La legge obiettivo – Giurisprudenza costituzionale

Nella sentenza n. 303 del 25 settembre-1° ottobre 2003, la Corte costituzionale opera una ricostruzione della competenza legislativa in materia di infrastrutture strategiche. In particolare, nel punto 2.1, essa richiama per la prima volta[1] “un elemento di flessibilità” presente nel nuovo testo costituzionale, costituito dall’articolo 118, primo comma “il quale si riferisce esplicitamente alle funzioni amministrative, ma introduce per queste un elemento dinamico che finisce col rendere meno rigida ... la stessa distribuzione delle competenze legislative, la dove prevede che le funzioni amministrative generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate ad un livello di governo diverso per assicurarne l’esercizio unitario, sulla base di principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza ”[2].

Dopo essersi soffermata sull’”attitudine ascensionale” del principio di sussidiarietà, la Corte afferma – per la prima volta dopo l’entrata in vigore della riforma dell’ottobre 2001 - che i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza non operano solo come criteri ai fini della attribuzione (legislativa) di competenze amministrative, ma al contrario valgono ad “attrarre” allo Stato tutte quelle funzioni (sia amministrative, sia legislative) che – per loro natura - esigono un esercizio unitario. Nella linea così tracciata, il principio di sussidiarietà opera quale criterio interpretativo (e integrativo) della ripartizione di competenza legislativa ricavabile dal dato meramente testuale del solo articolo 117. Infatti, “il principio di legalità, il quale impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto”. La Corte sembra far salvi da questa dinamica di “attrazione” gli ambiti di competenza esclusiva regionale, posto che, come specificato nel primo periodo del punto 2.2, il ragionamento da essa condotto è riferito alle “materie di competenza statale esclusiva o concorrente”.

In tale contesto, non può essere sottovalutato il carattere generale delle affermazioni della Corte e quindi il loro potenziale effetto anche al di là dell’oggetto della sentenza.

 

Un secondo elemento di novità è proposto al punto 16. Si tratta della facoltà della legge statale di introdurre (dopo l’entrata in vigore del Titolo V) norme suppletive di dettaglio in materie di legislazione concorrente caratterizzate dalla clausola di cedevolezza rispetto all’entrata in vigore di successive norme regionali. Tale facoltà – di cui il legislatore ha fatto largamente uso nella vigenza del vecchio articolo 117 – non era invece ritenuta ammissibile da parte della dottrina di commento alla riforma del Titolo V, in quanto il nuovo articolo 117 ha, com’è noto, invertito la tecnica del riparto di competenze legislative.

La Corte costituzionale ritiene invece che “una simile lettura svaluterebbe la portata precettiva dell’articolo 118, comma primo ... La disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea compressione della competenza legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole”.

Si segnala che, nel caso in oggetto, l’ammissibilità di norme statali suppletive non è connessa al recepimento di norme comunitarie e quindi ad obblighi internazionali gravanti sullo Stato, ma è radicata nel mero principio di ragionevolezza.

 

Infine, si può rilevare l’insistenza del richiamo al principio di leale collaborazione. Elemento non nuovo nella giurisprudenza costituzionale, il principio di collaborazione assume in questa sentenza una centralità e una articolazione di tipo particolare: la “concezione procedimentale e consensuale della sussidiarietà e dell’adeguatezza” (punto 2.2.), che porta la Corte ad assegnare un valore decisivo all’intesa fra Stato e Regioni nell’attuazione della normativa in oggetto (cioè nella programmazione e realizzazione delle infrastrutture strategiche). Queste prescrizioni relative al procedimento sono radicate nel sostanziale rispetto del principio di lealtà. Pertanto, anche su questo versante, dalla sentenza emerge un indirizzo volto a scoraggiare un uso conflittuale del nuovo riparto di competenze e a respingere argomentazioni che, sia pure ancorabili al dato meramente letterale delle disposizioni dell’articolo 117, finiscano con il contraddire il principio della “leale collaborazione”, principio che invece deve trovare nell’intesa e nelle norme procedimentali uno strumento privilegiato.

