COMMISSIONE I
AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 28 giugno 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
LUCIANO VIOLANTE

La seduta comincia alle 14,05.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, Linda Lanzillotta, sulle linee programmatiche del suo dicastero.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, Linda Lanzillotta, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
Do la parola al ministro per lo svolgimento della sua relazione.

LINDA LANZILLOTTA, Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali. Saluto e ringrazio tutti i presenti. Con una certa emozione ricordo che l'ultima volta che sono andata via da funzionario ero segretaria di una Commissione che si riuniva in quest'aula, quindi mi fa particolarmente piacere ritornarci.
Ringrazio il presidente e i deputati della Commissione, che mi danno l'opportunità di illustrare le linee guida e le iniziative che il Governo intende promuovere per costruire, nel corso della legislatura che si è appena aperta, un assetto federalista dello Stato che sia equilibrato, efficiente, equo e sostenibile.
È un obiettivo che oggi, dopo che il voto di domenica scorsa ha confermato in modo netto ed inequivocabile, direi, la validità dell'impianto costituzionale, è non solo possibile, ma doveroso.
L'esito del referendum impone una riflessione politica sul processo di transizione e trasformazione che la Costituzione e le istituzioni stanno vivendo. Da una parte si sono evidenziate, in questi anni, alcune obiettive criticità del Titolo V nel testo vigente, più volte ricordate nella riflessione giuridico politica, relative soprattutto alla non esemplare chiarezza dei criteri di riparto delle competenze legislative fra Stato e regioni ed al numero delle materie sulle quali si prevede la competenza concorrente dello Stato e delle regioni.
D'altra parte sono emerse alcune possibili direttrici di un processo di revisione e riforma della Carta che vada nella direzione del suo ammodernamento. Va citata, in primo luogo, la struttura federalista dei poteri pubblici, che significa sia bilanciamento dei poteri fra centro e periferia, sia un'articolazione dei poteri in grado di esprimere la complessità del mondo moderno, di completare il sistema della divisione dei poteri di stampo classico, affiancando ad esso un ulteriore sistema di sviluppo ed espansione della democrazia.
Il federalismo, tuttavia, nasce - e credo che questo debba essere ricordato -, nelle esperienze storiche del costituzionalismo moderno, più per unire che per dividere. Forse è questa una delle ragioni del no al referendum: la percezione, da parte dell'elettorato,


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che la riforma si incamminasse non sulla giusta strada di un allargamento delle autonomie costituzionalmente garantite, ma sulla via della gelosa custodia di capacità economiche e finanziarie, sulla via della differenziazione dei territori, che contraddice il principio di uguaglianza e i cardini del nostro Stato sociale e, in definitiva, del patto costituzionale.
In secondo luogo, fra le direttrici di marcia unanimemente condivise vi è l'introduzione dei principi comunitari di liberalizzazione dei mercati, che non vanno disgiunti da una permanente attenzione alla tematica dei servizi pubblici, necessaria per il mantenimento della coesione sociale.
Su questi temi tuttavia - e ho trovato questo davvero singolare - la riforma del centrodestra non conteneva disposizioni espresse, cioè alcuna riflessione e attenzione su un tema che pure dovrebbe essere proprio di una cultura liberale. Eppure, si tratta di un argomento centrale per l'ammodernamento del nostro sistema costituzionale, in armonia con la ricerca, avviata anche nelle istituzioni sopranazionali, di un modello di welfare europeo più moderno di quello che, con il vecchio secolo, abbiamo ormai abbandonato.
In ultimo, fra i temi dell'agenda riformatrice vi è il recupero di efficienza dei procedimenti decisionali, sia a livello legislativo che amministrativo. Il testo di riforma costituzionale proposto dal centrodestra si muoveva su queste direttrici, ma in modo confuso o, come si è detto, del tutto carente, sposando un modello federalista trapiantato da ordinamenti stranieri ad una singolare forma di premierato assoluto, della quale non vi è riscontro in esperienze costituzionali dei paesi a democrazia avanzata, e che obiettivamente si risolveva in una mortificazione del Parlamento, senza peraltro assicurare un risultato in termini di efficienza (che quantomeno sarebbe stato un controbilanciamento del sacrificio del Parlamento).
Nel contempo, le contraddizioni non risolte del processo di riforma sono state acuite, in questi anni, da un peculiare strabismo del legislatore ordinario, che ha agito, specie nelle leggi finanziarie - ma non solo in quelle -, come se il Titolo V non fosse stato mai emanato. L'inattuazione di questa parte della Costituzione si è, quindi, sommata ad un confuso disegno di riforma, creando un forte divario tra Costituzione formale e Costituzione materiale.
Ora il referendum libera il campo e consegna integro, a Parlamento e Governo, il compito essenziale dell'attuazione del Titolo V.
Il Titolo V va perfezionato e corretto, ma intanto - con pragmatismo e buonsenso - va attuato, recuperando l'ispirazione fondamentale del disegno originario: un disegno di modernizzazione istituzionale, sociale ed economica, basato sulla sussidiarietà tra livelli istituzionali, e ancor più fra sistema pubblico, società civile, sistema delle imprese. Un progetto che renda l'amministrazione vicina al cittadino e alle imprese, capace di rispondere con tempestività e appropriatezza ai loro bisogni.
Per questo lavoro di piena e coerente attuazione del Titolo V, sarà essenziale il ruolo di indirizzo e di stimolo del Parlamento e, per quanto riguarda in particolare la specifica responsabilità che mi è stata assegnata, la collaborazione stretta - io spero molto stretta - fra il Governo e le Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato.
Peraltro, la qualità delle relazioni che il Governo intende realizzare con il sistema delle regioni e delle autonomie locali si ricava, in modo molto eloquente, dal primo atto da esso compiuto in questa materia. Infatti, nel pur discusso (per altri versi) e contestato decreto-legge sulla riorganizzazione dei ministeri, un punto - peraltro non facile e non scontato - credo sia stato unanimemente apprezzato: l'unificazione, in capo al Presidente del Consiglio e, per questi, al ministro per gli affari regionali, della competenza unitaria in materia di regioni e, insieme, di autonomie locali.
La nuova denominazione «ministro per gli affari regionali e le autonomie locali»


