La nozione di rifiuto

L’art. 14 del D.L. n. 138 del 2002

Con l’art. 14 del D.L. n. 138 del 2002[1] è stata fornita l’interpretazione autentica della nozione di “rifiuto” recata dall'art. 6, comma 1, lett. a), del decreto Ronchi. Essa è stata introdotta a seguito di una serie di sequestri operati dalle forze dell’ordine (e convalidati dalla magistratura[2]) di carichi di rottami ferrosi destinati alle acciaierie per assenza della documentazione prescritta dal d.lgs. n. 22 del 1997 – cd. decreto Ronchi – per il trasporto di rifiuti. Tali provvedimenti erano stati adottati sulla base dell’assunto che tali materiali avessero natura di rifiuti e non di materie prime secondarie.

L’art. 14 del citato decreto-legge ha così stabilito i significati normativi da attribuirsi alle seguenti espressioni:

a) “si disfi”: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del d. lgs. n. 22;

b) “abbia deciso”: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del d. lgs. n. 22, sostanze, materiali o beni;

c) “abbia l'obbligo di disfarsi”: l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del d. lgs. n. 22.

Il citato art. 14 ha precisato, inoltre, che non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni per l’esclusione dal novero dei rifiuti:

a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;

b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22.

Sostanzialmente, l’art. 14 ha voluto dare soluzione al complesso problema dei “residui di produzione o di consumo” riutilizzati in un processo produttivo, di quelle sostanze cioè che hanno caratteristiche merceologiche tali da renderle assimilabili alle materie prime (che infatti vanno a sostituire). Tali sostanze (dette anche “materiali riciclabili”) non possono essere facilmente identificate attraverso la normativa (e la stessa giurisprudenza) comunitaria. Una considerazione restrittiva di questa problematica (tesa a sottoporre, nell’incertezza, tali sostanze alla restrittiva disciplina dei rifiuti) rischia di rendere onerosi processi produttivi che invece possono essere caratterizzati da positivi effetti ambientali, in quanto possono favorire operazioni di riciclaggio e diminuire i quantitativi complessivi avviati allo smaltimento in discarica.

L’ applicazione dell’art. 14

Il 16 ottobre 2002 - per la prima volta dall'entrata in vigore della legge n. 178 del 2002 di conversione del citato decreto - un giudice, trovandosi ad affrontare alcune problematiche concernenti la citata interpretazione autentica della nozione di rifiuto, ha ritenuto di dovere disapplicare l’articolo 14[3]. Tale disposizione è stata in particolare ritenuta in contrasto con la normativa comunitaria in materia (dettata dalla direttiva 75/442/CE e, più in particolare, dal regolamento 259/93/CE, relativo alla spedizione ed al trasporto dei rifiuti all'interno della Comunità Europea), che – a suo tempo avrebbe fornito una nozione unitaria di rifiuto – che deve essere necessariamente applicata, senza limitazioni, in tutti gli Stati membri.

Quasi contestualmente la Corte di Cassazione ha avallato l’inapplicabilità dell’art. 14, ritenendo necessaria l’interpretazione conforme a quanto sancito da un regolamento comunitario e da alcune sentenze della Corte europea[4].

Con la sentenza n. 674 del 19 febbraio 2004, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale ha inaugurato un differente indirizzo giurisprudenziale, riformando la precedente sentenza del TAR Friuli[5], nella quale si riteneva insufficiente - per l’esclusione dal regime normativo sui rifiuti - il riutilizzo in un processo produttivo, per la scomparsa nell’ordinamento della nozione di “materia prima secondaria”. Il Consiglio di Stato ha ritenuto non esatto che tale nozione sia scomparsa dall’ordinamento, posto che, proprio con l’articolo 14 del decreto legge n. 138 del 2002 - il legislatore ha inteso confermare una disciplina (peraltro già ricavabile – secondo il Consiglio di Stato - dalla normativa previgente) volta a distinguere (e a escludere) dalla nozione di rifiuto quei “beni, sostanze e materiali residui di produzione che possano essere e siano effettivamente e oggettivamente reimpiegati nello stesso o in diverso ciclo produttivo, e ciò sia che si renda necessario, ovvero che non sia necessario, un qualche trattamento preventivo, purché non si tratti di una delle operazioni di trasformazione di cui all’allegato C del decreto legislativo n. 22 del 1997”.

Con la sentenza 11 novembre 2004 (C-457/02) la Corte europea di Giustizia ha giudicato incompatibile l’interpretazione recata dall’art. 14 del DL n. 138 con la nozione comunitaria di rifiuto.

Successivamente, la Corte di cassazione – Sez. III penale si è più volte pronunciata in materia (in particolare con le sentenze n. 9503 del 15 marzo 2005, n. 17836 del 13 maggio 2005[6] e n. 20499 del 1° giugno 2005) e ha affermato l’impossibilità per il giudice nazionale di disapplicare l’art. 14.

In particolare, nella sentenza n. 20499 del 1° giugno 2005[7], la Corte argomenta che “essendo il d.lgs. n. 22 del 1997 (e segnatamente il suo art. 6, di cui il cit. art. 14 si presenta come norma di interpretazione autentica) disposizione di attuazione della normativa comunitaria in materia (la direttiva del Consiglio 15 luglio 1975 n. 75/442/Cee, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 91/156/Cee, nonché dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996 n. 96/350/Ce), esso va interpretato in sintonia con tale normativa, fermo restando - come ha ricordato da ultimo la Corte di giustizia nella pronuncia infra ulteriormente richiamata (sez. Il, 11 novembre 2004, C-457/02) - che «una direttiva non può certamente creare, di per sé, obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso»; ed «analogamente, una direttiva non può avere l'effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni»”.

Nella recente ordinanza 16 gennaio 2006, n. 1414[8], la III Sezione penale della Corte di cassazione, intervenendo nuovamente in materia, ha affermato che “l’unico rimedio possibile per rimediare al vulnus perpetrato da una legge nazionale contro una direttiva comunitaria non direttamente applicabile è, quindi, il ricorso al giudice delle leggi”.

L’interpretazione giurisprudenziale

Nel merito della nozione di rifiuto, la Corte – nella medesima sentenza n. 20499 del 1° giugno 2005 – ha sottolineato che “occorre essenzialmente distinguere tra «residuo di produzione», che è un rifiuto, pur suscettibile di eventuale utilizzazione previa trasformazione, e «sottoprodotto», che invece non lo è, fermo restando - come già in passato affermato dalla stessa Corte di giustizia (sez. VI, 25 giugno 1997, C-304/94, 330/94, 342/94 e 224/95) - che la nozione di rifiuto, ai sensi dell’art. 1 della direttiva 75/442, nella sua versione originale, e della direttiva 78/319, non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Ed a tal fine - precisa la Corte di giustizia nella più recente citata decisione - in tanto è ravvisabile un «sottoprodotto» in quanto il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima sia non solo eventuale, ma «certo, senza previa trasformazione, ed avvenga nel corso del processo di produzione»".

 

In sintesi, sembra che la definizione delle nozioni di “recupero”, ”smaltimento”, “residui di produzione e di consumo”, “materia prima secondaria”, “sottoprodotto”, “disfarsi” risultino decisive al fine di annettere a un materiale la natura di “rifiuto” e che inoltre la definizione di ognuno di questi termini in connessione con gli altri può determinare effetti diversi a seconda del tipo di connessione instaurata.

 

La nuova definizione recata dal d.lgs. n. 152/2006

L’art. 183 del D.lgs. n. 152/2006, che provvede a sostituire l’articolo 6 del decreto Ronchi, reca una serie di definizioni volte a superare il lungo contenzioso scaturito dall’art. 14 del DL n. 138, che risulta abrogato dall’art. 264 dello stesso d.lgs. n. 152. Il citato art. 183 definisce, infatti:

§         rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi;

§         sottoprodotto: i prodotti dell’attività dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo. Non sono soggetti alle disposizioni di cui alla Parte quarta del decreto i sottoprodotti di cui l’impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall’impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa direttamente per il consumo o per l’impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo; a quest’ultimo fine, per trasformazione preliminare s’intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo. L’utilizzazione del sottoprodotto deve essere certa e non eventuale. Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale. Al fine di garantire un impiego certo del sottoprodotto, deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell’impianto dove avviene l’effettivo utilizzo. L’utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive;

§         materia prima secondaria: sostanza o materia avente le caratteristiche stabilite ai sensi dell’articolo 181;

§         materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche:

1)   i rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche Ceca, Aisi, Caef, Uni, Euro o ad altre specifiche nazionali e internazionali, individuate entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della parte quarta del presente decreto con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio di concerto con il Ministro delle attività produttive, non avente natura regolamentare;

2)   i rottami o scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche di cui al numero 1). I fornitori e produttori di materia prima secondaria per attività siderurgiche appartenenti a Paesi esteri presentano domanda di iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, ai sensi dell’articolo 212, comma 12, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al numero 1);

 

Si segnala che quest’ultima definizione riproduce quella introdotta dalla legge delega n. 308/2004.



[1] Pubblicato nella G.U. 8 luglio 2002, n. 158 e convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178.

[2] Si veda, per esempio, l’ordinanza 21 dicembre 2001, n. 80 del Tribunale di Udine – Sezione penale (commentata da M. Santoloci in “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa”, n. 87/2002) con cui viene confermata la validità del sequestro di rottami ferrosi effettuato dalla polizia giudiziaria in data 16 novembre 2001 e confermato con decreto del Pubblico ministero presso il Tribunale di Udine datato 19 novembre 2001. Si veda anche l’ordinanza del Tribunale di Trieste del 18 ottobre 2001.

[3] Si tratta della sentenza con la quale il GIP presso il Tribunale di Udine ha rigettato l'istanza di dissequestro di rottami ferrosi (il cui sequestro era stato effettuato nel novembre 2001), che invocava l'applicazione del citato art. 14.

[4] In proposito, si veda G. Amendola, Interpretazione autentica di rifiuto: le prime sentenze della Cassazione, in “Il Foro Italiano” n. 3/2003.

secondo il Giudice comunitario

[5] Sentenza n. 543 del 30 agosto 2001.

[6] Per un commento di queste due prime sentenze si vedano gli articoli di P.Giampietro e M. Medugno in “Ambiente e sicurezza” nn. 13 e 23 del 2005.

[7] http://www.ambientediritto.it/sentenze/2005/Cassazione/Cassazione 2005 n.20499.htm.

[8] Disponibile all’indirizzo internet www.ambientediritto.it/sentenze/2006/Cassazione/Cassazione 2006 n.1414.htm.