 

Venendo ai profili più settoriali della sentenza n. 303, si ricorda preliminarmente che essa ha sottoposto al vaglio di costituzionalità sia la legge delega (legge n. 443 del 2001), sia il decreto delegato n. 190 del 2002, giungendo alla conclusione sinteticamente riportata al punto 4.1., nel quale, nel valutare complessivamente l’”operazione compiuta dal legislatore”, la Corte afferma: “non di lesione di competenza delle regioni si tratta, ma di applicazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza”.

Il giudizio sulle finalità e sui contenuti sostanziali della cd “legge obiettivo” in relazione all’esercizio della potestà legislativa appare chiaramente espresso e discende direttamente da quella ricostruzione del valore dell’articolo 118 della Costituzione di cui si è detto sopra. Tuttavia appare interessante seguire anche alcuni dei passaggi intermedi – attinenti alla disciplina di settore - dai quali deriva tale giudizio conclusivo, ed in particolare quello attinente la collocazione della “materia” dei lavori pubblici.

Al punto 2.3., in particolare, si chiarisce e si integra quello che è uno dei principali problemi interpretativi aperti dal nuovo Titolo V: “la mancata inclusione dei “lavori pubblici” nella elencazione dell’art. 117 Cost., diversamente da quanto sostenuto in numerosi ricorsi, non implica che essi siano oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni. Al contrario, si tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti”.

Passando ad altra problematica, la sentenza – come si è visto - attribuisce un valore discriminante all’intesa fra Stato e Regioni nelle varie fasi procedimentali disciplinate particolarmente dal decreto legislativo n. 190 del 2002. Anche tale aspetto presenta profili di particolare interesse, in quanto sembra che sia prevalentemente su questo versante – oltre che sulla definizione della potestà regolamentare – che la Corte ha deciso di accogliere le rivendicazioni regionali connesse alla nuova posizione loro attribuita dalla riforma del 2001.

Nella sentenza n. 303 la Corte dichiara, infatti, che “diviene elemento valutativo essenziale la previsione di un’intesa fra lo Stato e le Regioni interessate, alla quale si subordina l’operatività della disciplina”.

E’ tuttavia utile osservare che l’intesa a cui la Corte fa riferimento è sempre fondata sull’applicazione del principio di lealtà. Infatti, in primo luogo si afferma che “non è rilevante che essa preceda l’individuazione delle infrastrutture ovvero sia successiva ad una unilaterale attività del Governo” (punto 4.1.). Allo stesso punto si afferma che, nel contraddittorio “ispirato al canone di leale collaborazione che deve instaurarsi con lo Stato”, la Regione non deve semplicemente “allegare”, ma deve anche “argomentare” e “dimostrare” “la propria adeguatezza e la propria capacità di svolgere in tutto o in parte la funzione”.

A rafforzare la lettura della sentenza n. 303 alla luce del ruolo imprescindibile del principio di leale collaborazione, sembra contribuire anche il modo in cui la Corte sottopone a scrutinio le procedure di superamento del dissenso regionale previste dalla legislazione speciale sulle infrastrutture strategiche, e in particolare dal decreto legislativo n. 190[3]. Infatti, nell’approvazione (e quindi anche nella localizzazione) di progetti di opere di interesse nazionale o internazionale alle regioni è offerta “la possibilità di rappresentare il loro punto di vista e di motivare la loro valutazione negativa sul progetto”, ma allo Stato non può essere inibita la possibilità di procedere ugualmente, superando il dissenso regionale[4]. Invece, nelle opere in cui l’interesse regionale è “concorrente” con quello statale, come lo stesso decreto legislativo n. 190 riconosce, i poteri della Regione di bloccare l’approvazione del progetto appaiono maggiori. Tutto ciò appare alla Corte sostanzialmente ragionevole e quindi non meritevole di censura.

E’ interessante, infine, anche riportare un passaggio della sentenza che può essere illuminante – in futuro - ai fini della individuazione di quelle opere per le quali l’interesse nazionale sia concorrente con quello regionale. Secondo la Corte (punto 17.1 della sentenza) non è accoglibile la tesi delle regioni secondo cui: “il solo fatto della localizzazione di una parte dell’opera sul territorio di una Regione implicherebbe il coinvolgimento di un interesse regionale”. E’ invece sempre attraverso l’intesa e quindi sulla base della leale collaborazione che occorre procedere, caso per caso, alla classificazione delle opere.

