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PDL 2421

XV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 2421


 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

d'iniziativa dei deputati

PORETTI, BARANI, BELTRANDI, CAPEZZONE, COSTA, D'ELIA, GRILLINI, MELLANO, RIVOLTA, SANTELLI, TURCO

Modifica all'articolo 1 della Costituzione

Presentata il 21 marzo 2007

      

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Onorevoli Colleghi! - Era il 22 marzo del 1947 quando l'Assemblea costituente in una seduta pomeridiana approvò l'articolo 1 della Costituzione, il cui primo comma recitava: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Non «Repubblica dei lavoratori», come proponeva Palmiro Togliatti, non «fondata sui diritti della libertà e i diritti del lavoro» come proposero Ugo La Malfa e Gaetano Martino, ma «fondata sul lavoro» come mediò Amintore Fanfani. Quindi una soluzione primariamente politica e ovviamente compromissoria fra i due schieramenti che si fronteggiavano dopo il 25 aprile 1945, specchio del nuovo assetto internazionale che vedeva i Paesi vincitori avviarsi ad nuova guerra, detta «fredda». D'altra parte il «lavoro», quale principale elemento fondante della nuova Repubblica democratica d'Italia, costituiva nondimeno una priorità per un Paese distrutto dalla guerra. Solo attraverso il contributo di ogni cittadino al «progresso materiale e spirituale della società», come recita l'articolo 4 della Costituzione, l'Italia avrebbe potuto avviarsi verso ricostruzione e prosperità.
      Oggi, sessant'anni dopo, i frutti di quella straordinaria e miracolosa rinascita, già manifesti pochi anni dopo la fine del conflitto mondiale, sono davanti agli occhi di tutti. La «guerra fredda» si è conclusa da oltre un decennio e dopo di essa si sono presentate e continuano a presentarsi nuove sfide per la nostra democrazia. La prosperità dei cittadini non passa più attraverso una ricostruzione, ma attraverso la capacità di stare al passo e di competere in una nuova economia globale. Il
 

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pericolo principale per la nostra Repubblica non veste più i panni riconoscibili di un esercito invasore o di aspiranti despoti, ma quelli di invisibili strateghi del terrore. La risposta a quel terrore - che è la nostra reazione alla percezione di un pericolo imminente - può determinare le sorti della democrazia. Quando, nel nome della generale sicurezza e tranquillità saremo disposti a limitare la libertà di pochi, si aprirà davanti ai nostri occhi quella stessa voragine che i nostri Padri costituenti furono chiamati a chiudere. Se il lavoro rimane elemento essenziale nella società e nell'economia, come peraltro affermato più volte nella Carta fondamentale, esso si rivela oggi inadeguato quale unico elemento fondante la nostra democrazia. Proponiamo per questo di modificare il primo comma dell'articolo 1 della Costituzione come segue: «La Repubblica democratica italiana è uno Stato di diritto fondato sulla libertà e sul rispetto della persona».

L'articolo 1 della Costituzione.

      La proposizione con cui solitamente si apre una Costituzione ha un altissimo significato simbolico. È in essa che viene affermato un modello istituzionale ed è con essa che si esprimono i valori fondanti la base del vivere civile. Tramite il primo articolo di una Costituzione, si identifica un popolo, la sua forma di governo, la sua storia - quella dei diritti fino ad allora negati - ed anche le sue aspirazioni.
      Ma la Costituzione sarà efficace nell'affermare e proteggere i suoi valori fintanto che il «popolo» in essa identificato possa a sua volta identificare se stesso in quella dichiarazione d'apertura. L'articolo 1 è quello che intere generazioni dovrebbero imparare a memoria, tramandare o citare ogniqualvolta vi sia una sua patente o potenziale violazione. Con esso si dovrebbe misurare ogni giorno l'operato dei governanti, la sua eco riverberare nelle opere letterarie, nella cinematografia, nelle aule di tribunale. Tutte manifestazioni, queste, di una Costituzione viva, diffusamente sentita e quindi rispettata.
      A sessant'anni da quel 22 marzo 1947, non vi è dubbio che l'articolo 1 della Costituzione ha clamorosamente fallito questa sua alta missione: non identifica il popolo, inteso quale totalità dei cittadini, né il popolo italiano può identificarsi in esso. Al massimo riconosce una forma di governo («Repubblica democratica») basata su un'attività («lavoro»), che difficilmente può costituire il valore fondamentale di una società.

«Lavoro» e popolo.

