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Discussione del disegno di legge: Concessione di un contributo finanziario alla Delegazione generale palestinese per il funzionamento della sede in Italia (A.C. 2549) (ore 16,20).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Concessione di un contributo finanziario alla Delegazione generale palestinese per il funzionamento della sede in Italia.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
(Discussione sulle linee generali - A.C. 2549)
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare di Forza Italia ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la III Commissione (Affari esteri) si intende autorizzata a riferire oralmente.
La relatrice, vicepresidente della Commissione affari esteri, onorevole De Zulueta, ha facoltà di svolgere la relazione.
TANA DE ZULUETA, Relatore. Signor Presidente, il disegno di legge che discutiamo oggi tratta della concessione di un contributo per finanziare la Delegazione generale palestinese e, specificatamente, per il funzionamento della sede dell'ufficio dell'Autorità nazionale palestinese in Italia. Tale finanziamento è, di fatto, il rinnovo di un contributo già rinnovato per il triennio 2002-2004, per un valore di 309.875 euro annui.
Ricordo che la delegazione palestinese opera a Roma da molti anni (dal 1974). L'Italia, inoltre, è stato uno dei primi Paesi, se non il primo, a riconoscere a tale delegazione lo status diplomatico, che è intervenuto nel 1989. Ricordo anche che tale finanziamento è stato istituito nelPag. 171996 e rinnovato nella scorsa legislatura. Ciò testimonia una continuità nella politica estera italiana, che vede nell'Autorità nazionale palestinese (e nella possibilità per l'Autorità stessa di agire anche attraverso proprie rappresentanze all'estero) un importante attore nel necessario, ma purtroppo non molto avanzato, processo di pace.
Ricordo che vi dovrebbe essere a novembre una conferenza di pace promossa dal Governo statunitense nello Stato del Maryland e che saranno presenti - c'è da augurarselo - tutti gli attori coinvolti nello scenario. Probabilmente parteciperà anche la Siria, anche se oggi stesso il Presidente Bashar al-Assad ha dichiarato che potrebbe partecipare solo a condizione di poter parlare anche degli aspetti del conflitto riguardanti il proprio Paese, non solo come osservatore.
Spero che con un voto unanime dell'Assemblea potremo rilanciare un protagonismo italiano, che è storicamente confermato in tale processo di pace. Siamo direttamente coinvolti nello scenario del conflitto con la presenza delle nostre truppe sulla frontiera tra il Libano e Israele. Inoltre, la guida della missione delle Nazioni Unite UNIFIL è italiana. La proposta stessa di rafforzare UNIFIL fu una proposta italiana e credo sia importante ritrovare la capacità di essere propositori di soluzioni sempre più avanzate.
La mia opinione è che un processo di pace che continui ad ignorare una parte della popolazione palestinese e la sua rappresentanza - mi riferisco a quella di Hamas attualmente accerchiata nella Striscia di Gaza - non può fare grandi passi avanti. Pertanto, condivido e spero che troverà altri sostenitori internazionali l'appello di intellettuali e scrittori israeliani che, di recente, hanno suggerito al proprio Governo di avviare un negoziato, con il fine di assicurare un cessate il fuoco tra Hamas e il Governo israeliano.
Il Governo di Israele, attraverso la persona del suo Ministro della difesa Ehud Barak, purtroppo ha dato segnali molto diversi, minacciando un'ulteriore incursione militare nella Striscia di Gaza. Credo che in un momento così difficile sarebbe saggio, piuttosto, ascoltare le voci autorevoli a sostegno di un percorso esclusivamente negoziale, un percorso di pace, quali sono quelle degli scrittori più importanti, Amos Oz, David Grossman e Abraham B. Yehoshua. Faccio riferimento al loro appello per la pace, nella speranza che anche dall'Italia possa ripartire un'iniziativa costruttiva in tal senso.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
PATRIZIA SENTINELLI, Viceministro degli affari esteri. Mi riservo di intervenire in sede di replica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole D'Elia. Ne ha facoltà.
SERGIO D'ELIA. Signor Presidente, come ha ricordato la collega relatrice Tana De Zulueta, con il provvedimento in esame rinnoviamo per il triennio 2007-2009 un contributo che è sempre stato concesso a partire dal 1996 da tutti i Governi che si sono succeduti in questi anni per il funzionamento della Delegazione generale palestinese nel nostro Paese.
Tale contributo - occorre ricordarlo - forfettario e senza obbligo di rendicontazione, origina, come scritto nella relazione, dalla necessità di sostenere il Presidente Abu Mazen e di rafforzare l'apparato statale palestinese da cui direttamente dipendono le delegazioni palestinesi all'estero.
Preannunzio subito che il gruppo della Rosa nel Pugno voterà questo provvedimento ed anche io lo farò con tutti i dubbi possibili e immaginabili riguardo a forme e contenuti di interventi di questo genere. In termini metodologici preferisco forme di finanziamento «a progetto» piuttosto che contributi a fondo perduto per sostenere le strutture.
Inoltre - questo è il dato politicamente più rilevante sul quale mi soffermerò - credo occorra interrogarsi sulle prospettive, potremmo dire strategiche, di interventi di questo tipo e il provvedimento in esame, che come ripeto voteremo, mi dàPag. 18l'occasione di farlo. Occorre dire con molta nettezza che il nostro Paese e l'Europa non hanno la visione che vorrei avessero, un progetto su quell'area, detta Medio Oriente, nella quale, peraltro, affondano le radici della nostra storia e della nostra cultura europea. Mi riferisco, in particolare, a quel lembo di terra chiamato Palestina dove sono nate le tre religioni monoteiste, che oggi coincide con il focolaio di crisi e di guerre e rappresenta l'unica parte del mondo che ha conosciuto periodicamente, ma costantemente, il dato strutturale del conflitto, della guerra tra nazioni e fazioni, che rischia poi di propagarsi a livello mondiale.
Noi, in quanto partito radicale, su quell'area abbiamo un progetto e lo abbiamo lanciato come primo grande satyagraha mondiale per la pace in Medio Oriente, per costruire un'alternativa strutturale al dato strutturale di una realtà che genera e provoca continuamente guerre e conflitti in Medio Oriente che rischiano di propagarsi nel mondo.
Il nostro è un progetto chiaramente federalista e democratico. È velleitario o visionario? Io credo di «no». Ritengo, invece, sia un progetto realista, certamente più di tanti progetti che circolano, di road map, di conferenze cosiddette di pace e di piani che, ben che vadano, riproporranno o ripristineranno uno status quo che è una situazione di guerra, di Stati in conflitto tra loro. Quindi, ben che vada, vi sarà uno status quo, una tregua, ma tra un conflitto e l'altro e tra una guerra e l'altra.
