, infatti:
§
l’introduzione
(comma 3), ai fini del rilascio dell’autorizzazione, dell’obbligo di convocazione (entro 30 giorni dalla
ricezione della richiesta) di una
conferenza di servizi. Contestualmente viene abolito l’obbligo di
acquisizione, da parte della Regione, del parere del Sindaco del Comune di
ubicazione dell’impianto.
Si fa notare che la nuova procedura
prevista contempla tempi più lunghi per il rilascio dell’autorizzazione,
tuttavia il ricorso alla conferenza di servizi dovrebbe in realtà consentire un
esame contestuale di tutti gli interessi coinvolti semplificando così l’iter
procedurale e garantendo tempi certi[3].
§
la
specificazione (prevista dal comma 4) dei contenuti
dell’autorizzazione, che deve stabilire (oltre alla tempistica e ai
controlli per la messa a regime dell’impianto, che il comma 5 riprende dalla
legislazione vigente):
a) per
le emissioni tecnicamente convogliabili, le modalità di captazione e di
convogliamento ai sensi dell’art. 270;
b) per
le emissioni convogliate (o di cui è stato disposto il convogliamento), i
valori limite di emissione, le prescrizioni, i metodi di campionamento e di
analisi, i criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati ai
valori limite e la periodicità dei controlli di competenza del gestore ai sensi
dell’art. 271;
Si fa notare che tale contenuto riprende, nella sostanza, quanto
previsto dalla normativa recata dal DPR n. 203/1988 e dai relativi decreti
interpretativi e attuativi.
c) per
le emissioni diffuse, apposite prescrizioni finalizzate ad assicurarne il contenimento,
sempre ai sensi dell’art. 271.
§
l’introduzione
(prevista dal comma 7) di una durata
fissa (15 anni) per le autorizzazioni. Viene altresì previsto che l’istanza
di rinnovo sia presentata almeno un anno prima della scadenza e che nelle more
dell’adozione del provvedimento sulla domanda di rinnovo l’esercizio
dell’impianto possa continuare, anche dopo la scadenza dell’autorizzazione, in
caso di mancata pronuncia entro i termini del Ministero dell’ambiente a cui sia
stato richiesto di provvedere ai sensi del comma 3.
Tale disposizione viene motivata nella
relazione illustrativa con il fine di “garantire un aggiornamento periodico e
uniforme sul territorio nazionale, degli impianti e delle attività alle
migliori tecniche disponibili”.
Si ricorda che il DPR n. 203 del 1988 non prevedeva alcuna scadenza, da
cui discendeva una durata illimitata dell’autorizzazione sino all’intervento di
una modifica sostanziale dell'impianto o al trasferimento dello stesso in altra
località.
Si rammenta, tuttavia, che l’art. 11 del medesimo DPR prevedeva che “le
prescrizioni dell'autorizzazione possono essere modificate in seguito
all'evoluzione della migliore tecnologia disponibile, nonché alla evoluzione
della situazione ambientale”.
Sul punto si ricorda, inoltre, che le
associazioni ambientaliste hanno sottolineato, nell’ambito del dibattito
connesso all’espressione del parere delle Camere, che una tale durata “appare
in contrasto“[4]
con il quadro generale della normativa europea sull’ambiente. Infatti, giova
ricordare che le autorizzazioni integrate ambientali (direttiva 1996/61 e
decreti attuativi) sono rilasciate per 8 anni nel caso di stabilimenti
registrati EMAS, per 6 anni per quelli registrati ISO 14001, e per 5 anni in
tutti gli altri casi. La stessa cosa vale per le discariche e per gli scarichi
idrici, per i quali nei casi ordinari tutte le autorizzazioni valgono per 5 e 4
anni, rispettivamente”.
Del resto la lettera n) del comma 8
dell’art. 1 della legge delega prevede proprio l’introduzione di “agevolazioni
amministrative negli iter autorizzativi e di controllo per le imprese
certificate secondo le predette norme EMAS o in base al citato regolamento (CE)
n. 761/2001”.
§
l’introduzione
(prevista dal comma 8) di una procedura
per l’aggiornamento dell’autorizzazione in caso di modifica (sostanziale o
meno) dell’impianto (anche relativa alle modalità di esercizio o ai
combustibili utilizzati), che si attiva con l’obbligo (in capo al gestore
dell’impianto) di comunicazione delle modifiche all’autorità competente.
