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CONSIDERAZIONI INTEGRATIVE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO RICCARDO PEDRIZZI SUL CINQUANTENNALE DELL'INSURREZIONE D'UNGHERIA
RICCARDO PEDRIZZI. Gli anniversari non sono tutti uguali e neanche uguali sono i modi con cui vengono celebrati. Ci sono quelli non dichiarati, non formalizzati, che la coscienza civile ha già fatto propri e la politica non istituzionalizza; ci sono però anche quelli che hanno perso ormai del tutto la loro valenza simbolica e si trascinano solo come rituale, privo di qualunque contenuto.
Sono quelli «formalizzati» ma snobbati, o perché vissuti come un peso o perché paradossalmente troppo impegnativi.
La vita pubblica italiana conosce esempi di tutte le categorie descritte e lasciamo ad ognuno il gioco di incasellarli nelle categorie sopra menzionate; noi siamo convinti che la celebrazione, il rito della memoria, se affidato alle regole del politicamente corretto, diventa un inutile e vuoto esercizio retorico mentre il suo valore risiede proprio nella possibilità di saldare nella coscienza della comunità il giudizio storico-politico con quello etico-morale, senza assoluzioni o sconti per nessuno.
Siamo davvero curiosi di scoprire, allora, come si collocherà quello che stiamo vivendo del cinquantesimo anniversario della rivolta d'Ungheria, di come lo sta vivendo quel paese ma soprattutto di come lo stanno vivendo la società italiana, quella pubblica, i partiti, le istituzioni e soprattutto la nostra coscienza civile.
Perché è anniversario di quelli scomodi, duri da digerire troppe essendo le implicazioni che derivano da una sua coerente lettura e soprattutto troppo scomode e politicamente assai poche ortodosse le conseguenze che il dibattito pubblico dovrebbe trarne.
Abbiamo il timore che, proprio in questa occasione, il ricordo possa assumere i contorni di una recita ipocrita, di un puro e semplice ossequio allo spirito conformista del nostro tempo, in un trionfo di quel politicamente corretto che, come ricordavamo, paradossalmente contribuisce ad assopire la memoria collettiva, piuttosto che risvegliarla.
La destra politica e culturale è la sola ad avere da questo punto di vista tutte le carte in regola per offrire il proprio contributo al rito della memoria, perché coerente con la sua memoria storica e con la sua identità. Proprio a quel periodo, infatti, risalgono le sue prime - e grandi - prove di mobilitazione collettiva e di piazza.
È sulla miscela Trieste italiana ed Ungheria libera che la destra italiana sperimenta nel dopoguerra la sua capacità di mobilitazione. Coerente con se stessa perché per prima traduce in protesta di piazza ed in mobilitazione una lettura critica non solo, per quanto ovvio, della dinamica mostruosa del comunismo internazionale ma anche del primo sinistro scricchiolio della buona coscienza occidentale che in nome della «realpolitik» si costringe ad ignorare il grido di dolore dell'Est europeo.
Se è vero che il rispetto della memoria storica si gioca in primo luogo sulla coerenza di un disegno interpretativo, sul nonPag. 97dover ripensare un giudizio storico in termini assoluti, allora questo merito la destra può rivendicarlo. Perché per larga parte di quella buona coscienza europea, il 1956 è davvero il tempo della fine dell'innocenza.
È la fine dell'innocenza per l'universo comunista, in primo luogo e soprattutto. Quel mondo aveva vissuto il dopoguerra in larga parte immerso nel mito della rivoluzione compiuta e nel sogno della rivoluzione da compiere. Eppure la realtà dei paesi europei schiacciati dall'Armata rossa era già ben visibile. Ad una mostruosa tirannia ne era succeduta un'altra, erano cambiati i guardiani, ma i campi erano rimasti gli stessi.
A tutti i gesti di riparazione postuma verso i martiri della rivoluzione del 1956, compreso quello compiuto in Ungheria dal Presidente Napolitano, va riconosciuto il valore alto e forte di una riconciliazione con la verità storica, ma questo valore non può che essere fondato sulla seria, netta ed inequivocabile presa di coscienza di un'incontrovertibile verità.
Ovvero la consapevolezza che allora erano loro in errore, erano loro i complici dei massacratori e non gli altri. Diciamo questo perché oggi, e non solo da chi ancora esprime nell'orizzonte del comunismo la propria idealità, sentiamo troppo spesso far ricorso a ragionamenti che pongono nella guerra fredda, nella esigenza di schierarsi comunque contro il nemico capitalista la sola e vera ragione dell'adesione entusiasta di larga e prevalente parte di quel mondo non solo alla repressione ma, prima ancora, alla costruzione di quei regimi totalitari. Come se libertà e dittatura fossero comparabili e come se calcoli basati sul realismo politico oppure fondati sull'utopia di costruire un comunismo diverso potessero giustificare il volgere lo sguardo dalla tragedia dell'Est europeo. Ancora una volta di fronte alle dure repliche della storia quel mondo sente l'esigenza di sottrarsi alla consapevolezza dell'errore in nome delle proprie buone intenzioni.
La fine di quell'innocenza trascina con sé il credere che il comunismo potesse esprimere al suo interno una capacità riformatrice che gli avrebbe permesso di condurre ad una transizione democratica, con l'innocenza di credere che i partiti comunisti europei, in nome di una supposta via nazionale al comunismo, avrebbero davvero potuto far accettare alla casa madre sovietica esperimenti riformatori o fuori linea.
