Commissione parlamentare per le questioni regionali

ATTI DEL CONVEGNO

"IL FEDERALISMO POSSIBILE"

(Roma, 29 luglio 1998)

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Ringrazio innanzitutto il professore Fisichella, che interviene in rappresentanza del Presidente del Senato della Repubblica, e l’onorevole Petrini, che partecipa ai nostri lavori in rappresentanza del Presidente della Camera dei deputati, per il prestigio che essi danno a questa presentazione dell’indagine conoscitiva nonché per il rilievo che riconoscono al confronto politico che si apre a seguito dell’indagine stessa e che coinvolge le istituzioni dell’esecutivo e del legislativo. Ringrazio altresì le signore e i signori e i colleghi parlamentari convenuti nonché i correlatori e copresentatori dell’indagine conoscitiva nelle persone del Presidente Mattarella, del Presidente D’Onofrio, del presidente Cerulli Irelli, del Professore Urbani e di tutti i colleghi che hanno contribuito a dare un significato a questa indagine. Ringrazio anche per la sua presenza il Professore Scudiero, uno dei docenti auditi, nonché infine il sottosegretario Zoppi.

Un particolare saluto mi sia consentito al Presidente della regione Liguria Mori, che ha dato impulso notevole anche alla Conferenza dei Presidenti delle Regioni per quanto riguarda le problematiche oggetto della nostra attenzione.

Anche facendo tesoro del convegno celebrato qualche giorno fa dalle regioni e dalle autonomie locali, si è voluto dare un particolare significato a questa presentazione, che vuole essere una traccia che va al di là degli schieramenti politici e delle difficili stagioni che viviamo; una traccia da affidare alle autorità di Governo per compiere un percorso importante e per dare al medesimo un ritmo, una scansione progressiva, perché siamo convinti che la democrazia nel nostro paese si consolidi e cresca nella misura in cui si incrementano le istituzioni autonomistiche.

Un capitolo dell'indagine tratta del coinvolgimento attivo delle autonomie locali: tale dato è stato registrato nella conferenza di qualche giorno fa, unitamente alla sintonia tra la Commissione per le questioni regionali e tutto il sistema delle autonomie, nel ribadire il concetto per cui il processo riformatore non deve fermarsi ma proseguire celermente, acquisendo anche un ancoraggio costituzionale, in mancanza del quale ci sarebbe un vulnus profondo al federalismo amministrativo, chiamato da qualche studioso regionalismo sperimentale. In fondo la vita è tutta una sperimentazione, e i processi istituzionali si svolgono anche attraverso il protagonismo delle autonomie locali. In passato, sul tema dello Stato italiano e della crisi dei sistemi istituzionali, si è affermata la centralità dello Stato quale fonte del diritto. Oggi possiamo dire che questa affermazione, al di là della iperbole solenne, può essere riaffidata alle autonomie locali e in maniera particolare alle regioni. Ci sono preoccupazioni, dubbi, problemi, e in fondo un processo era stato già iniziato con la legge 142, che all’articolo 3 aveva indubbiamente riconosciuto un ruolo forte alle regioni e alle autonomie locali. Ora, ritengo che dobbiamo riprendere quella istanza e portare avanti il disegno riformatore della legge 59, attivarci con l’utopia della speranza, con l’utopia degli uomini che guardano al futuro, perché le istituzioni democratiche nel nostro paese possano riprendere la difficile via del processo riformatore della Costituzione. Non ci sono scorciatoie: o seguiamo la via ordinaria o seguiamo la strada straordinaria e difficile per dar vita ad una composizione attiva delle forze politiche. Ecco, noi siamo su questa traccia. Come Commissione parlamentare per le questioni regionali, insieme alle regioni e al sistema delle autonomie locali, vogliamo creare un raccordo forte in sede istituzionale, non solo per verificare e seguire il processo riformatore ma per rilanciarlo; e per rilanciarlo occorre l’impegno e la buona volontà delle forze politiche e delle istituzioni democratiche.

Diceva il professore Cassese, in un saggio brevissimo ma di grande spessore culturale e di forte ascendenza storiografica, che lo Stato è introvabile: io ritengo che noi possiamo ritrovare lo Stato, ma uno Stato diverso che va rifondato facendo appello al sistema delle autonomie locali e partendo dalle regioni. Questo è l’auspicio della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Darei ora la parola al Professore Cerulli Irelli.

VINCENZO CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione parlamentare consultiva in ordine alla attuazione della riforma amministrativa ai sensi della legge 15 marzo 1997, n. 59. Caro Presidente, cari amici, innanzitutto vorrei presentare i complimenti miei e della Commissione bicamerale per la riforma amministrativa per questo lavoro avviato dalla Commissione bicamerale per le questioni regionali con molto impegno, con molta determinazione e con un costante contatto con il mondo delle regioni e delle autonomie.

Credo che la via giusta per uscire dalla situazione non facile nella quale ci troviamo sia proprio quella di impostare un rapporto forte tra istituzioni centrali e rappresentanze delle autonomie, dove per istituzioni centrali va inteso non soltanto il Governo (e il Governo, attraverso il nuovo funzionamento della Conferenza Stato-Regioni-autonomie sta facendo la sua, e forse proprio il funzionamento della Conferenza è il fatto nuovo dell’esperienza regionalistica degli ultimi anni), ma anche il Parlamento, che deve fare la sua parte. Noi abbiamo avuto recentemente delle sollecitazioni da parte dei Presidenti delle regioni, da parte dell’ANCI, dell’UPI e dell’UNCEM; sollecitazioni alle quali per la verità abbiamo risposto subito; e anzi siamo stati d’accordo nel ritenere che la competenza della Commissione per le questioni regionali facesse sì che questa dovesse essere la sede di coordinamento in cui tutti gli attori di questo dialogo si debbono ritrovare (e per attori del dialogo intendo le regioni e il mondo delle autonomie da una parte e le istituzioni parlamentari dall’altra).

Perché, e dal testo dell’indagine risulta molto chiaro, la situazione è difficile in quanto si è avviato con la legge 59 un progetto molto ambizioso, in qualche misura troppo ambizioso, del quale non tutti forse si sono resi conto nel momento in cui si è andati a redigere e approvare un progetto che in qualche modo ribaltava il disegno precedente del rapporto Stato-Regioni e andava verso un modello di tipo tedesco, in cui l’amministrazione, a differenza della legislazione, in principio viene attribuita a regioni e autonomie locali, salvo per le materie espressamente riservate allo Stato. E se noi andiamo a vedere l’elenco delle materie non è che sia un elenco molto cospicuo: quindi se si volesse effettivamente attuare la legge 59 in tutte le sue potenzialità avremmo un modello quanto meno di amministrazione fortemente impostato in senso federalistico. E’ noto che in Germania l’amministrazione è tutta regionale e locale, e anche nelle materie statali amministrano le regioni e gli enti locali. Questo disegno da noi ancora non trova le condizioni per attuarsi: insomma, parliamoci chiaro, io vorrei qui ricordare che delle 25-26 audizioni di molti soggetti istituzionali, categorie, sindacati ecc. che abbiamo fatto come Commissione in sede di adozione del decreto 112, non uno è venuto a chiederci di essere regionalizzato, non uno. Salvo i rappresentanti delle regioni. Tutti hanno chiesto di mantenere l’appartenenza statale. Questo è un dato di fatto. Trattasi di categorie del pubblico impiego, trattasi di organizzazioni istituzionali, trattasi anche di categorie imprenditoriali, di sindacati (i quali hanno una struttura centralistica). Insomma le forze politiche si sono trovate di fronte a una organizzazione sociale, a tutta una serie di attori sociali i quali ancora non sono pronti a questo salto. E quando ho avuto le critiche del mio carissimo amico e collega onorevole Frattini, ho poi dovuto far notare che nella sua stessa parte politica lui era una voce isolata, perché in realtà nessuno aveva speso una parola per un'accentuazione più regionalistica del decreto 112, assolutamente nessuno tranne lui.