È un progetto visionario? Veniva considerato visionario e velleitario il progetto lanciato quattro anni fa da Marco Pannella con il titolo «Iraq Libero», che prevedeva un'alternativa all'intervento armato che si stava preparando (e che poi si è compiuto): ossia l'esilio per il dittatore iracheno e, nel frattempo, un'amministrazione transitoria e controllata non dagli iracheni, ma dalle Nazioni Unite.
Coloro che siedono in quest'aula e gli stessi giornali italiani, che con la loro disinformazione hanno ricoperto un ruolo determinante nel fallimento di tale progetto, ora potrebbero riparare a quel danno inferto al nostro Paese (e sarebbe comunque poco!), agli Stati Uniti (che con i 4 mila morti americani forse un danno l'hanno avuto!), alle decine di migliaia, anzi, forse centinaia di migliaia, di morti irachene e alla situazione in cui l'Iraq si trova in questo momento.
L'informazione italiana deve riparare al danno di disinformazione che ha provocato quando ha censurato quel progetto che poi si è rivelato essere realistico. In questi giorni, infatti - ma era già accaduto nei mesi scorsi - dai diari di un personaggio politico che poi ha aderito a quell'iniziativa di guerra, l'allora Premier spagnolo Aznar, è trapelato che Saddam Hussein era d'accordo sul proprio esilio, aveva già sondato la disponibilità di alcuni Paesi del Medio Oriente e del mondo arabo che hanno confermato che sarebbero stati disposti ad accoglierlo, e che chiedeva semplicemente di portarsi via il suo «tesoretto», ossia un miliardo di dollari. Quanto è costata la guerra da allora ad oggi, e quanto costerà, purtroppo, nei prossimi mesi, se non anni, rispetto a quel miliardo di dollari che Saddam Hussein chiedeva di portarsi via, magari con alcuni componenti della sua famiglia e del suo regime?
Ora, si è a conoscenza del fatto che l'esilio era pronto, che si trattava di un progetto realistico, ma che è stato impedito con un'accelerazione nell'intervento armato. Aznar, inoltre, scrive nei suoi diari che il Presidente Bush era contrario all'esilio, in quanto avrebbe preferito regolare i conti con Saddam Hussein in un altro modo, ma abbiamo visto in che modo lo ha fatto e con quale successo.
Pertanto, il nostro progetto relativo all'area del Medio Oriente è chiaramente federalista e democratico perché, come è accaduto nell'Europa degli anni Quaranta, anche per quanto riguarda il Medio Oriente di oggi occorre riconoscere nel dato strutturale di certi Stati nazionali ed autoritari, nelle aspirazioni ed illusioni nazionaliste, nonché nelle ideologie apertamente illiberali la causa prima delle guerre con un'ipoteca pesante e distruttiva sullo sviluppo civile e democratico della regione medio-orientale (è ciò che rappresentanoPag. 19le ideologie nazionaliste, il mito della sovranità nazionale assoluta ed i regimi totalitari).
Il discorso - e lo affermo con chiarezza, nonostante la profonda amicizia che lega la mia parte politica a Israele - vale anche per lo Stato di Israele, il cui connotato strutturale, nazionale, sostanzialmente nazionalistico appare sempre di più dominante nella sua politica estera e di difesa, così come risulta oggi, limitata nei confini di un territorio che costituisce lo 0,2 per cento dell'intera area con l'accerchiamento dello Stato di Israele in quel mare di fondamentalismo o, comunque, di regimi sicuramente non democratici, affidandosi esclusivamente alla propria potenza e capacità militare.
Tale dato strutturale costituisce un'illusione e rischia anche di essere un pericolo per Israele, ma anche per la sua vita e per l'intera area. La sicurezza di Israele non può essere nel medio-lungo periodo garantita dal suo esercito e forse meno che mai dai caschi blu delle Nazioni Unite, né dai berretti verdi americani, ma solo da una prospettiva e da una dimensione di Israele più ampia che deriva dalla consapevolezza di essere parte di uno spazio politico, giuridico, in una parola, istituzionale, sovranazionale, come potrebbe essere quello europeo. Ciò significa essere parte di una comunità non di 6 milioni di cittadini, ma di quasi mezzo miliardo di persone.
Lo stesso discorso vale per il nascente Stato palestinese rispetto al quale, a mio avviso, è del tutto insoddisfacente la formula: due popoli, due Stati. Se non nei limiti illusori e già pericolosi della sovranità nazionale assoluta, la formula deve essere almeno intesa nel senso di due popoli e due democrazie, non due Stati. Quindi, deve essere almeno assicurato che il nascente Stato palestinese sia fondato sui principi di Stato di diritto, sul rispetto dei diritti civili e politici, sul diritto alla libertà e alla democrazia dei cittadini palestinesi innanzitutto. Il rispetto di tali diritti deve essere almeno pari a quello che lo Stato di Israele assicura ai suoi cittadini e agli stessi palestinesi che vivono nel suo territorio.
Signor Presidente, colleghe e colleghi, con il disegno di legge al nostro esame dobbiamo essere consapevoli di finanziare non uno Stato di diritto in atto, ma - credo - un mito e, forse, un'altra, l'ennesima illusione in Medio Oriente. Di certo, sosteniamo una struttura, non un progetto e, forse, un'idea di Stato della quale, però, già oggi non conosciamo i connotati, ossia se si tratti di uno Stato di diritto e quali siano i diritti civili e politici del nascente Stato palestinese. Anzi, se dovessimo prefigurare il futuro Stato palestinese a partire dalla realtà odierna dell'amministrazione nazionale palestinese, non sarei certo e fiducioso sul futuro del nuovo Stato, se è vero - come è vero - che la memoria è il futuro. Abbiamo memoria di quali siano le violazioni nei territori amministrati dall'Autorità nazionale palestinese: la pena di morte, le esecuzioni, i processi (e la rapidità con la quale questi sono svolti), le garanzie e i diritti della difesa. Se il nascente Stato palestinese dovesse fondarsi su tali presupposti, ciò costituirebbe un pericolo innanzitutto nei confronti dei cittadini palestinesi e poi, per il connotato illiberale o nazionalistico che quello Stato avrebbe, anche nei confronti degli Stati vicini.