 

Nello schema così delineato rientrano sostanzialmente tutti gli aspetti fondamentali della nuova disciplina. Ne rimangono invece fuori alcuni su cui la Corte esprime un giudizio di illegittimità. 

I primi due riguardano:

§         l’articolo 1, comma 3-bis, della legge n. 443 del 2001, con cui il legislatore aveva introdotto una procedura alternativa di approvazione dei progetti preliminari e definitivi (con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del CIPE integrato dai presidenti delle regioni o delle province autonome interessate, sentita la Conferenza unificata e previo parere delle competenti Commissioni parlamentari). Secondo la sentenza n. 303, tale procedura è lesiva delle prerogative regionali perchè è il CIPE stesso (e quindi anche i rappresentanti regionali che lo integrano) ad essere degradato da organo di amministrazione attiva ad organo con funzioni meramente preparatorie (punto 8.).

§          la correzione – operata con dichiarazione additiva – del dettato legislativo (art. 19, comma 2, del decreto legislativo n. 190 del 2002) che non prevedeva che la Commissione speciale VIA, per la valutazione delle opere di concorrente interesse nazionale e regionale, fosse integrata da componenti designati dalle Regioni o Province autonome interessate.

 

Considerazioni a parte richiedono invece le due dichiarazioni di illegittimità costituzionale relative all’articolo 1, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 443 e all’articolo 15, commi 1-4 del decreto legislativo n. 190. Si tratta di un’unica censura (che colpisce la norma delegante e quella delegata) e riguarda l’autorizzazione al Governo ad emanare regolamenti integrativi delle norme regolamentari vigenti e attuativi delle nuove norme di rango primario.

La Corte ricorda che – per giurisprudenza consolidata – ai regolamenti di delegificazione (quali quelli in oggetto) è inibito disciplinare materie di competenza regionale, in quanto fra norme statali e norme regionali non sussiste un rapporto gerarchico, ma di separazione di competenze.

 

Infine, con la stessa sentenza la Corte ha dichiarato l’illegittimità del decreto legislativo n. 198 del 2002, che aveva disciplinato (e semplificato) i procedimenti autorizzativi di infrastrutture di telecomunicazioni.

La Corte non si è pronunciata nel merito di tale disciplina (in gran parte successivamente trasfusa nel decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, Codice delle comunicazioni elettroniche), ma ha colpito con dichiarazione di illegittimità il rapporto fra il decreto stesso e la legge delega. Tutta la procedura prevista dalla legge obiettivo si basa – infatti - sulla previa individuazione (ogni anno e attraverso definiti passaggi procedurali) delle opere strategiche. Tale impostazione non può prevedere una attribuzione di “strategicità” illimitata e indeterminata (nel tempo e nello spazio) ad una intera categoria di opere, come invece accadeva nel decreto legislativo n. 198.

 

Può essere utile ricordare che nel parere sullo schema di decreto votato dalla VIII Commissione il 22 luglio 2002 si era richiesto, come condizione, che “all'articolo 1, comma 1, alinea, sia specificato che le disposizioni del presente decreto legislativo si applicano solo alle categorie di opere infrastrutturali nel settore delle telecomunicazioni inserite nel programma delle infrastrutture strategiche ai sensi dell'articolo 1, comma 1, della legge n. 443 del 2001”.

Il testo definitivo del decreto legislativo aveva accolto solo in parte la condizione richiesta dall’organo parlamentare, inserendo un generico richiamo dell’art. 1, comma 1, della legge n. 443 (richiamo non ritenuto sufficiente dalla Corte).

 



[1] Il richiamo è ripreso anche nei punti 18, 21, 27.

[2] Può risultare di interesse confrontare tale passaggio della sentenza con alcune osservazioni (in senso del tutto convergente) presenti nel parere sullo schema di decreto delegato reso dall’VIII Commissione della Camera nella seduta del 17 luglio 2002.

[3] Nel merito, la Corte valuta tali procedure – nel testo sottoposto a scrutinio - adeguate e sufficientemente diversificate (punto 24).

[4] Resta ovviamente ferma la possibilità delle Regioni di impugnare il provvedimento laddove esse ravvisino una violazione del principio di lealtà, cioè un pretestuoso uso del potere statale di superamento del dissenso.