Parità nel lavoro- Il decreto legislativo n. 216 del 2003

Con l’emanazione del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, è stata attuata la delega di cui al combinato disposto dell’articolo 1 e dell’allegato B della legge 1° marzo 2002 n. 39 (legge comunitaria 2001), che ha disposto l’attuazione della Direttiva 2000/78/CE (di seguito Direttiva) del Consiglio del 27 novembre 2000, con la quale è stato stabilito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro a prescindere dalla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.

 

Le disposizioni del presente provvedimento si affiancano a quelle contenute nel D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215 (vedi scheda Non discriminazione – Il decreto legislativo n. 215 del 2003), attuativo della direttiva 2000/43/CE, concernente la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, sulla base della delega di cui al combinato disposto degli articoli 2 e 29 della richiamata legge comunitaria per il 2001.

 

In particolare, il provvedimento, attenendosi in maniera pressoché totale alle disposizioni della Direttiva, è volto a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.

 

Va comunque evidenziato che il D.Lgs. n. 216 non ha compiutamente dato attuazione all’articolo 16, paragrafo 1, lettera a), della Direttiva, che prevede l’obbligo, per gli Stati membri, di adottare le misure necessarie ad abrogare le disposizioni - di qualsiasi livello - contrarie al principio di parità di trattamento.

 

Al fine di accertare la concreta realizzazione dei contenuti della Direttiva, il D.Lgs. n. 216 ha previsto delle scadenze quinquennali, a decorrere dal 2 dicembre 2005, in corrispondenza delle quali il Ministero del lavoro deve trasmettere alla Commissione europea una relazione contenente le informazioni relative all’applicazione del provvedimento.

 

Più specificamente, il decreto legislativo in oggetto definisce, all’articolo 2, le fattispecie di discriminazione distinguendole in forme di:

§      discriminazione diretta: trattare una persona in modo meno favorevole rispetto ad un’altra in una analoga situazione per motivi di religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali;

§      discriminazione indiretta: adottare una disposizione, una prassi, un atto, un patto o un comportamento – anche in apparenza neutri – che possano creare svantaggio ad una persona che professi una religione o un’ideologia, ovvero sia portatrice di handicap, ovvero abbia una età particolare o una tendenza sessuale, rispetto ad altre persone.

 

Per quanto attiene a quest’ultima disposizione, è da rilevare che il decreto legislativo amplia l’ambito oggettivo riconducibile al concetto di discriminazione indiretta, rispetto a quanto contenuto nella Direttiva. Accanto, infatti, alle definizioni, ai criteri e alle prassi che, anche se apparentemente neutri, possono creare discriminazioni, il D.Lgs. n. 216 individua anche altre fattispecie – quali un “atto”, un “patto” o un “comportamento” – generatrici di discriminazione e come tali oggetto di tutela.

Si evidenzia l’esplicita previsione (articolo 2, comma 2) della salvaguardia dell’articolo 43, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 280/1998[1]. Tale riferimento, infatti, consente di mantenere una disposizione più favorevole ai fini della tutela dalla discriminazione (diretta o indiretta che sia), posta in essere in ragione del colore, dell’ascendenza o delle origini nazionali. Si ricorda, al riguardo, che la Direttiva esclude dall’ambito oggettivo di applicazione le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non fa riferimento a discriminazioni basate sull’ascendenza.

 

Di particolare rilevanza è inoltre la disposizione del comma 3 dell’articolo 2, che introduce, seppure in maniera indiretta e con valenza limitata all’ambito del provvedimento, nell’ordinamento nazionale la definizione del c.d. mobbing (v. capitolo Il mobbing), individuato nell’attuazione di molestie o di comportamenti indesiderati con lo scopo e l’effetto di violare la dignità personale creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. Tale comportamento viene considerato discriminatorio e pertanto suscettibile di tutela giurisdizionale ai sensi del successivo articolo 4 del provvedimento.

 

Il principio di parità deve essere applicato indistintamente (articolo 3) a tutte le persone sia nel settore pubblico sia in quello privato, e particolarmente con riferimento alle seguenti situazioni:

§      accesso all’occupazione ed al lavoro, compresi i criteri di selezione e le condizioni si assunzione;

§      occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, le retribuzioni e le condizioni di licenziamento;

§      accesso all’orientamento, alla formazione ed alla riqualificazione professionale, compresi i tirocini;

§      attività svolta nell’ambito delle organizzazioni dei lavoratori o dei datori di lavoro.

 

Destinatari della tutela sono tutti i soggetti che vivono o lavorano in uno Stato dell’Unione europea, sia che vi risiedano ufficialmente o meno. La tutela inoltre si estende anche ai soggetti non appartenenti all’Unione, i quali però soggiornino nel territorio della stessa per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dalla nazionalità.

