Con le sentenza n. 196 e 198,
entrambe del 24-28 giugno 2004, la
Corte costituzionale si è pronunciata, rispettivamente, sui ricorsi regionali
contro l’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 (che aveva disciplinato il
nuovo condono edilizio) e sui ricorsi statali contro le leggi regionali intervenute
immediatamente dopo il condono per attutirne o annullarne gli effetti.
La seconda delle due
pronunce non presenta aspetti particolari di complessità, tuttavia non è priva
di interesse ai fini della ricostruzione dei nessi fra potestà legislativa e principio
di leale collaborazione. In questa occasione, infatti, la Corte ha ritenuto
fondati i motivi dei ricorsi statali in quanto “ciò che è implicitamente escluso dal sistema costituzionale è che il
legislatore regionale (così come il legislatore statale rispetto alle leggi
regionali) utilizzi la potestà legislativa allo scopo di rendere inapplicabile
nel proprio territorio una legge dello Stato che ritenga costituzionalmente
illegittima, se non addirittura solo dannosa o inopportuna, anziché agire in giudizio
dinanzi a questa Corte, ai sensi dell'art. 127 Cost. Dunque né lo Stato né le
Regioni possono pretendere, al di fuori delle procedure previste da
disposizioni costituzionali, di risolvere direttamente gli eventuali conflitti
tra i rispettivi atti legislativi tramite proprie disposizioni di legge.”
Nella
sentenza
n. 196, invece, la Corte costituzionale, ha svolto una articolata
ricostruzione del riparto di competenze fra Stato e Regioni in relazione ad una
disciplina (quella della sanatoria edilizia) in cui effetti amministrativi e
penali sono difficilmente separabili, ma che incide anche in un ambito
materiale (il governo del territorio) in cui non può essere sottovalutato “l’intervenuto accrescimento dei loro poteri [delle
Regioni] in conseguenza della riforma del
Titolo V”.
In
conclusione, la sentenza n. 196 ha formulato una serie di pronunce di
carattere additivo, “ridisegnando” una sanatoria nella quale le regioni sono state
chiamate a recare integrazioni sostanziali. Parallelamente, la normativa
statale è stata ridimensionata al rango di normativa di principio (in
ottemperanza alla collocazione costituzionale del governo del territorio fra le
materie di legislazione concorrente).
In
base a tale ridisegno, è competenza delle Regioni determinare i limiti
volumetrici delle opere condonabili nel proprio territorio, (funzionando,
quelli indicati dalla legge statale, solo come tetto massimo).
A
tale fine la Corte ha previsto che una (nuova) legge statale dovesse assegnare
alle regioni un congruo termine per emanare le norme integrative. La sentenza
ha inoltre chiarito, al fine di garantire comunque una disciplina di chiusura,
che solo nel caso in cui la Regione avesse rinunciato a legiferare entro il
termine previsto dalla legge statale, allora sarebbero state applicabili per
intero, in quel territorio, le norme dell’art. 32 del decreto legge n. 269 del
2003, comprese quelle che – nel dettaglio – indicavano i limiti volumetrici
delle opere condonabili.
“In riferimento alla disciplina del condono edilizio (per la parte non
inerente ai profili penalistici, integralmente sottratti al legislatore regionale,
ivi compresa – come già affermato in precedenza – la collaborazione al
procedimento delle amministrazioni comunali), solo alcuni limitati contenuti di
principio di questa legislazione possono ritenersi sottratti alla disponibilità
dei legislatori regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo
art. 117 Cost. (ad esempio certamente la previsione del titolo abilitativo
edilizio in sanatoria di cui al comma 1 dell'art. 32, il limite temporale
massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle
volumetrie massime condonabili). Per tutti i restanti profili è invece
necessario riconoscere al legislatore regionale un ruolo rilevante – più ampio
che nel periodo precedente – di articolazione e specificazione delle disposizioni
dettate dal legislatore statale in tema di condono sul versante amministrativo.
