PDL 24
XV LEGISLATURA
CAMERA DEI DEPUTATI
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N. 24
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PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa del deputato REALACCI
Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza
Presentata il 28 aprile 2006
Onorevoli Colleghi! - La comunità di Sant'Egidio si è fatta promotrice, nel Paese e nel Parlamento, di una riforma della normativa sulla cittadinanza (legge 5 febbraio 1992, n. 91), che ha sostituito un testo che era in vigore da circa ottanta anni (legge 13 giugno 1912, n. 555), i cui contenuti condividiamo.
Il testo attuale della legge n. 91 del 1992 conferma, e per certi aspetti rafforza, princìpi vecchi, tipici di un Paese la cui popolazione emigra per lavoro e completamente inconsapevoli della realtà nuova e diffusa dell'inserimento stabile di cittadini stranieri nel nostro Paese. Afferma con forza il principio dello
ius sanguinis, l'acquisto della cittadinanza automatico quando il padre o la madre siano cittadini [articolo 1, comma 1, lettera
a)], limita l'acquisto della cittadinanza in base al principio della nascita sul territorio, lo
ius soli, solo al bambino figlio di ignoti o apolidi o nel caso in cui i genitori non trasmettano, secondo la legge del Paese di provenienza, la propria cittadinanza al figlio [articolo 1, comma 1, lettera
b)]. Si tratta di casi solo teorici e comunque residuali. Di conseguenza il bambino che nasce in Italia da cittadini stranieri non ha oggi alcuna possibilità di diventare cittadino italiano finché è minorenne.
Ancora meno è riconosciuta questa possibilità al bambino straniero che arrivi in Italia anche in età precocissima, prima dell'inserimento scolastico, per il quale non c'è nessuna possibilità di divenire cittadino da minorenne e che anche da maggiorenne ha attualmente prospettive assai incerte.
Anche per gli adulti la normativa del 1992 restringe notevolmente le possibilità di acquisto della cittadinanza: servono non più cinque anni, come in precedenza, ma dieci anni per fare richiesta della cittadinanza [articolo 9, comma 1, lettera
f)], sono conteggiati solo i periodi di residenza locale nel Paese perché non è sufficiente il solo possesso del permesso di soggiorno
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(articolo 1, comma 2, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 12 ottobre 1993, n. 572), il procedimento amministrativo di concessione della cittadinanza ha una durata prevista di almeno due anni. In pratica, anche nel caso teorico in cui rilascio del permesso e l'elezione della residenza siano contemporanei, servono oggi almeno dodici anni per avere una risposta alla propria richiesta di cittadinanza.
Si tratta del periodo in assoluto più lungo in Europa: la Germania richiede otto anni, la Francia e il Regno Unito cinque. L'Italia ha in materia di naturalizzazione degli adulti la normativa più restrittiva d'Europa mentre non ne ha nessuna in materia di acquisto della cittadinanza per i minorenni.
L'impostazione della legge, a più di quattordici anni dalla sua entrata in vigore, ha dato risultati largamente prevedibili: mentre aumenta la presenza degli stranieri nel nostro Paese e si diffonde l'esigenza di assicurare forme stabili di inserimento, la possibilità di acquisto della cittadinanza riguarda una quantità sempre più irrisoria di persone.
Addirittura negli ultimi cinque anni, mentre la presenza di stranieri non comunitari ha registrato una crescita sensibile, i provvedimenti di concessione della naturalizzazione per residenza sono costantemente diminuiti.
Secondo i dati del Ministero dell'interno, riguardanti il periodo dal 1
o gennaio 1995 al 18 settembre 2002, sono state 8.516 in quasi otto anni le concessioni della cittadinanza a soggetti non comunitari con naturalizzazione per residenza, una media annua di 1.098 provvedimenti; si è passati dai 1.709 del 1999, il numero più alto in assoluto, a soli 511 dal gennaio al settembre 2002.
