55° della Battaglia di Piombino Piombino (1943-1998)


Piombino, 09/13/1998


***Manifestazione promossa dal Comune di Piombino***


Oggi Piombino si ritrova per ricordare le giornate del settembre 1943 che videro cittadini, operai, lavoratori del porto combattere insieme con marinai, finanzieri e soldati a difesa della città, contro il tentativo di occupazione della Marina tedesca.

A poche ore dalla notizia dell’armistizio, dopo l’otto settembre, la vostra città si trovò a dover reagire all’azione navale tedesca mentre il Paese era alla deriva, dopo la vergognosa fuga del re dalla Capitale e dalle proprie responsabilità politiche e militari.

Privi di qualsiasi indicazione strategica ed operativa, molti comandi dei presidi militari dislocati sul territorio nazionale non riuscirono ad organizzare alcuna forma di difesa di fronte all’azione delle truppe naziste che occuparono rapidamente e senza difficoltà il Nord ed il Centro dell’Italia sino alla Campania.

A Piombino tra il 9 e l’11 settembre le cose andarono diversamente. La città non si arrese.

I cittadini riuscirono a realizzare un’intesa immediata con molti ufficiali della Marina e con i marinai che erano rimasti a presidiare le batterie.

Il colonnello Fantacchiotti ed altri ufficiali scelsero consapevolmente di infrangere gli ordini superiori, emanati dal comandante della piazza militare generale De Vecchi, che vietavano qualsiasi azione contro i tedeschi.

Così nacque questa straordinaria novità, la lotta comune tra cittadini e militari contro i nazisti per la liberazione della città, che superava la contrapposizione propria del fascismo tra esercito e popolo, in nome del comune diritto a vivere liberi e dignitosamente .

Tutti insieme convinsero chi aveva abbandonato le armi a riprenderle in mano. Gruppi di marinai in fuga da La Spezia si unirono ai loro commilitoni di Piombino rinforzando ulteriormente i reparti schierati a difesa della città.

Poche ore dopo, la flotta tedesca si rifiutò di lasciare il porto ed i militari cominciarono a sbarcare sulle banchine. Lo scontro fu immediato e terminò con la vittoria della Marina e dei civili sulle truppe tedesche.

La vittoria non poté durare a lungo di fronte alla presenza massiccia dell''esercito nazista che aveva già conquistato Livorno e l''Elba e per effetto della scelta dei comandi militari italiani che imposero ai militari la liberazione di tutti i prigionieri tedeschi e la riconsegna delle armi. Ma quella vittoria fu un segno della possibilità concreta di resistere e di vincere, della possibilità di risentire l’orgoglio di essere italiani, insieme militari e civili di fronte a un esercito, quello tedesco, che dell’umiliazione dell’altro aveva fatto la sua regola di comportamento.



Nel 1943 uno dei piu’ grandi intellettuali italiani del Novecento, Benedetto Croce, annotava nel suo diario: “Sono stato sveglio per alcune ore tra le 2 e le 5, sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente, economicamente e moralmente, e’ distrutto, irrimediabilmente.”

Contemporaneamente migliaia di altri uomini, la gran parte umili e sconosciuti, impugnavano le armi per ricostruire dignita’ nazionale, liberta’, sviluppo.

Essi hanno dimostrato che nella storia dei popoli non c’e’ nulla di irrimediabile, se quei popoli hanno il senso della dignita’ nazionale.



Dopo il nazifascismo molte altre volte il sangue, nel nostro paese, ha tentato di schiacciare la storia e la memoria. L’Italia degli ultimi trent’anni, con le sue otto stragi, i circa 13.000 attentati, gli oltre cinquecento morti e’ stata la patria moderna dell’omicidio politico. Possiamo affermare con sicurezza che nessun paese del mondo avanzato ha avuto nel secondo dopo guerra un tasso di violenza politica cosi’ elevato. Molti altri paesi sarebbero stati schiacciati. Noi no. Noi ci siamo liberati dal terrorismo. Abbiamo processato e condannato in primo grado gli imputati per la strage di Capaci. Noi italiani sappiamo soffrire, sappiamo combattere e sappiamo andare avanti.