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accoglie finalmente un'istanza storica del mondo delle autonomie, ma soprattutto segna in concreto un nuovo assetto organizzativo, coerente con il principio di policentrismo istituzionale e di pariordinazione tra livelli di governo, sancito dal nuovo articolo 114 della Costituzione; individua, inoltre, nella Presidenza del Consiglio dei ministri la sede delle relazioni interistituzionali e della definizione delle competenze, sottraendo le autonomie locali al rapporto gerarchico, in qualche misura implicitamente collegato alla esclusiva competenza del Ministero dell'interno in materia di enti locali.
Credo si tratti di un cambiamento importante nella sostanza, altamente simbolico nella forma e, come dirò meglio fra poco, anticipatore degli indirizzi che il Governo intende attuare in piena coerenza, peraltro, con quanto previsto nel programma dell'Unione. Un mutamento di impostazione rafforzato dalla delega a me conferita dal Presidente del Consiglio, che attraverso alcune importanti novità ha ulteriormente accentuato il ruolo del ministero quale sede unitaria dell'impulso, del coordinamento, della concertazione e del monitoraggio delle politiche, la cui definizione e attuazione è rimessa ad una pluralità di livelli istituzionali.
L'iniziativa del ministero, quindi, stante questo quadro di ridefinizione del suo ruolo sul piano legislativo e della delega, si svilupperà avendo presente alcuni obiettivi prioritari: normalizzazione dei rapporti fra Stato e altri livelli istituzionali, riduzione del conflitto, attivazione di efficienti sedi per la concertazione politico-istituzionale, per la promozione e il coordinamento dell'azione del Governo, per la ridefinizione del patto di stabilità e di crescita; coordinamento e stimolo dell'iniziativa in materia di federalismo fiscale; attuazione degli articoli 117 e 118 della Costituzione, per la definizione delle funzioni degli enti locali e conseguente ridisegno dell'organizzazione locale, in relazione alla dimensione ottimale delle funzioni; legge per Roma capitale; promozione e coordinamento delle iniziative in materia di semplificazione e organizzazione delle regioni e degli enti locali, delle relative procedure, nonché per la digitalizzazione dei servizi sul territorio; attuazione della sussidiarietà orizzontale a livello locale e adozione delle misure volte alla tutela della concorrenza e dei consumatori, nella gestione dei servizi locali.
Come è noto, nell'ultimo decennio, il rapporto fra Stato, regioni ed enti locali è stato oggetto di un profondo processo di rinnovamento a partire dalla legge n. 59 del 1997, che, facendo applicazione, nell'ambito del sistema statuale, del principio di sussidiarietà, ha dato l'avvio ad un generale decentramento delle funzioni e dei compiti amministrativi, secondo il criterio della loro allocazione presso le istituzioni più prossime ai cittadini.
Questo processo è stato non solo costituzionalizzato, ma reso più radicale e profondo con la riforma del Titolo V del 2001. Una riforma che ha confermato i diversi criteri di allocazione delle funzioni amministrative e ha introdotto l'ulteriore elemento della separazione e indipendenza fra competenza legislativa e competenza amministrativa.
Il Titolo V ha posto, dunque, le basi per una struttura ordinamentale senza gerarchie tra le istituzioni territoriali che - al di là di specifici settori, su cui mi pare ormai maturata un'opinione pressoché unanime circa l'esigenza di un recupero di competenza da parte della legislazione statale - esige, però, in ogni caso modelli di governo del tutto nuovi rispetto a quelli tradizionali, strutturati su base gerarchica, e richiede quindi costruzione di obiettivi condivisi, sedi di confronto, metodi di concertazione e codecisione.
Al contrario, nella passata legislatura, la gestione dei rapporti tra lo Stato, le regioni e le autonomie locali ha vissuto una stagione a dir poco travagliata, caratterizzata da un persistente clima conflittuale, che non può trovare la sua unica spiegazione nella fisiologica necessità di interpretare norme costituzionali nuove e di adattamento delle singole istituzioni alla loro nuova collocazione nel panorama ordinamentale, né tantomeno nel compito


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dello Stato di assicurare il mantenimento del carattere unitario del sistema e dell'ordinamento.
La spia più evidente della mancata gestione dei rapporti fra Stato e regioni e della ricerca comune di un nuovo assetto, di un nuovo equilibrio, è rappresentata dalla proliferazione dei giudizi dinanzi alla Corte costituzionale. I numeri, per quanto noti, risultano abbastanza impressionanti: sono 248 le impugnative di leggi regionali, ed è impressionante la cifra del contenzioso costituzionale instauratosi complessivamente dal momento dell'entrata in vigore del Titolo V, pari a circa 500 controversie, che costituiscono indici seri della necessità di intervenire rapidamente, con strumenti amministrativi e normativi, al fine di ridurre questo stato di conflittualità.
A questo scopo, per quanto riguarda i contenziosi in atto, è stato avviato un confronto con le singole regioni, sia ordinarie che a statuto speciale, per valutare la possibilità di identificare soluzioni concertate, che possano essere recepite, sulla base di intese, nella legislazione statale o regionale, facendo venire così meno la materia del contendere.
Le prime riunioni hanno dato esiti molto positivi e contiamo, quindi, che entro breve tempo sarà possibile ridurre di una buona percentuale i giudizi in itinere, instaurati talvolta su questioni assolutamente marginali.
In proposito, ho adottato una direttiva, istituendo una task force che opererà all'interno del dipartimento, svolgendo periodicamente delle riunioni pacchetto con gli uffici delle regioni, al fine di verificare la possibilità di addivenire a soluzioni concordate per la chiusura del contenzioso.
Anche per il futuro, la mia intenzione è quella di elaborare metodologie e procedure che consentano di ridurre, in misura sostanziale, il contenzioso, privilegiando il ricorso a metodi di collaborazione e di concertazione. Si tratta di attivare forme di confronto preventivo che abbiano il duplice obiettivo, quello sì, di prevenire il conflitto - è già un buon risultato -, ma anche e soprattutto quello di operare in modo sistemico, attivando un raccordo e un confronto vero, sostanziale, sia da parte dello Stato che da parte delle regioni, nel momento dell'esercizio delle funzioni normative, con l'obiettivo di pervenire a indirizzi e soluzioni condivise sul piano tecnico-giuridico, ma anche sul piano sostanziale.
Occorre, cioè, sviluppare tra Stato e regioni momenti di confronto e concertazione sulle politiche che sono oggetto delle leggi statali e regionali, e che, data l'ampiezza e l'importanza dei temi deferiti alla responsabilità delle regioni, devono svilupparsi nel quadro di un disegno strategico comune.
Occorre, in altre parole, costruire ex novo ciò che è mancato in questi anni: la definizione di linee guida che, insieme ai principi fondamentali della legislazione concorrente, costituiscano per l'intero sistema la cornice, il quadro di riferimento entro cui l'autonomia di ciascun livello istituzionale possa svilupparsi pienamente, ma armonicamente, per realizzare, ciascuno al proprio livello e con le proprie specificità, un progetto comune.
Credo che come paese non possiamo permetterci di avere venti, ventidue o ventitrè politiche stonate in settori cruciali per il nostro sviluppo e per la nostra competitività. Bisogna agire rispettando l'autonomia, quindi esercitando un ruolo di indirizzo e di coordinamento politico, oltre che legislativo.
Per fare questo, sono del tutto mancate, in questi anni, le sedi appropriate, oltre che la volontà o la capacità. Da una parte, è rimasta inattuata la previsione dell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3, dall'altra è stato del tutto perso e dequalificato il ruolo delle conferenze, degradate a sede di burocratici passaggi per sfornare pareri. Occorre intervenire, ora, su entrambi gli strumenti, per farne importanti e sostanziali sedi di raccordo politico tra i livelli istituzionali.
Per quanto riguarda l'integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con i rappresentanti delle autonomie locali, il problema è nelle mani