È scritto chiaramente nella relazione che, con il finanziamento previsto nel disegno di legge in esame, contribuiamo a rafforzare l'apparato statale palestinese nella prospettiva di pace in Palestina - quindi in Medio Oriente - e, magari, anche nel resto del mondo. Andrei più cauto e mi limiterei ai dati di fatto: finanziamo una struttura alle dipendenze dell'Autorità nazionale palestinese.
Rimango della convinzione, inoltre, che la pace in Palestina, come in ogni altra parte del mondo, affinché sia un dato strutturale alternativo alla realtà e alle prospettive incombenti di guerra e di conflitti nazionali, passa attraverso il superamento del principio della sovranità assoluta, delle ideologie illiberali e delle illusioniPag. 20nazionaliste, che sono state la fonte di tutti i problemi del Medio Oriente e temo presto anche del mondo.
Inoltre, se i palestinesi hanno diritto a avere uno Stato, credo abbiano il diritto a non vedersi imposto uno Stato qualsiasi o una qualunque forma di Stato (come ne abbiamo conosciute e ne conosciamo in Medio Oriente): se Stato deve essere, che sia almeno espressione e forza dei diritti umani, politici, civili, sociali e di coscienza innanzitutto dei cittadini palestinesi.
Deliberiamo il finanziamento alla Delegazione in Italia dell'ANP, sapendo che esso rischia di essere letteralmente a fondo perduto, se non concepiamo anche qualcosa di diverso ed alternativo: una visione, un progetto, una soluzione diversa, alternativa al dato strutturale di guerre e di conflitti in quell'area. Tale alternativa - ripeto - risiede, a parer mio, solo nella prospettiva federalista, democratica e liberale in quell'area: intanto potrebbe prevedersi, ad esempio, una forma federale in cui Palestina, Israele, Libano e Giordania devolvono parte della loro nazionalità a garanzia del fatto che, almeno tra di loro ed in quell'area, non vi saranno guerre. Se ricordate, tale meccanismo, negli anni Quaranta, è stato prefigurato da altri visionari, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, che proposero per l'Europa delle patrie in cui rischiamo di ricadere; non siamo di fronte alla patria europea che essi stessi vollero e prefigurarono, ma alla realtà dell'Europa delle patrie.
La patria europea fu da loro concepita come l'antidoto alle guerre fratricide, che in Europa avevano provocato non soltanto i morti ma anche la storia e la vicenda del nazismo. I nostri padri allora decisero di costituirsi in Comunità europea e di introdurre elementi di federalismo, che determinarono il fatto che non vi fossero più guerre nel continente europeo.
Il meccanismo è lo stesso. Mi riferisco ad un federalismo che comprenda, in quell'area, la Palestina e Israele, ma che riguardi anche una dimensione più allargata - la chiamo euromediterranea - ove popoli e persone palestinesi, israeliani, giordani e libanesi potranno considerarsi parte di un'unica comunità umana e soprattutto godere degli stessi diritti civili, politici, sociali ed economici di cui godiamo, ad esempio, noi, bianchi, cristiani ed europei.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Caldarola. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE CALDAROLA. Signor Presidente, onorevole rappresentante del Governo, onorevole relatrice, colleghe e colleghi, parlo a nome del gruppo dell'Ulivo, e a nome di questo gruppo preannuncio fin da ora il voto favorevole al disegno di legge illustrato dall'onorevole De Zulueta. Sono undici anni - credo dal 1996 - che l'Italia assegna un contributo per il funzionamento della Delegazione generale palestinese nel nostro Paese.
In questi undici anni, durante i quali il mondo è cambiato, la situazione del Medio Oriente, nell'area, è cambiata ma non si sbaglia a dire che, probabilmente, è cambiata in peggio.
Israele ha una maggiore percezione della propria fragilità, più volte anche resa evidente da numerosissimi attentati e anche, di recente, dalla vicenda che ha visto contrapposti Israele e Libano, con tutti i drammi della guerra e anche le autocritiche che il Governo d'Israele ha fatto.
È peggiorata la condizione di vita dei palestinesi, che raggiunge ormai livelli allarmanti, che non possono non angosciare tutti quanti noi. Si è aperto uno scontro, che forse non immaginavamo potesse avere queste proporzioni, all'interno stesso del mondo palestinese, con una contrapposizione che ha fatto parlare - credo legittimamente - di colpo di Stato ai danni dell'Autorità palestinese, e con un controllo del territorio da parte dei settori più radicali e fondamentalisti del mondo palestinese, al punto che, con perfida ironia noir, molti hanno posto il tema, per quell'area, non più di due, ma di tre Stati. È ovvio che si tratta di un ragionamento inaccettabile.
Tuttavia è più insicura l'area nel suo insieme e al riguardo citavo prima il Libano. Di recente ho fatto un visita nelPag. 21territorio d'Israele - sono anche presidente della sezione bilaterale di amicizia Italia-Israele, un Comitato parlamentare - e mi sono trovato di fronte a militari che ragionavano sull'esperienza tragica dall'anno passato, ma che temevano anche che quella esperienza dovesse ripetersi.
Al momento la missione militare italiana e internazionale fornisce condizioni d'interposizione utili, però le notizie anche recenti non lasciano tranquilli; mi riferisco in particolare alla ripresa dell'attacco alle componenti musulmane non radicali, a quelle cristiane, e a quella parte del Parlamento libanese che ha a cuore una maggiore autonomia di quel Paese rispetto alle mire siriane.
Siamo di fronte dunque ad una situazione di straordinario pericolo che riguarda l'intera area. Non mi diffondo sulle altre questioni, anche perché sono largamente note a tutti noi. Addirittura molti credono - tale fatto è adombrato anche oggi da un articolo di un intellettuale esperto e denso come Lucio Caracciolo - che sia anche superata la formula «due popoli, due Stati».
Prima il collega affermava a ragione che questa formula va integrata nel senso di dire «due popoli, due Stati, due democrazie», perché il contributo che il mondo deve dare è in favore di una più complessa operazione di liberazione che riguardi l'autonomia palestinese e la sicurezza di Israele ma anche le garanzie democratiche per tutti i popoli che vivono in quell'area.
Molti pensano, anche in Israele, che questo Stato sarà costretto a combattere una nuova guerra. Molti credono e sperano che lo Stato ebraico sarà distrutto nel lungo periodo dal fattore demografico, poiché la gara dal punto di vista della pressione demografica è incomparabilmente più difficile per Israele di quanto sia per il mondo palestinese e per il mondo arabo.
Molti, inoltre, pensano che il popolo palestinese rischi di essere disperso per sempre e per sempre destinato a militare nelle file più oltranziste. È drammatico leggere i dati su come oggi è dislocata la popolazione palestinese nelle diverse aree del mondo fino a comprendere una robusta diaspora molto al di fuori di quelle terre.
