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PDL 1960

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1960



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

BOATO, BONELLI, BALDUCCI, FRANCESCATO, TREPICCIONE, PELLEGRINO, DE ZULUETA, CASSOLA, ZANELLA

Norme per la tutela dei lavoratori vittime di violenza e persecuzione psicologica nell'ambito dell'attività lavorativa (mobbing)

Presentata il 16 novembre 2006


      

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Onorevoli Colleghi! - La parola mobbing deriva dall'inglese to mob che significa «attaccare, assalire tumultuosamente, accalcarsi intorno a qualcuno» ed è stata coniata dall'etologo Konrad Lorenz per indicare «l'attacco verso un animale da parte di un gruppo di animali, allo scopo di estrometterlo dal proprio territorio».
      Nel corso degli anni ottanta, a seguito delle ricerche effettuate in Svezia da parte dello psicologo e psichiatra Heinz Lymann, tale termine fu adottato per indicare comportamenti di persecuzione e di violenza psicologica, che si ripetono per lungo tempo, da parte di una o più persone, nei confronti di un individuo nell'ambito di rapporti di lavoro.
      Il lavoratore che subisce questi comportamenti rileva spesso dei danni che incidono sulla sua autostima e che possono scatenare condizioni di grave depressione, riducendone la capacità lavorativa e portandolo, in casi estremi, anche al suicidio.
      Dall'ultimo rapporto sulle condizioni di lavoro in 31 Stati europei (l'Europa dei 25 più Bulgaria e Romania, Croazia, Turchia, Svizzera e Norvegia) dell'European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, emerge che la media
 

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dei lavoratori vittime di mobbing è del 5 per cento, con picchi nei Paesi del nord Europa (17 per cento in Finlandia, 12 per cento nei Paesi Bassi, 9 per cento in Francia e Regno Unito).
      L'Italia si colloca intorno al 2 per cento, ma questa differenza con gli altri Paesi è dovuta, secondo la Fondazione, al fatto che soltanto pochi casi vengono dichiarati, ad una minore sensibilità al tema e alle differenze nei sistemi giuridici.
      A causa della diffusione sempre più crescente del fenomeno, i Paesi dell'Unione europea hanno iniziato ad affrontarlo con importanti iniziative quali l'aggiornamento della Carta sociale europea, che, all'articolo 26, inserisce il diritto alla dignità del lavoro, e la risoluzione del Parlamento europeo AS-0283/2001 del 21 settembre 2001 «Mobbing sul posto di lavoro» che, al punto 10, «esorta gli Stati membri (...) a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del mobbing». A livello di singolo Paese, la Svezia è stato il primo, all'inizio degli anni novanta, ad adottare un'apposita legge sul mobbing; la Germania è oggi il cuore della ricerca europea sul fenomeno ed è anche quello in cui se ne discute maggiormente, seguito da Svizzera, Olanda ed Austria e da tutta la regione scandinava. In Francia è stata varata la legge n. 73 del 2002 la quale, fra le altre cose, prevede un'apposita fattispecie penale per le condotte di molestia fisica e psicologica negli ambiti lavorativi ed un'inversione dell'onere della prova in controversie civili in cui è il soggetto accusato di atti di mobbing a dover dare prova contraria.
      In Italia il fenomeno è diffuso, ma non esiste ancora una normativa in materia. Inoltre, l'aumento dei cosiddetti contratti atipici e della precarietà del lavoro costituisce una delle cause principali della maggiore frequenza dei fenomeni di mobbing, registrando un'alta percentuale tra le donne. Non è un caso, infatti, che il fenomeno stia emergendo solo ora, quando la concorrenza sempre più forte dovuta ai processi di globalizzazione impone alle aziende una maggiore flessibilità. Da un lato, quindi, i lavoratori precari e poco tutelati, dall'altro, i lavoratori più anziani che, seppur titolari di contratti che preservano da licenziamenti indiscriminati, in occasione ad esempio di fusioni, ristrutturazioni o cambio di dirigenza, spesso subiscono una vera e propria strategia «mobbizzante» da parte dell'azienda per costringerli ad andar via. Una caratteristica principale del «mobbing italiano», così come accennato in precedenza, proprio a causa della scarsa sensibilità sul tema, è quella che porta la vittima a non rendersi conto, nella fase iniziale, di essere oggetto di violenza, facendola rientrare nei casi di normale conflittualità. Solo successivamente, quando si è già entrati nella fase dei sintomi psicosomatici, il «mobbizzato» diviene consapevole.
      Inoltre, il ruolo che tradizionalmente la famiglia svolge nella nostra società fa sì che, nelle prime fasi del mobbing, la vittima vi trovi sostegno, comprensione e affetto. Tuttavia, nel lungo periodo, si può verificare il fenomeno del cosiddetto «doppio mobbing», così come definito da H. Ege, che consiste nell'inconscia cessazione di aiuto da parte della famiglia nei confronti del familiare «mobbizzato» al fine di tutelare se stessa, con conseguenze spesso gravi sia per la vittima che per l'intero nucleo familiare.
      Nelle more di una normativa statale in materia, alcune regioni hanno legiferato in tema di mobbing. Tuttavia, sono sorti conflitti di attribuzione tra lo Stato e le regioni circa la riconducibilità o meno alla sfera di competenza statale della disciplina del mobbing.
      Con sentenza n. 359 del 2003 la Corte costituzionale ha definito costituzionalmente illegittima la legge della regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 (Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro), in quanto «la disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell'ordinamento civile (articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione), quindi di potestà legislativa esclusiva dello Stato, e, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul
 