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del Parlamento. Per quanto riguarda, invece, le conferenze, il Presidente Prodi ha già più volte annunciato l'intenzione di presentare al più presto - possibilmente prima della pausa estiva - un disegno di legge per la riorganizzazione della struttura e del funzionamento delle conferenze, al fine di restituire loro una maggiore efficienza, sul piano della struttura e del metodo di lavoro. Le tre attuali conferenze andranno sostituite con un'unica Conferenza Stato-regioni-autonomie locali, articolata in sottosezioni dedicate alle diverse tipologie di atti.
Inoltre, le sedute della Conferenza saranno precedute da una riunione tecnica, sulla falsariga del pre-consiglio, che faccia della Conferenza la sede del confronto vero sulle questioni di reale rilievo politico o su cui ci sia un dissenso sostanziale.
Infine, sempre nell'ottica del principio di leale collaborazione, dovrebbe essere prevista, pur nel rispetto delle esigenze di speditezza dell'attività normativa del Governo, una partecipazione della Conferenza nella fase istruttoria dei provvedimenti normativi, prima dell'approvazione preliminare da parte del Consiglio dei ministri, previa istituzionalizzazione di riunioni tecniche della Conferenza.
Corrispondentemente, dovrebbe essere consentito di portare in Conferenza anche gli atti normativi delle regioni, sia per evidenti ragioni di bilanciamento del sistema, sia perché, con il parere favorevole dello Stato o di altre regioni, si precluderebbe ad essi il ricorso principale in Corte costituzionale avverso la legge regionale. Questo sarebbe un modo preventivo per costruire una visione comune, ma anche per ridurre alla base il contenzioso costituzionale.
In attesa della riforma, tuttavia, alcune innovazioni saranno anticipate in via di prassi - alcune lo sono già - o attraverso un regolamento interno delle conferenze, per riqualificare da subito il loro ruolo e farne il luogo di confronto tra livelli istituzionali.
Il primo banco di prova di questa nuova stagione, improntata al metodo del confronto, sarà - o meglio, è già - la procedura di definizione delle nuove regole del patto interno di stabilità e di crescita.
Su questo tema si sono già svolte riunioni formali e informali, a livello politico e a livello tecnico, con l'obiettivo di arrivare a definire, già nel DPEF, che sarà approvato nel corso delle prossime due settimane, alcuni criteri e principi che dovranno informare le regole da scrivere nel disegno di legge finanziaria.
C'è, innanzitutto, un radicale mutamento di metodo e di approccio, visto che negli anni scorsi il sistema regionale e locale si è sempre trovato di fronte a fatti compiuti ed è stato considerato destinatario di vincoli e di obblighi emanati unilateralmente dallo Stato al di fuori di ogni negoziazione.
Il Governo intende ora ricostruire il sistema dei rapporti finanziari con le regioni e gli enti locali, sulla base dei principi di autonomia e responsabilità, che sono stati, al contrario, brutalmente ignorati a partire dal 2001. Peraltro, il ruolo e il peso economico e finanziario assunto ormai da regioni ed enti locali, esige che questi enti siano pienamente e attivamente coinvolti nel perseguimento degli obiettivi di carattere nazionale, che da essi e dalle loro politiche sono fortemente condizionati.
È quanto, d'altra parte, ha sottolineato convintamente in molte sedi il ministro dell'economia, rilevando la necessità di un pieno coinvolgimento di regioni ed enti locali nei processi decisionali incidenti sulla loro programmazione finanziaria.
Sul piano della gestione finanziaria, occorre tornare a vincoli sui saldi, che consentano, da una parte, di esercitare l'autonomia tributaria e fiscale, dall'altra favoriscano la crescita dell'efficienza attraverso un utilizzo autonomo delle risorse finanziarie ed umane. Allo stesso tempo, occorre associare il sistema territoriale a logiche di efficienza e di sviluppo coerenti con l'obiettivo primario che oggi ha il paese, quello di far ripartire la crescita economica in un contesto di riacquistata disciplina finanziaria.


