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Svolgimento di interpellanze urgenti.
(Valutazioni del Governo sulla cosiddetta «circolare Maddalena» - n. 2-00438)
PRESIDENTE. L'onorevole Brigandì ha facoltà di illustrare la sua interpellanza n. 2-00438 (vedi l'allegato A - Interpellanze urgenti sezione 2).
MATTEO BRIGANDÌ. Signor Presidente, signor sottosegretario Li Gotti, l'interpellanza in esame non vuole essere in odio al procuratore della Repubblica di Torino; anzi, prima di illustrarla, intendo esprimere i sensi della mia stima nei confronti di quel magistrato, che oltre ad essere molto preparato, assolve al proprio dovere tenendosi lontano sia dalla ricerca di un'esposizione mediatica, sia dall'inserimento del proprio lavoro in una logica politica. Ciò gli fa ancora più vanto avendo a capo della Procura generale un magistrato schierato politicamente che, nelle relazioni di apertura dell'anno giudiziario, invece di occuparsi di giurisdizione si occupa dei problemi della Fiat.
Intendo dire che la «circolare Maddalena » è un atto astrattamente condivisibile. Forse sarebbe stato meglio non scriverla ma attuarla; in ogni caso essa ha formalizzato la richiesta dei sostituti procuratori nel senso della inutilità di proseguire le indagini per i reati rientranti nell'indulto. Tali richieste, ancorché giuridicamente errate, perché l'accertamento del reato non è volto solamente ai fini dell'applicazione della pena, ma si estende anche ad altri fini, sia civilistici con le pronunce a favore della parte lesa, sia penalistici ai fini ad esempio della recidiva, dell'abitualità, della professionalità, e via dicendo, hanno introdotto, se ve ne fosse bisogno, una problematica molto seria relativa all'assetto costituzionale della magistratura. Le camere penali hanno colto il problema e sono insorte.
Analizziamo quindi la questione utilizzando la «circolare Maddalena» come mero spunto. La questione nasce da lontano. Nel periodo del fascismo tutte le istituzioni dello Stato erano in buona parte asservite al regime. Unica eccezione veniva dalla magistratura, che era un corpo, per così dire, a sé stante. Il fascismo non riuscì a scalfirne il senso delle istituzioni e ciò non perché i magistrati non fossero uomini come tutti gli altri, ma perché la magistratura aveva, per così dire, una governabilità monolitica che le permise di opporsi al fascismo, al punto che il fascismo istituì i tribunali speciali, vale a dire i tribunali costituiti dopo la commissione del reato con l'evidente fine di una conduzione del processo addomesticata; la loro abolizione fu uno dei primi atti del costituente dopo il fascismo. Si pensi che, quando il fascismo intervenne sui tribunali con la forza fisica e le minaccie, vi furono le cosiddette «sentenze suicide» le quali pronunciavano come imponeva il regime ma motivavano in modo contrario.Pag. 42
Tutto ciò non era casuale, ma derivava dall'assetto interno dell'ordine giudiziario. Il pretore era assimilabile all'odierno giudice di pace - solo che adesso vengono reclutati gli ultracinquantenni - e ai giudici onorari. L'uditore giudiziario oggi verrebbe definito un precario perché, se non confermato con un ulteriore concorso, veniva estromesso dalla magistratura (il concorso era quello di aggiunto giudiziario). I successivi passaggi - consigliere di corte di appello e consigliere di Cassazione - avvenivano per concorsi interni per titoli, ove le sentenze costituivano i titoli.
Appare quindi evidente che nella magistratura di allora non vi poteva essere spazio per chi intendeva utilizzare l'istituzione come trampolino di lancio per una carriera diversa. Non c'è stato nemmeno un caso di un magistrato che abbia avuto come primo incarico politico il posto di ministro dei lavori pubblici, menando a vanto i morti che aveva causato facendo il giudice, che però il clamore mediatico aveva esaltato. In buona sostanza, in magistratura vi era un rigido autogoverno che si trasformava in certezza della giurisdizione e certezza del diritto. Era impensabile valutare le possibilità di vittoria di una causa a seconda dell'orientamento politico del giudice.
