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PDL 1217

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1217



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato BELLILLO

Modifica all'articolo 1 della legge 10 ottobre 2005, n. 207, recante conferimento della Croce d'onore alle vittime di atti di terrorismo o di atti ostili impegnate in operazioni militari e civili all'estero

Presentata il 27 giugno 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - Nel mese di novembre del 2005, la signora Adele Parrillo, compagna del regista Stefano Rolla, ucciso nel 2003 nell'attentato contro la base militare italiana di Nassiriya, mentre si trovava in Iraq per girare un documentario, è stata protagonista del tutto involontaria di un caso lampante dell'ingiustizia che può derivare dalla mancanza di riconoscimento legale delle cosiddette «coppie di fatto».
      Adele Parrillo e Stefano Rolla non erano sposati, ma vivevano insieme da anni ed erano in tutto e per tutto una famiglia. Ciò non ha impedito che lei, rimasta vedova, venisse esclusa dall'assistenza economica e psicologica prevista per i familiari delle vittime dell'attentato, e persino depennata dall'elenco degli invitati alle celebrazioni ufficiali per ricordare i morti. Il 12 novembre 2005, infatti, alla signora Parrillo non è stata risparmiata l'inaudita umiliazione di vedersi negato l'accesso all'altare della Patria per presenziare alla cerimonia di suffragio delle vittime di Nassiriya.
      La Parrillo, oltre ad essere stata vittima di una ottusa burocrazia, ha perso anche i diritti sul lungometraggio sulla missione militare italiana in Iraq cui stava lavorando. Tutto questo perché con il suo compagno formavano una coppia di fatto.
      Per due anni, malgrado le sue denunce, la sua vicenda è stata quasi completamente ignorata. Così ha incominciato una crociata, una battaglia di civiltà, una denuncia che non cadrà nel vuoto: quella contro la discriminazione delle coppie di fatto.
      E così, con il semplice proporsi all'attenzione pubblica, ha segnalato un vuoto normativo. Nella nostra società civile, infatti, esiste una articolata fattispecie di dinamiche relazionali, che comportano ricadute sociali rilevantissime e che non
 