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Il nuovo patto, quindi, dovrà riguardare il complesso di questi aspetti, avendo ben presente che oggi, come in tutte le moderne economie sviluppate, anche i sistemi territoriali sono fattori essenziali per la crescita delle economie nazionali, e queste presentano caratteri di fortissima articolazione territoriale.
Le regole del nuovo patto interno di stabilità e di crescita dovranno rappresentare un ponte per un compiuto federalismo fiscale. Nella legislatura appena conclusa, su questo punto non solo non si è andati avanti, ma direi che si è andati indietro. Congelando i poteri impositivi e fiscali delle regioni e degli enti locali, bloccando i poteri di gestione amministrativa e di bilancio, si è rotto quel circuito vitale che deve alimentare il sistema federalista, vale a dire il circuito tra potere di spesa e responsabilità di prelievo, che è anche la base fondamentale del rapporto di responsabilità tra governi locali e cittadini.
I principi su cui il federalismo fiscale si dovrà fondare sono fissati dall'articolo 119 della Costituzione. Essi sono riassumibili nella ricerca di un punto avanzato di equilibrio fra l'esigenza di assicurare autonoma capacità decisionale ai livelli locali di governo - con una significativa attribuzione di poteri di impiego della leva fiscale - e le esigenze imprescindibili della solidarietà, le quali non devono confliggere con quelli dell'efficienza. Essenziale, a questo fine, è la determinazione di livelli standard di servizi e di prestazioni, cui parametrare i flussi che il fondo perequativo dovrà destinare a favore delle aree dotate di minore capacità fiscale.
C'è da dire che, in questi anni, sulla materia del federalismo fiscale, se nulla si è fatto, molto si è scritto e studiato. Ciò consente, oggi, di avere una base conoscitiva e di analisi sufficientemente ampia, per di più tendenzialmente convergente, che rende ormai maturi i tempi per una decisione.
Per questo, dopo aver atteso l'esito del referendum che, onestamente, qualora fosse stato diverso, avrebbe potuto paralizzare l'intero processo, ho promosso un incontro con i ministeri competenti (in particolare dell'economia e dell'interno) al fine di pervenire rapidamente - mi auguro parallelamente al disegno di legge finanziaria che sarà presentato in autunno - ad una legge di delega che dovrà trovare, peraltro, un ampio consenso in Parlamento, affinché questo disegno, pur con i necessari criteri e caratteri di flessibilità e di sperimentalità, sia stabile e condiviso.
Il processo concertativo che si dovrà sviluppare per giungere alla definizione dei meccanismi operativi del federalismo fiscale dovrà muovere necessariamente dalla predisposizione di una base dati, alla cui implementazione concorrano tutti i soggetti centrali e locali detentori delle informazioni rilevanti e alla quale essi stessi possano liberamente accedere. Credo che, in un sistema paritario, un punto centrale sia quello dell'accessibilità e conoscibilità dei dati di finanza pubblica da parte di tutto il sistema. L'esercizio dell'autonomia nella responsabilità richiede, infatti, trasparenza del funzionamento dei sistemi di assegnazione delle risorse e possibilità di controlli, ex ante ed ex post, da parte di tutte le istituzioni appartenenti al sistema.
Per promuovere tali percorsi, nonché per favorire la riduzione dei tempi di attuazione del terzo comma dell'articolo 117 in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza e del sistema tributario, il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie locali ha avvertito la necessità di sviluppare una funzione di analisi economica e statistica delle problematiche connesse al federalismo fiscale. L'attività della nuova unità organizzativa sarà svolta, ovviamente, nel rispetto delle competenze proprie degli altri componenti del Governo centrale, in particolare del Ministero dell'economia e delle finanze e di quello dell'interno, con i quali si propone di interagire in un contesto di confronto costante con le autonomie.
Quello che il dipartimento intende fare è un raccordo sostanziale, avendo una capacità di lettura e di interpretazione dei fenomeni e anche, forse, di interpretazione


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dei diversi linguaggi. Talvolta, il sistema delle autonomie nei temi di finanza pubblica ha una difficoltà di interlocuzione e di linguaggio con il Ministero dell'economia. Credo che la collocazione presso la Presidenza del Consiglio di un luogo di coordinamento possa semplificare e agevolare questo linguaggio. Ciò che sta avvenendo in tema di patto di stabilità e di crescita interna credo confermi questa percezione.
Quanto all'altro tema indicato tra i prioritari, quello delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, come si è detto, si tratta di una delle più rilevanti novità del decreto-legge n. 181 del 2006, che condurrà ad una riscrittura del testo unico degli enti locali, da progettarsi unitamente al Ministero dell'interno, allo scopo di costruire un modello di ente locale dotato di funzioni ampie, complete, indefettibili, irrinunciabili, coincidenti con le funzioni amministrative di base, dando piena attuazione all'articolo 118 della Costituzione.
Questa dovrà essere, però, l'occasione per una semplificazione del sistema e, insieme, per una sua profonda modernizzazione. Occorrerà portare le funzioni più prossime al cittadino, ma anche eliminare duplicazioni, applicare il principio di differenziazione e di adeguatezza per ottimizzare l'esercizio di funzioni complesse, per ridurre costi e apparati burocratici. In questo quadro, il tema della città metropolitana ha ormai carattere di priorità e va affrontato anche nell'ottica della differenziazione e della non duplicazione di apparati politici e burocratici.
Così come non più rinviabile è il tema di Roma capitale. Dopo aver scongiurato il rischio che il tema della capitale dello Stato e insieme della cristianità venisse degradato a questione locale, è ora possibile definire i poteri e le risorse che, nel quadro di un mutato modello di governance delle città metropolitane, riconoscano a Roma l'assoluta specialità e complessità dei compiti cui essa deve fare fronte. Ovviamente, questa nuova architettura sarà costruita sulla base di un confronto costante con il mondo delle autonomie e insieme agli amministratori delle città.
Altro fronte di attività per il dipartimento sarà costituito dall'attivazione del processo di unitario indirizzo delle politiche di digitalizzazione della pubblica amministrazione regionale e locale e dalla conseguente attività di coordinamento, da svolgersi anche in collaborazione con altre strutture periferiche dell'amministrazione dello Stato.
Il Codice dell'amministrazione digitale, nella sua nuova versione, riconosce agli enti locali e alle regioni la funzione di snodo fondamentale dell'innovazione tecnologica; dunque, anche per la legislazione vigente, il territorio è il luogo ideale sul quale possono e devono insistere i più importanti progetti di digitalizzazione con respiro nazionale; dal territorio possono scaturire, se affrontate con una visione omogenea, le migliori pratiche per rendere al cittadino servizi innovativi e per trasformare i contesti economici e sociali; sul territorio, se inteso come sistema integrato, possono avviarsi le esperienze di più ampia portata.
Il dipartimento sarà, in definitiva, impegnato in un'attività finalizzata a realizzare la semplificazione dei procedimenti amministrativi di competenza delle regioni e degli enti locali. Occorre intervenire rapidamente in questo settore, avendo la comune consapevolezza che, in assenza di una radicale semplificazione a tutti i livelli e di una coerenza delle fasi procedimentali che si sviluppano a ciascun livello, non tarderà il momento in cui il federalismo sarà percepito non più come uno strumento amico, ma come un ulteriore ostacolo all'attività economica e un fattore di peggioramento della qualità della vita dei cittadini.
L'obiettivo, quindi, è quello di favorire la formazione di principi, criteri, metodi e strumenti omogenei di semplificazione, nonché modelli procedimentali omogenei sul territorio nazionale. In tal senso andrà valorizzato il metodo di cooperazione, delineato dall'articolo 2 della legge n. 246 del 2005, che prevede la costituzione di un