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luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (articoli 2 e 3, primo comma, della Costituzione). Per quanto concerne l'incidenza che gli atti vessatori possono avere sulla salute fisica (malattie psicosomatiche) e psichica del lavoratore (disturbi dell'umore, patologie gravi), la disciplina che tali conseguenze considera rientra nella tutela e sicurezza del lavoro nonché nella tutela della salute, cui la prima si ricollega, quale che sia l'ampiezza che le si debba attribuire (articolo 117, terzo comma, della Costituzione)» e cioè tra le materie di legislazione concorrente tra lo Stato e le regioni.
      Appare evidente, quindi, l'urgenza di una legge che formuli, a livello di normazione statale, la definizione di mobbing e descriva i comportamenti persecutori in modo generale, stabilendo i princìpi fondamentali per la tutela dei lavoratori che subiscono violenza e tenendo conto delle competenze regionali riguardanti l'assistenza e la prevenzione in materia di salute.
      La presente proposta di legge estende, inoltre, a tutte le tipologie di lavoro la tutela contro la violenza e la persecuzione psicologica, dando anche grande rilievo alla prevenzione e all'informazione. Essa prevede, inoltre, la nullità degli atti o fatti riconducibili a violenza o persecuzione psicologica e degli atti di ritorsione che possono condizionare l'iniziativa di tutela del lavoratore, stabilendo la responsabilità disciplinare in capo ai soggetti responsabili di azioni «mobbizzanti», e istituisce uno specifico strumento di tutela in via d'urgenza per il lavoratore vittima del mobbing.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Finalità, definizioni e ambito di applicazione).

      1. La presente legge detta i princìpi fondamentali in tema di mobbing, intendendosi per tale la violenza o persecuzione psicologica, come definita dal comma 2. Sono fatte salve le competenze delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano con riferimento agli interventi socio-sanitari in materia.
      2. Per violenza o persecuzione psicologica si intendono gli atti posti in essere o i comportamenti tenuti dal datore di lavoro, dal committente, dall'utilizzatore ai sensi dell'articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, da superiori ovvero da colleghi di pari grado o di grado inferiore, nei confronti del lavoratore, finalizzati a danneggiare l'integrità psico-fisica di quest'ultimo e che sono svolti con carattere sistematico e duraturo e con palese predeterminazione.
      3. Gli atti e i comportamenti rilevanti ai fini della presente legge si caratterizzano per il contenuto vessatorio e per le finalità persecutorie e si traducono in maltrattamenti verbali e in atteggiamenti che danneggiano la personalità del lavoratore, quali il licenziamento, le dimissioni forzate, il pregiudizio delle prospettive di progressione di carriera, l'ingiustificata rimozione da incarichi già affidati, ingiustificate discriminazioni e penalizzazioni del trattamento retributivo, l'esclusione dalla comunicazione di informazioni rilevanti per lo svolgimento delle attività lavorative, la svalutazione dei risultati ottenuti.
      4. Ai fini dell'accertamento della responsabilità soggettiva, l'istigazione da parte di soggetti che rivestono incarichi in posizione sovraordinata è equivalente alla commissione del fatto.

 

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      5. Le disposizioni della presente legge si applicano a tutte le tipologie di lavoro, pubblico e privato, indipendentemente dalla loro natura, nonché dalla mansione svolta e dalla qualifica ricoperta.

Art. 2.
(Attività di prevenzione e di accertamento. Codici antimolestie).

      1. I datori di lavoro, i committenti o gli utilizzatori ai sensi dell'articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e le rispettive rappresentanze sindacali adottano tutte le iniziative necessarie, ivi comprese apposite regole di comportamento, tenendo conto anche dell'esigenza di promuovere condizioni di pari opportunità, intese a prevenire e a contrastare i fenomeni di violenza e di persecuzione psicologica di cui alla presente legge e a rimuoverne le cause.
      2. Qualora gli atti e i comportamenti di cui all'articolo 1 siano denunciati, da parte di singoli o da gruppi di lavoratori, il datore di lavoro, i committenti o gli utilizzatori ai sensi dell'articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, anche su richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali, hanno l'obbligo di porre in essere procedure tempestive di accertamento dei fatti denunciati e di predisporre misure idonee per il loro superamento, anche coinvolgendo, ove ne ravvisino la necessità, i lavoratori dell'area interessata.
      3. I soggetti che stipulano i contratti collettivi nazionali di lavoro hanno la facoltà di adottare codici antimolestie e, in particolare, codici volti alla prevenzione degli atti e comportamenti di cui all'articolo 1, anche mediante procedure di carattere conciliativo e tecniche incentivanti.