L’art. 270
introduce nell’ordinamento criteri specifici per:
§
il
convogliamento delle emissioni diffuse;
§
il
convogliamento delle emissioni provenienti da uno o più impianti;
§
l’applicazione
dei valori limite in funzione dei punti di emissione delle emissioni
convogliate.
In particolare il
comma 5 dispone che di norma, in caso di emissioni convogliate o di cui è stato
disposto il convogliamento, ciascun
impianto deve avere un solo punto di emissione.
I limiti di emissione fissati dalla normativa previgente,
trasposti nell’Allegato I, vengono confermati (dall’art. 271, comma 1) solo per
gli impianti anteriori al 1988[5]
e per gli impianti previsti dal comma 14 dell’art. 269 (indipendentemente
dall’anno di costruzione o autorizzazione), cioè impianti di combustione “ad
inquinamento atmosferico poco significativo”, ad eccezione di quelli indicati
alla lettera d)[6].
Per gli impianti nuovi e per quelli anteriori al 2006[7],
invece, il comma 2 prevede l’emanazione, entro un anno dall’entrata in vigore
della parte quinta in esame, di un decreto interministeriale finalizzato
all’integrazione dell’Allegato I.
Viene inoltre
previsto (comma 2, secondo periodo) che il medesimo decreto provveda ad
aggiornare l’Allegato I.
L’art. 271, comma
9, nonché l’art. 281, comma 10, prevedono poi la possibilità di stabilire valori limite inferiori nei seguenti
casi:
§
in sede di rinnovo dell’autorizzazione, sulla base delle MTD e di un’analisi
costi-benefici;
§
per le zone di particolare pregio naturalistico;
§
in presenza di particolari situazioni di
rischio sanitario o di zone che richiedano una particolare tutela ambientale .
In tal caso viene consentito alle regioni
e alle province autonome di stabilire, con provvedimento generale, previa
intesa con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e con il
Ministro della salute, per quanto di competenza, “valori limite di emissione e
prescrizioni, anche inerenti le condizioni di costruzione o di esercizio degli
impianti, più severi di quelli fissati dagli allegati al presente titolo,
purché ciò risulti necessario al conseguimento dei valori limite e dei valori
bersaglio di qualità dell’aria”.
Gli artt. 273-274 provvedono al recepimento della direttiva 2001/80/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 23 ottobre 2001 concernente la limitazione delle emissioni
nell'atmosfera di taluni inquinanti originati dai grandi impianti di
combustione.
In particolare,
l’art. 273 fa rinvio all’Allegato II della parte V del decreto per l’individuazione dei valori limite di
emissione e disciplina le modalità di monitoraggio e di controllo delle
emissioni e i criteri per la verifica della conformità delle stesse ai valori
limite, nonché le ipotesi di anomalie e guasti. Il citato Allegato II adegua le disposizioni previgenti, previste dal DM 8
maggio 1989 (recante Limitazione delle
emissioni nell'atmosfera di taluni inquinanti originati dai grandi impianti di
combustione) a quelle più aggiornate dettate dalla direttiva 2001/80/CE[8].
Per gli impianti esistenti, l’applicazione dei
limiti di emissione previsti dall’Allegato II viene prevista a decorrere dal 1° gennaio 2008 (art.
273, commi 3-4). Tale data corrisponde al termine di vigenza dei limiti
previsti dalla direttiva 88/609/CE, nonché al termine imposto agli Stati membri
dalla direttiva (art. 4, par. 3 e art. 17, par. 2) per ottenere una riduzione
significativa dei valori limite delle emissioni.
L’art. 282 prevede
che le disposizioni del Titolo II si applicano, ai fini della prevenzione e
della limitazione dell’inquinamento atmosferico, agli impianti termici civili aventi potenza termica nominale inferiore alle
pertinenti soglie stabilite dall’articolo 269, comma 14.
Si fa notare che nella relazione illustrativa allo schema
presentato alle Camere per il parere, il Governo ha evidenziato il carattere
innovativo di tale disposizione volta ad individuare in modo puntuale soglie di
potenza “stabilite in funzione della tipologia di combustibile utilizzato, al
di sopra delle quali gli impianti termici civili ricadono nella disciplina del
titolo I”.
Nella medesima relazione viene evidenziato che la disciplina
recata dal presente titolo “rimane distinta, per tipo di adempimenti e
finalità, da quella recentemente introdotta, con riferimento agli impianti
termici civili, dal decreto legislativo n. 192 del 2005[9]
con il quale non sussistono pertanto rischi di sovrapposizioni o di
incompatibilità”.