Questo significa che non ci troviamo ancora in presenza di un ambiente politico, economico e sociale pronto a quel salto, e che quindi lavoriamo su un terreno difficile. E ancora di più adesso (e anche questo risulta bene dai contributi dell’indagine conoscitiva) poiché ci troviamo anche senza copertura costituzionale. Questa non è una cosa da poco, perché è vero che la legge 59 (almeno noi che l’abbiamo elaborata e approvata dobbiamo sostenerlo) vive nella Costituzione vigente e certo non è incostituzionale - ci mancherebbe altro - anche se qualcuno lo dice. Però essa forza in qualche misura la Costituzione vigente e quando fu fatta si pensava alla nuova Costituzione, e anche nel primo anno della sua attuazione abbiamo sempre ragionato pensando a questa successiva sponda. Adesso che ci viene a mancare questo auspicato riferimento ci troviamo stretti da un punto di vista giuridico-istituzionale, e anche un po’ in difficoltà dal punto di vista politico, perché tutti quei centri di resistenza alla riforma a cui facevo prima riferimento riprendono forza dopo che il processo di riforma costituzionale si è fermato. E vorrei ricordare che per questa parte il processo di riforma costituzionale aveva compiuto un passo molto forte e decisivo in senso regionalista-federalista, ed anzi la Camera aveva fatto un passo ulteriore rispetto agli stessi contributi della Bicamerale. Vorrei ricordare che su alcuni punti quel testo contiene dei cambiamenti decisivi rispetto alla situazione esistente: mi riferisco per esempio alle possibilità di regionalismo differenziato, di autonomie differenziate, di regionalismo "negoziato", che in quel testo sono contenute e che costituiscono un passo verso l’attuazione di quel principio di differenziazione contenuto nella legge 59 che oggi si stenta ad attuare; è evidente che gli attori del governo territoriale sono diversi l’uno dall’altro, ed è diversa la Lombardia rispetto alla mia regione Abruzzo, quanto a potenzialità, a capacità di governo, a tradizioni storiche, ad aspirazioni autonomistiche. Situazioni profondamente diverse richiedono risposte diverse.

In questo l’originaria proposta di D’Onofrio, che pure lì per lì presentava una serie di problemi, andava comunque sulla strada di dare risposte diverse a situazioni territoriali e politiche profondamente diverse. Ed ora ci troviamo di fronte a una Costituzione su questo certamente molto sacrificante. Comunque noi, pur con queste difficoltà, stiamo andando avanti. Il decreto 112 bene o male è stato approvato e adesso lo stiamo attuando. Tenete conto che con tale decreto, cioè con il nuovo grande decreto di trasferimento delle funzioni, non abbiamo fatto niente. Abbiamo soltanto aperto un processo e adesso la vera battaglia si gioca sui decreti che sono in lavorazione, i quali vanno puntualmente ad individuare le risorse, le strutture, i mezzi, il personale da trasferire. Le commissioni parlamentari, e certamente la mia e ancor più credo quella presieduta dal collega Pepe, sono dalla parte della riforma: questo deve essere chiaro, ed è stato ribadito nelle sedi pubbliche. Le commissioni parlamentari sono dalla parte della riforma e intendono battersi contro tutte le resistenze di settore; però hanno anche bisogno di un supporto forte da parte delle organizzazioni delle regioni e degli enti locali, perché sono loro che devono smuovere il processo politico in quanto attori importanti, attori dei quali non si può fare a meno, e sono quindi loro che devono guidare il processo politico facendo fronte comune. Insomma, dobbiamo lavorare per il partito della riforma, che è certamente un partito trasversale sia tra le forze politiche sia tra i soggetti istituzionali, in accordo con le regioni e con gli enti locali, che per la prima volta abbiamo visto a loro volta uniti in un fronte unico: un fatto molto importante; per la prima volta regioni, province e comuni si sono presentati di fronte al Parlamento nazionale come un fronte unico dal punto di vista politico e istituzionale, mentre molte volte si erano presentati in maniera differenziata con richieste anche differenziate, e quindi oggi è più facile instaurare direttamente un dialogo e fare fronte comune.

Con questo ringrazio ancora il Presidente Pepe e gli faccio i migliori auguri.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Grazie Presidente Cerulli. Un saluto intanto al ministro Bassanini, che è presente tra noi e che certamente darà il suo autorevole contributo. La parola al Presidente D’Onofrio.

FRANCESCO D’ONOFRIO, Presidente del gruppo Centro cristiano democratico del Senato della Repubblica. Nel quadro dell’odierno incontro, si è indotti innanzitutto a celebrare la conclusione in questa legislatura di una ipotesi di riforma dello Stato che vada oltre la definizione di Stato regionale - questa è l’opinione prevalente - prendendo atto che il cammino della Bicamerale si è interrotto, consentendo in questa legislatura di affrontare solo i temi di una ripartizione di poteri fra centro e periferia a Costituzione vigente.

Devo dire che l’opinione prevalente è comprensibile, ma non la condividevo e non la condivido. Ritenevo e ritengo che questa legislatura potesse avere, e possa avere a seconda dei casi, il compito di sanzionare il passaggio da un modello di repubblica ad un altro. Quando all’inizio dei lavori della Bicamerale posi la domanda, apparentemente banale, se vi era consapevolezza del fatto che si era di fronte al problema del passaggio da un ordinamento regionale ad uno federale (volevo sapere se vi era consenso su questa premessa), mi fu detto che era del tutto ovvio che tutti erano d’accordo, tranne Fisichella e pochi altri che con molta correttezza espressero la loro contrarietà alla ipotesi federale (non alle modalità che venivano indicate); e devo anche dire che i colleghi di Rifondazione comunista manifestavano contrarietà non alla parola ma ai contenuti di un federalismo che significasse anche una disomogeneità delle regole della convivenza civile ed economica. Gli altri sembravano tutti orientati positivamente.

Mi sono sforzato e mi sforzo di dire che non è vero. Noi sappiamo - l’ha detto Cerulli, e sono lieto della crescente consapevolezza - che non vi è un solo soggetto politico-sociale nazionale che sia federalista, che abbia una struttura federale interna e che non abbia una organizzazione nella quale la gerarchia va dal basso verso l’alto. Così, i sindacati sono una struttura fortemente verticistica a livello nazionale, sia i sindacati del lavoro dipendente, sia i sindacati del lavoro autonomo, con la sola eccezione degli artigiani, che sono un potenziale alleato di una riforma federale della Repubblica di cui non può essere sottovalutata l’importanza.

I sindacati degli imprenditori sono preoccupati di un eccesso di federalismo perché questo distrugge la possibilità della contrattazione nazionale di aspetti che per loro sono fondamentali. In questo senso sono coerenti con la posizione del sindacato dei lavoratori. Ma ancora più importante è che non c’è una struttura culturale federale, all’interno del mondo intellettuale italiano. Così Italia nostra ha scritto lettere di fuoco contro l’ipotesi che il territorio non comparisse nell’elenco delle materie di competenza statale. Non è un caso che il WWF sia stato terrorizzato dall’idea che i beni culturali dovessero - niente di meno - "andare nelle mani di quegli straccivendoli" che sono gli amministratori locali. Non è un caso che i migliori opinionisti della stampa nazionale abbiamo sparato contro ogni ipotesi di struttura federale della scuola. Non è un caso che le organizzazioni più importanti della vita scolastica abbiamo detto, ministro Berlinguer in testa, che non si trattava di ipotizzare un federalismo scolastico, in coerenza con il fatto che il passaggio da un ordinamento centralistico a base locale ad un ordinamento federale non incontra oggi in Italia un sistema di alleanze economiche, sociali e culturali degne di questo nome.

Ecco perché quando sentivo dire che siamo tutti federalisti constatavo l’affermazione di una cosa non vera. Si usa la parola federale in modo improprio: è una captatio benevolentiae, è un modo per poter apparire a la page, quasi che non si possa non essere federalisti: il che non è vero, perché esistono Stati ottimamente organizzati che federalisti non sono, e vi sono all’interno dell’Unione europea modelli di organizzazione statuale non federale che funzionano benissimo. Quindi la scelta è una scelta storica, politica e culturale serena, non è una scelta tra il bene e il male. Questa è una opzione molto semplice e drammatica allo stesso tempo, specie in relazione al ruolo dell’Italia nell’Unione europea.