 

Va rilevata tuttavia la mancata specifica attuazione dell’articolo 5 della Direttiva, che ha stabilito “soluzioni ragionevoli” per la tutela dei disabili, dove per “soluzioni ragionevoli” si intende l’obbligo, per il datore di lavoro, di prendere appropriati provvedimenti ai fini dell’accesso al lavoro, carriera e formazione a favore dei disabili, a meno che tali provvedimenti con configurino un onere finanziario sproporzionato. La mancata applicazione citata però potrebbe essere ricondotta all’esistenza, nel nostro ordinamento, di un’apposita legge di tutela[2] che, come è noto, ha proprio lo scopo di promuovere l’inserimento e l’integrazione lavorativa dei soggetti disabili.

 

L’incertezza sull’effettiva operatività del provvedimento di attuazione, in precedenza richiamata, può inoltre essere alimentata dall’individuazione di alcuni settori esclusi dall’operatività della tutela antidiscriminatoria, sia della Direttiva sia del decreto di attuazione, nonché dalle cd. cause di giustificazione delle discriminazioni, che costituiscono altrettante eccezioni al principio di parità di trattamento. In questa ottica vanno inquadrate le eccezioni riportate nell’articolo 3 del D.Lgs. n. 216, nel quale vengono indicate alcune differenze di trattamento che, pur risultanti indirettamente discriminatorie, sono giustificate da legittime finalità perseguite dal datore di lavoro attraverso mezzi leciti e giustificati.

In particolare, restano salve le norme vigenti relative alle condizioni di ingresso, soggiorno e accesso al lavoro, all’assistenza e alla previdenza per gli stranieri e per gli apolidi, quelle in materia di sicurezza e protezione sociale, sicurezza pubblica, stato civile nonché, per le forze armate, le disposizioni limitative riguardanti l’età e l’handicap (articolo 3, comma 2). In questo modo si intende precisare che eventuali differenze di trattamento in tali settori e per tali esigenze, non integrano gli estremi di una discriminazione illegittima e pertanto gli Stati non sono obbligati a modificare tali normative. Difatti, si tratta di un bilanciamento di interessi contrastanti che vede prevalere inevitabilmente in settori fondamentali, l’interesse pubblico rispetto all’interesse individuale, per cui non si configura una situazione di discriminazione arbitraria bensì di differenziazione dei diritti per la protezione di un bene collettivo. La disposizione in esame risulta “autorizzata” dall’articolo 2, comma 5, della Direttiva.

 

È opportuno ricordare che vengono fatte salve (articolo 3, comma 4) anche le disposizioni dedicate agli accertamenti di idoneità al lavoro, nonché quelle che prevedono trattamenti differenziati dettati dalla particolare natura del rapporto nonché da legittime finalità di politica del lavoro, con particolare riguardo a determinate categorie, quali adolescenti, giovani, lavoratori anziani e lavoratori con persone a carico. Tale precisazione, in realtà, presenta qualche difficoltà interpretativa, in quanto il provvedimento, scostandosi dal testo della Direttiva, non individua le finalità e le norme che dovrebbero consentire tali trattamenti differenziati.

 

Inoltre, in aggiunta a quanto previsto dalla Direttiva comunitaria il provvedimento, al comma 6 dell’articolo 3, stabilisce la legittimità degli atti volti ad escludere dallo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa inerente la cura, l’istruzione, l’assistenza e l’educazione di minorenni, le persone condannate in via definitiva per reati concernenti la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile. Si può ritenere che tale disposizione costituisca una specificazione del primo periodo del comma 6, che riproduce peraltro quanto previsto dalla Direttiva, relativamente alle liceità delle differenze di trattamento giustificate da finalità legittime perseguite attraverso mezzi ragionevoli e adeguati. Nel caso di specie, risulta evidente che non costituisce una discriminazione escludere da alcuni delicati compiti educativi e di cura dei minori coloro che presentano tendenze sessuali illecite e penalmente perseguibili.

 

I successivi commi 3, 4 e 5, infine, in ottemperanza alle norme recate dagli articolo 4 e 6 della Direttiva, riguardano gli atti che non vengono considerati discriminatori nell’ambito di un rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa. Vengono in particolare citate quelle differenze di trattamento che possono incidere sullo svolgimento di un'attività lavorativa o che possono costituire un elemento essenziale e determinante di tale attività; parimenti non sono atti discriminatori le differenze di trattamento basate su una determinata religione o credenza, nel caso in cui queste siano requisito essenziale e determinante per lo svolgimento di attività praticate nell'ambito di enti religiosi o organizzazioni pubbliche o private.

Sono fatte salve le norme concernenti l’accertamento di idoneità per l’esecuzione di lavori specifici e quelle riguardanti trattamenti differenziati nei confronti degli adolescenti e dei giovani.

 

Il successivo articolo 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti, sia sotto il profilo sostanziale sia sotto quello procedurale.

Sul piano sostanziale, l’articolo 4 aggiunge alle ipotesi già previste dall’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori[3] anche quelle attinenti ai patti o atti diretti a fini di discriminazione per motivi di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Il concetto di discriminazione, inoltre, si può estendere anche ai trattamenti economici di maggior favore e al licenziamento. Si ricorda a tal proposito che l’articolo 16 dello Statuto vieta “la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio a mente dell'articolo 15”.