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sono riconosciute, in alcun modo, dal nostro ordinamento. Chi si ostina ancora, come larga parte del pensiero dominante influenzato dalla Chiesa, nel ritenere la famiglia immutabile e «naturale», compiuta e conclusa nel matrimonio (meglio se religioso), non sa fare i conti con la storia, con l'antropologia culturale, con i mutamenti in atto, segnalati da molte ricerche sociali, e, soprattutto, non considera che i cambiamenti che minacciano quel modello non vengono tanto da fattori «esterni», quali la domanda di riconoscimento avanzata dalle coppie omosessuali o le istanze in favore della riproduzione assistita, ma, piuttosto, da fattori «interni» alla famiglia «normale», ai rapporti eterosessuali e di generazione. E tutto questo perché sono venuti meno i rapporti gerarchici sui quali quella normalità tradizionalmente si fondava; perché la sessualità è di fatto scollegata dalla riproduzione, così come quest'ultima lo è dal matrimonio; perché la fragilità dei rapporti di coppia ha determinato una sostanziale ridefinizione dei confini della famiglia, mutando radicalmente l'esperienza della genitorialità quanto quella dell'essere figli, indebolendo i rapporti di sangue in favore di rapporti elettivi; perché, infine, l'allungamento della vita media comporta profondi cambiamenti nei rapporti tra generazioni, dove le relazioni di responsabilità, di solidarietà e di assistenza, all'interno del nucleo familiare, appaiono maggiormente articolate, sovrapposte, intrecciate.
      In Italia, chi convive anche da molti anni fuori dal matrimonio non può chiedere permessi di lavoro per assistere il partner che si ammala gravemente, non può continuare a vivere nell'appartamento del convivente deceduto senza il permesso dei parenti più prossimi, non ha diritto alla pensione di reversibilità.
      È assurdo il fatto che, ad oggi, il nostro Paese riconosca la convivenza sotto il profilo legislativo soltanto in un'occasione, cioè quando si tratta di effettuare delle visite a un detenuto da parte del convivente. Ciò è abbastanza singolare perché il legislatore sembra essersi preoccupato di riconoscere la convivenza soltanto sotto questo aspetto: forse, pensava che i conviventi sarebbero stati quelli più soggetti a provvedimenti restrittivi della libertà, altrimenti non si spiega perché non si è mai occupato della questione in altre occasioni.
      Sappiamo bene, onorevoli colleghi, che i parlamentari, senatori e deputati possono estendere l'assistenza sanitaria integrativa interna ai loro conviventi, i quali però possono anche godere della pensione di reversibilità, grazie a una semplice dichiarazione di convivenza sottoscritta dal parlamentare che ne fa richiesta. Ma in seno al Parlamento, gli stessi detrattori dei patti di convivenza, laici e cattolici, si sono guardati bene dal chiedere l'abolizione di questo regolamento. Perché? Perché dunque da legislatori non consentire ad altri che si possono trovare nelle medesime condizioni di ricevere un trattamento equivalente?
      L'approvazione della presente proposta di legge può rappresentare un primo successo nel cammino e nel progresso della società civile. Una prima risposta a quella richiesta di riforme attente ai diritti civili, che, sulla base dell'articolo 2 della Costituzione, che prevede lo svolgimento e la realizzazione della personalità nelle formazioni sociali, dia riconoscimento giuridico alle coppie che lo vogliano, e che, sulla base dell'articolo 3 della Costituzione, relativo al divieto di discriminazione per le condizioni personali, colmi quel vuoto normativo. Perché se è vero che la discriminazione delle coppie di fatto non è contenuta esplicitamente in nessuna norma, è anche vero che vi sono delle situazioni nelle quali l'assenza della norma si traduce, per tale tipo di coppia, in discriminazione.
      In tema di famiglia di fatto esiste una giurisprudenza sempre più cospicua, una giurisprudenza che, però, non manca di incertezze. E laddove c'è giurisprudenza, dove i giudici sono chiamati a intervenire, evidentemente c'è domanda di diritto. Esistono in Italia delle sentenze che già equiparano le famiglie di fatto alle famiglie matrimoniali, ma quando la famiglia di fatto può essere equiparata alla famiglia legittima? Qual è la durata di questa
 

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convivenza? Quali sono i requisiti che un giudice deve accertare per riconoscere alcuni diritti anche al convivente di fatto? Queste sono le notevoli difficoltà che sull'argomento deve affrontare parte della giurisprudenza, in assenza di una qualunque minima indicazione legislativa.
      In pressoché tutti i Paesi della tradizione giuridica occidentale ormai, ad esclusione dell'Italia, esistono schemi legali alternativi al matrimonio. È evidente che l'Unione europea ci spingerà a riconoscere queste forme giuridiche familiari con i loro diritti; d'altra parte il solo nostro Paese non può ergersi a decisore della moralità o dell'eticità di scelte prese in altri ordinamenti. Quindi, se altri ordinamenti richiamano e riconoscono certe forme alternative al matrimonio, anche noi dovremo fornire qualche tipo di riconoscimento.
      Onorevoli colleghi, auspico la pronta approvazione della presente proposta di legge, con lo stesso tempismo e lo stesso iter legislativo che hanno caratterizzato l'approvazione, in sede legislativa, del testo madre, la legge 10 ottobre 2005, n. 207, nella XIV legislatura.
      L'equiparazione, al comma 6 dell'articolo 1 della legge n. 207 del 2005, del convivente more uxorio al coniuge superstite beneficiario della Croce d'onore alla memoria del congiunto caduto, rappresenterebbe il minimo e doveroso riconoscimento di uno Stato civile a chi è già straziato dal dolore per la perdita del partner.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. All'articolo 1, comma 6, della legge 10 ottobre 2005, n. 207, dopo la parola: «coniuge» sono inserite le seguenti: «o al convivente more uxorio».


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