È vero che questo sogno ha bruciato una generazione di comunisti ma è anche vero che pochi ne hanno tratto la sola ed unica conseguenza sul piano delle scelte politiche, rappresentata dalla fuoriuscita prima e dalla denuncia di quell'orrore poi. A quella parte del mondo comunista che ha saputo ripartire da quelle tragedie è giusto guardare con il rispetto dovuto a chi di fronte alla crude repliche della storia ha preferito non abdicare alle ragioni della coscienza individuale piuttosto che obbedire alla coscienza collettiva imposta dal partito.
Come però è altrettanto giusto ricordare l'ignavia dei più, di quelli che compresero e si adeguarono, di quelli che su una scommessa di riformabilità del comunismo hanno costruito una rendita di posizione e di credibilità politica ed ancora oggi, di fronte agli ultimi detriti della guerra fredda (il comunismo cubano valga come esempio per tutti) non si schierano con le ragioni della libertà ma con quelle dei tiranni.
Ma il 1956 non rappresenta solo la fine dell'utopia di un comunismo diverso, rappresenta anche la dimostrazione che con la tirannia non si può mai pensare di venire a patti e che i nodi, le contraddizioni di un comportamento ambiguo e di tentennamento, prima o poi vengono tutti al pettine.
L'atteggiamento dell'Occidente, delle sue classi politiche ed intellettuali fu davvero coerente con i suoi valori fondativi? Davvero l'Europa fece tutto il possibile per evitare la tragedia di quel popolo? Poteva la comunità internazionale esprimere in forme più dure la sua condanna? Esiste, in ultima analisi, una macchia oscura anche nella coscienza occidentale?Pag. 98
Sono domande che esigono risposte anche da parte di chi non ha mai dovuto dubitare di essere stato dalla parte giusta perché una memoria collettiva ricompone le lacerazioni solo quando è in grado di leggere nella propria coscienza quello che scorge nella coscienza altrui.
Oggi possiamo dire che se c'è un lascito davvero importante che il Novecento ha lasciato alle nostre coscienze individuali e collettive è costituito proprio dalla consapevolezza che nella difesa della libertà non possiamo mai abbassare la guardia, non possiamo mai considerare la sua difesa come una battaglia da non combattere in nome di chissà quale convenienza.
Allora se questa va considerata come una, seppure elementare, verità anche per l'Occidente quella fu vera tragedia, politica e culturale.
Fu tragedia politica perché l'Europa seppure non ancora soggetto in grado di esprimere una politica autonoma, ancora alle prese con la ricostruzione post-bellica e con i sogni «imperiali» di qualche suo Stato, non fu mai in grado di far sentire e pesare la propria voce e la propria influenza, anche materiale, nel sostegno agli insorti.
Sono stati ripubblicati in questi giorni di memoria e di rievocazione, gli appelli che la radio libera ungherese non ha mai cessato di lanciare ai fratelli europei, nei giorni della speranza e nei giorni della repressione.
Quelle voci condannano ancora anche quell'Occidente che non volle reagire, che in nome della propria sicurezza lasciò che quella tragedia si compisse. Complici se non materiali quantomeno morali di quella tragedia ce ne furono anche nel campo della libertà e oggi non potremmo rendere omaggio ai martiri se non partissimo da questa consapevolezza.
Quell'Occidente lasciò soli quei popoli, allora e quando su di essi calò la normalizzazione comunista, lasciando alla sola Chiesa il compito ed il ruolo di testimonianza di libertà. È giusto ricordare le migliaia di morti nelle strade ma è anche doveroso non spezzare il filo della memoria omettendo di ricordare i caduti silenziosi degli anni che seguirono, quelli che pagarono senza clamore per continuare a sperare o anche solo per non smettere di credere.
Fu tragedia culturale perché è da allora che è nata, oltre che la cattiva coscienza, anche quella odiosa forma di debolezza culturale, quel complesso d'inferiorità dell'Occidente che rende più difficile misurarsi con i nemici della libertà se dubbiosi, quando non addirittura privati della consapevolezza della propria identità. Oggi misuriamo quanto sia difficile il confronto con chi ha costruito in modo forte, orgoglioso, e non necessariamente in forma polemica, la propria identità culturale e religiosa - come il mondo islamico - perché siamo afflitti ancora da quel male morale che è la scarsa consapevolezza di sé, delle proprie ragioni e dei propri fondamenti.
Questa idea che solo un'identità debole dal punto di vista culturale, solo la scarsa consapevolezza dei propri fondamenti possa permettere di fronteggiare il tuo nemico irriducibile data da allora, è l'idea che l'identità debole di un'Europa che sembrava quasi dover scontare il peccato originale di essere stata culla dei totalitarismi, poteva solo consentire alle sue classi dirigenti, comprese quelle dei paesi che pure erano stati culla della libertà, di fare da cuscinetto tra i due blocchi. Un'idea debole di sé portava l'Europa non solo a teorizzare, ma addirittura ad organizzare la propria subalternità nel suo ridursi a mera camera di compensazione tra i due blocchi.
Oggi sappiamo che solo la consapevolezza di quella eredità consente di riconoscere i nemici della libertà e permette di fronteggiarli, e può consentirci di essere speranza per quei tanti, troppi popoli, ancora sotto il giogo delle dittature, di qualunque segno e colore esse siano. Se la storia del Novecento si è tragicamente consumata anche nelle storie dei complici dei nemici della libertà e nelle storie di quella zona d'ombra di chi non volle scegliere, oggi possiamo scegliere. Di stare sempre e comunque dalla parte dei popoli e della libertà.