L’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale italiana in materia comunitaria è particolarmente significativa, in quanto ha contribuito ad individuare i fondamenti costituzionali e teorici dell’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea, contribuendo a definire altresì la disciplina sostanziale dei rapporti tra i due ordinamenti. Mai come in questo caso, infatti, i principi che regolano la materia e che orientano gli interpreti hanno una matrice nettamente giurisprudenziale.
Dal momento che le pronunce della Corte nel settore investono una pluralità di aspetti, è opportuno suddividere l’analisi in relazione ai singoli profili.
All’indomani della partecipazione dell’Italia alle Comunità europee molto si è discusso circa il fondamento costituzionale della scelta, fondamento che è stato individuato dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale nell’articolo 11 della Costituzione. La norma, infatti, prevede che l’Italia consente a limitazioni della propria sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni.
A partire dalla sentenza n. 14 del 1964, la Corte costituzionale ha riconosciuto come l’art. 11 implichi che, in presenza di determinati presupposti, è possibile stipulare trattati, come quelli comunitari, in grado di determinare limitazioni di sovranità, e che a tali trattati è consentito dare esecuzione con legge ordinaria anziché costituzionale. La giurisprudenza successiva ha confermato questa impostazione, sottolineando che altrimenti l’art. 11 risulterebbe svuotato del suo contenuto normativo, se per ogni limitazione di sovranità da esso prevista si dovesse procedere con legge costituzionale (cfr. sent. n. 183 del 1973).
Da allora in poi “l’articolo 11 ha costituito l’unico ancoraggio costituzionale della partecipazione dell’Italia all’Unione europea” (CARTABIA-WEILER).
Al riguardo, si ricorda,
comunque, che a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione l’art. 117, primo comma, stabilisce che
la legislazione statale e regionale deve svolgersi, tra l’altro, nel rispetto
degli obblighi comunitari (v. scheda Titolo
V e norme di attuazione). Tale
statuizione appare particolarmente significativa, dal momento che contiene
l’esplicito riconoscimento della supremazia del diritto comunitario: secondo
una parte della dottrina le nuove norme fanno dell'Unione europea e delle fonti
da essa prodotte anche un elemento di unificazione dell'ordinamento complessivo
– che in precedenza poteva verificarsi solo attraverso l'interposizione della
legge nazionale – di modo che si va delineando il superamento della logica della
separazione dell'ordinamento italiano rispetto a quello comunitario in favore
dell'opposta logica dell'integrazione fra gli ordinamenti (PIZZETTI, SORRENTINO).
In questa direzione
sembra ormai avviata anche la Corte
costituzionale che, in una recente pronuncia (Sentenza n. 406 del 2005), appare orientata a
considerare in un’ottica unitaria l’ordinamento interno e quello comunitario.
Infatti, essa ha direttamente verificato l’effettivo rispetto delle norme di
una direttiva comunitaria da parte di una legge della regione Abruzzo, che è
stata dichiarata quindi costituzionalmente illegittima.
È questo il settore nel quale l’apporto giurisprudenziale si è rivelato maggiormente determinante ai fini dell’inquadramento dei rapporti tra ordinamento interno e comunitario (v. capitolo Rapporti tra ordinamento interno e dell’UE). Numerosissime sono le sentenze che hanno progressivamente contribuito a definire gli assetti attuali: esse possono essere ricondotte a tre distinte fasi giurisprudenziali.
La prima inizia sempre dalla sentenza n. 14 del 1964, con la quale la Corte aveva ritenuto che l’art. 11 Cost. non conferisse alla legge esecutiva dei trattati un’efficacia superiore a quella delle altre leggi ordinarie. Di conseguenza, gli atti comunitari immessi nel nostro ordinamento dovevano essere valutati in base al criterio cronologico della successione delle leggi nel tempo e, quindi, considerati abrogabili da leggi interne posteriori.