Ad oggi non vi sono le condizioni del cambiamento, però questa è una legislatura che sta facendo maturare la consapevolezza della opportunità - diciamo della spendibilità - della trasformazione federale come non era mai avvenuto fino ad ora. Nelle legislature precedenti, con molta serietà, non si era mai detto che si andava verso un modello di tipo federale: la Commissione De Mita-Iotti aveva operato ai limiti del federalismo, nell’ambito del concetto del regionalismo più forte, nella consapevolezza di non dovere usare le parole a vanvera. In questa legislatura la parola federale si è usata molto per furbizia e non sempre per convinzione. Io al contrario appartengo a quelli che sono convinti del federalismo, ma in modo sereno e non iroso, in quanto sono convinto che le disomogeneità storiche, economiche e culturali del nostro paese, nell’ambito dell’Europa unita, abbiano migliore possibilità di essere positivamente affrontate con un modello di tipo federale, ben sapendo che la parola non può essere definita una volta per tutte. Noto con piacere che dopo due mesi nei quali sembrava che del tema non si dovesse più parlare, si ricomincia a chiedersi che fine ha fatto il federalismo: se lo chiedono Romano su La Stampa, Diamanti su Il Sole 24 Ore e altri. Gli enti locali del resto non possono illudersi che la partita si risolva in una trattativa all’interno del ceto politico comunale, provinciale, regionale e nazionale, poiché il ceto politico vive una stagione ancora fortemente condizionata da una struttura gerarchica verticistica dei partiti di appartenenza.

Quindi non c’è da illudersi: anche se tutti i presidenti delle regioni vogliono una cosa non è detto che automaticamente i loro partiti concordino. Non è vero. Perché i presidenti delle regioni fino ad ora - non so se sarà vero domani - aspirano a diventare parlamentari nazionali, quindi assolutamente l’opposto rispetto alla prospettiva di un sistema federale, che andrebbe fondato sulla gioia di rimanere stabilmente al governo locale (come nei paesi federali, dove normalmente si rimane governatori di uno Stato e sindaci delle città senza pensare di passare in termini gerarchici da uno scalino all’altro).

Ecco perché tutti i convegni e i dibattiti all’interno del ceto politico mi lasciano sostanzialmente indifferente. Manca fino ad ora una seria strategia di alleanza con il ceto sociale, economico e produttivo, senza la quale non è possibile una vera evoluzione. Queste sono le necessarie considerazioni immediate. Dopo di che il lavoro della Commissione presieduta dal collega e amico Pepe può essere utile, avendo ben chiaro che in tutta questa vicenda la marginalizzazione della Commissione Pepe è stato un fatto negativo: si tratta di una sede di alleanza possibile per la riforma federale dello Stato, che non è stata fino ad oggi chiamata a poter dimostrare come all’interno del Parlamento vi sia un nucleo di deputati e senatori favorevole alla trasformazione; e ciò perché quel nucleo in Parlamento non è maggioranza. Ma la mancanza della percezione di quel nucleo come testa di ariete ha indebolito complessivamente lo strumento.

Allora il discorso non va ripreso da zero, ma va proseguito, sapendo che alcune questioni né in Bicamerale né alla Camera erano state risolte. Quando ho detto all’incontro degli enti locali svoltosi l’altro giorno lo ripeto oggi: non bastava essere d’accordo sulla ripartizione delle materie e sull’elenco delle materie, per altro contestato per altre ragioni; le due questioni sulle quali si decide se c’è o non c’è una modifica radicale dell’ordinamento sono il federalismo fiscale e il Senato federale, cose che non erano state ancora scritte in termini tali da poter dire che c’era la svolta. Vi era stato un orientamento favorevole a una formula di federalismo fiscale, ma occorreva scrivere qualcosa e il testo approvato a giugno e quello approvato a novembre non esprimevano federalismo fiscale. La configurazione del Senato approvata a giugno e quella approvata ad ottobre in Bicamerale non costituivano il Senato federale. Quindi i due pilastri della svolta andavano ancora definiti. Siamo in grado di farlo ? E’ possibile farlo ? Ecco perché io sono contrario all’idea di stralciare il pezzo del federalismo e farlo andare avanti per conto suo. E’ una falsità: dobbiamo renderci conto che non c’è un pezzo maturo rispetto al resto che maturo non è. Perché non appena si mette mano ai 5 o 6, 7 articoli che la Bicamerale ha approvato e che la Camera aveva notevolmente modificato, e li si porta all’interno del sistema, si batte la testa contro il muro. Non c’è federalismo fiscale, non c’è Senato federale: quel treno si ferma subito.

Ecco perché nella riforma non si può scindere la parte dello Stato dalla parte del Governo. Quando si proporrà un’altra iniziativa costituzionale, invito le autonomie locali a chiedere che si parta dallo Stato anziché dal Governo. Perché se si decide di partire dal Governo e dalla giustizia per ovvietà si ritiene che lo Stato non vada modificato radicalmente. La Bicamerale era partita con l’idea che si dovesse cambiare giustizia, Governo e Stato, e i tre vicepresidenti erano stati prefigurati in questa prospettiva, nelle persone degli esponenti della Lega, del Polo e dell’Ulivo. Poi la Lega si è chiamata fuori e da quel momento la riforma federale è stata considerata un fatto della Lega: errore catastrofico dal punto di vista politico, poiché il fatto non è della Lega, il fatto o è dell’Italia o non è. Che se il fatto fosse della Lega sarebbe una cosa diversa, anche perché della Lega era l’ipotesi della secessione, non quella della riforma federalista dello Stato. La Lega ha puntato su un obiettivo diverso dalla riforma costituzionale. Io credo che oggi si possa ripartire in modo serio perché proprio dalla Lega e dal suo sedicente parlamento autonomo è venuta una duplice proposta, confederale una e federale l’altra: quella definita federale va letta con attenzione perché è la prima volta che nero su bianco si dice che cosa sarebbe per la Lega una repubblica federale.

Da questo punto di vista il confronto può ripartire. Io credo che sia questa la prospettiva che abbiamo davanti, e non credo a riforme "a spizzichi e bocconi" né che questa legislatura possa fare questa rivoluzione, ma ritengo comunque che sia utile questo grande cambiamento. So di essere minoranza nel panorama complessivo e mi auguro che si costringano gli altri a trovare sulla questione strategie di alleanza che non ci sono state in passato.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Grazie Presidente D’Onofrio. Darei ora la parola per un saluto al Presidente della Giunta regionale della Liguria, dott. Mori.

GIANCARLO MORI, Presidente della Giunta regionale della Liguria. Prima di tutto voglio precisare che il Presidente della Conferenza dei Presidenti delle regioni mi ha incaricato, anche come membro del direttivo, di essere presente anche a nome delle regioni a questa riunione. Direi che questa riunione è molto importante proprio perché, oltre a presentare il risultato dell’indagine, dimostra una comune volontà di azione da parte delle due Commissioni parlamentari interessate, che, a diverso titolo e con diverse funzioni, si stanno impegnando sul tema della riforma dello Stato; e ciò soprattutto in un momento in cui si avvertono da parte delle regioni - come abbiamo già indicato nella riunione tenutasi di recente - gravi preoccupazioni per l’applicazione della legge 59. Rispetto a questo fatto tutte le autonomie locali, comprese le regioni, stanno tenendo una posizione unitaria di reazione, consapevoli che il processo che è stato iniziato, anche per rispetto alla battaglia annunciata e alle volontà espresse, non può essere interrotto o, peggio ancora, attuato in modo distorto. In questo senso le regioni temono moltissimo che alcuni fatti che si sono già verificati possano far sì che l’attuazione della legge vada a creare situazioni non ottimali, tali da giustificare coloro che sono contrari a questa linea di azione.

Abbiamo avuto episodi che non cito, ma indubbiamente vi sono stati comportamenti, anche del Parlamento, paralleli alla legge 59 e con i quali si è tentata una regolamentazione fondata su una logica contraria a quanto la legge 59 rappresenta. E questo fatto ci fa temere che anche i DPCM attuativi dei trasferimenti possano mettere le regioni e le autonomie locali in gravissima difficoltà. Il creare condizioni per cui regioni e autonomie locali non possano pienamente adempiere alle funzioni che vengono loro trasferite rappresenta nella sostanza un modo raffinato per contrastare questa riforma, e di questo noi siamo fortemente preoccupati.

Credo che i rischi siano pesanti per tutti, perché il pericolo è quello di moltiplicare le spese e le erogazioni finanziarie, sia da parte dello Stato che delle regioni, senza ottenere i risultati largamente attesi dalle popolazioni. Io sono convinto che quanto è stato detto corrisponda a realtà: le varie strutture dello Stato non si sono ancora organizzate in senso federale. Tuttavia è anche vero che alcune di tali strutture incominciano a ragionare in questa direzione, come testimoniano gli accordi e i protocolli che vengono via via stipulati. Noi dobbiamo tenere conto che se ad un certo momento esistono ostacoli e resistenze alla trasformazione, esistono d’altra parte delle istanze che si muovono in senso opposto, ossia le richieste che vengono dalle categorie, che sono nel senso di dare una organizzazione più elastica, più decentrata e più veloce: e questo non si può realizzare che nella direzione auspicata.