Credo che dobbiamo renderci conto che il lavoro per riportare la pace è di lunga lena e richiede pazienza, fantasia e anche le parole degli scrittori, non solo di quelli che giustamente citava l'onorevole De Zulueta.
Ho letto sei o sette mesi fa uno splendido romanzo di una scrittrice israeliana, Schifra Horn, che ha un titolo che sembra sinfonico, perché rimanda ad un motivo che contrasta con il tema. Infatti, il romanzo è intitolato Inno alla gioia e si apre con una scena drammatica in cui una giovane donna israeliana, seguendo un bus, scambia sorrisi con una bambina o un bambino - si capirà alla fine di chi si tratta - che improvvisamente salta per aria. Muoiono decine di persone, un evento accaduto assai spesso nella terra di Israele, e la vita di questa donna viene sconvolta al punto che, nella ricerca della famiglia di questo bambino o bambina, essa sfascia la propria famiglia ma poi alla fine ritrova un'amicizia molto forte con un personaggio arabo, di religione musulmana.
Dalla letteratura talvolta viene un messaggio di pace, non solo da quella dei grandi nomi, ma anche di personalità importanti anche se non così internazionalmente note. Quel messaggio in qualche modo apre il cuore alla speranza, soprattutto in giornate come queste in cui siamo alla vigilia di eventi decisivi. Dopodomani si terrà l'incontro, già previsto per domani, tra Olmert e Abu Mazen, in vista dell'incontro nel Maryland, perché si possa fare un passo in avanti nel processo di pace, anche se le agenzie oggi stesso riportavano alcune dichiarazioni, da parte del rappresentante della Lega Araba, particolarmente improntate al pessimismo.
In questo senso, per non dilungarmi troppo, penso che il senso del provvedimento in esame - pur piccolo e che spero trovi il voto unanime del Parlamento, indipendentemente dalle opzioni di ciascuno di noi, dalla preferenza, che non demonizzo verso l'una o l'altra delle parti in lotta, anche se credo che si sia capitoPag. 22dove batte il mio cuore - risiede soprattutto nel fatto che si conferma un contributo per l'Autorità palestinese nel momento in cui il riconoscimento di ruolo dell'Autorità palestinese e soprattutto del suo leader, Abu Mazen, è particolarmente rilevante.
Certo devono essere i palestinesi a scegliersi i propri leader, però è abbastanza importante che il popolo palestinese sappia che con certi leader è più facile discutere che con altri. Lo dico perché ho sentito un cenno, anche nell'intervento della collega De Zulueta, intorno alle posizioni che una parte dell'occidente prende sul ruolo di Hamas.
Il fatto che Hamas sia legittimato dal voto popolare è consegnato alla cronaca e alla storia; il fatto che, però, ciò possa fare aggio sulla richiesta stringente, imperativa e categorica che Hamas rinunci, nel proprio programma fondamentale e in quello pratico, alla distruzione dello Stato di Israele, ritengo sia un obbligo per le potenze democratiche, per i cittadini democratici e per gli amici dei palestinesi. La vittoria di posizioni come quelle di Hamas non cambia di un millimetro la condizione umana drammatica delle popolazioni palestinesi, libere di scegliersi i leader, ma libere anche di sapere che con certi leader non si costruisce la pace.
Ritengo che, con l'approvazione del provvedimento in discussione, si lanci un doppio messaggio di amicizia: innanzitutto, verso i palestinesi e la parte che li rappresenta e che vuole percorrere, fra tante fatiche, una linea di diplomazia e di trattativa (come scrive oggi Amos Oz nell'intervista pubblicata dal Corriere della Sera, esaltando il valore storico del concetto di compromesso fra parti in lotta), ma anche verso lo Stato ebraico, per incoraggiare quelle forze (anche nello Stato ebraico vi sono posizioni diverse) che hanno investito il destino personale del proprio Paese sul tema della pace.
Noi tutti dobbiamo liberarci delle lenti della guerra fredda. Talvolta noto - e concludo - che nella discussione riguardo alla vicenda ebraico-palestinese, utilizziamo lenti del passato, che guardano divisioni del mondo del passato e che non fanno giustizia della drammaticità delle condizioni di oggi. Ritengo sia necessario partire da questo, per garantire a Israele il diritto assoluto alla sicurezza e un processo di pace che possa portare rapidamente ad uno Stato democratico per i palestinesi in Palestina.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cossiga. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE COSSIGA. Signor Presidente, come avviene quando un provvedimento di legge ottiene la formale approvazione da parte di tutti i gruppi, la fase di discussione in Assemblea, a volte (proprio nell'affrontare problemi che sono considerati scontati), si articola su considerazioni più generali e, forse, più utili, anche a testimonianza della necessità che il Parlamento ha di riflettere e discutere su alcuni temi che, troppe volte, sono considerati scontati.
Il disegno di legge in discussione, sostanzialmente identico a quello che fu approvato nella scorsa legislatura, è caratterizzato, a mio avviso, da un vizio dei Governi italiani, al di là del colore politico (forse si tratta proprio di un problema italiano), del «non dire» e di dare per scontato. Mi scuseranno gli uffici, non vuole essere un attacco al Governo, ma ciò è in parte esemplificato anche dalla sciatteria con cui è stata preparata la relazione relativa al provvedimento.
Con questo disegno di legge si vuole concedere un contributo finanziario alla Delegazione generale palestinese: si riporta in esso che la ragione risiede nella necessità di concedere tale contributo e che l'obiettivo è, appunto, quello di concederlo. Ritengo che, su alcuni aspetti, l'intervento della relatrice, nella sua serenità, sia parzialmente omissivo.
Il primo punto che sottopongo alla vostra attenzione è che il provvedimento rinnova da capo un contributo alla Delegazione: in Italia non esiste una legge che preveda la concessione di tale contributo. Se parliamo delle leggi che sono state varate, faccio notare che l'ultima è quellaPag. 23relativa al triennio 2002-2004, mentre questa è relativa al triennio 2007-2009: vi sarebbe da considerare cosa sia accaduto nel 2005 e nel 2006. È accaduto che, non esistendo una legge che nella sua conformazione potesse garantire un contributo alla Delegazione palestinese, quando se ne sente la necessità, quando le situazioni politiche lo richiedono o lo considerano opportuno, i vari Governi trovano modo di finanziarlo.
Ciò accadde nella scorsa legislatura con il Governo Berlusconi, che - tra l'altro - incrementò tale contributo di 100 milioni di vecchie lire all'anno, e accade nuovamente adesso.