Successivamente, con la sentenza 183 del 1973, si chiarisce che l’ordinamento interno e quello comunitario sono “autonomi e distinti, ancorché coordinati secondo la ripartizione di competenze stabilita e garantita dal Trattato”. Pertanto, le limitazioni di sovranità derivanti dai Trattati determinano una separazione delle competenze legislative, amministrative, giurisdizionali interne rispetto a quelle delle Istituzioni europee e che di conseguenza anche i rapporti tra le fonti nazionali ed i regolamenti comunitari – riconosciuti come atti dotati di forza di legge – debbono essere definiti in termini di competenza. Da ciò discende che la violazione di questi ultimi da parte di leggi ordinarie – per invasione della loro sfera di competenza – rappresenterebbe una violazione mediata dell’art. 11 Cost. e pertanto tali leggi interne andrebbero impugnate davanti alla Corte costituzionale per un vaglio di legittimità (cfr. sent. n. 232 del 1975).
La terza fase della giurisprudenza costituzionale allinea l’impostazione della nostra Corte con quella della Corte di Giustizia ed è tuttora valida. Infatti, a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, viene valorizzato il primato del diritto comunitario, che si afferma attraverso il potere-dovere del giudice comune di disapplicare le norme interne in contrasto con regolamenti comunitari (o con altre norme comunitarie direttamente applicabili), senza bisogno di sollevare questione di costituzionalità sulle prime.
La Corte è andata poi definendo ulteriormente i termini della questione, chiarendo che sono direttamente applicabili anche le sentenze interpretative e di inadempimento della Corte di giustizia (sentt. nn. 113 del 1985 e 389 del 1989), nonché le direttive, allorché sia scaduto il relativo termine di recepimento ed esse risultino incondizionate e sufficientemente precise (c.d. direttive dettagliate) (sentt. nn. 64 del 1990 e 168 del 1991). Inoltre, non spetta soltanto al giudice disapplicare la normativa interna con tali atti incompatibile, ma anche alla pubblica amministrazione (sent. n. 389 del 1989).
Infine, la Corte ha ritenuto
ammissibile giudicare della legittimità
costituzionale di leggi statali o regionali impugnate in via principale per violazione di norme comunitarie
direttamente applicabili e, quindi, per violazione mediata dell’art. 11 Cost. (cfr. Sent. n. 384 del 1994, Sent.
n. 94 del 1995 e Sent.
n. 406 del 2005).
Il problema della tutela dei diritti va visto sotto un duplice profilo: in primo luogo, per quanto riguarda la questione della tutela nell’ordinamento comunitario, in secondo luogo, relativamente al profilo della garanzia nel nostro ordinamento dei diritti inalienabili garantiti dalla Costituzione anche nei confronti di eventuali atti comunitari che li possano intaccare.
In merito al primo aspetto, si ricorda che in assenza di espresse
previsioni, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha dichiarato che i diritti fondamentali della persona umana
fanno parte dei principi generali del diritto comunitario di cui essa
garantisce l’osservanza. La configurazione di tali diritti è stata dalla
medesima Corte ancorata alle tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri.
Successivamente, il Trattato sull’Unione europea, all’articolo 6, prevede espressamente che l’Unione rispetta i diritti fondamentali come garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni dei Paesi membri, “in quanto principi generali del diritto comunitario”.
La Carta dei diritti fondamentali dell’UE, (v. scheda La Carta dei diritti fondamentali) proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 nella forma di solenne Dichiarazione congiunta del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, rappresenta la tappa successiva di questo percorso e, sebbene non abbia efficacia giuridica, rappresenta comunque un criterio interpretativo forte (A. PACE). Infatti, nonostante essa non contenga, in quanto tale, disposizioni giuridicamente vincolanti comparabili a quelle del diritto primario, avendo un valore più politico che giuridico, fornisce, quantomeno quale fonte di cognizione, indicazioni sui diritti fondamentali garantiti dall'ordinamento comunitario. Tale elemento è stato evidenziato più volte nelle conclusioni dell’avvocato generale presso la Corte di Giustizia[1] e la Carta non può pertanto essere trascurata nella soluzione di controversie giurisdizionali relative ai diritti fondamentali. Del resto, il Tribunale di prima istanza ha a volte richiamato specifici articoli della Carta, in quanto confermativi di principi costituzionali comuni degli Stati membri, ai sensi dell’articolo 6 del Trattato sull’Unione europea[2], ed anche la Corte costituzionale italiana ha fatto espresso richiamo ad essa, in quanto espressiva di principi comuni agli ordinamenti europei, anche se priva di efficacia giuridica (sentenza n. 135 del 2002).