      Anche se molte e concorrenti sono le definizioni di «lavoro», nel nostro ordinamento ne troviamo una autorevole all'articolo 4, comma 2, della Costituzione: «un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». In questo articolo, il «lavoro» è qualificato come diritto e dovere di ciascun cittadino. Una definizione molto ampia, volutamente indeterminata, che non si limita ad indicare un rapporto di lavoro tradizionale, come ad esempio quello pattuito in un qualsiasi contratto di impiego. Ma chi esattamente può riconoscersi nella categoria di «lavoratore», ovvero di cittadino che svolge l'attività sulla quale è fondata la nostra Repubblica?
      Possono identificarsi in quel primo articolo i milioni di cittadini disoccupati? E coloro che lavorano al nero, e quindi non pagano le imposte? I milioni di cittadini in fase di studio, minorenni e non, o di formazione sono lavoratori effettivi, oppure solo potenziali «attori»? Ed i milioni di cittadini non più in grado di lavorare in quanto affetti da gravi malattie o perché vittime di incidenti sul lavoro? Cosa dire ancora dei milioni di cittadini che percepiscono una pensione di anzianità, non più svolgendo l'attività «lavoro»? È da considerarsi «lavoratore» anche la persona alla ricerca della propria felicità e realizzazione, anche al costo di restare per lungo tempo senza «lavoro»?
      È possibile che attraverso complessi sofismi giuridici, il concetto di «lavoro» possa essere esteso a tutte le categorie sopraelencate, fino ad includere la totalità

 

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dei cittadini. Ma il semplice fatto che, a distanza di sessant'anni, queste domande possano ancora essere poste, che milioni di cittadini possano anche solo esitare a riconoscersi nel principio fondante della propria Repubblica, è indice del fallimento di quel primo articolo. Cosa ben più grave, chi esita nel riconoscersi in questo primo articolo, finirà per accogliere con diffidenza anche il resto della Costituzione.

Repubblica democratica.

      Il termine «Repubblica» era originariamente sinonimo di «Stato», ciò che appartiene alla sfera pubblica (latino «res publica», la cosa pubblica). Platone descrisse la sua repubblica (Politeia) uno Stato i cui «guardiani» sono re-filosofi, i soli ad avere piena coscienza degli ideali di giustizia e bene. Essi governano nel nome della maggioranza dei cittadini, i quali hanno una limitata percezione dei valori fondamentali. Dal diciassettesimo secolo in poi, il termine «Repubblica» è comunemente usato per indicare l'assenza della monarchia. Ma Repubblica non era e non è sinonimo di democrazia.
      I Costituenti ritennero quindi necessario qualificare ulteriormente l'espressione «Repubblica» con l'aggettivo «democratica». Con esso, si rafforza la partecipazione del popolo al governo della cosa pubblica, allontanandone le possibili degenerazioni dispotiche.
      Tuttavia, anche l'espressione «Repubblica democratica» è insufficiente ad individuare e garantire quei diritti che, se non rispettati, determinano una vera e propria dittatura, sebbene formalmente «democratica». Cosa distingueva infatti la Repubblica democratica tedesca (DDR), la ex Germania dell'Est, dalla Repubblica democratica italiana? In ben 42 su 48 Paesi del continente africano vi sono state elezioni democratiche, ma quasi nessuno di questi gode di diritti così come nei Paesi cosiddetti occidentali. Una delle più feroci tirannie oggi al mondo è quella della Repubblica democratica popolare di Corea, anche conosciuta come Corea del Nord.
      La Repubblica islamica dell'Iran, per esempio, tiene regolari elezioni, eppure difficilmente potremmo paragonare il suo assetto istituzionale ad una democrazia simile alla nostra.

Libertà, rispetto della persona e Stato di diritto.

      Sono numerosi e vari gli assetti istituzionali delle varie «repubbliche democratiche» oggi esistenti. Vi è però un elemento caratterizzante ed essenziale affinché una democrazia possa definirsi di tipo occidentale, ciò che nel diritto costituzionale comparato anglosassone si chiama «liberal democracy» (democrazia liberale), contrapposta alla «popular democracy» (democrazia del popolo), ovvero i Paesi a regime comunista dispotico. Questo elemento fondamentale non può essere il «lavoro», nozione generica, indeterminata ed indeterminabile, e che contraddistingue qualsiasi società, sia essa repubblicana o monarchica, democratica o dittatoriale, primitiva o moderna, tribale o nazionale.
      Non a caso, il concetto di «lavoro» è principale elemento fondante delle «democrazie popolari», e non delle democrazie cosiddette occidentali. Il primo articolo della Costituzione della Repubblica di Cuba, ad esempio, recita: «Cuba è uno Stato socialista di lavoratori». Il concetto di lavoro era presente anche nel primo articolo della Costituzione della ex Unione Sovietica: «L'Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche è uno Stato socialista degli operai e dei contadini». Così anche la Repubblica popolare cinese: «La Repubblica popolare cinese è uno Stato socialista di dittatura democratica popolare, guidata dalla classe operaia e basata sull'alleanza operai-contadini». Il secondo articolo della Costituzione della Repubblica democratica popolare del Laos riconosce quali suoi componenti fondamentali «lavoratori, contadini ed intellettuali». Anche la Costituzione della Repubblica socialista del Vietnam «si fonda sull'alleanza fra la classe di lavoratori, di contadini e gli intellettuali». Insomma, il