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tavolo stabile di confronto fra Stato e regioni sulla semplificazione degli oneri da regolazione, preordinato alla conclusione, in sede di Conferenze Stato-Regioni e Unificata, di accordi e intese «anche sulla base delle migliori pratiche e delle iniziative sperimentali, statali e regionali».
Bisogna, cioè, spingere il sistema verso l'acquisizione di standard procedimentali che colleghino le varie fasi per settori e che per best practices si diffondano, con sistemi di monitoraggio e anche, in prospettiva, con sistemi premiali che tendano a sollecitare il sistema verso queste buone pratiche.
Inoltre, al fine di pervenire ad un'armonizzazione tra le regioni della regolamentazione relativa all'attività di impresa e di individuare livelli minimi di semplificazione, si provvederà, ai sensi dell'articolo 5 della predetta legge n. 246, ad una serie di iniziative, tra cui l'avvio di forme di collaborazione con le regioni, nonché l'utilizzo delle competenze esclusive dello Stato, anche in funzione di armonizzazione dei modelli procedimentali di competenza regionale.
Particolare attenzione, poi, sarà prestata alle minoranze linguistiche, dei territori di confine e alle autonomie speciali, a partire dalla ricostituzione delle commissioni paritetiche in scadenza, nonché alle esigenze di salvaguardia e valorizzazione delle zone montane.
Le regioni a statuto speciale meritano una nuova considerazione. Il Titolo V non le ha menzionate in modo specifico, ma permangano le ragioni della loro peculiare qualificazione istituzionale.
Per effetto della riforma del Titolo V si è, per così dire, ridotto il gradino che differenzia le regioni a statuto ordinario da quelle a statuto speciale, ma ciò non può che indurre il Governo ad una particolare attenzione alle esigenze delle regioni a statuto speciale che emergono nell'ambito della quotidiana vita amministrativa.
In primo luogo, dovrà essere dato un rinnovato impulso alle conferenze paritetiche, in corso di ricostituzione, cui dovranno essere dati compiti precisi, il cui esito sarà costantemente monitorato e sollecitato, onde evitare che tali sedi divengano luoghi di lenta e burocratica gestazione delle norme di attuazione degli statuti, e talvolta anche degli incredibili torrenti carsici in cui si immergono le norme per non riemergerne più. Credo che dovrà essere organizzato un sistema di monitoraggio, nell'ambito del quale anche queste sedi diano conto del loro operato.
Una speciale considerazione delle problematiche di tali regioni potrebbe poi evidenziarsi attraverso lo strumento dei protocolli di intesa su misure normative ed amministrative di interesse comune dello Stato e delle regioni.
Pari attenzione sarà concentrata al coordinamento dei rapporti tra regioni e istituzioni comunitarie, alla promozione delle iniziative per l'ordinato rapporto fra Stato e sistema autonomistico, non escluso, in caso di inerzia o di inadempienza degli enti, l'esercizio del potere sostitutivo.
Mi scuso per la lunghezza della mia relazione, ma credo che al nostro primo incontro sia opportuno disegnare il quadro di ciò che intendiamo fare, o almeno le linee di lavoro. Tuttavia, questo quadro non sarebbe completo se non vi fosse un cenno alla tematica della sussidiarietà orizzontale, concetto che rimanda ad una storia nella quale si intrecciano il pensiero cattolico, il pensiero liberale e le aspirazioni alla realizzazione di valori di equità nel mercato.
Il rapporto fra Stato e mercato richiama fortemente il tema dei pubblici servizi locali, dell'assetto complessivo delle società istituite per il loro svolgimento, della definizione di regole certe del partenariato pubblico-privato, capaci nel contempo di rispettare il mercato ed assicurare i servizi pubblici, strumento fondamentale di coesione sociale.
Il tema intreccia, ovviamente, le competenze di vari dicasteri, ma vede e vedrà il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie locali impegnato in via diretta, poiché non v'è dubbio che l'individuazione delle funzioni fondamentali dei comuni e degli enti locali non possa considerarsi


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completa senza la definizione di un quadro di regole soddisfacenti in materia di servizi pubblici locali, che verifichi la tenuta delle riserve di attività attualmente esistenti in capo agli enti locali e rivitalizzi il mercato.
In conclusione, posso ribadire che il mio compito primario, il centro della mia attenzione e del mio lavoro, sarà quello di instaurare un nuovo clima nei rapporti fra lo Stato, le regioni e le autonomie; un clima che possa consentire, nel rispetto del principio della leale collaborazione tra le istituzioni, una corretta attuazione dei principi costituzionali in materia di riparto delle competenze tra Stato ed enti territoriali, in modo da garantire a questi ultimi quegli spazi di autonomia che la Costituzione riconosce loro e da assicurare allo Stato quelle prerogative funzionali al mantenimento dell'unità del sistema. Un nuovo clima alla cui creazione il ministero - ed io personalmente - si impegnerà come missione prioritaria.
In questo diverso clima potrà affrontarsi con serenità anche la questione della riforma del Titolo V della Costituzione, sicuramente da portare a compimento, e sulla quale ritengo sia possibile - al di là delle vie che si intraprenderanno per affrontare modifiche alle restanti parti della Costituzione - introdurre i correttivi e i perfezionamenti che ne rendano più coerente, efficiente e sostenibile l'attuazione.
Infine, però, al di fuori del Titolo V, andrà affrontato il tema di un vero Senato federale, che coinvolga il sistema delle autonomie in una visione nazionale dei grandi temi di carattere economico e sociale.
Si tratta di un tassello fondamentale del disegno di riforma, perché, come in tutti i moderni ordinamenti federali, deve esistere anche da noi il luogo di sintesi unitaria, di composizione politica degli interessi, affinché l'autonomia territoriale non si traduca in localismo e frammentazione, ma rappresenti invece un elemento moltiplicatore per la democrazia, nonché per la competitività del paese.

PRESIDENTE. Ringrazio molto il ministro, che ha svolto una relazione tutt'altro che rituale, approfondita nel merito dei problemi e ricca di spunti. Credo che sarebbe utile avere copia della relazione, in modo da distribuirla ai colleghi.
Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