Negli anni dal 1999 al 2004, mentre l'Italia è passata da 1.341.000 stranieri non comunitari regolarmente presenti nel Paese nel 1999 a circa 2.400.000 nel 2003, con una crescita del 79 per cento, le naturalizzazioni per residenza sono diminuite del 70 per cento.
Eppure già nel 2000 erano più di 350.000 gli stranieri con residenza legale nel Paese da almeno dieci anni; 1.465 naturalizzazioni per residenza nello stesso periodo rappresentano meno dello 0,5 per cento dei soggetti potenzialmente richiedenti.
Probabilmente questa tendenza è il risultato combinato di due fattori: prima di tutto l'alto numero di rigetti delle domande proposte (nel 2002 sono stati 762 a fronte di 511 provvedimenti positivi) quasi tutti motivati da ragioni di insufficienza dei redditi; in secondo luogo un effetto inevitabile di scoraggiamento quando si diffonde la conoscenza dell'effettivo funzionamento della legge, per cui neppure più si richiede quello che è quasi impossibile ottenere.
Si tratta di cifre che esprimono chiaramente la completa inadeguatezza e il fallimento della legge vigente.
La proposta di legge di riforma della legge sulla cittadinanza n. 91 del 1992 assume quindi oggi un valore prioritario in una politica di inserimento stabile, con chiarezza di diritti e doveri, degli stranieri nel nostro Paese, riconoscendo la forma più matura di partecipazione a chi ha un progetto di vita futura in Italia, con pienezza quindi anche di diritti politici e civili.
Bisogna riformare la legge con una pluralità di proposte, come plurali sono le situazioni che oggi caratterizzano la presenza straniera nel nostro Paese: per i bambini che qui nascono, per quelli che vi arrivano in età infantile o adolescenziale, per gli adulti. Il bambino nato in Italia da genitore straniero nasce e vive in Italia come tutti gli altri bambini, ne impara la lingua, mentre la trasmissione della lingua materna è affidata solo al genitore, ne frequenta la scuola, acquisisce di questo Paese gusti, cultura, abitudini. Conosce il Paese di provenienza dei genitori solo se questi decidono, e hanno la possibilità economica, di farlo viaggiare; più facile per gli stranieri non comunitari provenienti da Paesi europei, ben più costoso e improbabile per chi proviene dall'Asia, dall'America latina o dall'Africa. È un
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bambino straniero nel «suo» Paese, diverso dai suoi coetanei per ragioni incomprensibili.
Si tratta di una realtà che la legge vigente ignora completamente; quando nel 1992 la legge è stata approvata i minori stranieri presenti nel Paese erano 76.400, nel 2002 il loro numero è arrivato a 327.000, secondo le stime elaborate dall'Istituto nazionale di statistica.
Cresce la loro presenza in termini assoluti e cresce il loro peso percentuale sul totale della presenza straniera, passando dal 10,8 per cento del 1992 al 19,2 per cento del 2002.
Dei 327.000 minori presenti in Italia nel 2002, un numero vicino alla metà è anche nato in Italia.
Questi bambini secondo la legge vigente attraversano tutto il periodo fondamentale della crescita e della formazione della propria personalità in questa condizione di estraneità, stranieri nel proprio Paese.
Nel Preambolo della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 e resa esecutiva dall'Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176, si afferma che «occorre preparare pienamente il fanciullo ad avere una sua vita individuale nella società, ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati dalla Carta delle Nazioni Unite, in particolare in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà». È chiaro come la condizione di estraneità in cui cresce il minore straniero rischi di compromettere questi princìpi che la Convenzione sui diritti del fanciullo ha affermato nel Preambolo ed è altrettanto evidente che questa incomprensibile diversità può persino alimentare preconcetti discriminatori che costituiscono una minaccia concreta alla dignità del bambino.
Anche la Convenzione europea sulla nazionalità, conclusa tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa il 6 novembre 1997, in attesa di ratifica da parte del nostro Paese, si dimostra consapevole del problema e prevede per questo che ciascun Stato Parte faciliti nel suo diritto interno l'acquisto della cittadinanza per le «persone nate sul suo territorio e ivi domiciliate legalmente e abitualmente» [articolo 6, paragrafo 4, lettera
e)].