In questo senso auspichiamo che, se la legislatura ha interrotto il processo di riforma costituzionale dello Stato, si dia almeno piena attuazione a quanto previsto dalla legge 59 senza ripensamenti, e che si possa così fruire del contributo fondamentale del decentramento amministrativo, in prospettiva della futura riforma costituzionale attesa da larga parte del paese.

Sono d’accordo altresì sulla necessità di tenere conto delle diverse situazioni delle varie zone del paese: sotto questo punto di vista però noi chiediamo anche che eventuali inadempienze di singole realtà territoriali non possano essere imputate sul piano generale delle istituzioni, come spesso avviene e con grave danno da parte di coloro che invece adempiono pienamente al proprio dovere. Sotto questo punto di vista noi registriamo in modo positivo questo incontro e siamo ovviamente disponibili, come penso tutte le autonomie locali, a una fattiva collaborazione, che peraltro è già iniziata, e ci poniamo il problema di collaborare al meglio ringraziandovi anche di questo invito.

MARIO PEPE, Presidente della commissione parlamentare per le questioni regionali. Grazie Presidente Mori. La parola al Presidente Sergio Mattarella e poi al professore Giuliano Urbani.

SERGIO MATTARELLA, Presidente del gruppo Popolari e democratici -l'Ulivo, della Camera dei deputati. Nel considerare l’indagine conoscitiva e la relazione conclusiva in discussione ho preso atto che si è trattato del frutto di un confronto tra il Parlamento (ordinato e rappresentato nella Commissione parlamentare per le questioni regionali), le regioni, le varie associazioni che raccolgono i governi locali e la cultura giuridica del nostro paese (tra l’altro attraverso sei audizioni rigorosamente equilibrate geograficamente tra nord e sud), con riferimento al modulo di integrazione e di collaborazione tra Stato e regioni in termini di competenze e funzioni.

In questo quadro, la centralizzazione deve oggi confrontarsi con un processo storico che evidenzia non la crisi dello Stato nazionale ma la sua evoluzione, che si manifesta più fortemente attraverso l’erosione di compiti e di funzioni verso l’alto e verso il basso: verso l’alto a favore degli organi sovranazionali della Comunità europea e verso il basso in relazione alla possibilità e capacità di contar di più in termini di autogoverno delle regioni e degli enti locali.

Ora per questo si era immaginato e ci si è sforzati con lucidità più o meno ampia, con maggiore o minore consapevolezza, di dare una risposta all’esigenza di ridisegno dello Stato nazionale, di rimodulazione del suo modo di essere rispetto al versante dei governi locali. Da un lato attraverso il trasferimento di funzioni a normativa costituzionale vigente, in particolare attraverso i decreti delegati. Dall’altro lato a mezzo di un ridisegno più profondo e più di fondo, cioè un mutamento di natura del potere delle regioni, e un riconoscimento diverso del potere e delle funzioni di governo degli enti locali, con un loro inserimento nella struttura politica, funzionale e centrale dello Stato attraverso una Camera o un Senato, in maniera paritaria, delle regioni. Questo era il versante più impegnativo di cui parlava poc’anzi D’Onofrio ed è quello che si è interrotto, ma senza il quale la risposta pure importante che si sta dando attraverso il sistema delle deleghe può risultare insufficiente.

Questa mattina il Presidente del Senato ha rivolto un appello, che è stato anche di altri, e lo ha fatto anche il Capo dello Stato qualche tempo addietro, a riprendere velocemente il percorso delle riforme. Credo che non osterebbe alla compiutezza e alla lucidità di un disegno riformatore anche procedere per singole parti, per singoli pezzi di un mosaico che comunque già abbiamo in testa, purché il lavoro che, sia pure non sgrossato, sia pure non definito, sia pure non affinato, sia il lavoro della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, per non perderlo e non vanificarlo, con particolare riferimento alla forma di Governo, ad alcuni innesti di riforma di Governo possibili in questa Costituzione, al versante del rapporto tra Stato, regioni e autonomie locali. Ora si può ipotizzare di procedere anche per singoli interventi, anzi che si deve procedere per singoli interventi, altrimenti resta impossibile operare, essendo difficile immaginare un recupero di un grande ed organico disegno riformatore contestualmente condotto. Credo quindi utile quanto riportato nella relazione della Commissione presieduta dall’onorevole Pepe, in particolare riferimento alla disponibilità a costituire una sede di confronto sul rapporto con le autonomie locali, insieme alla Commissione per le deleghe della legge 59, e insieme agli altri interlocutori che del versante si occupano. Ma il lavoro vero, sulla base di questo confronto che si potrà svolgere, verrà fatto recuperando in Parlamento in maniera non completa, non assoluta, non totale ma significativa i punti principali di quello che è stato e rimane il disegno proposto dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Grazie Presidente Mattarella. La parola al professore Giuliano Urbani.

GIULIANO URBANI. Voglio anzi tutto esprimere un ringraziamento e dei complimenti per questa indagine conoscitiva, che ritengo essere molto utile per il censimento che ha fatto delle conoscenze attualmente disponibili. Io rilancerei addirittura, perché nella materia in esame si è di fronte a un processo: un processo lungo, nel corso del quale, se non ci dotiamo di strumenti di controllo (oggi si dice di monitoraggio permanente) si rischia che il mosaico impazzisca. E tali strumenti possono essere molto utili per evitare errori e renderci più consapevoli della strada che si segue. E ciò anche perché il processo decisionale in materia legislativa in Italia non è dei più ordinati, e quindi può essere utile il richiamato monitoraggio al fine di segnalare eventuali scarti dalle direzioni volute.

Dico questo anche se ho l’impressione - non voglio dare un dolore a Mattarella - che l’accordo sul mosaico non sarebbe il primo. Ho l’impressione che il disegno del mosaico da costruire, disegno da tenere a fianco man mano che mettiamo i tasselli, per ora non ci sia. Un po’ lo ha dimostrato l’esperienza della Bicamerale, sulla quale torno subito dopo, ma poi lo dimostra la struttura dei nostri interlocutori. Se tutti gli interlocutori (quelli che si dicono federalisti e quelli che più sinceramente non lo fanno) non hanno la struttura federale qualche ragione deve esserci. Dico questo non per affermare che il paese non è adatto alla prospettiva federale, poiché questa al contrario rappresenta una strada storicamente indispensabile e urgentissima tenuto conto che le diversità tendono ad aumentare e non a diminuire, dopo l’illusione degli anni ‘60 di creare un paese omogeneo per effetto della televisione e della cultura di massa.

Il rischio che corriamo semmai è quello che molte diversità si accentuino, e un paese con più diversità, sia storiche sia di prospettiva, ha bisogno come il pane degli autogoverni e quindi della struttura federalista. Diversamente qualunque illusione di governo produce risultati minimalisti e si finisce per governare al minimo livello e non a livelli ragionevolmente ambiziosi. Se questa è una necessità ben venga il federalismo perché è di buon senso, però nella consapevolezza che con il federalismo possibile non risolviamo i problemi; e quindi serve il federalismo ambizioso e necessario, cioè quello che ci situa a quella soglia sulla quale si ridisegna l’organizzazione dello Stato in maniera tale che gli organi siano dotati della capacità di risolvere i problemi. Fino a quel momento con il solo federalismo possibile facciamo esercizio di buon senso ma non andiamo oltre. Abbiamo quindi il dovere di muoverci in questa direzione, però per farlo dobbiamo essere altrettanto consapevoli della indispensabilità di costruire in termini ragionevolmente chiari e ragionevolmente definiti quella mappa che ci serve. Poi ha ragione l’onorevole Mattarella: il tentativo di andare anche a pezzi e bocconi qua e la può essere fatto, a patto di avere il progetto, il piano esecutivo, la mappa di riferimento dell’azione; diversamente il mosaico non si costruisce, e un'avventura diventa un’avventura eccessivamente rischiosa. Oggi non abbiamo tale piano: l’ha dimostrato la Bicamerale, anche se resto convinto che abbiano fatto fino a questo stadio un buon lavoro da non buttare. Però ha ragione D’Onofrio quando ricorda che è un lavoro incompiuto anche dal punto di vista della sola mappatura dello schema di riferimento, in particolare in materia di federalismo fiscale e Senato regionale. Io ometterei il riferimento al Senato perché probabilmente sul Senato (si può acconsentire o dissentire) ho l’impressione che, non sul testo di giugno o di novembre, naturalmente, ma in quel lavoro che avevano compiuto i Comitati permanenti e soprattutto il Comitato dei diciannove, si fosse vicini a una soluzione di ragionevole consenso; ma a parte i dissensi il consenso era sufficientemente ampio per poter parlare di esistenza di una mappa.