La Carta è stata successivamente stata integrata
nella parte II del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (artt.
da II-61 a II-114) (v. scheda Il Trattato
costituzionale), firmato a Roma il 29 ottobre 2004 e ratificato dall’Italia con legge
7 aprile 2005, n. 57.
In merito al profilo della tutela nel nostro ordinamento dei diritti inalienabili garantiti dalla
Costituzione anche nei confronti di atti comunitari, si ricorda che la
Corte costituzionale, sin dalle prime pronunce in materia ha dimostrato una
particolare sensibilità rispetto al tema dell’eventuale lesione dei principi
fondamentali del nostro ordinamento da parte di fonti comunitarie. Al riguardo,
la Corte ha escluso che le
limitazioni di sovranità consentite in virtù dell’art. 11 Cost. possano
comportare per gli organi comunitari “un
inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro
ordinamento costituzionale, o i diritti
inalienabili della persona umana”. In tal caso, sarebbe comunque “sempre
assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla
perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali” (sent. n. 183 del 1973). In tali ipotesi
dovrebbe essere impugnata – da parte del giudice interno remittente – la questione di legittimità costituzionale
sulla legge di esecuzione dei Trattati comunitari, che ha consentito
l’ingresso, nel nostro ordinamento, delle norme comunitarie sospettate di
incostituzionalità (cfr. sent. n. 183
del 1973, sent. n.170 del 1984 e sent.
n. 232 del 1989).
Le c.d. “discriminazioni a rovescio” insorgono nel caso in cui la legislazione interna preveda una disciplina
più restrittiva per l’esercizio di professioni o per determinate tipologie di
prodotti rispetto a quella vigente negli altri Stati membri. La situazione
discriminatoria che si determina è un effetto
indiretto dell’applicazione del diritto comunitario, in quanto in base al
principio di libera circolazione delle merci e delle persone all'interno
dell’Unione, sia i prodotti sia i prestatori di servizi, operanti all'interno
di uno Stato membro in base alle regole ivi
vigenti, devono poter circolare liberamente in tutti gli altri Paesi, a
prescindere dalla disciplina esistente nello Stato di destinazione[3].
Pertanto, nel caso in cui il Paese di destinazione abbia una disciplina più
rigorosa, i produttori ed i prestatori di servizi nazionali, in mancanza di una
piena armonizzazione nell'attuazione della normativa comunitaria da parte dei
vari Stati membri, dovrebbero osservare regole più restrittive di quelle
previste negli altri Stati per la produzione del medesimo tipo di bene o per
l'esercizio della medesima attività.
Per rimediare a questo tipo di discriminazioni è
stata ripetutamente adita la Corte di
giustizia delle Comunità europee[4],
la quale però ha negato la propria competenza per l'irrilevanza comunitaria di
tutte quelle situazioni che, non avendo diretti collegamenti con il diritto
comunitario, trovano il proprio fondamento nella legislazione interna del
singolo Stato membro[5].
Per quanto riguarda il nostro
ordinamento, la Corte costituzionale
è intervenuta nella vicenda della produzione della pasta, dichiarando
costituzionalmente illegittime, per violazione del principio di eguaglianza,
quelle disposizioni suscettibili di discriminare i cittadini italiani
costringendoli a rispettare una disciplina più restrittiva di quella applicata
ai cittadini degli Stati membri, in ordine ad una medesima fattispecie (sentenza n. 443 del 1997, in materia si
vedano anche le sentt. n. 249 del 1995 e n. 61 del 1996).
Si ricorda, infine, che in materia l’articolo 2 della legge comunitaria per
il 2004 (legge n. 62 del 2005) ha introdotto un principio e criterio direttivo
alla lettera h), volto ad assicurare in sede di recepimento
delle direttive un’effettiva parità
di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati
membri. Tale scopo viene perseguito assicurando la massima armonizzazione
tra le legislazioni degli Stati membri al fine di evitare l’insorgere di “discriminazioni a rovescio” a danno dei
cittadini italiani, tenuti a rispettare, con particolare riferimento ai
requisiti per l’esercizio di attività commerciali e professionali, una
disciplina più restrittiva di quella applicata ai cittadini degli altri Stati
membri.
In merito ai requisiti per l’ammissibilità del referendum abrogativo, la Corte costituzionale, partendo dal limite degli obblighi internazionali sancito dall’art. 75 Cost., ha elaborato una giurisprudenza che ad esso riconduce anche un nuovo limite, quello delle “leggi comunitariamente necessarie”.