Tutti siamo favorevoli a questo provvedimento e probabilmente molti di noi lo sono per motivazioni molto diverse; l'onorevole D'Elia ha addirittura descritto i suoi dubbi, io ho molti meno dubbi di lui ma, probabilmente, ho motivazioni diverse da quelle che sentiremo.
Un altro punto che viene toccato nella relazione - più per «non dire», che per «dire» - riguarda il fatto che questo provvedimento si inquadrerebbe in un generico supporto al popolo palestinese, il quale - e in ciò, ha sicuramente ragione l'onorevole d'Elia - ha bisogno di capacità realizzativa di progetti, più che di ambasciate. Quando si finanzia semplicemente una struttura, sinceramente ho difficoltà a pensare che tale contributo serva al popolo palestinese, così come ho qualche difficoltà a pensare che questo contributo, nei fatti, possa contribuire al rafforzamento delle istituzioni statali, in particolare della posizione del Presidente Abu Mazen.
Dunque, ciò che manca in questo provvedimento e, purtroppo, in quasi tutti quelli che riguardano la Palestina, è il progetto: cioè, cosa vuole, nello specifico, questo Governo italiano e cosa volevano i precedenti Governi italiani nel concedere il finanziamento, nella forma che è stata scelta negli ultimi dieci anni e nei vari supporti che sono stati dati alla classe dirigente del popolo palestinese del passato. Di queste cose normalmente non si parla e con questo provvedimento si continua a non parlarne.
Ho difficoltà a pensare che le motivazioni che sono alla base della norma in esame, da parte del Governo che ha come Ministro degli esteri l'onorevole D'Alema, possano essere le stesse di quelle del Governo Berlusconi. Parliamone, dunque! Parliamo di queste differenze, del progetto di questo Governo nei confronti della Palestina e, nello specifico, dei rapporti con l'amministrazione e con la dirigenza palestinese che può avere un'altra parte politica.
Nel momento in cui parliamo del progetto, infatti, risulterà evidente che - ancora una volta e come spesso accade quando si parla di tematiche spinose, come ad esempio la guerra in Afghanistan o la guerra che non abbiamo fatto in Iraq (ove, nel non utilizzare la parola, si spera di esorcizzare il problema) - anche in questo caso, non si capisce quale sia l'interesse del nostro Paese nel finanziamento della delegazione palestinese in Italia, quale sia l'interesse del nostro Paese e dell'Europa nell'appoggiare una parte - e, sottolineo, evidentemente non l'altra - della dirigenza palestinese.
È stato correttamente sottolineato, infatti, come la legittimazione democratica a volte non sia sufficiente, per quanto ciò avvenga in un contesto che non è né democratico, né liberale. La garanzia di democrazia non è data dal voto; quando il voto avviene in un contesto che, per sua natura, è lungi dall'essere quello in cui la vera democrazia si può esercitare, non è il voto a fornire legittimazione democratica.
Pertanto, qual è il nostro interesse nell'appoggiare Abu Mazen e la sua parte, anche attraverso il finanziamento della delegazione? È più importante l'interesse del nostro Paese e dell'Europa, o il più generico interesse-obiettivo della pace in Medioriente od altro?
Sento parlare spesso di pace e, assai meno spesso, degli interessi del nostro Paese. Nella difficile situazione mediorientale siamo tutti liberi di criticare sia l'azione del Governo israeliano (questo sì, democratico, anche per il contesto in cui opera), ma siamo anche legittimamente autorizzati a criticare alcune scelte della dirigenza palestinese.Pag. 24
Pertanto, in tale contesto, mi piacerebbe sentire dal Governo quali ritiene che siano gli interessi da difendere dell'Italia e come questi potrebbero essere raggiunti. So che non è questo il provvedimento che scioglierà i miei dubbi, ma non dispero e sono certo che sarà comunque un'occasione per approfondire alcuni temi.
Vorrei svolgere un'ultima considerazione: le ricette per la tutela della pace e dei nostri interessi in quella regione sono sicuramente tante.
L'onorevole D'Elia ha voluto proporre un avventuroso paragone tra un futuro federale dell'area e lo sviluppo in senso federalista dell'Europa. È vero che, se non si pone in alto l'asticella, se non si pongono obiettivi alti e se non si ha un sogno, non si va da nessuna parte.
Tuttavia, sinceramente onorevole D'Elia, da un'Europa che ha avuto secoli di guerre e decine di milioni di morti, ma che ha una sua base di radici comuni, ci si può aspettare un certo tipo di evoluzione; ma in un contesto assai più complicato in cui le radici stesse sono intrecciate profonde e complesse - a mio avviso la situazione libanese è un esempio estremamente importante - è molto difficile pensare ad uno sviluppo come quello da lei indicato.
Ci troviamo in un contesto più complesso, in cui le radici sono profonde ma diverse, e a volte è l'una che, nel passato, ha tentato di strozzare l'altra. Io penso che, al centro del nostro progetto, vi dovrà essere l'interesse di tutti i popoli di questa regione al raggiungimento della pace anche al di là delle proprie radici (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Evangelisti. Ne ha facoltà.
FABIO EVANGELISTI. Signor Presidente, il mio intervento sarà brevissimo. Vorrei cominciare con una considerazione persino ovvia e banale. Se abbiamo in mente la possibilità di risolvere, un giorno, le gravi e controverse vicende del Medio Oriente e la difficile situazione che viviamo nelle relazioni con i popoli che si trovano in Afghanistan, in Iraq e in altre realtà del Medio Oriente, non c'è dubbio che la chiave per risolvere tali problemi passi attraverso la soluzione della questione palestinese (intendendo ovviamente, con tale espressione il riferimento ad una situazione complessa in cui, da una parte, vi è il diritto del popolo palestinese a vedere riconosciuta la propria entità statuale e, dall'altra, il diritto di Israele ad avere la propria sicurezza ed il proprio riconoscimento compiuto e definitivo).
Non a caso, infatti, nella discussione del provvedimento con cui si chiede il rinnovo, per il prossimo triennio, della concessione di un contributo finanziario alla delegazione generale palestinese per la propria sede in Italia, preferirei che, più che parlare di opportunità, si sottolineasse il carattere della necessità.
Si tratta di una necessità che nasce fin dal 1993, quando l'allora OLP, Organizzazione per la liberazione della Palestina, riconoscendo lo stato di Israele, ricevette in cambio poteri di gestione, in buona parte autonoma, dei territori della Striscia di Gaza e di molte città della Cisgiordania, dando così vita all'Autorità nazionale palestinese.