Per quanto riguarda
le definizioni, si segnalano le nuove nozioni di “impianto termico” e “impianto
termico civile” che, secondo quanto affermato dal Governo nella relazione
illustrativa, vengono introdotte per “dirimere le incertezze che emergono
nell’attuale disciplina di settore”.
In particolare la definizione adottata chiarisce che per impianto termico civile si intende
l’impianto la cui produzione di calore è destinata, anche in edifici ad uso non
residenziale, esclusivamente a:
§
riscaldamento
o climatizzazione di ambienti;
§
riscaldamento
di acqua per usi igienici e sanitari.
Nella relazione illustrativa si sottolinea che tale
definizione consente di “superare l’attuale incertezza dell’ordinamento che
definisce alcuni impianti alternativamente come civili o come industriali
(ristorazione, forni per il pane, ecc.)
Si ricorda, in
proposito, che ai sensi dell’art. 2, comma 2, del DPCM 8 marzo 2002[10],
rientrano negli impianti termici civili “quelli aventi le seguenti destinazioni
d'uso:
a) riscaldamento o
climatizzazione di ambienti;
b) riscaldamento di
acqua calda per utenze civili;
c) cucine, lavaggio
stoviglie, sterilizzazione e disinfezione mediche;
d) lavaggio
biancheria e simili;
e) forni da pane;
f) mense ed altri
pubblici esercizi destinati ad attività di ristorazione”.
L’art. 284
introduce un’apposita denuncia di installazione o modifica dell’impianto destinata, secondo quanto affermato nella relazione
illustrativa, “a sostituire la procedura autorizzativa prevista, sia pure per
alcune zone del territorio nazionale, dalla legge n. 615 del 1966”.
Nella medesima
relazione si legge che la norma in commento avrebbe il “fine di semplificare i
procedimenti amministrativi a carico dei privati cittadini e delle aziende e di
alleggerire il carico amministrativo degli enti locali”.
Tale denuncia deve
essere redatta dall’installatore in base al modulo previsto nella parte I
dell’Allegato IX ma limitatamente agli impianti aventi potenza termica nominale
superiore al valore di soglia indicato dall’art. 283, comma 1, lettera g), cioè
0,035 MW.
Si ricorda, in
proposto, che tale valore di soglia è già previsto dalla normativa vigente
all’art. 6, comma 3, del DPCM 8 marzo 2002 ed equivale alla citata soglia di
30.000 Kcal/h prevista dalla legge n. 615/1966[11].
Gli artt. 285 e
286, rimandano, rispettivamente, alle parti II e III dell’Allegato IX (che
ripropongono nella sostanza la normativa vigente) per l’individuazione delle
caratteristiche tecniche e dei limiti di emissione che devono essere rispettati
dagli impianti termici aventi potenza termica nominale superiore al valore di
soglia (0,035 MW), nonché per i metodi di campionamento, analisi e valutazione
delle emissioni (commi 1 e 3).
I commi 2 e 4
dell’art. 286 dettano specifiche disposizioni per il controllo delle emissioni da effettuarsi:
§
all’atto
dell’installazione o della modifica da
parte dell’installatore[12];
§
almeno annualmente, all’atto delle normali
operazioni di controllo e manutenzione da
parte del responsabile dell’esercizio e della manutenzione dell’impianto;
Le
norme recate dal titolo III non recano novità significative, ma si limitano a
trasporre quanto disposto dalle norme previgenti.
L’art. 291
assoggetta alle disposizioni del presente titolo i seguenti combustibili:
§
combustibili
utilizzati negli impianti di cui al titolo I;
§
combustibili
utilizzati negli impianti di cui al titolo II, inclusi gli impianti termici civili
di potenza termica inferiore al valore di soglia (0,035 MW);
§
gasolio
marino.
L’art. 293
stabilisce, con un rinvio all’Allegato X, le caratteristiche merceologiche e le condizioni di utilizzo dei combustibili rientranti nel campo di
applicazione del presente titolo.
Tali norme riprendono il contenuto dell’articolato e degli
allegati del DPCM n. 395/2001 e, soprattutto, del DPCM 8 marzo 2002.