Nelle prime sentenze la Corte aveva, in effetti, considerato ammissibili dei quesiti referendari in quanto essi non interferivano con la normativa comunitaria (sentt. nn. 64 del 1990 e 36 del 1997). Successivamente, la Consulta non ha ritenuto ammissibile il referendum su quelle leggi che sono indispensabili affinché lo Stato italiano non risulti inadempiente rispetto agli obblighi comunitari, dal momento che l’eliminazione di tali norme è possibile solo con la contemporanea introduzione di disposizioni conformi al diritto dell’UE (sentt. nn. 31, 41 e 45 del 2000).
La giurisprudenza costituzionale si è altresì preoccupata di
non violare la c.d. clausola di stand still, enucleata dalla Corte
di Giustizia, secondo la quale anche in pendenza del termine di recepimento
delle direttive gli Stati non devono adottare normative interne in grado di
ostacolare o ritardare l’applicazione del diritto comunitario (v. capitolo Le fonti del diritto comunitario). Infatti, con le sentenze nn. 41 e 45 del 2000, la Consulta ha ritenuto inammissibili quesiti
volti ad eliminare disposizioni vigenti già conformi a direttive comunitarie in
via di recepimento, in quanto non può crearsi una disciplina nazionale in
conflitto con i principi contenuti nelle direttive da attuare.
I Trattati comunitari ed il diritto derivato mostrano una sostanziale indifferenza rispetto all’articolazione interna dei singoli Stati membri, di modo che anche il riparto interno delle competenze tra Stato e Regioni non viene preso in considerazione – in linea di massima – dall’ordinamento comunitario.
Peraltro, dal momento che alcune rilevanti materie di competenza della Comunità europea rientrano altresì nella sfera di attribuzione regionale, il diritto comunitario può finire per influire concretamente sulle competenze delle Regioni. Tale influenza può avvenire:
- in modo casuale, dipendendo dalla originaria scelta di attribuire alle Regioni una determinata materia, su cui incide anche la competenza comunitaria;
- in modo diretto, derivante dall’intervento del diritto comunitario che individua il livello di governo più adeguato a svolgere una determinata funzione di rilievo comunitario.
In particolare, nel primo caso, la Corte costituzionale, sollecitata dalle Regioni a difendere i confini delle loro attribuzioni nei confronti della potenzialità invasiva delle norme comunitarie, ha riconosciuto che queste ultime sono in grado di incidere sull’esercizio delle competenze regionali pur fissate in norme costituzionali: “le competenze regionali sono suscettibili di operare nella misura in cui i loro contenuti non vengono a contrastare con le discipline ed i limiti introdotti dalla normazione comunitaria”, di modo che tali competenze possono diventare inoperanti se la disciplina dell’UE dovesse cancellare il presupposto su cui si fondava la competenza (sentenze nn. 224 del 1994 e 458 del 1995).
Nella seconda ipotesi, analogamente, la Corte ha riconosciuto che gli organi comunitari non sono tenuti ad osservare puntualmente la ripartizione delle competenze prevista a livello costituzionale, ma possono dettare disposizioni di differente contenuto, purchè rispettino i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale ed i diritti inalienabili della persona umana (sentenza n. 399 del 1987). Successivamente, la Consulta ha chiarito che le norme comunitarie, per esigenze organizzative dell’UE, possono prevedere forme attuative che deroghino al normale riparto costituzionale delle competenze, sempre però nel rispetto dei principi fondamentali ed inderogabili della nostra Costituzione (sentenza n. 126 del 1996).
In relazione ad entrambe le fattispecie, il Giudice
costituzionale ha sottolineato che “questa situazione non è quella normale e
deve pertanto derivare con evidenza dalla normativa comunitaria, sulla base di
esigenze organizzative che ragionevolmente facciano capo all'Unione europea
stessa” (sentenza n. 126 del 1996).
Si ricorda, infine, la giurisprudenza costituzionale relativa alla questione dei poteri statali sostitutivi (v. scheda La legge n. 11 del 2005) da esercitare in caso di inerzia delle regioni nell’attuazione del diritto comunitario. Tale giurisprudenza, maturata nel quadro costituzionale originario, mantiene la sua validità anche nel mutato contesto della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001.