Oggi ho ascoltato interventi molto seri e riferimenti anche ad esperienze personali. Vorrei aggiungere la mia esperienza personale, essendo stato fra gli osservatori dell'ONU presenti in Palestina il 20 gennaio del 1996 quando, per la prima volta, si votò per l'elezione del Parlamento dell'Autorità nazionale palestinese.
Allora, il clima di dialogo e pace fu immortalato da una storica fotografia, quella di Camp David - un'immagine che da lì a poco avrebbe fatto il giro del mondo e che ancora oggi rappresenta una pietra miliare di ciò che può essere ancora fatto e di quello che doveva essere ancora fatto in Medio Oriente - in cui si riprendeva la stretta di mano tra il leader palestinese Yasser Arafat e l'ex Premier israeliano Isaac Rabin, alla quale faceva da sfondo il Presidente americano Bill Clinton.
In seguito al grande passo avanti compiuto tra quei due leader, anche in Italia venne avviata una riflessione che portò, trePag. 25anni dopo, all'approvazione della prima legge tesa a finanziare la sede italiana della delegazione palestinese.
Fu un segnale di apertura internazionale dal carattere, non solo politico, ma anche sociale ed umanitario, che avrebbe ben presto trovato un riscontro (nel 2000 e, ancora, nel 2003 in tutt'altro contesto politico interno, per quanto ci riguarda), senza alcun ostacolo e senza alcuna contrapposizione ideologica, segno evidente dell'importanza che tale impegno rappresenta per tutto il popolo italiano e per le intere espressioni parlamentari di questo Paese.
Da anni, infatti, l'Italia riveste - credo di poterlo dire - un ruolo centrale nella diplomazia dello scacchiere mediorientale (non da ultimo il riferimento è al ruolo importante e preminente che abbiamo nel sud del Libano); un ruolo che, attraverso una posizione di responsabilità, la vede spesso frapporsi nel conflitto strisciante che oggi colpisce l'intera regione fino a sfociare nelle realtà limitrofe come il Libano.
È per tali motivi che oggi, come in passato, l'impegno italiano può rappresentare e rappresenta una necessità per l'intero processo di pace in Medio Oriente, un impegno che deve essere considerato all'interno della più complessa e organica serie di strumenti e di iniziative volte a concretizzare questo processo, da anni sempre più sfilacciato e meno tangibile.
In quest'ottica riteniamo importante rinnovare il contributo finanziario alla delegazione palestinese in Italia dalla quale dipende anche il funzionamento delle altre sedi all'estero, prevedendo inoltre ulteriori misure a favore del dialogo e del confronto pacifico tra Israele e Palestina.
In tal senso, preannuncio anche il voto favorevole del gruppo dell'Italia dei Valori sul provvedimento in esame.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Mascia. Ne ha facoltà.
GRAZIELLA MASCIA. Signor Presidente è impossibile dire oggi se aveva ragione un grande intellettuale palestinese, come Edward Said, nel sostenere che il processo di Oslo - quello del 1993 - era viziato alla base e non avrebbe mai potuto produrre un processo di pace.
Le sue convinzioni si basavano sul fatto che le due parti in causa - palestinesi e israeliani - erano assolutamente impari: da una parte c'era Israele, uno Stato moderno dotato di un imponente apparato militare (ora non lo so, ma sicuramente allora era considerato almeno la quarta potenza militare del mondo) che controllava (e controlla) territori e persone di cui si era impadronito con le armi trent'anni prima e, dall'altra, c'erano i palestinesi, una comunità dispersa, diseredata, sradicata, priva di un esercito e di territori propri.
C'era un occupante e c'erano coloro che subivano l'occupazione e, dunque, secondo Said, dichiarare - come si fece - che i punti controversi (cioè quelli rimasti in sospeso e che lo sono tutt'oggi: l'amministrazione di Gerusalemme, il diritto di ritorno dei profughi palestinesi, il problema dell'insediamento dei coloni, il ripristino delle frontiere del 1967) sarebbero stati affrontati in seguito, a suo avviso, già significava che non ci sarebbe mai stato alcun processo di pace e, cioè, che il progetto era viziato alla base.
Quanto è successo in questo periodo fino agli ultimi anni (l'assedio del 2000, il muro, la situazione di oggi ulteriormente aggravata, come qualcuno ha sottolineato), fa sorgere quantomeno un dubbio e, in ogni caso, impone a noi tutti di interrogarci sulle esperienze di questi anni e sui diversi passaggi e le diverse tappe che nel corso degli ultimi decenni si sono susseguiti, fermo restando che tutti, dalle Nazioni Unite ai singoli Stati, hanno sostenuto e sostengono la necessità di garantire i due popoli e i due Stati.
Oggi si è sviluppata, anche in quest'aula, la necessità di una nuova riflessione sulle caratteristiche di tali eventuali due Stati, ma certamente si tratta del punto da cui partiamo: l'esigenza di garantire il popolo palestinese e il popolo israeliano.
Anche per questo le nostre responsabilità sono tanto più grandi; mi riferisco alle nostre responsabilità a livello nazionale, per l'interesse storico e geograficoPag. 26che abbiamo su tutta l'area mediorientale, nonché alle nostre responsabilità come Europa perché, quanto meno, dovremmo chiederci se una diversa politica, soprattutto in questi ultimi due anni, avrebbe potuto favorire una diversa situazione.
Oggi guardiamo tutti con preoccupazione e inquietudine alla situazione di Gaza, non solo perché ogni giorno, ogni settimana, vi è un numero imprecisato di civili che perdono la vita, ma perché, anche quando questo non si verifica, ci sono condizioni di povertà per buona parte della popolazione (e ciò avviene anche nella stessa Cisgiordania). È assolutamente preoccupante!
Le condizioni in cui vive la popolazione in tutta quest'area sono per noi elemento di preoccupazione, e preoccupazione ed inquietudine suscita anche il rischio che in quell'area si vada stabilizzando una situazione integralista, per le divisioni che si sono create e il conflitto che oggi è presente a Gaza a seguito dell'assunzione della gestione da parte di Hamas.
Chi ha conosciuto la Palestina anni fa sa che quella era una realtà totalmente laica, straordinaria, anche in relazione alle esperienze dei Paesi arabi nel mondo, e per chi ha visto Gerusalemme, in cui storicamente hanno convissuto e ancora oggi convivono diverse religioni, ma in un clima diverso, in un clima di tensione che non si era mai verificato, anche tra la popolazione, fino a pochissimi anni fa (penso a città come Betlemme, come Gerusalemme, che sono state e sono simboli di pace e di tolleranza non da un punto di vista teorico, ma da un punto di vista concreto per come popoli diversi, con storie diverse, religioni diverse riescono e riuscivano, soprattutto, a vivere insieme), oggi è difficile rassegnarsi a quello che vediamo in quei territori.