Art. 3.
(Attività di informazione).

      1. I datori di lavoro, i committenti, pubblici o privati, ovvero gli utilizzatori ai

 

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sensi dell'articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e le rappresentanze sindacali pongono in essere iniziative di informazione periodica sulla fattispecie di cui all'articolo 1.
      2. I lavoratori hanno diritto di riunirsi fuori dall'orario di lavoro, nei limiti di cinque ore su base annuale, per discutere riguardo alle violenze e alle persecuzioni psicologiche di cui all'articolo 1. Le riunioni sono indette e si svolgono con le modalità e con le forme di cui all'articolo 20 della legge 20 maggio 1970, n. 300.

Art. 4.
(Potere di disposizione).

      1. Il personale ispettivo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale impartisce, nei confronti dei soggetti che pongono in essere gli atti o i comportamenti di cui all'articolo 1, le disposizioni di cui all'articolo 14 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124.
      2. La mancata ottemperanza alle disposizioni impartite ai sensi del comma 1 comporta l'applicazione della sanzione amministrativa da 1.000 euro a 6.000 euro.

Art. 5.
(Responsabilità disciplinare).

      1. Nei confronti di coloro che pongono in essere gli atti o i comportamenti previsti dall'articolo 1 si configura responsabilità disciplinare, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva.
      2. La medesima responsabilità di cui al comma 1 del presente articolo grava su chi denuncia consapevolmente fatti di cui all'articolo 1 che si rivelino inesistenti per ottenere vantaggi comunque configurabili.

Art. 6.
(Azioni di tutela giudiziaria).

      1. Qualora siano posti in essere atti o comportamenti previsti dall'articolo 1, su

 

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ricorso del lavoratore o, per sua delega, di organizzazioni sindacali, il tribunale territorialmente competente in funzione di giudice del lavoro, nei cinque giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritiene sussistente la violazione di cui al ricorso, ordina al responsabile del comportamento denunciato, con provvedimento motivato e immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo, dispone la rimozione degli effetti degli atti illegittimi, stabilisce le modalità di esecuzione della decisione e determina in via equitativa la riparazione pecuniaria dovuta al lavoratore per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione del provvedimento. Contro tale decisione è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti, opposizione davanti al tribunale, che decide in composizione collegiale, con sentenza immediatamente esecutiva, la quale determina altresì in via equitativa la riparazione pecuniaria per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione della medesima. Si osservano le disposizioni degli articoli 413 e seguenti del codice di procedura civile. L'efficacia esecutiva del provvedimento di cui al primo periodo non può essere revocata fino alla sentenza del tribunale che definisce il giudizio instaurato ai sensi del secondo periodo.
      2. Qualora dagli atti o comportamenti di cui all'articolo 1 derivi un pregiudizio per il lavoratore, quest'ultimo ha diritto al risarcimento dei danni, ivi compresi quelli non patrimoniali, da far valere in sede di giudizio di cognizione ordinaria. Resta comunque fermo quanto previsto dall'articolo 13 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, e successive modificazioni.
      3. Le variazioni nelle qualifiche, nelle mansioni e negli incarichi e i trasferimenti che costituiscono atti o comportamenti di cui all'articolo 1 nonché le dimissioni determinate dai medesimi atti o comportamenti sono impugnabili ai sensi dell'articolo 2113, commi secondo, terzo e quarto, del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei danni ai sensi del comma 2 del presente articolo.
 

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      4. Resta ferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per il personale di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni.
      5. È fatta salva la competenza delle consigliere e dei consiglieri di parità ai sensi degli articoli 36, 37 e 38 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198.

Art. 7.
(Pubblicità del provvedimento del giudice).

      1. Su istanza della parte interessata, il giudice può disporre che della sentenza di accoglimento ovvero di rigetto di cui all'articolo 6 sia data informazione, a cura del datore di lavoro, del committente o dell'utilizzatore ai sensi dell'articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, mediante lettera ai lavoratori interessati, per unità produttiva o amministrativa nella quale si sia manifestato il caso di violenza o persecuzione psicologica oggetto dell'intervento giudiziario, omettendo il nome della persona che ha subìto tali azioni.

Art. 8.
(Nullità degli atti discriminatori e di ritorsione).

      1. Tutti gli atti o i fatti che derivano da comportamenti di cui all'articolo 1 sono nulli.
      2. I provvedimenti relativi alla posizione soggettiva del lavoratore che ha posto in essere una denuncia per comportamenti di cui all'articolo 1, in qualunque modo peggiorativi della propria condizione professionale, compresi i trasferimenti e i licenziamenti, adottati entro un anno dalla data della denuncia, si presumono a contenuto discriminatorio, salvo prova contraria, ai sensi dell'articolo 2728, secondo comma, del codice civile.

 

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Art. 9.
(Disposizioni finanziarie).

      1. Gli obblighi derivanti dagli articoli 2 e 3 a carico delle pubbliche amministrazioni, in qualità di datori di lavoro o di committenti, trovano applicazione esclusivamente nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio.
      2. Dall'attuazione degli articoli 2 e 3 non possono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.


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