Attualmente il minore nato in Italia può chiedere la cittadinanza solo al raggiungimento del diciottesimo anno di età e perde definitivamente questo diritto se non lo esercita nei dodici mesi successivi (articolo 4, comma 2, della legge n. 91 del 1992).
Ma neppure questa condizione è sufficiente, visto che è richiesta anche la prova della residenza legale senza interruzioni dalla nascita [articolo 3, comma 4, lettera
b), del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 12 ottobre 1993, n. 572): accade così che anche chi è nato in Italia e vi ha continuativamente vissuto fino a diventare maggiorenne, non possa ottenere la cittadinanza solo perché la madre, che aveva al momento del parto un regolare permesso di soggiorno, non aveva a quel momento eletto la residenza nel comune, come spesso accade quando non si dispone di un alloggio stabile, oppure perché nell'arco dei diciotto anni il nucleo familiare si è allontanato per qualche mese dal Paese e ha, per questa ragione, perso la residenza.
Molti Paesi di antica tradizione immigratoria hanno da tempo valorizzato un principio di
ius soli puro, appena contemperato da alcune condizioni : è cittadino alla nascita chiunque nasca nel territorio del Paese. Così gli USA, il Canada, l'Australia. Si è dimostrata una misura lungimirante che ha accresciuto negli immigrati delle generazioni successive alla prima il senso di appartenenza al Paese in cui nascono e crescono e che ha contribuito non poco allo sviluppo e alla crescita economica di quei Paesi.
La modifica alla legge sulla cittadinanza che si propone prevede per il minore nato in Italia un'attuazione più graduata del principio dello
ius soli in quanto la proposta di legge coniuga due requisiti: la nascita nel Paese e la presenza regolare del genitore da almeno due anni, in possesso del permesso di soggiorno per uno dei motivi previsti dall'articolo 6, comma 1, o dall'articolo 30 del testo unico di cui
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al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
È bene chiarire che si tratta di una modifica da introdurre all'articolo 1 della legge n. 91 del 1992, e non all'articolo 9, perché prevede un modo di acquisto di diritto della cittadinanza, con un provvedimento quindi che presuppone esclusivamente l'accertamento dei requisiti previsti dalla legge e non la concessione con ampie facoltà discrezionali per l'amministrazione, come nel caso appunto dell'articolo 9 per le naturalizzazioni degli adulti. Accade di frequente che il genitore lasci il figlio, anche molto piccolo, nel proprio Paese ai parenti e arrivi in Italia da solo; dopo qualche anno, quando si è stabilizzato e in particolare quando dispone di un alloggio anche per il minore, si fa raggiungere. Si tratta di un bambino spesso in età prescolare o ancora adolescente che vive gli anni centrali della sua formazione in Italia, dove frequenta il ciclo scolastico dell'obbligo: attualmente non ha alcuna possibilità di divenire cittadino finché è minorenne. Non solo, ma a differenza della situazione del minore nato in Italia, anche una volta divenuto maggiorenne non ha altra possibilità che quella di chiedere la naturalizzazione per residenza.
In pratica tutto il periodo, prolungato e significativo, di crescita e di formazione in Italia non ha alcun valore, senza tener conto del fatto che questo periodo è determinante nella costruzione dell'identità della persona e nella maturazione del senso di appartenenza all'Italia.
Si tratta dell'altra metà circa dei 327.500 minori che nel 2002 erano presenti nel nostro Paese.
La citata Convenzione europea sulla nazionalità, proprio in relazione a queste situazioni, prevede che ogni Stato Parte faciliti nel suo diritto interno l'acquisto della cittadinanza per le «persone che risiedono nel suo territorio legalmente e abitualmente per un periodo iniziato prima dell'età di diciotto anni, periodo determinato dal diritto interno dello Stato Parte interessato» [articolo 6, paragrafo 4, lettera
f)].