In particolare, in caso di inerzia delle regioni e province
autonome nel recepimento delle direttive
comunitarie, la Corte ha più volte ribadito come lo Stato sia responsabile
integralmente e unitariamente dell'attuazione del diritto comunitario
nell'ordinamento interno, di fronte alla Comunità europea, oggi Unione europea
(ex plurimis, sentenze nn. 382 del 1993 e 632 del 1988). Pertanto, allo Stato -
ferma restando la competenza in prima istanza delle Regioni e delle Province
autonome – “spetta una competenza, dal punto di vista logico, di seconda
istanza, volta a consentire a esso di non trovarsi impotente di fronte a
violazioni del diritto comunitario determinate da attività positive o omissive
dei soggetti dotati di autonomia costituzionale” (sentenza n. 126 del 1996). Quindi, “si fa necessariamente strada il
potere-dovere dello Stato di assicurare l'adempimento degli obblighi
comunitari, ciò di cui, unitariamente e per tutto il territorio nazionale, lo
Stato stesso è responsabile. (…) Allo Stato, dunque, il compito di supplire
all'eventuale inerzia con proprie norme, colmando la lacuna; alle Regioni e
alle Province autonome il potere di far uso in qualunque momento delle proprie
competenze, rendendo di conseguenza inapplicabile la normativa statale” (sentenza n. 425 del 1999)[6].
Per approfondimenti sulla giurisprudenza relativa al Titolo
V si rinvia alla scheda Titolo V e giurisprudenza costituzionale.
[1] In tal senso le conclusioni
dell’avvocato generale Juliane Kokott del 15/12/2005 nella causa C-10/05. Cfr.
anche sul punto le conclusioni dell'8 settembre 2005 nella causa C‑540/03,
Parlamento/Consiglio e il 14 ottobre 2004 nelle cause riunite C‑387/02, C‑391/02
e C‑403/02, Berlusconi e altri; nello stesso senso le conclusioni
dell'avvocato generale Poiares Maduro presentate il 29 giugno 2004 nella causa
C‑181/03 P, Nardone, dell'avvocato generale Mischo, presentate il 20
settembre 2001 nelle cause riunite C‑20/00 e C‑64/00, Booker
Aquaculture e Hydro Seafood, dell'avvocato generale Tizzano, presentate l'8
febbraio 2001 nella causa C‑173/99, e dell'avvocato generale Léger,
presentate il 10 luglio 2001 nella causa C‑353/99 P, Hautala; più
prudentemente si è espresso l'avvocato generale Alber nelle conclusioni da lui
presentate il 24 ottobre 2002 nella causa C‑63/01, Evans.
[2] Si vedano, ad esempio, le sentenze relative alle cause T-112/98 e T-54/99.
[3] In base alla giurisprudenza comunitaria
tale principio può limitarsi esclusivamente per «esigenze imperative attinenti,
in particolare, all'efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della
salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei
consumatori» (sentenza 20 febbraio 1979, in causa C-120/78, Rewe Zentral,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee - GUCE).
[4] Come ad esempio nelle vicende relative
all'aceto di vino italiano, alla birra tedesca, al gin, al formaggio olandese,
alla pasta italiana, allo yogurt francese, nonché, da ultimo, al cioccolato e
al prosciutto di Parma, rispettivamente, sentenza 9 dicembre 1981, causa
C-193/80; 12 marzo 1987, causa C-178/84; 26 novembre 1985, causa C-182/84; 5
dicembre 2000, causa C-448/98; 14 luglio 1988, causa C-407/85.
[5] Sentenze 16 gennaio 1997, causa C-134/95; 9
settembre 1999, causa C-108/98; 21 ottobre 1999, causa C-97/98; 6 giugno 2000,
causa C-281/98; 20 febbraio 2001, causa C-192/99; causa C-14/00.
[6] In ordine all'esigenza di garanzia del
principio autonomistico e del suo contemperamento con la necessaria dotazione in
capo allo Stato di poteri congrui, anche in via d'urgenza, rispetto alle sue
responsabilità comunitarie, si vedano anche le sentenze nn. 458 del 1995; 316
del 1993; 453 e 349 del 1991; 448 del 1990; 632 del 1988; 433 e 304 del 1987;
81 del 1979 e 182 del 1976.