ROBERTO ZACCARIA. Anch'io, naturalmente, ringrazio il ministro per gli affari regionali, la cui denominazione più ampia è stata giustamente sottolineata.
Mi limiterò a svolgere alcune considerazioni, ritenendo che interverranno diversi colleghi. Agevolati nel nostro lavoro anche dall'esito referendario, almeno come Commissione, possiamo dire che oggi sono praticamente tre gli obiettivi da raggiungere. Il primo riguarda l'attuazione del Titolo V della Costituzione vigente; il secondo è quello di tener conto dell'esperienza e, soprattutto, del bilancio della giurisprudenza costituzionale, ricordato anche dal ministro, che è stato un elemento molto importante in questo periodo di riferimento; il terzo obiettivo è quello di valutare eventuali modifiche che, in corso d'opera e anche sulla base dell'esperienza della Corte costituzionale, possono risultare opportune alla luce di questa esperienza, che, nello spirito, si configura come attuativa, non come sospensiva.
Mi pare che questa sia la linea alla quale noi possiamo guardare con interesse. Credo che, da questo punto di vista, l'ampliamento delle competenze, con riferimento all'iniziativa legislativa in materia di allocazione delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, rappresenti, effettivamente, un punto di arrivo storico. Ricordo i dibattiti che si sono svolti sulla difficoltà di armonizzare le politiche, essendo divise le competenze.
Tutto il discorso collegato all'autonomia regionale, al suo potenziamento, alla sua attuazione, è un problema - ahimè - che richiede non solisti, ma orchestre che suonino sostanzialmente insieme. L'esperienza di tanti anni, infatti, ha portato a dimostrare che spesso si riescono ad individuare fini ed obiettivi, ma non tutti i


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componenti delle orchestre - mi riferisco ai ministeri - ragionano nello stesso identico modo. Da questo punto di vista, quindi, è molto importante il ruolo del ministro per gli affari regionali, al fine di riuscire a far sì che tutte le voci seguano un certo tipo di armonia. A mio avviso, oggi ci sono le condizioni - giustamente il ministro ha affermato che non è una questione che riguarda il suo dicastero, ma il Parlamento - per l'attuazione dell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Sto parlando di uno strumento che ha conosciuto, in parte, una fase di attuazione, che poi si è fermata.
Credo che oggi dovremmo verificare la possibilità del funzionamento di questo istituto. Da tale punto di vista raccogliamo, in questo ideale promemoria che stiamo definendo in queste prime audizioni, questo come un punto di cui sollecitare l'attuazione regolamentare. Come ricordiamo, questa è una facoltà riconosciuta dai regolamenti, che in qualche modo oggi potremmo essere interessati a verificare.
A proposito di alcuni degli adempimenti della legge La Loggia, credo che si aprano varie questioni. Il ministro ha richiamato l'articolo 7 della legge, quello relativo al trasferimento delle funzioni amministrative. Noi siamo abituati a considerare questi capitoli come secondari. In realtà, la mia sensazione è che la Corte costituzionale - abbiamo sentito ricordare anche qui l'alto numero di sentenze e di ricorsi - si è trovata obiettivamente in una difficoltà ancora maggiore proprio per la mancanza di questi strumenti. Storicamente, è proprio dall'individuazione delle funzioni amministrative trasferite che la Corte ha potuto avere dei parametri; diversamente, la stessa si troverebbe ad essere un arbitro la cui azione può sconfinare nell'arbitrio, non avendo parametri e paletti di riferimento. Non è un punto facile da gestire, perché quando si tratta di trasferire funzioni amministrative si tratta di trasferire potere. Storicamente, abbiamo assistito - chi ha un'età maggiore lo ricorda meglio - alle varie fasi dei trasferimenti e agli shock che si sono determinati nell'amministrazione centrale quando queste operazioni sono state realizzate. Non c'è dubbio, però, che di questa mancata attuazione la Corte ha sofferto particolarmente.
Un altro elemento che è mancato, almeno parzialmente, è quello della delega sulla ricognizione dei princìpi fondamentali, che è stata solo parzialmente attuata. Si ricorda giustamente che la Corte costituzionale ha detto che tale ricognizione dei princìpi fondamentali non ha carattere innovativo, trattandosi appunto di una ricognizione. Tuttavia, faccio notare che quando questi princìpi fossero individuati - i tecnici usano il termine «ricogniti» -, oggettivamente il lavoro diventerebbe più facile per tutti.
Tra l'altro, anche le intese che si possono raggiungere in sede di Conferenza Stato-regioni sono molti importanti. Mi pare che sia stato un motivo conduttore dell'intervento del ministro quello di riuscire a far maturare queste intese, non solo per sgonfiare il contenzioso, in qualche caso, ma anche per arrivare a risultati significativi.
Si parla di alcune materie - professioni, armonizzazione dei bilanci pubblici, casse di risparmio e quant'altro -, ma la mia sensazione è che, come è naturale, si sia andati avanti per aree settoriali. Se questa operazione è fatta per settori, a mio avviso, perde il 50 per cento della sua capacità. Si vede, dunque, come sia importante un lavoro collegiale - prima parlavo di solisti e di orchestre - e come sia difficile il ruolo del ministro in questo campo. Il ministro è, appunto, ministro per gli affari regionali, mentre i soggetti che devono trasferire le funzioni e individuare i princìpi sono i ministeri, che sono tradizionalmente piuttosto chiusi nel loro ambito. Questa è un'operazione enorme, da far rabbrividire, che sarà difficile da attuare, come lo è sempre stata.
Mi pare sia scaduta la delega legislativa avente ad oggetto la legislazione delle funzioni fondamentali di comuni e province; quindi bisognerà valutare se farla rivivere. Questo, a mio avviso, è uno dei terreni principali di confronto; se non si


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completa questo quadro, tutto il resto mi pare estremamente difficile da realizzare.
Sono convinto che il capitolo del federalismo fiscale è molto importante. Sono contento che il ministro ne abbia parlato, poiché questo è certamente uno degli elementi più ricorrenti nel dibattito sul tema delle autonomie. Francamente nutrivo qualche dubbio sull'Alta commissione. Come sapete, in genere le commissioni rispondono ad una tecnica utilizzata per rallentare l'attuazione dei provvedimenti. Non so se sia questo il caso, né se la definizione di «Alta» renda questo tipo di insabbiamento ancora maggiore...

PIERANGELO FERRARI. Ha prodotto un lavoro, comunque!

MARIA FORTUNA INCOSTANTE. Ha prodotto!

ROBERTO ZACCARIA. Sì, ma mi pare che sia necessario un impulso nuovo.
Vorrei esprimere una considerazione su un tema al quale non si è accennato e che forse non è poi così centrale, ma per me lo è abbastanza. Mi riferisco al problema degli statuti di alcune regioni (mi dicono che il ministro ne ha parlato, ma forse non ho sentito tutta la relazione). Mi sembra che siano cinque o sei le regioni che non hanno ancora il nuovo statuto, e certamente la Lombardia è una di queste (lo dico essendo deputato lombardo). Questo è un problema obiettivamente delicato, in quanto la mancanza di questi statuti determina, di fatto, una forma di governo diversa da quella che poteva essere immaginata. A me non interessa particolarmente il rapporto consigli-giunte, ma c'è un termine al di là del quale questa inerzia non è giustificata.
Non penso ad interventi autoritativi o dissolutori, ma certamente qualcosa bisogna fare, perché non è pensabile che alcune regioni siano state solerti e altre, invece, siano in ritardo. Questo pone problemi di carattere politico, intanto a livello locale, e dal punto di vista delle competenze e delle responsabilità.
Condivido molte delle considerazioni che ho ascoltato e credo che dovremmo muoverci secondo questi tre parametri: attuazione, bilancio dell'esperienza della Corte costituzionale ed, eventualmente, in corso d'opera, modifica di quello che è necessario. Fortunatamente questa Commissione ha le prerogative necessarie per verificare l'attuazione delle sentenze della Corte, verificare l'attuazione delle riforme e naturalmente sollecitare le deleghe, laddove fosse necessario, infine per avanzare proposte di modifica del Titolo V, ove necessarie.