La storia della Repubblica non e'' una storia criminale. Ma nella storia della Repubblica si sono annidati nuclei che hanno usato l''omicidio come mezzo di lotta politica. In nessun altro Paese avanzato sono stati uccisi tanti poliziotti, magistrati, uomini politici democratici come in Italia.

La legalita'' non e'' stata accettata da tutti come confine dei comportamenti politici ed economici.

La violenza, a volte coperta persino da uomini che svolgevano delicate funzioni istituzionali, ha trasformato in bare per decine e decine di italiani inermi, le strade, le piazze, i treni e le stazioni. Non e'' accaduto in nessun altro paese avanzato.



Eppure proprio queste tragedie hanno rivelato una nostra virtu'' civile. La capacita'' di rimboccarci le maniche, di scoprire la solidarieta'', di andare avanti, di risorgere.

Paesi come il Cile e la Grecia sono crollati per molto meno.

Quando fu trovato il corpo di Aldo Moro, quando vedemmo sui teleschermi la voragine di Capaci o quel palazzo crollato a meta'' in via Mariano d''Amelio a Palermo, in ognuna di queste occasioni sembrava che tutto fosse finito, sprofondato, che tutto fosse ormai irrimediabile.

Nel settembre del 1982, dopo l''assassinio del generale Dalla Chiesa, una mano scrisse un cartello che diceva "Qui finisce la speranza dei palermitani onesti".

Nei terribili mesi del 1944-1945 qualcuno, dopo aver visto i corpi delle partigiane e dei partigiani abbandonati nella neve, appesi ai lampioni, crocifissi ai pali telegrafici, penso'' forse che era inutile resistere.

Forse anche qui, a Piombino, di fronte alla forza di quella flotta tedesca, qualcuno penso'' che i nemici della liberta'' erano troppo forti, che bisognava arrendersi a quello che sembrava un destino immodificabile. E invece anche quella volta vinse la dignità.



E così è stato dopo ognuna delle tragedie che ci ha colpito; abbiamo sempre avuto la forza di riprenderci, di andare avanti, di ricostruire con tenacia, con la voglia di rialzare la testa, di riaffermare la nostra dignita'' e il nostro diritto alla liberta''.



La vicenda di Piombino è l’episodio più significativo di una coscienza e di un pensare la propria patria come un terreno comune di libertà e di costruzione del futuro, contro l’idea retorica ed oppressiva che il fascismo nei suoi venti anni aveva sparso a piene mani.

Il 10 settembre di Piombino assume un valore ed una rilevanza nazionali perché qui, prima che altrove, civili e militari combattono un’unica lotta per affermare valori e principi cardine della lotta di Liberazione che prenderà corpo nei mesi successivi: la libertà, la democrazia, il rifiuto della sopraffazione dell’uomo sull’uomo che era propria dell’idea fascista e nazista della società e che si concretò in Italia nelle leggi razziste contro gli ebrei, nel settembre 1938.

E’ la stessa consapevolezza che diviene resistenza e rifiuto di cedere le armi ai tedeschi da parte dei militari italiani a Corfù, a Lero, a Cefalonia e che si concluderà pochi giorni dopo i fatti di Piombino con il sacrificio di oltre 20.000 soldati uccisi in combattimento o fucilati dopo la cattura.



Sin dal settembre 1943 la lotta di Liberazione è questo: non solo guerra contro il nazifascismo, ma anche consapevolezza che occorre ricostruire una nazione, nelle sue strutture economiche ed industriali, ma anche nella sua dimensione civile, solidale e politica.

Perciò l’8 settembre del 1943 non è il giorno della morte della patria, come qualcuno ha scritto; è il giorno in cui nasce invece un’altra patria quella dei cittadini liberi, che si conquistano con il sangue e la lotta la propria libertà, quella i cui nasce la patria che sarà repubblicana e democratica.

Per la prima volta, dirà Natalia Ginzburg ricordando quei mesi di lotta, gli italiani sentirono il proprio Paese non come patria fascista, ma come la loro patria, consapevoli di poter finalmente costruire con le proprie mani il loro futuro civile e politico.