L'idea che ispira la proposta di legge di riforma della legge n. 91 del 1992 costituisce un'alternativa sia allo
ius sanguinis come allo
ius soli: l'acquisizione di un diritto per la presenza e per la partecipazione attiva alla vita del Paese in cui da bambini ci si inserisce, alla scuola, alla formazione professionale, anche al lavoro. Uno
ius domicilii che si affianca allo
ius soli per chi non è nato in Italia, ma qui vive gli anni decisivi della formazione della sua personalità.
I fatti che fondano questo diritto sono sia la durata della permanenza in Italia per un congruo periodo di anni, sei anni, che costituiscono un indice di stabilità significativo nella vita del minore, sia la qualità di questa permanenza, contrassegnata dalla partecipazione alla scuola e alla formazione professionale. Come nel caso dei minori nati in Italia, la modifica viene attuata con l'introduzione di una apposita disposizione nella legge n. 91 del 1992, perché riconosce il diritto alla cittadinanza ad esito di un provvedimento di accertamento costitutivo. Attualmente all'adulto straniero che fa domanda per ottenere la cittadinanza italiana sono richiesti dieci anni di residenza legale in Italia [articolo 9, comma 1, lettera
f)]. Il tempo effettivo deve però considerare anche la durata, almeno biennale, del procedimento: si tratta quindi di un tempo complessivo di almeno dodici anni. È richiesta sempre l'attestazione del requisito del reddito, in genere relativo al triennio immediatamente precedente la presentazione della domanda, in una misura che attualmente non è definita né dalla legge né dai successivi regolamenti.
La proposta di legge di riforma della naturalizzazione è ispirata al principio di una ragionevole riduzione del periodo di regolare presenza in Italia, fissato in sei anni, tenendo conto che il tempo effettivo per ricevere una risposta sull'istanza di naturalizzazione verrebbe così a scendere dagli attuali dodici anni a otto, comunque un periodo consistente.
Sei anni costituisce per l'adulto, al pari di quanto già osservato per il minore, un indice di stabilità significativo, maggiore di
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due anni del periodo richiesto per la naturalizzazione degli stranieri comunitari [articolo 9, comma 1, lettera
d)] e più elevato del periodo quinquennale su cui è orientata la normativa comunitaria per il rilascio di titoli di soggiorno per stranieri lungoresidenti.
Tra i requisiti, essenziale è la richiesta di una conoscenza adeguata della lingua e della cultura italiane, che costituisce un indice significativo della qualità della presenza dello straniero nel Paese e della sua effettiva volontà di progettare il proprio futuro come cittadino.
Per quanto riguarda il possesso dei requisiti reddituali, è opportuno che il parametro di valutazione sia predeterminato legalmente al fine di consentire un accertamento, al momento della proposizione della richiesta, obiettivo e prevedibile negli esiti. Per questa ragione la proposta di legge prevede espressamente la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo dell'assegno sociale.
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PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
1. Al comma 1 dell'articolo 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sono aggiunte le seguenti lettere:
«b-bis) chi è nato nel territorio della Repubblica se il genitore è regolarmente presente in Italia da almeno due anni e titolare del permesso di soggiorno previsto dall'articolo 6, comma 1, o dall'articolo 30 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni;
b-ter) il minore figlio di genitore straniero se fornisce prova della presenza continuativa in Italia da almeno sei anni e della partecipazione ad un ciclo scolastico o di formazione professionale oppure dello svolgimento di regolare attività lavorativa, unitamente alla conoscenza adeguata della lingua e della cultura italiane».
Art. 2.
1. La lettera f) del comma 1 dell'articolo 9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è sostituita dalla seguente:
«f) allo straniero regolarmente presente nel territorio della Repubblica in forma continua e abituale da almeno sei anni, se dimostra di essere in possesso di un reddito sufficiente al proprio sostentamento, in misura non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale, e di conoscere in maniera adeguata la lingua e la cultura italiane».