Sul federalismo fiscale no, e mi permetterei di aggravare quello che diceva D’Onofrio, perché in materia di federalismo fiscale i dissensi erano profondissimi, in particolare sulla questione relativa a chi riscuota le imposte e le trasferisca, se lo Stato alle autonomie o le autonomie allo Stato. Non è una piccola differenza, e purtroppo recenti tragedie dimostrano che quando i soldi si trasferiscono sulla carta e poi non si trasferiscono in cassa, questo fa una grande differenza quanto a responsabilità degli amministratori locali, regionali, ma anche comunali, provinciali e così via. Quindi il primo problema era questo e ripeto non era piccolo. Se non ricordo male, Mattarella, ho l’impressione che su questo parlassimo lingue diverse. C’era un altro punto aperto che traspare un po’ anche dalle cose che ha detto ad esempio Mori e che sono state dette anche da altri: il federalismo fiscale lo facciamo con un tetto o senza tetto?

Guardate che la cosa non è irrilevante, perché nel mondo (io cito i paesi di area OCSE ma in proposito ci sono studi recenti oltre tale area) negli ultimi venticinque anni tutte le riforme in senso federalista fiscale che sono state fatte hanno comportato per i cittadini un aumento rilevantissimo della pressione fiscale, non una diminuzione. Allora fa una grande differenza se il federalismo fiscale viene costruito in termini tali da aumentare o diminuire questa benedetta pressione fiscale. Non è una cosa secondaria: mettiamo o non mettiamo questo tetto costituzionale? Non è soltanto una disputa fra scuole economiche e costituzionalistiche, è un problema che tocca le tasche dei cittadini e quindi di grande rilievo in termini di consenso.

Adesso non c’è tempo di soffermarsi sulle altre incomprensioni che esistono sulla mappa (come la questione dei limiti all’intervento pubblico). A parte gli slogan fa una grande differenza avere la presenza di uno Stato grasso o uno Stato magro (Stato inteso in termini complessivi).

Federalismo competitivo sì o no? Deve esserci competizione fra queste regioni in prospettiva, o no? Dobbiamo incentivare la competizione o no? Anche qui non è che sia una piccola cosa. Estremizzo, ma non c’è federalismo senza competizione. I soli federalismi che si giustificano storicamente sono quelli che consentono, anzi in qualche misura promuovono e incentivano la competizione. Su questo in Commissione bicamerale non è che fossimo tutti d’accordo.

Ultimo punto il problema del federalismo cooperativo. Più il federalismo è competitivo più ha bisogno di riequilibri cooperativi, altrimenti ci si dimentica il debito pubblico e il sud: follia, ovviamente. Allora, per non dimenticarci queste due cose, abbiamo bisogno anche di meccanismi cooperativi che coesistano con i meccanismi competitivi. Questo è un bel problema che - Francesco D’Onofrio lo sa - ci siamo posti all’inizio della Bicamerale; poi presi da problemi di altro genere che non risolvevamo è finito tra le righe, ce lo siamo quasi dimenticato, ma resta un problema strutturale di funzionamento. Anche questa non è questione secondaria della famosa mappa che Mattarella e io auspichiamo di disegnare. Sono connotati essenziali. Sono aspetti portanti, si direbbe in termini ingegneristici.

Concludo. Auspichiamo tutti un dialogo per far ripartire le riforme, per la semplice ragione che se questo paese non fa le riforme le paga, paga il rinvio delle riforme. Ecco, io credo che dobbiamo essere tutti disponibili al dialogo, ma dobbiamo farlo con franchezza, con estrema franchezza. Il dialogo ha un senso in quanto si svolga sulle questioni chiave e può riprendere e ripartire nel momento in cui c’è una ragionevole convergenza su punti come quelli che ho accennato. Perché altrimenti non corriamo soltanto un rischio nei nostri confronti (e cioè di illuderci di dar vita a tavoli famelici che producono poco), ma commettiamo un altro errore molto più grave: quello di illudere i nostri concittadini, e ciò potrebbe essere drammaticamente tragico.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Grazie, professore Urbani. Forzando un po’ il cerimoniale, essendo stato inserito nel carnet dei correlatori, inviterei il Presidente Fisichella a fare qualche considerazione. Colgo l’occasione anche per ringraziare e salutare il sottosegretario Bettinelli.

DOMENICO FISICHELLA, Vicepresidente del Senato della Repubblica. Grazie collega Presidente Pepe. Mi trovo qui in una duplice veste, perché ero stato inserito nel gruppo dei relatori, ed ero stato onorato di questo inserimento, e poi ieri il Presidente Mancino, impossibilitato ad intervenire, ha avuto l’amabilità di delegarmi a rappresentare il Senato. In questa seconda veste porto il saluto del Senato e l’apprezzamento per il lavoro che è stato compiuto dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali: lavoro i cui sviluppi si possono cogliere in questo davvero interessante volume alla nostra attenzione, che costituisce una riflessione nata quando ancora il fallimento della Bicamerale non era stato registrato. In questa chiave, sia all’inizio sia nelle conclusioni, si dice espressamente che l’indagine voleva essere una somma di riflessioni che operavano come contributo al lavoro della Bicamerale: sotto questo profilo l’apprezzamento rimane, perché comunque richiama tutta una serie di questioni che conservano una loro incidenza e un loro significato. Nella sostanza non si tratta di una questione di parole, e la parola federalismo non mi spaventa più di tanto, anche se è stato ricordato dal collega D’Onofrio che io non sono federalista: non lo sono per ragioni culturali, non lo sono per ragioni storiche e perché non credo che l’Italia abbia bisogno di un esito di tipo federalista. Ciascuno ha le sue radici e queste sono le mie: io le espongo serenamente, ma non mi spaventa più di tanto la parola.

Ciò che viceversa mi preoccupa è il quadro nel quale si iscrive questo insieme di problemi. Premetto che sono fra quanti hanno auspicato uno Stato con poche funzioni, uno Stato che facesse poche cose, uno Stato che restituisse alla società civile competenze, attribuzioni e autonomie che le erano state progressivamente sottratte quando la più gran parte delle forze politiche del nostro paese, la stragrande maggioranza della cosiddetta intellighenzia del nostro paese, predicava l’intervento della mano pubblica indiscriminato, predicava uno statalismo illimitato, predicava e realizzava una prevaricazione dello Stato sulle autonomie della società civile a vari livelli. A livello economico, così come a livello culturale, ero tra i non molti allora che rivendicavano il recupero dell’autonomia da parte della società civile e conservo questa linea interpretativa: mi chiedo se le ipotesi federaliste a cui stiamo facendo riferimento hanno a che vedere con questo tipo di impostazione o non si risolvano in un quadro di moltiplicazione di istanze istituzionali e sostanzialmente di istanze burocratico-amministrative, con il rischio di situazioni di crescente conflittualità. Nell’atteggiamento che c’è verso lo Stato io sono fautore dello Stato unitario, ma non sono un fautore dello statalismo. Altri hanno predicato e praticato lo statalismo in questi decenni e anche in decenni passati nel nostro paese. Dal mio canto vedo che oggi tutto questo processo di riforme alle quali stiamo facendo riferimento prelude o addirittura realizza una logica di conflittualità che viene istituzionalizzata tra comuni e province, comuni e regioni, regioni e province, tutti poi contro lo Stato, tutti pronti a sbrindellare lo Stato, al di là probabilmente anche di quelle che sono le giuste rivendicazioni di autonomia che dalla società civile, dal mercato economico, dal mercato culturale, possono e debbono salire. Ho sentito parlare - ne ha parlato il mio vecchio amico Giuliano Urbani - di un federalismo competitivo tra le regioni: la sola idea mi spaventa; le istituzioni non hanno il compito di alimentare le competizioni. Io so bene che la parola conflitto e una cosa diversa rispetto alla parola competizione; sappiamo tutti bene quale è la distinzione tra competizione e conflitto, e cioè la presenza di regole del gioco che atteggiano questo conflitto secondo certe modalità. Però il fatto è che comunque il compito delle istituzioni non è quello di alimentare i conflitti ma semmai di regolare i medesimi cercando di equilibrare, di mediare, comporre: questa è la funzione dello Stato nella mia ottica, nella mia dottrina dello Stato. Immaginare che le istituzioni attizzino conflitti mi appare una cosa assolutamente al di là di ogni logica normativa, di ogni logica funzionale.