 

Per quanto concerne la tutela procedurale, lo stesso articolo 4 stabilisce che è nullo qualsiasi patto o atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore o comunque a licenziarlo o a discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche, mansioni e quant’altro possa arrecargli danno. Avverso gli atti discriminatori è riconosciuta una tutela giurisdizionale che si concretizza in disposizioni processuali in parte riproduttive di quanto già previsto dall’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 ed 11, del Testo unico delle leggi sull’immigrazione di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

Ai sensi di tale procedura, il giudice può ordinare, su istanza di parte, il comportamento pregiudizievole e adottare qualsiasi ulteriore provvedimento idoneo a rimuovere la discriminazione qualora il comportamento di un privato i della pubblica amministrazione produce una discriminazione.

I successivi commi dell’articolo 4 prevedono ulteriori strumenti di tutela giurisdizionale dei diritti. In particolare, nel caso in cui il ricorrente non intenda avvalersi, ai fini della tutela della discriminazione subita, delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, è previsto il ricorso (comma 3) alla conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile, o, in caso di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, al collegio di conciliazione di cui all’articolo 66 del D.Lgs. n. 165/2001, recante le norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

Sempre ai sensi del comma 4, inoltre, il ricorrente può, al fine di dimostrare l’esistenza della discriminazione, dedurre in giudizio elementi di fatto che il giudice deve valutare nei limiti di cui all’articolo 2729, primo comma, del codice civile[4].

Si consideri, inoltre, che il D.Lgs. n. 216, prevede anche una tutela risarcitoria (articolo 4, comma 5), che prevede espressamente anche il risarcimento del danno non patrimoniale (cd. danno “esistenziale”). Ciò significa che il soggetto leso potrà vedere tutelate, in via equitativa, tutte quelle situazioni soggettive non valutabili economicamente (quali ad esempio il mutamento dei ritmi di vita o di abitudini) cui lo stesso è stato costretto dall’atto discriminatorio.

In sostanza, il giudice, nell’accogliere il ricorso della persona lesa, oltre al risarcimento del danno patrimoniale derivante dal comportamento discriminatorio ha facoltà, con lo stesso provvedimento, di risarcire anche il danno non patrimoniale, e di impartire le opportune disposizioni al fine di far cessare o rimuovere entro un certo termine l’atto o comportamento discriminatorio (comma 5), decidendo anche di utilizzare, sulla base di quanto stabilito dall’articolo 12 della Direttiva, adeguate forme di pubblicità (comma 7).

Ai fini della liquidazione del danno, inoltre (comma 6), il giudice deve tenere conto del fatto che gli atti o comportamenti discriminatori possano costituire ritorsione di precedenti azioni giudiziali ovvero ingiuste reazioni a precedenti attività del soggetto leso, volte a ottenere il rispetto del principio di parità.

 

Il successivo articolo 5, infine, legittima le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative ad agire, in forza di delega rilasciata per iscritto, a pena di nullità, in giudizio in nome e per conto del soggetto discriminato, contro la persona fisica o giuridica alla quale è riconducibile l’atto o comportamento lesivo.

Tali rappresentanze, inoltre, possono agire anche in caso di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dal comportamento discriminatorio.

La norma, in sostanza, presupporrebbe due livelli di intervento da parte delle richiamate organizzazioni, a seconda se la tutela abbia per oggetto una discriminazione ben individuata sia nel soggetto leso che nel soggetto a cui è riferibile la discriminazione stessa, o una discriminazione collettiva.

Nel primo caso l’azione si attiverebbe a seguito di espressa volontà del soggetto leso, nel secondo caso le organizzazioni sarebbero legittimate ad agire direttamente non essendo identificabile precisamente un soggetto leso dalla discriminazione.

 

Si ricorda, infine, che l’articolo 7 della Direttiva ha dato facoltà agli Stati membri di predisporre azioni positive dirette ad evitare o comunque compensare svantaggi correlati a condotte discriminatorie.

Al riguardo, il legislatore nazionale non ha dato attuazione a tale previsione, al contrario di quanto avvenuto nel D.Lgs. n. 215/2003, di recepimento della direttiva 2000/43/CE. Tutto ciò ha comportato che mentre le azioni positive trovano cittadinanza per la tutela contro le discriminazioni concernenti la razza o l’origine etnica, altrettanto non può dirsi rispetto alla discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Va tuttavia evidenziato che nel nostro ordinamento le azioni positive sono già regolamentate dalla legge n. 125/1991; la stessa legge n. 68/1999, inoltre, ha preso in considerazione tali azioni ai fini dell’inserimento e dell’integrazione lavorativa dei soggetti disabili.

 



[1]     T.U. sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero.

[2]     Legge 12 marzo 1999, n. 68, Norme per il diritto al lavoro dei disabili.

[3]     Il primo comma del richiamato articolo stabilisce che è nullo qualsiasi patto od atto diretto a:

-        subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;

-        licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Tali disposizioni si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

[4]     Il richiamato articolo stabilisce che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti.