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CAMERA DEI DEPUTATI
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N. 2421 |
Onorevoli Colleghi! - Era il 22 marzo del 1947 quando l'Assemblea costituente in una seduta pomeridiana approvò l'articolo 1 della Costituzione, il cui primo comma recitava: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Non «Repubblica dei lavoratori», come proponeva Palmiro Togliatti, non «fondata sui diritti della libertà e i diritti del lavoro» come proposero Ugo La Malfa e Gaetano Martino, ma «fondata sul lavoro» come mediò Amintore Fanfani. Quindi una soluzione primariamente politica e ovviamente compromissoria fra i due schieramenti che si fronteggiavano dopo il 25 aprile 1945, specchio del nuovo assetto internazionale che vedeva i Paesi vincitori avviarsi ad nuova guerra, detta «fredda». D'altra parte il «lavoro», quale principale elemento fondante della nuova Repubblica democratica d'Italia, costituiva nondimeno una priorità per un Paese distrutto dalla guerra. Solo attraverso il contributo di ogni cittadino al «progresso materiale e spirituale della società», come recita l'articolo 4 della Costituzione, l'Italia avrebbe potuto avviarsi verso ricostruzione e prosperità.
L'articolo 1 della Costituzione.
La proposizione con cui solitamente si apre una Costituzione ha un altissimo significato simbolico. È in essa che viene affermato un modello istituzionale ed è con essa che si esprimono i valori fondanti la base del vivere civile. Tramite il primo articolo di una Costituzione, si identifica un popolo, la sua forma di governo, la sua storia - quella dei diritti fino ad allora negati - ed anche le sue aspirazioni.
Ma la Costituzione sarà efficace nell'affermare e proteggere i suoi valori fintanto che il «popolo» in essa identificato possa a sua volta identificare se stesso in quella dichiarazione d'apertura. L'articolo 1 è quello che intere generazioni dovrebbero imparare a memoria, tramandare o citare ogniqualvolta vi sia una sua patente o potenziale violazione. Con esso si dovrebbe misurare ogni giorno l'operato dei governanti, la sua eco riverberare nelle opere letterarie, nella cinematografia, nelle aule di tribunale. Tutte manifestazioni, queste, di una Costituzione viva, diffusamente sentita e quindi rispettata.
A sessant'anni da quel 22 marzo 1947, non vi è dubbio che l'articolo 1 della Costituzione ha clamorosamente fallito questa sua alta missione: non identifica il popolo, inteso quale totalità dei cittadini, né il popolo italiano può identificarsi in esso. Al massimo riconosce una forma di governo («Repubblica democratica») basata su un'attività («lavoro»), che difficilmente può costituire il valore fondamentale di una società.
«Lavoro» e popolo.
Anche se molte e concorrenti sono le definizioni di «lavoro», nel nostro ordinamento ne troviamo una autorevole all'articolo 4, comma 2, della Costituzione: «un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». In questo articolo, il «lavoro» è qualificato come diritto e dovere di ciascun cittadino. Una definizione molto ampia, volutamente indeterminata, che non si limita ad indicare un rapporto di lavoro tradizionale, come ad esempio quello pattuito in un qualsiasi contratto di impiego. Ma chi esattamente può riconoscersi nella categoria di «lavoratore», ovvero di cittadino che svolge l'attività sulla quale è fondata la nostra Repubblica?
Possono identificarsi in quel primo articolo i milioni di cittadini disoccupati? E coloro che lavorano al nero, e quindi non pagano le imposte? I milioni di cittadini in fase di studio, minorenni e non, o di formazione sono lavoratori effettivi, oppure solo potenziali «attori»? Ed i milioni di cittadini non più in grado di lavorare in quanto affetti da gravi malattie o perché vittime di incidenti sul lavoro? Cosa dire ancora dei milioni di cittadini che percepiscono una pensione di anzianità, non più svolgendo l'attività «lavoro»? È da considerarsi «lavoratore» anche la persona alla ricerca della propria felicità e realizzazione, anche al costo di restare per lungo tempo senza «lavoro»?
È possibile che attraverso complessi sofismi giuridici, il concetto di «lavoro» possa essere esteso a tutte le categorie sopraelencate, fino ad includere la totalità
Repubblica democratica.
Il termine «Repubblica» era originariamente sinonimo di «Stato», ciò che appartiene alla sfera pubblica (latino «res publica», la cosa pubblica). Platone descrisse la sua repubblica (Politeia) uno Stato i cui «guardiani» sono re-filosofi, i soli ad avere piena coscienza degli ideali di giustizia e bene. Essi governano nel nome della maggioranza dei cittadini, i quali hanno una limitata percezione dei valori fondamentali. Dal diciassettesimo secolo in poi, il termine «Repubblica» è comunemente usato per indicare l'assenza della monarchia. Ma Repubblica non era e non è sinonimo di democrazia.
I Costituenti ritennero quindi necessario qualificare ulteriormente l'espressione «Repubblica» con l'aggettivo «democratica». Con esso, si rafforza la partecipazione del popolo al governo della cosa pubblica, allontanandone le possibili degenerazioni dispotiche.
Tuttavia, anche l'espressione «Repubblica democratica» è insufficiente ad individuare e garantire quei diritti che, se non rispettati, determinano una vera e propria dittatura, sebbene formalmente «democratica». Cosa distingueva infatti la Repubblica democratica tedesca (DDR), la ex Germania dell'Est, dalla Repubblica democratica italiana? In ben 42 su 48 Paesi del continente africano vi sono state elezioni democratiche, ma quasi nessuno di questi gode di diritti così come nei Paesi cosiddetti occidentali. Una delle più feroci tirannie oggi al mondo è quella della Repubblica democratica popolare di Corea, anche conosciuta come Corea del Nord.
La Repubblica islamica dell'Iran, per esempio, tiene regolari elezioni, eppure difficilmente potremmo paragonare il suo assetto istituzionale ad una democrazia simile alla nostra.
Libertà, rispetto della persona e Stato di diritto.
Sono numerosi e vari gli assetti istituzionali delle varie «repubbliche democratiche» oggi esistenti. Vi è però un elemento caratterizzante ed essenziale affinché una democrazia possa definirsi di tipo occidentale, ciò che nel diritto costituzionale comparato anglosassone si chiama «liberal democracy» (democrazia liberale), contrapposta alla «popular democracy» (democrazia del popolo), ovvero i Paesi a regime comunista dispotico. Questo elemento fondamentale non può essere il «lavoro», nozione generica, indeterminata ed indeterminabile, e che contraddistingue qualsiasi società, sia essa repubblicana o monarchica, democratica o dittatoriale, primitiva o moderna, tribale o nazionale.
Non a caso, il concetto di «lavoro» è principale elemento fondante delle «democrazie popolari», e non delle democrazie cosiddette occidentali. Il primo articolo della Costituzione della Repubblica di Cuba, ad esempio, recita: «Cuba è uno Stato socialista di lavoratori». Il concetto di lavoro era presente anche nel primo articolo della Costituzione della ex Unione Sovietica: «L'Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche è uno Stato socialista degli operai e dei contadini». Così anche la Repubblica popolare cinese: «La Repubblica popolare cinese è uno Stato socialista di dittatura democratica popolare, guidata dalla classe operaia e basata sull'alleanza operai-contadini». Il secondo articolo della Costituzione della Repubblica democratica popolare del Laos riconosce quali suoi componenti fondamentali «lavoratori, contadini ed intellettuali». Anche la Costituzione della Repubblica socialista del Vietnam «si fonda sull'alleanza fra la classe di lavoratori, di contadini e gli intellettuali». Insomma, il
1. Il primo comma dell'articolo 1 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«La Repubblica democratica italiana è uno Stato di diritto fondato sulla libertà e sul rispetto della persona».
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