Quando il fascismo cadde sembrò quasi naturale riproporre stima e fiducia nei magistrati. Si pianificò la carriera senza intoppi; oggi tutti i magistrati sono uguali a prescindere dalla loro capacità e dalla loro produzione lavorativa.
Si ripose in loro una attività che non era loro, quale quella investigativa. In tutti i paesi civili è il pubblico ministero, essendo giurista, a coordinare dal punto di vista giuridico le indagini. Fa per così dire l'avvocato per gli inquirenti d'accusa. In Italia, invece, è egli stesso l'accusa. E, proprio perché è l'accusa, ha cessato di essere un pubblico ministero, cioè colui che agisce per lo Stato nell'interesse della giustizia e diventa colui che traduce solo l'interesse punitivo dello Stato.
Il costituente del 1948 doveva scegliere se assettare la magistratura come potere o come ordine. Per i motivi di cui sopra, scelse questa seconda via, rese indipendente la magistratura - e quindi i giudici - da ogni potere, imbrigliandola nei principi del dovere. Il giudice è sottoposto alla legge, il giudice deve rendere giurisdizione, il pubblico ministero è obbligato a esercitare l'azione penale.
Il principio dell'esercizio di un potere democratico interveniva non immediatamente, ma mediatamente. Il popolo parlava attraverso il legislatore e, sottoponendo il giudice alla legge (solo così il giudice è legittimato in democrazia), in sostanza lo si sottoponeva al popolo.
Una concezione diversa, cioè quella di democrazia diretta in magistratura, avrebbe portato una sottoposizione al popolo e non alla legge del giudice, con l'ottenimento di una giustizia di maggioranza e, in quanto tale, non uguale per tutti.
La strada più seria sembrò quella di preferire il primato della legge. Ma si sa, gli uomini sono sempre uomini, e con l'andare del tempo i poteri, gli uomini e le istituzioni dello Stato impararono - per così dire - a «barare» sulla Costituzione, cercando di farsi sempre più largo. Questo non avvenne solo per la magistratura; si pensi alla Corte costituzionale che, pensata per vagliare il requisito di costituzionalità delle norme, finisce, con le sentenze interpretative di rigetto, per produrre leggi. La dimostrazione è data dal fatto che, se compriamo un codice, e leggiamo in commento le sentenze della Corte, ci rendiamo conto che sono vere e proprie novelle. La magistratura, anch'essa, cercò di allargare il proprio campo operativo, trasformò il Consiglio Superiore della magistratura in un «parlamentino» (offenderei l'intelligenza di chi ascolta, nel giustapporre le correnti dei giudici ai partiti che siedono in quest'aula); svincolò il singolo magistrato da ogni potere gerarchico, la qual cosa aveva tenuto uniti i giudici di fronte al fascismo, tant'è che oggi è normale il conflitto tra il procuratore della Repubblica e i suoi sostituti; inventò la teoria della supplenza, cioè quella di supplire al legislatore in caso di assenza, cioè di vuoto normativo. Per la verità i più accortiPag. 43usarono a giustificazione di questa teoria, il criterio dell'interpretazione analogica che, in tanto in quanto ammesso dalla dottrina, non si ritiene ancora come possibilità di fare norma.
Fin qui nulla sarebbe, se non vi fossero una serie di fenomeni preoccupanti. Il primo è la politicizzazione della magistratura, cioè la partecipazione al dibattito politico dei magistrati. Ricordo che, altro sottosegretario in una mia precedente interrogazione, disse di non procedere nei confronti di Caselli, che aveva scritto affermazioni del genere, per la prescrizione dell'azione disciplinare, con presa di posizione politica e ciò non solo con esternazioni, ma con linee di pronuncia giurisprudenziale!