Penso che dobbiamo ammettere che errori ci sono stati e sono errori grandi, distribuiti diversamente, evidentemente. Sono errori che partono da lontano e fra le tante responsabilità ci sono anche quelle della comunità internazionale.
Solo per guardare ai recenti avvenimenti, quando si ricorda, giustamente, la vittoria di Hamas alle ultime elezioni politiche, credo sia giusto ribadire che quelle elezioni sono state corrette, svolte in un clima totalmente sereno. Semmai bisogna chiedersi il perché di quei risultati!
I risultati probabilmente hanno a che fare anche con una crisi di credibilità della dirigenza di allora, per i fenomeni di corruzione di cui ora si parla, che forse a suo tempo non abbiamo considerato fino in fondo, anche a sinistra, e soprattutto per le condizioni della situazione economica che c'era già in quella fase. Era una situazione veramente drammatica, con la difficoltà di muoversi, di circolare nei territori e di poter svolgere un lavoro. C'erano divisioni anche tra le famiglie, che erano separate dal muro. Oggi Betlemme è tutta circondata da un muro!
I cristiani, i cattolici che vanno in quei luoghi credo che siano i primi ad essere sconvolti da questa nuova situazione che si incontra da qualche tempo a questa parte. Penso che un popolo che vive per tanto tempo sotto la morsa dell'occupazione, con continui rastrellamenti nei territori, i bombardamenti e l'impossibilità di spostarsi in territori separati da un muro, come minimo ha il problema della sopravvivenza e di trovare un lavoro.
Bisogna dire che nelle moschee musulmane migliaia di ragazzi avevano trovato l'assistenza che lo Stato non era in grado di offrire. Penso che sia giusto dire queste cose, altrimenti non si capisce nulla e non si comprende come un popolo laico, che io considero continui ad essere laico nel senso culturale (o comunque lo è la sua maggioranza, non a caso distribuita tra diverse religioni), possa aver votato Hamas e dia ad esso ulteriore consenso, come qualcuno ha sostenuto nel corso di questi mesi (certamente chi l'ha sostenuto sono giornalisti che in quei territori vivono da anni, di testate assolutamente non sospette).
Sottolineo queste cose perché la replica europea alla vittoria di Hamas in quelle elezioni regolari non poteva, anzi - penso - non doveva essere l'embargo, come invece è stato, perché il prezzo degli embarghi viene sempre pagato dalla popolazione, dai bambini, dagli anziani, dagliPag. 27elementi più deboli, ed essi producono normalmente una radicalizzazione, spingono verso posizioni inconciliabili anziché favorire il dialogo. Viceversa, un'evoluzione positiva della situazione interna alla Palestina è l'unica che può garantire la sicurezza di Israele.
Quando noi andiamo in Palestina ci rechiamo sempre anche nei territori israeliani, dove abbiamo molte relazioni: c'è una larga parte di quella popolazione che non sopporta più la situazione che si è creata, oltre ad esservi numerose organizzazioni e personalità che spingono e si battono per un processo di pace. Credo, tuttavia, che il senso di impotenza negli ultimi tempi, negli ultimi mesi sia percepibile in entrambe le popolazioni. La sicurezza di Israele, bisogna sottolinearlo, non è data a prescindere dalla possibilità che nei territori palestinesi si determinino condizioni di vita migliori dal punto di vista economico e sociale, e anche un clima politico assolutamente diverso da quello che è attuale e da quello che c'era solo qualche mese fa.
Questi processi non possono che passare per il dialogo, per processi unitari che riguardino tutte le componenti presenti in quei territori, compreso Hamas: bisogna avere il coraggio di dirlo. Molto spesso, nel corso di questi mesi, vi sono state polemiche; oggi capisco che la situazione sia più complicata, perché nel frattempo sono accaduti avvenimenti gravi e questa organizzazione si è impadronita di una parte del territorio, dove viaggiano le armi e si ricorre all'uso della forza. Tuttavia, la politica deve essere l'unico strumento che possiamo pensare di utilizzare per svolgere il nostro ruolo e per tentare davvero di favorire un'inversione di tendenza in una situazione assai complicata.
Il Governo Prodi, e lo stesso Ministro degli esteri D'Alema, hanno a mio avviso dimostrato più volte una grande sensibilità e un impegno nel voler contribuire a risolvere il conflitto israelo-palestinese con la politica. Anzi, il nostro Governo credo che vanti tra i meriti più rilevanti acquisiti nel corso di questo anno proprio il lavoro svolto all'estero, e in particolare nel Medio Oriente: l'esperienza della missione in Libano e il ruolo che abbiamo svolto per costruirla in ambito europeo ne sono la conferma.
Sappiamo che ora la fase è molto più complicata, sia per la situazione a Gaza e nei territori, che non è cambiata dal punto di vista concreto, sia per quello che si va aggiungendo intorno, nell'area mediorientale: la vicenda iraniana, le scadenze di fine novembre in Libano, le prossime elezioni in Israele, che naturalmente possono influenzare gli incontri di questi giorni tra il Presidente Olmert e Mahmoud Abbas.
Tutto ciò richiede molto a tutti noi: all'Italia, perché siamo nel Parlamento italiano e sentiamo una responsabilità verso la storia positiva che ha caratterizzato l'impegno del nostro Paese da decenni, dal punto di vista sia umanitario sia politico, e all'Europa, che invece a mio avviso non sempre è stata, nel suo insieme, all'altezza della situazione, ma che oggi credo sia costretta ad un impegno e ad un ruolo rinnovati.