Quindi - ed è questa la prima grande preoccupazione che ho - in questo processo di riforme io colgo, al di là delle giuste rivendicazioni di autonomia, una ispirazione così drasticamente di guerra di tutti contro tutti che mette a repentaglio l’Italia e la sua medesima sussistenza. Noi inoltre ci troviamo in un quadro continentale e planetario rispetto al quale oggi, e domani ancora di più, l’Italia e una molteplicità di paesi del nostro continente dovranno affrontare delle sfide gravissime. Sfide demografiche, sfide di equilibri internazionali molto precari. In questo quadro noi corriamo il rischio di avviare un processo probabilmente decennale, come minimo decennale, perché il quadro che ci ha dato Francesco D’Onofrio prima era il quadro di un paese che in fondo non è preparato ad un assetto istituzionale diverso da quello attuale, né dal punto di vista culturale, né dal punto di vista economico, né dal punto di vista politico. Sappiamo bene che dietro queste impreparazioni ci sono anche tanti interessi che confliggono con la logica di snellimento dello Stato, con la logica di maggiore equilibrio funzionale del rapporto fra lo Stato e i poteri locali e regionali; ma al di là di questo aspetto c’è una realtà internazionale che ci circonda rispetto alla quale noi corriamo il rischio di dover affrontare sfide molto serie non avendo più uno Stato unitario e non essendo riusciti a mettere in piedi uno Stato federale.

Io dico con molta franchezza e serenità che abbiamo bisogno del sistema Italia, non abbiamo assolutamente bisogno di disarticolare la nostra realtà. Voi mi direte certamente che le buone intenzioni non sono quelle della disarticolazione, e io convengo perfettamente sul fatto che si potrebbe teoricamente attivare un processo di decentramento e che probabilmente questo processo di decentramento è per certi aspetti necessario. Che si giunga però fino a vulnerare i principi sovrani attraverso il ribaltamento della logica dell’articolo 117 della Costituzione, questa è questione sulla quale io non posso convenire: forse sbaglio, ma demandare la funzione sovrana, perché di questo poi si tratta, alle regioni rispetto allo Stato, su tutta una serie di questioni, questo è un punto che a mio avviso indebolirebbe drasticamente la capacità del nostro paese di affrontare le sfide che si profilano in avvenire. Ecco dunque che, senza avere alcuna contrarietà di principio a che si possano ampliare competenze, funzioni e attribuzioni delle regioni, dei comuni, delle province (fermo restando naturalmente che dobbiamo evitare che tutto ciò accada in una logica di conflitto come viceversa sta già verificandosi e ancora di più si verificherà per l’avvenire), fermo restando che tutto questo si può tentare e nei limiti in cui si può tentare, non si può comunque giungere fino a capovolgere la logica dell’articolo 117 della Costituzione. Una cosa di questo genere comporterebbe uno spostamento drastico della sovranità dallo Stato alle regioni, e se questo dovesse accadere l’Italia non sarebbe nelle condizioni di reggere le sfide dell’avvenire. Ecco perché io mi faccio carico di esprimere una valutazione che so essere impopolare qui e probabilmente anche in altri ambienti. Ma richiamo l’attenzione sul fatto che le cose che io esprimo tanti altri le pensano e non le esprimono, tanti altri ambienti le sentono e non le manifestano: io le sento e le esprimo. Può darsi che sia una posizione che poi risulterà minoritaria nelle istituzioni, ma sento il dovere di esprimerla come dovere civico. Attenzione a come ci muoviamo in un quadro che non è il quadro di neutralità esterna rispetto al quale noi operiamo, ma è un quadro che ha su di noi delle ricadute fortissime che possono diventare dirompenti. Grazie.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Grazie Presidente Fisichella. La parola al ministro Bassanini che ringrazio per la presenza e anche per il tempo che sottraiamo al suo lavoro.

FRANCO BASSANINI, Ministro per la funzione pubblica e gli affari regionali. Mi domando: sono venute meno le ragioni che per diverso tempo, diversi anni, hanno spinto la gran parte delle istituzioni italiane, delle forze politiche rappresentate in Parlamento, a ritenere necessaria e a lavorare su una coraggiosa e impegnativa riforma del nostro sistema istituzionale amministrativo sulla base del modello federale e dell’applicazione del principio di sussidiarietà? Io credo che si debba rispondere anzi tutto a questa domanda. Io non ho colto nelle vicende di questi mesi e anche nelle ragioni che hanno portato alla interruzione del processo di riforma costituzionale una risposta positiva a questo quesito. Mi sembra che la rottura sia avvenuta su altri temi rilevantissimi, non su questo; su questo tema forse non si era arrivati ancora a una costruzione completamente appagante, c’era ancora del lavoro da fare, tuttavia una scelta sembrava condivisa da gran parte del nostro sistema politico ed istituzionale. Era una scelta delineata nei programmi elettorali, sulla cui base la gran parte delle forze politiche rappresentate in questo Parlamento sono state elette. Era una scelta che aveva percorso i lavori della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, che aveva ispirato Governo e Parlamento nel mettere a punto il disegno di riforma a Costituzione invariata. C’era (e rimane a mio avviso, rappresentando uno dei punti critici del percorso attuale di riforma e rinnovamento delle nostre istituzioni) una connessione dichiarata, consapevole tra le riforme a Costituzione invariata e la riforma costituzionale, che anche dalla indagine conoscitiva emerge con molta chiarezza, con molta nettezza: le riforme a Costituzione invariata utilizzavano i larghi spazi di elasticità sul terreno dell’organizzazione della Costituzione del 1948, tuttavia supponevano,  scommettevano sull’arrivo della riforma federale in tempi ragionevolmente brevi.

L’interruzione del processo di riforma costituzionale non può rappresentare un pretesto per fermare l’ammodernamento possibile del nostro sistema istituzionale a Costituzione invariata. Anzitutto il lavoro di riforma costituzionale rappresentava una sorta di ombrello sotto il quale la riforma a Costituzione vigente si poteva muovere a riparo. Il compito di delineare il nuovo quadro complessivo più avanzato di riforma che investiva addirittura tutto il quadro dei poteri e dell’architettura costituzionale era del Parlamento e in prima battuta per esso della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, nell’ambito di un orizzonte più ampio di riforma federale e di applicazione integrale del principio di sussidiarietà delineato appunto dai programmi elettorali della gran parte delle forze politiche rappresentate in Parlamento e dai lavori in corso nella Bicamerale. La riforma a Costituzione invariata poteva - diciamo - percorrere tutta la strada possibile consentita dall’attuale testo della Costituzione e consentita dallo stato dei rapporti politici.