 

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nostro articolo 1 della Costituzione allontana l'Italia dalle democrazie cosiddette occidentali (liberal democracies), e l'accomuna ai Paesi comunisti dispotici.
      L'elemento discriminante delle democrazie a cui vogliamo appartenere è invece il grado di libertà garantito a coloro che nel medesimo sistema democratico risultano «perdenti», le minoranze; democrazie in cui il comun denominatore è la persona, l'individuo. La libertà di stampa, la libertà di espressione, la libertà di religione, la libertà di voto, la libertà terapeutica, la libertà di circolazione, il pluralismo politico, la libertà di non essere discriminati in base a sesso, razza o preferenze sessuali, la libertà di riunirsi pacificamente, l'inviolabilità del domicilio, il diritto alla riservatezza, la libertà economica, la libertà di perseguire la propria felicità e realizzazione. Una maggioranza, anche quando democraticamente eletta dalla quasi totalità dei cittadini, non può mai ostacolare, sospendere o rimuovere questi diritti. Una maggioranza che opprime una minoranza, seppur «democraticamente», risulterebbe sì in un regime formalmente democratico, ma anche totalitario. Difficilmente, infatti, le minoranze private dei diritti di cui godono le maggioranze possono partecipare ed aspirare a governare la cosa pubblica. Da una democrazia totalitaria ad un dittatura totalitaria il passo è breve, come testimonia la «democratica» ascesa al potere dell'ultimo cancelliere della Repubblica di Weimar, Adolf Hitler.
      Per la protezione di queste libertà, le democrazie cosiddette occidentali si sono dotate della separazione dei poteri e di sistemi di controlli e contrappesi (cheks and balances), distinguendo ruoli e istituzioni, al fine di evitare una eccessiva concentrazione di potere. Se tutti i poteri rispondessero alla volontà di uno stesso gruppo di cittadini, anche quando fortemente maggioritario, verrebbe meno quel sistema di controlli e contrappesi. Non a caso, in tutte queste democrazie il potere che sopra ogni altro è deputato alla difesa e alla protezione delle libertà della persona, è anche il meno democratico: il potere giudiziario. Nel nome di quelle libertà inviolabili, anche quando osteggiate da un'ampia maggioranza di cittadini, i quindici giudici della Corte costituzionale italiana hanno la facoltà - tutt'altro che «democratica», e al contempo profondamente democratica - di annullare leggi approvate dal Parlamento, espressione della volontà popolare.
      Per questo motivo, l'Italia dovrebbe essere prima di tutto una Repubblica democratica fondata sulla libertà, intesa quale totalità dei diritti della persona, senza i quali verrebbe meno la distinzione con quelle «repubbliche democratiche» che ieri, come oggi, opprimono intere genti nel nome della volontà popolare. La libertà trova la sua principale e massima protezione nello Stato di diritto: supremazia e rispetto della legge, in primis rispetto della Costituzione, legge fondamentale di tutti i cittadini. Senza legalità, senza certezza del diritto, perdono valore anche i più alti e nobili princìpi enunciati nella Costituzione, in quanto difficilmente se ne potrebbe esigere ed ottenere il rispetto e l'applicazione. Il cittadino, posto dinanzi all'incertezza del diritto, alla rassegnata accettazione di una diffusa illegalità, si allontana dalle istituzioni e perde fiducia nella legge, percependola come astratta, relativa e non vincolante. Soprattutto, sono sottoposti ai limiti di legge le massime cariche dello Stato, proprio in virtù del grande potere loro conferito. È il principio dello Stato di diritto che dà forza e vita non già all'articolo 1 della Costituzione, ma all'intero dettato costituzionale e a tutte quelle norme da essa derivanti a tutela dei diritti fondamentali.
 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

      1. Il primo comma dell'articolo 1 della Costituzione è sostituito dal seguente:

      «La Repubblica democratica italiana è uno Stato di diritto fondato sulla libertà e sul rispetto della persona».


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