Si pensi al dibattito sull'articolo 18 dello statuto dei lavoratori della scorsa legislatura, scaturito da un'interpretazione giurisprudenziale molto distante dai lavori preparatori, che ha portato di fatto l'aumento del precariato. Vi è anche un fenomeno interno che è dato dal fatto che il giudice non asservito alla politica partitica è di fatto asservito ai «partitini» del Consiglio superiore della magistratura. Avevo chiesto al suo collega, in altra occasione, di indicarmi il nome di una dirigenza significativa che non fosse legata alle correnti, che si spartiscono i posti in base a logiche non professionali, ma spesso - anzi sempre - in base a logiche «cencelliane».
Come si vede, il fenomeno è di ampia portata ed esige un'ampia risposta che trascende dal caso di specie, caso di specie che è sintomo inequivocabile che quanto detto fin qui è corretto. In sostanza, si chiede che il Governo indichi quale magistratura vuole, se vuole la magistratura intesa come dovere o come potere e cosa intenda fare per ottenere ciò.
Si chiede, infine, come il Governo ritenga di imbrigliare una magistratura che anche oggi si atteggia a potere, ove ritenga che la stessa debba essere costituzionalmente inserita nell'ambito dell'ordine, ovvero come pensi di restituire alla magistratura un potere che deriva dal popolo, ma che ovviamente presenta anche le conseguenti responsabilità di carattere politico.
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per la giustizia, Luigi Li Gotti, ha facoltà di rispondere.
LUIGI LI GOTTI, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, si condivide innanzitutto l'incipit dell'interpellanza, perché anche il ministro per la giustizia ha stima del procuratore della Repubblica di Torino, il dottor Maddalena.
Ben diverso e più complesso è il discorso sul ruolo dell'ordine giudiziario nell'assetto costituzionale della Repubblica, che in questa sede non può essere adeguatamente svolto in tutte le sue implicazioni. Pertanto, la risposta agli onorevoli interpellanti sarà circoscritta allo specifico tema della circolare emessa dal procuratore della Repubblica di Torino, tema che ricomprende comunque uno degli aspetti dell'attività propria dei capi degli uffici giudiziari, precisamente l'organizzazione della giurisdizione.
I dirigenti degli uffici, inquirenti e giudicanti, possono e devono, nell'ambito delle competenze in tema di amministrazione della giurisdizione, adottare iniziative e provvedimenti - ciò è stato affermato più volte dal Consiglio superiore della magistratura con risoluzioni del 2000, del 2001, del 2003 e, da ultimo, con la risoluzione 9 novembre 2006 - idonei ad elaborare soluzioni organizzative dirette ad assicurare la più sollecita definizione dei processi pendenti ed altresì intraprendere iniziative volte a razionalizzare la trattazione degli affari e l'impiego delle risorse disponibili. Anzi, lo stesso Consiglio superiore della magistratura, in attuazione dell'articolo 227 del decreto legislativo n. 51 del 1998 sul giudice unico di primo grado, ha dettato criteri di priorità e prospettato molteplici soluzioni operative volte alla gestione dell'arretrato esistente presso gli uffici giudiziari.
A seguito della legge 31 luglio 2006, n. 241, recante «Concessione di indulto» è stata prospettata da più parti la possibilitàPag. 44di differenziare, rispetto ad altri procedimenti, la tempistica dei processi penali destinati ad esaurirsi senza la concreta inflizione di una pena detentiva per effetto dell'indulto. Si è così riproposto il problema, in un quadro operativo gravato da notevoli ritardi nell'esercizio della giurisdizione, di dare un corso prioritario a processi il cui esito risponda concretamente al principio di effettività.
In questa prospettiva, che trova fondamento nei principi di buon andamento dell'amministrazione e quindi del servizio giudiziario, come sanciti dagli articoli 97 e 111 della Costituzione, il ministro Mastella, con nota del 13 settembre 2006, ha proposto al Consiglio superiore della magistratura e ai magistrati dirigenti degli uffici la possibilità di adottare la stessa ratio del sistema indicata dal citato articolo 227, così da venire incontro alle esigenze esposte.