PIERANGELO FERRARI. Signor presidente, concludiamo oggi o rimandiamo ad un'altra seduta?

PRESIDENTE. Cercherei di esaurire oggi la discussione, se ce la facciamo; in aula ci sono 28 iscritti a parlare per dichiarazione di voto, forse possiamo sforare di qualche minuto.

GIANPIERO D'ALIA. Signora ministro, nel formularle gli auguri di buon lavoro, la ringraziamo per essere qui e per la relazione che ha voluto fornirci sul programma e sull'attività del suo ministero.
Vorrei fare solo alcune considerazioni generali - avremo il tempo di approfondire i singoli aspetti - di carattere politico. È evidente che ciascuno di noi ha preso atto del risultato referendario, e lei, signora ministro, ha tracciato alcune questioni che pongono il tema di una riforma del Titolo V della Costituzione, nonché del sistema bicamerale del nostro paese; ella ha parlato del Senato federale e della necessità di ridisegnarlo nella sua funzione, nella sua composizione e nella sua attività. Credo che questo sia un tema che dovremo approfondire in questa Commissione; a tal proposito, mi permetto di chiedere al presidente Violante di invitare il ministro Chiti a venire in Commissione, anche per capire quale sia l'opinione del Governo dopo il risultato referendario e se c'è lo spazio, in questa Commissione, per avviare un confronto serio e sereno su un tema molto delicato.


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Quello che più mi ha colpito della relazione del ministro, al riguardo, è la constatazione di un dato che ci portò - parlo del centrodestra, ovviamente - a porre la questione, controversa anche al nostro interno, della riforma del Titolo V. La mole di contenzioso costituzionale e il sistema delle impugnative governative nei confronti di leggi regionali nascono, certamente, da un sistema di riparto delle competenze tra Stato e regioni - fortemente innovato dalla riforma del Titolo V del 2001 - che considero sbagliato. Su quel sistema abbiamo innestato dei correttivi, nel tentativo di venire incontro alle principali questioni che erano state poste dinanzi alla Corte e che attenevano al governo di fatti importanti per l'intero paese, dalle grandi reti di trasporto al sistema energetico, e così via. È evidente, tuttavia, che partendo da un sistema sbagliato di riparto delle competenze, l'innesto è un correttivo, ma non è la soluzione ottimale nel ridisegno dei rapporti tra Stato e regioni.
Ho apprezzato, nella sua relazione, il riconoscimento di un fatto che considero scontato, ma che credo dovrebbe farci riflettere maggiormente. Mi riferisco alla necessità di comprendere, in primo luogo, che il sistema delle autonomie, nel nuovo assetto dell'articolo 114 della Costituzione, pone la questione di ridefinire anche il ragionamento sulla cosiddetta finanza pubblica. I comuni, le province, le regioni e - se e quando le faremo - le città metropolitane sono i soggetti protagonisti di una politica economica, finanziaria e fiscale del paese nel rapporto con l'Europa. Si tratta, dunque, di soggetti necessari di un processo, che non possono essere semplicemente destinatari della soddisfazione di diritti, ma hanno, al pari dello Stato, una serie di doveri nei confronti dell'ordinamento comunitario. Questo comporta la necessità di rivisitare anche il modello di gestione economica e finanziaria del sistema delle autonomie, perché non ha senso che lo Stato tagli le spese e riduca i trasferimenti agli enti locali, quando non esiste lo stesso senso di responsabilità da parte del sistema delle autonomie territoriali. Dico questo perché il mio gruppo parlamentare ha presentato in Commissione una richiesta di indagine conoscitiva, da tenersi dopo l'audizione del ministro, in merito al sistema complessivo delle autonomie territoriali (regioni, province e comuni), ma anche in merito alla necessità della legge di attuazione sulle città metropolitane. L'obiettivo è capire cosa si può fare per rendere questo assetto di poteri più coordinato, più efficiente, meno sprecone - utilizzo un termine banale, ma credo colga il senso delle nostre considerazioni -, al fine di arrivare ad un sistema in cui, finalmente, si sappia chi fa che cosa.
Noi abbiamo l'occasione per poter affrontare questo argomento depurato da ogni forma di ideologismo sui temi del federalismo, anziché dell'autonomismo, e così via; insomma, forse ci sono le condizioni perché questo dibattito possa svolgersi serenamente e seriamente. Tuttavia, dobbiamo anche avere la consapevolezza che tutto questo ha un presupposto; in altre parole, affrontare un tema così delicato, ad esempio, come quello delle città metropolitane - ha fatto bene a porlo, signora ministro - deve portarci anche a comprendere quale sarà il ruolo delle province. Quando affrontiamo un tema di questo tipo, dobbiamo avere il coraggio di farlo al riparo dai condizionamenti oggettivi delle «associazioni di categoria». Credo che oggi le province siano in piena crisi di identità, sotto il profilo delle funzioni e delle competenze. Cito questo esempio, ma ne potrei citare altri; anche il tema della legge su Roma capitale, certamente, è opportuno e necessario.
Tuttavia, avremo la necessità di affrontare queste questioni anche comprendendo come è organizzato l'assetto delle sue competenze, signora ministro. Personalmente sono convinto che la circostanza che il suo ministero sia diventato anche il ministero delle autonomie locali sia un fatto positivo. Dal decreto-legge n. 181 emerge, però, che le competenze in materia di enti locali che il Ministero dell'interno trasferirebbe al suo ministero riguardano solo le funzioni di vigilanza