L’esperienza di Piombino è il segno di una consapevolezza che, confinata nella clandestinità dal fascismo e dall’occupazione nazista, bloccata da una durissima repressione, saprà persistere e potenziarsi nei mesi successivi che segneranno l’organizzazione e poi il dispiegamento della resistenza militare e civile al nazismo ed alla repubblica-fantoccio di Salò.

Qui già in ottobre si costituisce il gruppo di Poggio alla Marruca, il reclutamento degli operai prende corpo sin dal novembre ’43 e, nel marzo ’44, si svolgono importanti agitazioni operaie. Sono tutti elementi di un filo rosso che non si interrompe con l’occupazione nazista, ma lega insieme i fatti, le storie, le lotte, le tensioni ideali che hanno percorso questa città anche durante gli anni del fascismo, quelle che si sono sviluppate durante i 45 giorni, culminando nella battaglia del 10 settembre.

La Lotta di Liberazione fu espressione di posizioni ideologiche e politiche diverse, ma tutti coloro che vi parteciparono erano uniti dalla condivisione di un insieme di valori comuni fondamentali, non negoziabili: la lotta contro la discriminazione come forma di organizzazione della società, l’affermazione della libertà, dell’eguaglianza dei cittadini, della solidarietà, della democrazia.

Su questi valori comuni si costituì il nuovo patto di cittadinanza tra italiani che venne sancito con la scelta repubblicana e con la Costituzione.

Cosa nei decenni successivi ha impedito a questo patrimonio di valori comuni di tradursi in identità nazionale di tutti gli italiani? Perché fallì il tentativo – che subito dopo la guerra ci fu - di fare dei valori della Resistenza un elemento unificante, uno strumento di progresso e di superamento delle divisioni, il presupposto per la conquista ai valori democratici di tutti gli italiani?

La risposta è semplice e drammatica. Perchè c’è stata la guerra fredda internazionale ed interna, ci sono stati il bipolarismo, la rottura tra occidente e mondo sovietico, la lacerazione della società italiana. Perché ci sono stati omicidi politici e stragi politiche.

Oggi con la fine del bipolarismo internazionale e della guerra fredda interna possiamo riprendere questo cammino. Oggi ci sono le condizioni affinché la Lotta di Liberazione ed il suo patrimonio di valori divengano patrimonio comune di tutti gli italiani.

Su questi valori dobbiamo costruire un’identità civile comune, un ethos civile della Repubblica.

Alla base di questo ethos repubblicano e civile c’è il valore cardine della sovranità popolare.

La lotta di Liberazione, che fu innanzitutto impegno e partecipazione popolare, porta infatti nello stato repubblicano il concetto-chiave della sovranità popolare. Per la prima volta nella storia del nostro Paese e delle sue istituzioni viene affermato il principio democratico della sovranità che “appartiene al popolo”, ad ogni cittadino della Repubblica. Questo significa che nel nuovo patto di cittadinanza nato dalla lotta di Liberazione è il cittadino ad esercitare un potere decidente.

Oggi questo potere deve trovare nuove forme capaci di incidere più efficacemente sulle istituzioni e sulla politica.

L’espansione dei valori della Lotta di Liberazione non può alimentarsi di semplici affermazioni di principio, richiede l’assunzione di nuove responsabilità. Deve trovare forza trainante nei fatti, nella capacità delle istituzioni di ridurre sempre più la distanza che esiste tra la vita quotidiana dei cittadini e la realizzazione piena di quei valori.

Occorre costruire le condizioni perché si possano riprendere rapidamente in mano le riforme costituzionali che sono lo strumento per colmare questa distanza e per dare forza e concretezza alla visione espansiva della Resistenza.

Le riforme costituzionali servono per dare nuova vitalità al principio della sovranità popolare, per disegnarne forme più moderne di esercizio, nelle quali il cittadino abbia più potere, attraverso il federalismo, la scelta diretta delle coalizioni di Governo e l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Le forze politiche devono assumersi in Parlamento la responsabilità di dichiarare quale sia il futuro del processo riformatore. E se c’è chi non vuole un’Italia riformata e moderna, io non credo che ci sia, ma se c’è, lo dica chiaramente al Paese e dica, perchè è necessario essere chiari, quale è la sua idea del futuro dell’Italia senza riforme.