Con tale nota, il ministro ha inteso stimolare la capacità e la volontà dei dirigenti degli uffici di non rassegnarsi ad una giurisdizione che produce disservizio, assumendosi viceversa la responsabilità - come più volte auspicato dal Consiglio superiore della magistratura - di formulare progetti di organizzazione che, sulla base dell'elevato numero degli affari da trattare e preso atto delle risorse umane e materiali disponibili, esplicitino le scelte di intervento adottate per pervenire a risultati possibili ed apprezzabili in rapporto all'effettività. Infatti, quando la giustizia penale ha tempi rapidi e gli uffici sono privi di arretrato, la trattazione dei processi per reati condonati mantiene una consistente utilità sociale: non solo si addiviene all'accertamento dei fatti e delle relative responsabilità, ma restano fermi gli ulteriori effetti penali della condanna, nonché l'eventuale risarcimento per la persona offesa e la possibilità di revocare l'indulto nei casi previsti dalla legge. Quando invece la giustizia penale è lenta e gli uffici hanno arretrati rilevanti, la trattazione di tutti i processi per reati interamente condonati, per pene interamente coperte dall'indulto, finisce di fatto per allontanare, anche in modo significativo, la definizione di quelli nei quali la pena eventualmente inflitta è destinata ad essere effettivamente scontata, con grave danno per la collettività.
Ovviamente, tutte le iniziative adottate dai capi degli uffici al fine di razionalizzare la trattazione degli affari non possono del tutto prescindere dal principio di obbligatorietà dell'azione penale, cioè non possono operare in via di principio una selezione finalistica dei procedimenti al di fuori di situazioni particolari come quella di cui si parla, per destinarne alcuni alla non trattazione.
Si aggiunga che l'iniziativa del dottor Maddalena non blocca definitivamente i procedimenti per pene suscettibili di indulto, ma viceversa consiglia di privilegiare la più sollecita strada della richiesta di archiviazione, per quanto possibile.
Peraltro, la preoccupazione che l'ufficio di procura possa, attraverso propri orientamenti organizzativi, come la circolare in esame, condizionare l'attività giurisdizionale in senso stretto, non è configurabile, giacché le iniziative che i pubblici ministeri possono adottare integrano poteri di stimolo e di proposta, non certo provvedimenti definitivi. Infatti, sia la richiesta di rinvio a giudizio, sia la richiesta di archiviazione sono rivolte al giudice proprio perché il legislatore ha voluto riservare al giudice stesso, cioè ad un organo terzo con le garanzie di indipendenza e di imparzialità proprie della giurisdizione, il potere di accertare se ricorrano elementi sufficienti per sottoporre l'indiziato al giudizio affinché l'eventuale richiesta di archiviazione non rappresenti un'elusione dell'obbligo di esercitare l'azione penale, benché sia applicabile il beneficio dell'indulto. Perciò, anche quando la richiesta del pubblico ministero non si traduce nell'inizio dell'azione penale, ma in una richiesta di archiviazione, l'esito del procedimento passa comunque attraverso il vaglio giurisdizionale; e ben può il giudice delle indagini preliminari, se in dissenso con la richiesta dell'organo requirente, assumere distinte determinazioni, con il potere-doverePag. 45di ordinare il promovimento dell'azione penale, attraverso la cosiddetta imputazione coatta.
In conclusione, il dicastero della giustizia ritiene che la «circolare Maddalena» rientri, in generale, nei poteri di organizzazione propri del capo dell'ufficio, salvi i limiti che il Consiglio superiore, quale organo di governo della magistratura, e quindi anche di controllo sull'esercizio dei poteri di organizzazione, riterrà di suggerire. Infatti, il Consiglio ha affidato l'esame della circolare alla commissione che si occupa delle tabelle organizzative degli uffici, affinché l'orientamento del procuratore Maddalena possa essere valutato in tutte le sue implicazioni nel quadro generale dell'ordinamento.
PRESIDENTE. L'onorevole Brigandì ha facoltà di replicare.