Stiamo discutendo di un provvedimento che prevede un contributo, seppur non significativo (309 mila euro l'anno: una cifra non esosa), da destinare alla Delegazione dell'Autorità nazionale palestinese. Si tratta di poca cosa rispetto ad una vicenda drammatica, complicata e che dura da decenni come questa, ma lo riteniamo importante e il dibattito che si è sviluppato lo conferma, non solo perché questo contributo viene rinnovato sin dal 1996 e ha attraversato legislature con maggioranze diverse (non avrebbe dunque alcun senso non confermarlo), ma anche perché in questo momento è utile che l'Italia - che ha sempre sostenuto l'Autorità nazionale palestinese e il suo processo interno di riforme - manifesti, anche attraverso un piccolo simbolo come questo, la sua volontà di sostenere il presidente dell'Autorità e il lavoro che si sta svolgendo. Ciò, indirettamente, anche al fine di dire che l'Italia c'è, vuole garantire la presenza diplomatica di questo popolo e vuole segnalare il suo impegno e la sua amicizia con esso.Pag. 28
Naturalmente questo contributo è diverso dall'assistenza umanitaria e dai progetti di cooperazione specifici che il nostro Paese è comunque impegnato a garantire. Tali progetti viaggiano, infatti, non solo sulle responsabilità o sull'impegno nostro, ma anche sugli impegni volontari di decine di associazioni. È dunque necessario, naturalmente, che tali progetti procedano, tanto più in questa situazione, ma questo contributo, proprio perché è un contributo alla politica, dal punto di vista simbolico è secondo noi di grande importanza. Di conseguenza, preannuncio su di esso il nostro voto favorevole e il nostro sostegno.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
(Repliche del relatore e del Governo - A.C. 2549)
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare la relatrice, vicepresidente della Commissione affari esteri, onorevole De Zulueta.
TANA DE ZULUETA, Relatore. Signor Presidente, credo che questa sia stata una discussione utile e spero che potremo speditamente giungere alla votazione di questo provvedimento, poiché siamo un po' indietro nell'erogazione di un finanziamento già annunziato.
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.
PATRIZIA SENTINELLI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, intervengo molto brevemente per svolgere talune considerazioni che derivano dal dibattito.
Gli onorevoli deputati intervenuti, nell'esprimere le loro considerazioni, hanno voluto manifestare l'assenso dei propri gruppi al provvedimento in discussione: mi pare che ciò costituisca un fatto di rilievo positivo.
Ciononostante, gli interventi svolti hanno voluto anche allargare il campo, a partire dalla relazione che è stata presentata dall'onorevole De Zulueta, per compiere valutazioni più generali sulla situazione dell'intera area mediorientale, ad indicare - a me pare ed è questo che rilevo con grande interesse - una particolare sensibilità politica delle nostre istituzioni, del Governo, del Parlamento e, in particolare, di quest'Assemblea. Si tratta di un fatto molto significativo proprio perché i diversi interventi, pur con accenti naturalmente diversi, hanno delineato una situazione assai delicata e di grande instabilità, che determina in tutti noi - nel Governo, nel Parlamento, ma mi sento di dire anche nel popolo italiano - un'inquietudine, ma anche, nello stesso tempo, una grande serietà nell'assunzione delle nostre responsabilità.
Infatti, il nostro Paese - è stato anche ricordato da alcuni di voi in particolare, ma è una circostanza reale e riconosciuta da tutti - è impegnato in prima linea a costruire la pace e a definire politiche di sicurezza di Israele così come di riconoscimento dello Stato di Palestina; esso è impegnato in senso generale, politicamente rilevante, ma anche in modo puntuale, nella definizione appunto di una nostra presenza con la missione UNIFIL così delicata.
Vi è, nel contempo, anche un impegno di carattere umanitario volto a sollevare, benché parzialmente, tutta la popolazione coinvolta dalla miseria e dalle terribili situazioni che vive, con interventi a favore delle donne e i bambini, nel settore della sanità e per favorire il dialogo: si tratta di interventi di emergenza umanitaria, ma anche di vera cooperazione.
Io stessa andrò, a metà mese, a Beirut e a Gerusalemme per verificare, anche assieme alle organizzazioni non governative operanti sul campo, la qualità, l'efficacia o meno degli interventi che abbiamo sinora sostenuto, al fine di suggerire e sollecitarne altri; ciò indica come il nostro Paese sia impegnato a tutto campo.
Certamente, la discussione relativa al nostro impegno e all'efficacia generalePag. 29nella definizione del nostro impegno progettuale va ripresa, in questa Assemblea così come da parte del Governo.
Oggi, dunque, è stato svolto un argomentare importante, ma è alla nostra attenzione un provvedimento specifico che, peraltro, richiede di essere approvato velocemente (come ricordava, da ultimo, anche l'onorevole De Zulueta).
Si tratta di un provvedimento rispetto al quale - tutti lo abbiamo detto e lo abbiamo sentito dire da voi - c'è un interesse e un convincimento, che non risolve tutti i problemi ma assume una parte di quei problemi.
Esso prevede un finanziamento che aderisce all'impostazione generale della politica italiana di sostegno - non di oggi, ma che conferma l'impegno precedente - alle istituzioni delle autorità palestinesi che condividono i principi di pace, giustizia e legalità sostenuti, peraltro, dalla comunità internazionale per la soluzione del conflitto nell'intera regione.
Il sostegno alla Delegazione palestinese di cui parla il provvedimento in esame è particolarmente importante proprio perché a noi pare che vi sia bisogno di un interlocutore in grado di veicolare tempestivamente ed efficacemente le comunicazioni alla Presidenza palestinese e di condividere le informazioni dei fatti che si evolvono.
Peraltro - credo di interpretare anche molti dei suggerimenti e delle considerazioni svolte dall'Assemblea -, la concessione di tale contributo (che, come è stato sottolineato, non è di grandissima entità, bensì è pari a quelli precedenti), dà un significato maggiore e del tutto particolare in questa difficile situazione per capirne anche l'evoluzione.
Le delegazioni palestinesi, come tutti voi sapete, dipendono direttamente dal Presidente Abu Mazen, che ha espressamente chiesto, quando recentemente ha svolto la sua ultima visita in Italia, che il nostro Paese sostenga il funzionamento delle Delegazione generale a Roma: quindi, il provvedimento al nostro esame si inserisce - e non è l'unico - dentro un quadro di diverse iniziative in corso, sia in ambito europeo che bilaterale, a sostegno del rafforzamento di quelle strutture dell'apparato statale palestinese che a noi sembra importante.
Dicevo - e lo ripeto - che il contributo viene mantenuto inalterato rispetto a quello precedente: esso è necessario al mantenimento del decoro di una sede di rappresentanza dell'Autorità nazionale palestinese (ANP) anche come segno tangibile di amicizia - qualcuno di voi lo ricordava -, perché non vi sarebbero altrimenti i mezzi sufficienti affinché tale rappresentanza possa funzionare, non potendo appunto l'ANP provvedere con le sue sole finanze al funzionamento degli uffici all'estero.
A noi sembra un elemento importante che sta all'interno della strategia più generale, di cui abbiamo discusso già altre volte, che il Parlamento ha affrontato con grande cura e che il Governo sta mettendo in atto, come alcuni di voi hanno segnalato, con grande determinazione e grande responsabilità.
PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.