Disporre di buone istituzioni significa essere attrezzati per affrontare il futuro. E quando dico affrontare il futuro non indico una cosa astratta. Voglio dire: tra 10 anni quali sistemi di comunicazione avremo, quali aeroporti, quali università, quale formazione, quanta occupazione e quanta disoccupazione, quali servizi sociali saremo in grado di assicurare ai cittadini. Questo vuol dire affrontare il futuro. Mettersi al tavolo e individuare linee strategiche che consentano di programmare gli indirizzi della comunità. C’è la vita nazionale e c’è la vita dei singoli. I singoli devono sapere che il governo, di qualunque colore esso sia, si occupa del futuro del Paese e dei cittadini. Dobbiamo pensare in questi termini, anche perché gli altri Paesi pensano già da anni in questi termini. E noi non vogliamo restare indietro. Possiamo avere la forza e la determinazione per andare avanti.



In questi giorni le discussioni a proposito di un film sulla Resistenza presentato a Venezia hanno riproposto una questione centrale, e cioè il rapporto tra la memoria storica di quei fatti e chi non li ha vissuti direttamente.

Nei decenni successivi alla guerra, man mano che ci si allontanava dagli anni della Liberazione, si è spezzato il rapporto tra le giovani generazioni e l’immediato passato. E’ venuta a mancare la consapevolezza dei drammi e delle contraddizioni che l’Italia visse con il fascismo, con la fuga della monarchia, la Repubblica di Salò, con la guerra di Liberazione. E’ mancata l’occasione di far conoscere ai più giovani, chiamati a ricostruire il Paese, il valore e il prezzo dell’Italia liberata e della democrazia nascente.

Oggi occorre compiere uno sforzo in questa direzione per riannodare il filo spezzato tra le generazioni, togliendo quell’alone retorico che circonda in alcuni casi le riflessioni, gli studi su quei fatti, la loro memoria ufficiale e che imbalsama i fatti, togliendo loro vita e respiro. Si tratta di far sì che le generazioni che non hanno vissuto direttamente la Liberazione possano comprendere sino in fondo il suo significato. Perché il fascismo, come idea della supremazia e della sopraffazione di alcuni uomini su altri uomini, è un rischio permanente. Essi debbono poter comprendere il valore ed il senso dell’uguaglianza conquistata per tutti. Da che cosa ci siamo liberati e perché. Che cosa voleva dire vivere in un regime di arbitrio che negava il lavoro a chi non aveva in tasca la tessera del partito unico, che impediva a chi era ebreo di frequentare la scuola pubblica, dove la polizia poteva arrestare chiunque manifestasse un’idea diversa dalle posizioni del regime. Dobbiamo far sì che i valori e le idealità che allora spinsero i ragazzi e le ragazze, le donne e gli uomini a lottare contro tutto questo vengano colti nei contenuti, nella forza della loro tensione civile. E’ un compito ed un dovere civile che non può essere demandato alla sola lettura di un libro di scuola sulla storia del ''900. E'' un impegno che deve coinvolgere tutti coloro che si riconoscono nei valori della democrazia, della libertà e della Repubblica.



Lo scorso anno, dopo una visita a Ravensbruck, un campo di sterminio nazista per donne e bambini, ho scritto al Presidente del Consiglio chiedendogli di valutare l’opportunità di individuare alcuni stanziamenti che favoriscano le visite degli studenti ai campi di sterminio. Perchè vale più una di quelle visite che cento lezioni di storia. Il Presidente Prodi mi ha risposto positivamente interessando i Ministeri competenti.

Ora su indicazione del Ministro Berlinguer le visite ai lager nazisti sono state incluse nelle iniziative a sostegno dell''autonomia scolastica e ad esse è stato destinato uno specifico finanziamento. Ciò consentirà a molte studentesse e a molti studenti di conoscere da vicino contro che cosa si è combattuto e perché quello che è stato non deve mai più tornare.



Dobbiamo evitare il rischio che un atteggiamento meramente difensivo della Liberazione, che non sia espansivo, la imbalsami dentro un mito che non sposta e non conquista a questi valori civili nuove forze e nuove intelligenze per il futuro del Paese. Io credo che se lavoreremo non solo per celebrare i valori della Resistenza, ma anche per rinnovarli con le riforme, per radicarli nella coscienza delle generazioni più giovani, la memoria della lotta di Liberazione non sfiorerà il rischio del mero rito celebrativo.