Al tempo stesso, se i Comuni possono, nei limiti della legge, provvedere a
sanare sul piano amministrativo gli illeciti edilizi, viene in evidente rilievo
l'inammissibilità di una legislazione statale che determini anche la misura
dell'anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento
ai Comuni; d'altronde, l'ordinaria disciplina vigente attribuisce il potere di
determinare l'ammontare degli oneri concessori agli stessi Comuni, sulla base
della legge regionale (art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Per ciò che riguarda le Regioni ad autonomia particolare,
ove nei rispettivi statuti si prevedano competenze legislative di tipo
primario, lo spazio di intervento affidato al legislatore regionale appare
maggiore, perché in questo caso possono operare solo il limite della “materia
penale” (comprensivo delle connesse fasi procedimentali) e quanto è
immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di
“grande riforma” (il titolo abilitativo edilizio in sanatoria, la
determinazione massima dei fenomeni condonabili), mentre spetta al legislatore
regionale la eventuale indicazione di ulteriori limiti al condono, derivanti
dalla sua legislazione sulla gestione del territorio”
Del tutto
uniformemente, seppur in termini sintetici, la successiva sentenza
n. 71 del 7-11 febbraio 2005 ha affermato «che, a seguito della citata sentenza n. 196 del 2004, la disciplina
contenuta nell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 ha subito una radicale
modificazione, soprattutto attraverso il riconoscimento alle Regioni del potere
di modulare l'ampiezza del condono edilizio in relazione alla quantità e alla
tipologia degli abusi sanabili, ferma restando la spettanza al legislatore
statale della potestà di individuare la portata massima del condono edilizio
straordinario, attraverso la definizione sia delle opere abusive non
suscettibili di sanatoria, sia del limite temporale massimo di realizzazione
delle opere condonabili, sia delle volumetrie massime sanabili»
(analogamente si vedano le sentenze nn. 70
e 304 del 2005).
Al tempo stesso, la sentenza
n. 70 del 7-11 febbraio 2005 ha chiaramente ribadito che ciò che esula
dalla potestà delle Regioni è il «potere
di rimuovere i limiti massimi di ampiezza del condono individuati dal
legislatore statale».
Occorre inoltre
ricordare la sentenza
n. 49 del 2006 con cui la Corte è intervenuta su una serie di
disposizioni regionali impugnate dallo Stato, emanate ai sensi dell'art. 32,
commi 26 e 33, del decreto-legge n. 269 del 2003, come risultante a seguito
della pronuncia di parziale illegittimità costituzionale operata con la
sentenza n. 196 del 2004; sentenza cui ha dato esplicitamente esecuzione l'art.
5 del decreto-legge n. 168 del 2004,
convertito dalla legge n. 191 del 2004[1].
La sentenza n. 49 ha
dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 1, dell'art. 3 (eccettuate le lettere b e d
del comma 2), dell'art. 4, dell'art. 6, commi 1, 2 e 5, e dell'art. 8, della legge della Regione Campania n. 10 del 2004, in quanto in violazione
del termine perentorio previsto dall’art. 5, comma 1, del decreto legge n. 168
del 2004 (la Regione Campania era intervenuta con una disciplina più
restrittiva, ma la legge regionale era stata approvata oltre il termine di
quattro mesi, scaduto il 12 novembre 2004, previsto dal suddetto decreto
legge). La mancata emanazione della legge regionale entro il termine previsto è
stata valutata dalla Corte come violazione del principio di leale
collaborazione.
Inoltre, la Corte ha
censurato anche alcune disposizioni (ma di minore rilevanza di altre due leggi
regionali:
- l'art. 26, comma 4,
della legge della Regione Emilia-Romagna
21 ottobre 2004, n. 23, che sanava tutte le difformità edilizie anteriori
al febbraio 1977, se realizzate durante l’esecuzione di una licenza edilizia ”poiché violerebbe l'art. 117, terzo comma,
Cost., dal momento che introdurrebbe – peraltro in contrasto con la tendenza
alla riduzione dell'ambito applicativo della sanatoria propria di altre norme
della stessa legge regionale – «una sanatoria straordinaria gratuita ed ope
legis non sorretta da alcun principio fondamentale determinato dallo Stato, e
contrastante con le esigenze della finanza pubblica»; inoltre la medesima norma
violerebbe l'art. 3 Cost., in quanto introdurrebbe una discriminazione tra i
proprietari basata sulla diversa collocazione temporale degli illeciti,
consentendo la sanatoria ex lege
solo per quelli più risalenti nel tempo”;
- l’art. 3, comma 1,
della legge della Regione Marche 29
ottobre 2004, n. 23, che non prevedeva chiaramente limiti alla sanatoria per le
opere non residenziali (per esempio il limite del 30% della volumetria
originaria in caso di ampliamento e la soglia dei 3.000 metri cubi per le nuove
costruzioni residenziali), in quanto tali disposizioni avrebbero l’effetto di
estendere l’ambito di applicazione della sanatoria oltre i limiti definiti
dalla legge statale.
[1] Con queste disposizioni era stato fissato all’11
novembre 2004 il termine entro il quale le regioni (in attuazione di quanto
previsto dalla sentenza n. 196) avrebbero dovuto adottare le norme integrative
e di dettaglio della disciplina statale.