[1] Si tratta, ai
sensi dell’art. 282, degli impianti termici civili aventi potenza termica
nominale superiore alle pertinenti soglie stabilite dall’art. 269, comma 14,
nonché degli impianti termici civili che utilizzano carbone da vapore, coke
metallurgico, coke da gas, antracite, prodotti antracitosi o miscele di
antracite e prodotti antracitosi, aventi potenza termica nominale superiore a 3
MW.
[2] A titolo di
esempio si veda la sentenza n. 9361 del 28 febbraio 2003 della Corte di
cassazione - Sez. III Penale, disponibile all’indirizzo www.ambientediritto.it/sentenze/2003/Cassazione/Corte
Cassazione 2003 n.9361.htm.
[3]
Del resto la pratica di questi anni ha mostrato che i tempi celeri previsti dal
DPR n. 203/1988 spesso non vengono rispettati: “ricevuto il parere del comune
competente, gli uffici regionali danno inizio all’istruttoria tecnica sulla
documentazione presentata dall’azienda, che dovrebbe concludersi entro sessanta
giorni dalla presentazione della richiesta di autorizzazione; nonostante gli
uffici provvedano a diffidare i sindaci che non esprimono il parere entro il
termine loro assegnato, si verificano spesso inadempienze in tal senso, il che
comporta un mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento. Ulteriori
difficoltà nell’istruttoria delle pratiche relative agli impianti più complessi
fanno sì che, realisticamente, si stimi il tempo medio per il rilascio
dell’autorizzazione in circa sei mesi dalla presentazione della richiesta”
(Cfr. sito
internet http://www.1sportello.net/servizi/emis_inquin.html dello Sportello
Unico per le attività produttive presso la Camera di commercio di Milano.
[4] Nota del 28
novembre 2005.
[5] Si ricorda che
tali impianti sono (ai sensi dell’art. 268, lettera i) del comma 1) quelli che,
alla data del 1° luglio 1988 (entrata in vigore del DPR n. 203/1988), erano in
esercizio o costruiti in tutte le loro parti o autorizzati ai sensi della
normativa previgente.
[6] Si tratta degli
impianti di combustione, ubicati all'interno di impianti di smaltimento dei
rifiuti, alimentati da gas di discarica, gas residuati dai processi di
depurazione e biogas, di potenza termica nominale non superiore a 3 MW, se
l’attività di recupero è soggetta alle procedure autorizzative semplificate
previste dalla parte quarta del presente decreto e tali procedure sono state
espletate.
[7] Si ricorda che
tali impianti sono (ai sensi dell’art. 268, lettera l) del comma 1) quelli che
non ricadono nella definizione di cui alla lettera i) e che, alla data di
entrata in vigore della parte quinta del presente decreto, sono autorizzati ai
sensi del DPR 24 maggio 1988, n. 203, purché in funzione o messi in funzione
entro i successivi ventiquattro mesi. Sono considerati anteriori al 2006 anche
gli impianti anteriori al 1988 la cui autorizzazione è stata aggiornata ai
sensi del DPR n. 203/1988.
[8] Si ricorda in
proposito che il citato DM 8 maggio 1989 aveva consentito di recepire
nell’ordinamento nazionale la direttiva 88/609/CEE di cui la citata direttiva
2001/80/CE costituisce un aggiornamento.
[9]
Si ricorda che il d.lgs. n. 192/2005 di recepimento della direttiva comunitaria
2002/91/CE sul rendimento energetico nell’edilizia, costituisce il nuovo quadro
di normativo di riferimento della disciplina vigente in materia di efficienza
energetica, riprendendo la normativa nazionale esistente; infatti, il nuovo
decreto rafforza i contenuti della precedente legge n. 10/1991, introducendo
alcune significative novità per quanto riguarda i modelli operativi e di
calcolo, le competenze e le funzioni dei diversi attori che operano nel campo
dell’edilizia dalla progettazione dell’edificio e dei suoi impianti fino alla
loro messa in esercizio e manutenzione.
[10] Recante
“Disciplina delle caratteristiche merceologiche dei combustibili aventi
rilevanza ai fini dell'inquinamento atmosferico, nonché delle caratteristiche
tecnologiche degli impianti di combustione”. Si ricorda che l’art. 297 prevede
l’abrogazione di tale decreto, le cui norme vengono trasposte nel titolo III.
[11] 860 Kcal/h
equivalgono a 1 KW.
[12] In realtà questo
controllo viene previsto solamente a regime (la norma prevede infatti che
decorra dal termine di 180 giorni dall’entrata in vigore della parte V del decreto).