Il venir meno - spero provvisorio - della riforma costituzionale priva il cosiddetto federalismo amministrativo del quadro delle garanzie, del quadro degli strumenti di ordine costituzionale che sono propri di una forma di Stato federale, e fa emergere la naturale precarietà delle riforme a costituzione invariata fatte con legge ordinaria: qualunque altra legge ordinaria, ovviamente, può rimettere in discussione queste scelta legittimamente; un altro Parlamento, un’altra maggioranza, lo stesso Parlamento, la stessa maggioranza, per effetto di una scelta consapevole sull’architettura istituzionale amministrativa del nostro sistema o persino per effetto di scelte inconsapevoli. E la mia impressione è che ci siano anche scelte inconsapevoli e che si debba ragionare su come evitare quanto meno di rimettere in discussione il lavoro che si sta facendo di ammodernamento del nostro sistema con scelte inconsapevoli. Almeno cerchiamo di attrezzarci ad evitare questo, almeno. Quindi un primo ruolo della Commissione parlamentare per le questioni regionali è di rendere avvertito il Parlamento e le forze politiche delle scelte che si stanno facendo, scelte ad esempio ricentralizzatrici. Questo vale per il federalismo amministrativo e vale in relazione al fatto che si sta rilegificando ciò che si è delegificato e che si sta ricomplicando ciò che si è sburocratizzato, che si stanno riproponendo regolazioni pubbliche dove invece si è scelta una strada di deregolazione, che si sta ristatalizzando ciò che si è deciso (magari anche con largo consenso) di destatalizzare, di dismettere, di affidare al principio di sussidiarietà orizzontale. E va ricordato che mentre si svolgeva il grande dibattito ideologico sul principio di sussidiarietà orizzontale, nel frattempo qualche scelta in direzione di uno Stato più snello veniva fatta a Costituzione vigente. Tuttavia anche queste scelte si attuano, si perseguono coerentemente o vengono quotidianamente rimesse in discussione. Tutto ciò è legittimo, e non vorrei che qualcuno pensasse che il Parlamento possa andare solo in una direzione. Il Parlamento, il Governo come interlocutore del Parlamento, hanno ovviamente il diritto di cambiare strada anche ad ogni minuto; tuttavia un paese moderno, che ormai è immerso nello scenario della competizione globale, e che anche per questo ha bisogno di fare scelte innovatrici molto forti in tempi molto rapidi, non può permettersi di procedere "a zig zag", di fare un passo avanti e due indietro, uno da un lato e uno dall’altro lato. Deve fare delle scelte. Allora il modo più limpido era quello che all’inizio di questa legislatura avevamo con larghi consensi prescelto: fare una impegnativa, organica e coerente riforma della seconda parte della Costituzione sulla base di alcune linee generali sul cui fondo c’era un certo consenso, salvo poi dividersi sulle soluzioni.

Io poi ho una mia tesi: questa relativa convergenza dei programmi di riforma istituzionale dei due maggiori schieramenti politici derivava anche dal fatto che un certo lavoro, prima della fine della precedente legislatura, era emerso nel confronto tra i due maggiori schieramenti politici (qui ci sono in sala alcuni protagonisti di quel lavoro), e la parziale convergenza che in fondo era stata raggiunta si era travasata nei programmi elettorali dei due schieramenti, e quindi vi era un’area di possibile convergenza sulla quale costruire un progetto comune. Perché poi la riforma costituzionale non può che essere in larghissima misura frutto della costruzione di un progetto comune - come tutti sappiamo - non può essere imposta a colpi di 50,1%, magari non corrispondente neppure al 50,1% dell’elettorato.

Mentre il progetto originario all’inizio della legislatura era questo, e mentre lo si porta avanti al piano nobile della riforma costituzionale, al pianterreno e in cantina, dove pure c’è tutto un lavoro da fare in coerenza con le riforme che si fanno al piano nobile, si comincia a realizzare il federalismo amministrativo, l’ammodernamento della macchina amministrativa, l’applicazione del principio di sussidiarietà, una forte devoluzione di poteri e risorse innanzitutto agli enti locali posti sul territorio; si comincia a ragionare nei termini di quel principio di sussidiarietà che, a differenza di quello che pensa un’opinione pubblica non avvertita, è singolarmente convergente con le condizioni della globalizzazione, perché la competizione globale porta in primo piano i sistemi economici territoriali civili nei quali si creano o non si creano le condizioni ambientali, strutturali, culturali ed economiche favorevoli o no alla competizione; e la globalizzazione rende questo confronto di condizioni di convenienza, di competitività offerte dai sistemi economici, istituzionali, politici e amministrativi locali, un confronto serratissimo. Se non ho convenienze sufficienti a costruire il nuovo stabilimento a Manfredonia, io, imprenditore di Treviso, vado in Slovenia, vado in Croazia. Se vado a Manfredonia ci vado non perché (caso del contratto d’area di Manfredonia) son la dama di S. Vincenzo (perché un imprenditore non può essere una dama di S. Vincenzo) ma perché lì mi si è creata una situazione complessiva di convenienze.

Quindi anche sotto questo profilo abbiamo bisogno di adottare un modello di sistema istituzionale molto più articolato sulla base del principio di sussidiarietà. Questa era la scelta che abbiamo fatto e un pezzo di strada è stato percorso dalle istituzioni, anche se con ritardi e contraddizioni, e con la partecipazione anche degli enti locali: ed invero - come sottolinea anche l’indagine conoscitiva - la realizzazione della riforma è un opera complessiva e complessa (come dice la nuova definizione della riforma Clinton-Gore: una national partnership) senza la quale non si reinventa il governo del paese. La national partnership è un punto di riferimento, che ha tra le sue innovazioni fondamentali quella di avere riscoperto e valorizzato gli strumenti di cooperazione tra i diversi livelli di governo federale, statale e locale; e questo perché in uno stato federale sussistono anche strumenti di cooperazione che devono operare in modo flessibile ed efficace. Al di là delle distinzioni un po’ astratte che si fanno tra federalismo competitivo e federalismo cooperativo, nessuno pensa negli Stati Uniti che il federalismo significhi lasciare soli gli Stati o gli enti locali, per esempio, di fronte alle emergenze naturali.

Si è fatto un pezzo di strada ma adesso il rischio che noi abbiamo è che non si vada oltre, e questo in una fase estremamente difficile: se si deve attraversare un crepaccio si fa un salto e non ci si può fermare a metà del salto per aspettare tempi migliori, pena il finire dentro al crepaccio; se un aereo appena decollato e alzatosi dal suolo non accelera raggiungendo quota e velocità si schianta al suolo. Ora io ho l’impressione che siamo esattamente in questa fase.

Il federalismo amministrativo deve essere attuato mediante trasferimenti effettivi di poteri, di strumenti, di risorse umane, finanziarie e patrimoniali: un lavoro grosso da fare e da fare coerentemente. Insieme alla devoluzione di potere e di risorse agli enti locali e alle regioni c’è poi un lavoro di riorganizzazione che alcune regioni stanno facendo bene con le leggi di attuazione del decreto 112 e che altre regioni non stanno facendo affatto; ci sono persino regioni che sono in crisi di Giunta da mesi e quindi non fanno niente, innestando una situazione pericolosissima. Non crediate che sia così facile fare bene i decreti sostitutivi in mancanza di legislazione regionale, perché i decreti sostitutivi sono inevitabilmente rozzi. C’è poi da riorganizzare l’Amministrazione dello Stato in coerenza con i principi della legge 59.

La partita è molto più difficile perché - anche per la ragione che dicevo - l’interruzione del processo di riforma costituzionale ha inevitabilmente fatto sì che chi pensava di aver perso la partita a difesa di legittimi interessi centralisti, di legittime ancorché vecchie culture burocratiche (ritenendo anche che in fondo a poco potesse servire una battaglia di retroguardia in attesa dell’arrivo della nuova Costituzione), oggi invece pensa che la partita possa essere vinta: si è fermato il processo di riforma costituzionale e si può quindi benissimo bloccare il processo di riforma amministrativa. Siamo in una fase di profonda ma difficile trasformazione della struttura del nostro sistema amministrativo: è il momento di effettuare contestualmente una serie di valutazioni culturali sull’autoreferenzialità delle amministrazioni al servizio dei cittadini, per superare la vecchia cultura burocratica (per cui quello che importava era rispettare le procedure fino all’ultimo codicillo e poi i risultati erano irrilevanti e indifferenti, tanto la Corte dei Conti non avrebbe mai messo nessuno sotto procedimento perché non si raggiungono i risultati mentre - per carità - se ci si dimenticava un codicillo procedurale quello sì era gravissimo). Anche questa è una rivoluzione culturale: pensare che si possano e si debbano misurare le performance delle amministrazioni. Quante discussioni ideologiche astratte sono state fatte! E ora bisogna considerare che si può assicurare un bene o un servizio per la collettività acquisendolo dal mercato o facendolo realizzare dalla società civile, e che queste soluzioni alternative possono costare meno alla collettività, che può convenire adottarle per concentrare le risorse pubbliche sulle funzioni pubbliche essenziali: anche questa è un’altra evoluzione culturale di fronte al quale ci sono moltissime resistenze.

Del pari va affrontato il tema dell’egualitarismo: dare gli aumenti contrattuali a tutti, a chi se li merita e a chi invece non fa assolutamente niente, è un metodo da superare, ed anche questa è una rivoluzione culturale. Tutte queste cose vanno fatte assieme, in una fase nella quale il processo riformatore sembra essersi fermato e vi è lo scontro muro contro muro tra le forze politiche anche su cose su cui avevamo verificato invece una larghissima convergenza (poi naturalmente in Parlamento si votava contro o a favore a seconda delle divisioni tra maggioranza e opposizione, però c'era una larga convergenza).