MATTEO BRIGANDÌ. Signor Presidente, sono totalmente insoddisfatto della risposta, per un motivo estremamente semplice: la risposta non vi è stata. A parte l'incipit che ci accomuna, per il resto non ci accomuna nulla. Di fronte alle mie affermazioni il Governo ha dimostrato che è «andato a scuola». Ci ha spiegato alcune norme di procedura penale, ma null'altro.
A nulla vale dire che è un problema di carattere costituzionale. Vi è un problema di carattere costituzionale se, effettivamente, il Governo ritiene che la magistratura debba essere relegata al ruolo di potere (e, quindi, derivando il potere dal popolo, la magistratura sarebbe sottoposta al vaglio del popolo stesso), ma se non si ritiene che sia così - e non mi pare di aver ascoltato, dalle parole del sottosegretario, che questa sia l'opinione del Governo - dobbiamo pensare che il Governo stesso ritenga che l'assetto costituzionale del 1948 sia corretto. Se così è, significa che la magistratura è un ordine giudiziario, non un potere. Non io, che sono notoriamente un «ribelle», ma le camere penali, ossia istituzioni abbastanza assennate, sono insorte, perché questo tipo di ordinamento finalmente viene allo scoperto. Esso è inscritto in una logica - che ho spiegato - che viene allo scoperto quando si afferma, sostanzialmente, che il potere di giurisdizione non spetta più in maniera autonoma alla Camera ed, in maniera vincolante, ai magistrati. I magistrati hanno ormai un potere di giurisdizione che non è vincolato.
Lei, signor sottosegretario ha detto che non possono del tutto prescindere dall'obbligo dell'esercizio dell'azione penale. Signor sottosegretario, la Costituzione è chiara: non dice del tutto, in parte, o per tre quarti. Uno dei cardini per cui la giurisdizione non è sottoposta al popolo è dato da una serie di principi. Uno di questi principi, forse quello più importante, è l'obbligatorietà dell'azione penale, che non può essere sottoposta, in tutto o in parte, al vaglio del magistrato.
O la magistratura si atteggia a potere - e questo, mi sembra di capire, lo dobbiamo escludere - o non si atteggia a potere. Se lo fa, dobbiamo rilevare che il Governo ha il potere-dovere di far sì che la magistratura si allontani dalla politica. I magistrati sono indipendenti non solo perché i politici non devono interferire nella loro attività, ma anche per il contrario: la magistratura dunque non deve interferire nell'attività della politica. Rispetto ad una situazione di politica interna il magistrato deve essere indipendente e deve percorrere la sua carriera, arrivando ai posti di dirigenza, perché rende efficiente il servizio della giustizia ed è bravo, e non perché è iscritto a Magistratura democratica o a qualsiasi altra corrente che si spartisce i posti. Questo è il punto.
Il Governo non si può mettere le fette di salame davanti agli occhi e dire di non aver visto. Non può venire qui ed elencare tutta una serie di norme che tutti abbiamo studiato (io un po' meno bene) ai primi anni di giurisprudenza.
Si tratta di un problema politico, e di questo stiamo parlando. Questa è la Camera dei deputati, dove si parla di politica e per questo ponevo una precisa domanda al Governo: ritiene che la magistratura sia politicizzata o no? Questo è l'argomentoPag. 46principe, la punta dell'iceberg. Se ritiene di sì, quali provvedimenti ritiene di adottare, anche d'urgenza?
Signor sottosegretario, le ricordo che da pochissimo tempo avete elaborato un progetto di riforma dell'ordinamento giudiziario - che non ho ancora avuto la fortuna di vedere perché lo avete consegnato alla stampa prima di presentarlo alla Camera - perché, ovviamente, l'odiato ministro Castelli doveva essere «riformato».
Al vostro interno vi siete posti questo problema? Evidentemente no. Il risultato è quello riferito dal suo ministro durante la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, ovvero che su cinque persone che entrano nelle aule di giustizia, quattro escono scontente.