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PDL 1505

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1505



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

PEDICA, CARBONELLA, CARTA, EVANGELISTI, FOGLIARDI, GRASSI, LO MONTE, MORRONE, MURA, LEOLUCA ORLANDO, OSSORIO, SAMPERI, TURCO, VILLARI

Modifiche all'articolo 25 della legge 7 agosto 1990, n. 241, in materia di «silenzio rigetto»

Presentata il 28 luglio 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - Autorevole dottrina lamenta la mancanza di una disciplina generale relativa all'inerzia della pubblica amministrazione: «La stessa previsione di cui all'articolo 2 della legge n. 241 consente di qualificare il silenzio come inadempimento di un obbligo, ma non ne indica le conseguenze né le forme di tutela da accordare ai soggetti interessati».
      È noto come il meccanismo del silenzio-rifiuto sia il frutto di costruzioni giurisprudenziali, la cui «nascita» può essere rinvenuta nel lontano 1922 (decisione del Consiglio di Stato, Sez. IV 22 agosto 1922, n. 429).
      Prima della legge 7 agosto 1990, n. 241, per giungere al silenzio-rifiuto, cioè alla constatazione della violazione dell'obbligo da parte della pubblica amministrazione di provvedere su una istanza di un cittadino, era necessario il ricorso alla procedura complessa della diffida con messa in mora (articolo 25 del testo unico delle leggi sugli impiegati civili dello Stato), peraltro solo a fini civilistici.
      Si è dovuto attendere l'intervento della dottrina (1977) e il successivo accoglimento da parte del Consiglio di Stato (10 marzo 1978, n. 10) perché in via di analogia questo istituto potesse avere una applicazione giurisdizionale davanti al giudice della amministrazione.
      Orbene: se ora la legge 7 agosto 1990, n. 241, ha finalmente imposto un termine al procedimento e individuato il responsabile
 

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di esso, resta pur sempre la necessità del ricorso giurisdizionale avverso il silenzio-rigetto, con il problema, tra gli altri, che sulla natura del termine per ricorrere dottrina e giurisprudenza sono divisi, per non parlare poi delle implicazioni di diritto penale come il reato di omissione di atti di ufficio.
      Un punto è però condiviso da tutti, e cioè la natura «patologica» del silenzio.
      Se questo tipo di omissione da parte della pubblica amministrazione può essere annoverato in un ordine accettabile delle cose, come pure l'intervento del giudice (nel senso di rinvenirvi un aspetto non straordinario, cioè fuori del sistema dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, nel campo del riconoscimento o meno della esistenza di un effettivo interesse legittimo protetto o di un diritto soggettivo), non altrettanto può dirsi quando il «silenzio-rifiuto», (più correttamente definito dalla dottrina «silenzio-rigetto») attesa, appunto, la peculiarità della fattispecie legale astratta, si verifica in sede di diritto di accesso, secondo l'attuale disciplina del comma 4 dell'articolo 25 della citata legge 7 agosto 1990, n. 241.
      In questo caso abbiamo una fattispecie legale del tutto diversa da quella ordinaria che regola il rapporto cittadino-pubblica amministrazione, perché si tratta della tutela di situazioni giuridiche soggettive totalmente diverse da quelle, per così dire, generali che si riferiscono al riconoscimento o meno di diritti o interessi, (come ad esempio concessioni, autorizzazioni, licenze eccetera).
      Qui abbiamo una domanda rivolta a conoscere atti, procedimenti, spesso complessi, che si sono già conclusi e che producono effetti con provvedimenti negativi o positivi, potendo avere in sé atti o pareri importantissimi, definiti come «presupposti», che il richiedente ignora e che, costituendo appunto come presupposti il «materiale di costruzione» dell'atto, hanno un valore anche determinante per valutare la legittimità o meno del provvedimento posto in essere dall'autorità pubblica. Provvedimento che potrebbe essere lesivo di un interesse o di un diritto del richiedente.
      Rientra nel buon senso, prima di iniziare un cammino, fare luce, magari per evitare proprio la «buca» di un contenzioso inutile e dispendioso, anche in termini di tempo oltre che di danaro, se ci si avvede che l'atto con tutti i presupposti, è conforme a legge.
      Il silenzio-rigetto contribuisce, al contrario, a non far luce preventivamente, così da alimentare quella sensazione, quando non è cultura, di diffidenza, per non parlare di sospetto, che il cittadino spesso non nasconde quando incontra l'amministrazione pubblica sia essa statale sia essa periferica, con il risultato spesso di un abbandono della richiesta per stanchezza!
      Poter vedere, invece, come si è concluso un procedimento amministrativo nelle sue diverse fasi, significa poter valutare «cognita causa» se sia stata lesa o meno la sfera giuridica del richiedente mediante appunto l'accesso agli atti e, di conseguenza, poter disporre liberamente e serenamente, con un risparmio di attività e di tempo, una possibile tutela dell'interesse o del diritto sostanziale.
      L'accesso è pertanto finalizzato, nel quadro di una normativa di riferimento che prevede espressamente il tipo di atti accessibili e quelli che non lo sono, a fare chiarezza, cioè trasparenza - secondo l'impianto sistematico della legge n. 241 del 1990 - e tutto ciò entro un termine breve (trenta giorni).
      Il silenzio-rigetto appare quindi al di fuori della stessa ratio della legge n. 241 del 1990, perché permette alla pubblica amministrazione, tranquillamente di non far conoscere, nonostante una espressa richiesta avanzata ai sensi di legge, il suo modo di procedere, come si è formata la sua volontà, come e se ha rispettato norme regolamentari (ad esempio sulla competenza, sulla formazione o acquisizione di pareri, perizie, eccetera).
      Con il permanere di questa figura giuridica in questo particolare settore dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione si alimenta sia il possibile sospetto di
 

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abusi, quando non è altro, sia la «istituzionalizzazione» del cittadino inteso «suddito».
      A parte tutto ciò, deve essere addotto anche un aspetto meramente tecnico: il comma 4 dell'articolo 25 della legge n. 241 del 1990 mal si concilia con l'articolo 24 della stessa legge, nel senso che da una parte (articolo 24) si afferma il principio della motivazione, per dire subito dopo (articolo 25, comma 4) che è possibile tacere, cioè non motivare!
      All'ufficio pubblico non manca certo il modo di esternare, motivandolo, il suo diniego di accesso, assumendo così una responsabilità, piuttosto che rifugiarsi dietro a un comodo paravento che poi dovrà essere tolto solo con l'intervento del giudice amministrativo, con innegabile aumento di un contenzioso già di per sé notevolissimo.
      L'attuale sistema comporta diversi problemi, come già detto, che si riflettono anche nel settore del diritto penale: ad esempio, la possibile configurazione del reato di omissione di atti di ufficio, reato che, se riconosciuto, non conforta di certo chi si muove solo, in fondo, per cercare di conoscere gli atti di un procedimento amministrativo che lo riguarda, e non proprio per ottenere, in primo luogo, la sanzione penale di chi gli ha rifiutato la conoscenza di atti.
      Per tali ragioni si auspica l'approvazione della presente proposta di legge.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Il comma 4 dell'articolo 25 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

      «4. Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta di accesso la stessa si intende accolta e i documenti richiesti si intendono disponibili».

      2. Al comma 5 dell'articolo 25 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, le parole: «e nei casi previsti dal comma 4» sono soppresse.


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