Allora la mia domanda torna al punto di partenza: prendiamo atto che sulla giustizia e sulla forma di Governo avevamo idee diverse - almeno così è apparso -; ma se sulla revisione della forma dello Stato, sulla riorganizzazione del nostro sistema amministrativo, sui principi che devono ispirare la ricostruzione di un sistema di istituzioni e di amministrazioni pubbliche capaci di reggere al confronto della competizione internazionale c'era invece una convergenza larga, perché almeno su questo non si può ripartire e cercare di costruire una strada di riforme? Una strada di riforme che a questo punto non sarà la riforma della seconda parte della Costituzione, ma che è una condizione importante perché chiunque governerà l'Italia nei prossimi anni non trovi un paese gettato ai margini della competizione internazionale e che ha accumulato un ritardo irrecuperabile, e non trovi una situazione in cui, nel corso di questo processo, le regioni, le province e i comuni sono stati messi nelle condizioni di fallire: se non si riesce a costruire bene l'operazione di trasferimento delle risorse, degli strumenti e dei mezzi, neanche la regione e il comune meglio amministrati riusciranno a far fronte ai nuovi compiti e alle nuove responsabilità, e si avrà un'amministrazione centrale dello Stato delegittimata per certi compiti e per certe attività ma che magari continuerà a farle residualmente; si avranno una serie di principi e di idee innovative largamente condivisi che però non saranno riusciti a realizzarsi in maniera convinta (e anche qui con il rischio che ritorni a prevalere la vecchia tradizionale cultura italiana che condanna il nostro paese ad essere arretrato, sulla base dell'idea che è inutile cercare di trasformare l’Italia in uno Stato moderno perché il nostro paese uno Stato moderno non lo può diventare, non lo può essere e può reggere marginalmente al confronto internazionale soltanto perché ci sono fantasia ed invenzione, c'è il sole, c'è un patrimonio culturale unico al mondo e vi sono alcune risorse importanti che poi alla fine ci consentono di galleggiare). Non essere in grado di reggere al confronto con gli Stati più avanzati, con le democrazie più moderne: ora io non credo che ci si possa rassegnare a questo, e proprio per tale ragione penso che le conclusioni di questa indagine conoscitiva siano importanti; esse dovrebbero rappresentare per tutti noi un invito alla riflessione sul modo con il quale possiamo riaprire un percorso di riforme costituzionali e amministrative. Non possiamo assumerci sulle nostre spalle la responsabilità di un fallimento, non possiamo scaricare sulle generazioni future la responsabilità di una scelta che ha fatto prevalere dissensi legittimi ma che riguardano prevalentemente altre cose rispetto alla possibilità di lavorare insieme in questa impresa di ammodernamento e di riforma del nostro sistema istituzionale amministrativo. Grazie.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Grazie, ministro Bassanini. La parola al vicepresidente Valducci. Chiude l'amico vicepresidente Dondeynaz. Colgo l'occasione per ringraziare i relatori, un saluto particolare mi sia consentito dare ai funzionari, che vedo qui, e ai collaboratori della Camera, che hanno dimostrato grande disponibilità e diligenza nella parte logistica ed organizzativa di questo seminario.

MARIO VALDUCCI, Vicepresidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Io svolgerò una brevissima conclusione. Ritengo che in questa fase fermare il cosiddetto federalismo amministrativo, che mi sembra una definizione corretta, sia una cosa sbagliatissima, che noi non dobbiamo assolutamente permettere. Però è anche vero che dobbiamo stare attenti a non far sì che questa riforma rimanga in mezzo al guado, andando a incrementare le strutture presenti in regione e magari in provincia, senza rimuovere le funzioni e le risorse umane e finanziarie che si trovano presso lo Stato centrale. Questo è un grande rischio che io vedo in questa fase di stallo e anche di ritorno di certe convinzioni centralistiche, quelle che anche nel 112 si vedono, soprattutto in alcuni settori, in alcuni ministeri, dove c'è sicuramente un'impronta più centralista rispetto ad altri.

Io penso che la nostra Commissione, così come quella sorta in seguito alla legge Bassanini, così come le Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato, debba in questo periodo cercare di dare una spinta affinché si attui quel regionalismo possibile che a Costituzione invariata sarebbe un grande passo avanti, e possa procedere la modernizzazione dello Stato. E ciò anche se è evidente quello che è stato anche detto poc'anzi: ci sono dei deficit da parte delle regioni, come d'altronde ce ne sono da parte dello Stato centrale. Ma noi non dobbiamo rinunciare a questo processo. Dobbiamo anzi cercare attraverso le nostre forze politiche, di andare a modificare normative con gli statuti e i regolamenti che oggi impediscono alle regioni stesse di passare a un sistema incentrato sulla logica del maggioritario (almeno per quanto riguarda le regioni a statuto ordinario), rispetto a una situazione nella quale ancora oggi vi sono statuti e regolamenti che spesso sono molto consociativi: così in tutte le regioni, sia del nord, che del centro, che del sud, spesso per andare a modificare solo l'ordine del giorno è necessario avere i quattro quinti.

Quindi siamo di fronte ancora a delle strumentazioni delle regioni che non consentono il recepimento delle funzioni e dei compiti che attraverso il decreto 112 vengono loro attribuiti, anche per la farraginosità e la difficoltà che si incontrano nell'applicazione di questi strumenti. Penso che siamo in una fase costituente delle regioni e ritengo che dobbiamo trarre insegnamento da quella esperienza positiva che è stata l'introduzione della legge 81 sui comuni e le province: una legge che, anche attraverso l'elezione diretta dei Presidenti delle province e dei Sindaci, ha dato un impulso e ha avvicinato queste istituzioni ai cittadini come nessun altra legge negli ultimi quarant'anni ha cercato di fare.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Grazie, onorevole Valducci. La parola all'onorevole Dondeynaz.

GUIDO DONDEYNAZ, Vicepresidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Molto brevemente perché siamo al termine della nostra riunione. Credo però di dover evidenziare una questione. Purtroppo ancora oggi vediamo che la storia si ripete: ancora una volta ci troviamo di fronte a una mancata scelta del paese, che oggi si è registrata. E ciò pur se quando abbiamo iniziato questo lavoro come Commissione per le questioni regionali l'intendimento era proprio quello di accompagnare un processo più ampio e dare tutti i supporti possibili e le occasioni di confronto affinché questo lavoro fosse facilitato. In questo ambito c'è un dato esemplificativo: il professor Barbera ricorda nella sua audizione come, negli anni in cui si fecero le regioni, nell'arco di pochissimo tempo vi sia stata una controrivoluzione che fermava, bloccava di fatto il processo; e di conseguenza le argomentazioni di natura culturale che sono state sollevate sulle difficoltà ed i disagi che questo paese ha nell’affrontare un modello di natura federale sono tutte vere. Io parto però da una considerazione: noi siamo di fronte ad una strada inevitabile da percorrere; e credo che il modello federale sia lo strumento più adatto per comporre le differenze di cui il nostro paese è ricco ed è pieno. E’ il modo - oserei dire addirittura in maniera sinergica - per produrre anche degli effetti estremamente positivi. D'altra parte devo ricordare - con questo voglio concludere - che se pur non ho la stessa opinione del professore Fisichella, è mancato molto questo confronto: in Italia sono diventati tutti federalisti in un colpo. E questo mette in evidenza un fatto molto grave: che forse la cosa più grave è quella di non decidere, di non scegliere, ci troveremo - come ha detto Valducci - in mezzo al guado, dove i costi aumenteranno, la riforma non si fa, i cittadini avranno meno servizi. E’ questo il grave pericolo a cui andiamo incontro. Questa non scelta forse è dipesa anche da uno scarso dibattito, per cui si è dato per scontato che la questione federalista fosse acquisita da tutti (e soltanto oggi ho sentito dire con una certa determinazione che le strutture della vita sociale non sono preparate al federalismo). Di questo bisogna prendere consapevolezza e coloro che vogliono intraprendere questa strada debbono pensare a come rimuovere gli ostacoli, a come fare iniezioni culturali che consentano di affrontare la riforma. Con questo vi ringrazio tutti.

MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Grazie a tutti e buon pomeriggio.

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