Solo se agiremo in questa direzione potremo riannodare il filo della trasmissione dei valori tra le generazioni, potremo fare della politica un ponte sul quale ideali e memorie passano dai vecchi ai giovani e si rinnovano nel tempo.

In questo impegno non ci può essere alcuna coltre sulle responsabilità e sulle verità. Distinguere sempre chi combatteva per la libertà e chi era invece consapevolmente e con responsabilità dalla parte del filo spinato e dei vagoni piombati. Onorare chi è caduto per noi. Ricordare che l’Italia era invasa da un esercito nemico e che liberare il proprio paese era un dovere morale. Ricordare che se non ci fosse stata la Resistenza, ci sarebbe stato il pericolo della vittoria del nazifascismo con i suoi lager.

Ma lavorare anche per costruire un’Italia moderna e diversa, capace di mettere da parte le vecchie lacerazioni che non dicono nulla alle generazioni più giovani, fondata sulla verità e sulla capacità di costruire valori comunemente condivisi, in cui essere italiani venga prima dell’essere di sinistra, di destra o di centro.





La seconda metà di questo secolo è stata caratterizzata in Italia, ma anche in gran parte del mondo avanzato, da una straordinaria battaglia per i diritti.

E’ giunto il momento di integrare questa frontiera con un altro grande impegno ideale per i doveri e le responsabilità, altrimenti questo mondo rischia di suicidarsi per eccesso di squilibri.



Occorre dare un posto centrale ad obblighi e responsabilità per ognuno, in quanto individuo ed in quanto membro di entità collettive sociali, politiche ed economiche.

La vecchia modernità si fondava sui diritti. La nuova modernità si fonda sui doveri. Sui doveri nei confronti degli altri e nei confronti di sé stessi.

Tutti debbono avere delle opportunità, ma tutti debbono rispondere del loro operato.

E’ tramontata la strategia degli Stati pianificatori e nasce, anche in Italia, lo Stato incentivante, che non ha più la disastrosa ambizione di programmare la vita dei cittadini, ma solo quella, di straordinaria potata, di creare continue occasioni per tutti e perché tutti possano costruirsi il proprio futuro in libertà e indipendenza.

Lo Stato programmatore chiedeva fedeltà non chiedeva responsabilità. Lo Stato incentivante non chiede fedeltà, esige senso del dovere e della responsabilità.



Oggi c’è il rischio che i valori vengano riconosciuti solo a chi riesce a vestirli di forza economica e vengano invece negati a chi questa forza economica non ce l’ha.



Per combattere contro questo rischio l’uomo di questa fine secolo deve solo tornare ai valori della persona e della ragione, guardando al futuro e costruendone le condizioni, concependo l’impegno politico e quello sociale come trasmissione di valori, costruire la pace non come schermo astratto dei propri sogni, ma come dimensione dello sviluppo civile del nostro mondo. La nostra condizione umana è legata al rispetto dei diritti delle generazioni che verranno, al rispetto del principio di responsabilità che è la coerenza tra doveri e comportamenti, al rispetto delle differenze non solo perché sono ricchezza ma anche perché sono manifestazioni della vita e del pensiero degli altri uomini.

La fatica della nostra condizione umana è legata a questo impegno che ci lega insieme, se siamo persone di buona volontà, indipendentemente dalle nostre specifiche idee religiose, sociali o politiche. E’ una fatica appunto. Ma nell’Ecclesiaste è scritto che la luce è quello che avanza dal buio e in altro luogo della Bibbia è scritto che all’inizio c’era il caos. Il nostro destino di uomini è lottare contro il buio e contro il caos, sapendo che si può anche perdere.

Solo la consapevolezza profonda di questi doveri ed il battersi per essi puo'' dare alla nostra generazione il diritto alla riconoscenza delle generazioni future. E '' lo stesso diritto che hanno acquisito quei ragazzi, quelle ragazze, quelle donne e quegli uomini che oggi ricordiamo con rispetto e con orgoglio.