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sull'albo dei segretari comunali e l'iniziativa legislativa in materia di allocazione delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane.
Mi rendo conto, signora ministro, che la sua funzione è più che altro di coordinamento di queste attività, ma sotto il profilo dell'organizzazione e della gestione delle autonomie locali tutte le competenze, anche quelle delegate a lei, restano in capo all'organizzazione e alla struttura del Ministero dell'interno. Credo che questa costituisca un'oggettiva difficoltà. È encomiabile, sul piano politico, il tentativo di mettere insieme il coordinamento dell'attività del sistema delle autonomie territoriali, ma sul piano organizzativo credo che tutto ciò potrà portare, nella concreta attuazione di questa attività, alla necessità di un coordinamento fra il suo ministero e il Ministero dell'interno, che ovviamente, per la peculiarità dei ministeri e dell'organizzazione degli stessi, non sarà facilmente realizzabile.
L'ultima considerazione che vorrei fare riguarda la questione delle autonomie speciali. Anche a questo proposito, il ministro ha espresso una considerazione della quale prendiamo atto con piacere, ossia la circostanza che il Titolo V in vigore, quello approvato dal centrosinistra, ha sostanzialmente eluso - uso un termine dolce - il tema delle autonomie speciali e, forse, lo ha anche vulnerato, nella sua importanza e nel suo sviluppo. Devo dire che, probabilmente, le autonomie speciali ci hanno messo anche un po' del loro, quindi non è il caso di attribuire tutta la colpa a una parte anziché all'altra. Credo che su questo argomento avremo l'esigenza di svolgere una riflessione più approfondita, anche per il trasferimento massiccio di competenze dallo Stato alle regioni con la riforma del Titolo V in vigore. Un approfondimento sul ruolo delle autonomie speciali, oggi, credo che sia necessario ed opportuno anche sotto questo profilo.
La ringrazio, signora ministro, per la relazione, che approfondiremo con calma. Credo che avremo la necessità di rivederci, anche per capire come possiamo dare il nostro contributo, nell'ambito di un confronto in Commissione che mi auguro sia proficuo come quello di oggi.

MARCO BOATO. Mi associo anch'io agli auguri di buon lavoro e al benvenuto al ministro Lanzillotta, nonché al ringraziamento che le ha già rivolto il presidente per il carattere tutt'altro che rituale e meramente ricognitivo della sua relazione.
All'inizio della legislatura ci si poteva anche aspettare, eventualmente, soltanto una ricognizione dei problemi. Invece, devo dire senza piaggeria che il testo che lei ci ha letto ed è stato distribuito è di altissimo livello, carico di problemi e di impegno politico-istituzionale; un atto di grande apertura, che apprezzo oggi che sono deputato dell'opposizione (commenti)... scusi, della maggioranza, ma avrei apprezzato anche da deputato dell'opposizione. Il lapsus è stato molto bello, ma pensavo a come avrei reagito ad una relazione di questo genere se fossi stato un deputato dell'opposizione.

PRESIDENTE. Qualcuno ha avuto la sensazione che nella scorsa legislatura lei fosse stato un deputato di maggioranza.

MARCO BOATO. Ho cercato di contribuire al meglio. Comunque, questo è un segno, se non altro, di dialogo anche dentro me stesso. Ho rimediato bene al lapsus? Intendo dire che credo che questo sia un modo di valorizzare il rapporto tra Governo e Parlamento, qualunque sia il ruolo che, negli schieramenti, ciascuno di noi assume di volta in volta.
Lei è il primo ministro che ascoltiamo - forse lo è in assoluto - il quale si presenta in Parlamento per fare delle riflessioni ad alta voce dopo il referendum. Avrebbe anche potuto evitare l'argomento, essendoci oggi la piena legittimazione della Costituzione vigente, confermata dall'esito referendario; invece, nella prima parte della sua relazione, lei ha spaziato a lungo su questo argomento di grandissima importanza e complessità.
Vorrei dire a tutti i miei colleghi, sia di maggioranza sia di opposizione, che percepisco


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questo come un segno vero che l'aver detto no a quella legge costituzionale - su questo argomento ci sono sensibilità diverse, ma per quanto mi riguarda mi sento abbastanza in sintonia con quello che ha detto il ministro - approvata alla fine della scorsa legislatura non ha significato un no alle riforme, ai processi di modernizzazione, all'assunzione di responsabilità da parte del Parlamento, e per la sua parte del Governo, nei confronti di un disegno riformatore che del resto era già iniziato.
Qualcuno ha detto, in questi giorni, da destra, anche nella difficoltà di commentare il post-voto, che per trent'anni non si è fatto nulla e per altri trent'anni non si farà nulla. Ebbene, ricordo che dopo che il centrodestra decise di bloccare l'attività della Commissione bicamerale - è stato il centrodestra a deciderlo, il 2 giugno del 1998 -, nonostante questo nella XIII legislatura abbiamo approvato, pressoché all'unanimità (eccetto un gruppo), l'elezione diretta dei presidenti delle regioni e l'attribuzione dell'autonomia statutaria alle regioni a statuto ordinario, una novità assoluta nel nostro ordinamento.
Abbiamo approvato, inoltre, la costituzionalizzazione dei princìpi del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione; abbiamo approvato una legge costituzionale, con una riforma dei cinque statuti ad autonomia speciale, che ha cambiato per alcune di queste autonomie speciali anche la forma di governo e, conseguentemente, ha indotto al cambiamento delle leggi elettorali.
Infine, ricordo che abbiamo approvato la riforma stralcio del Titolo V, cui lei ha fatto ripetutamente riferimento: una riforma che non è partita da una baita di montagna, ma prima dalla Bicamerale, poi dall'aula della Camera, nella primavera del 1998, poi dalla sollecitazione dei presidenti delle regioni a statuto ordinario, guidati da Enzo Ghigo, presidente del Piemonte, di Forza Italia. Ricordo che i presidenti delle regioni sostenevano che aver attribuito loro maggiori poteri, con l'elezione diretta, non comportava nulla se non venivano attribuite alle regioni anche maggiori competenze, in base alle quali le stesse potessero esercitare il diritto di darsi autonomamente un nuovo statuto.
Ho voluto brevissimamente ricordare questi itinerari per dire che, nella XIII legislatura, i processi di riforma costituzionale ed istituzionale, nonostante il fallimento di un progetto di riforma più ambizioso (forse persino troppo ambizioso), non si sono fermati. Anche in questa legislatura, credo che questi processi non dovranno fermarsi, con la logica - ripetutamente affermata e che confermo anche in questa sede - di trovare ampie convergenze e definizioni condivise delle regole costituzionali, dei processi di revisione costituzionale e di nuove - assolutamente necessarie - regole elettorali.
Nella scorsa legislatura ci sono stati due colpi di mano unilaterali: uno ha riguardato la Costituzione, l'altro l'imposizione unilaterale della legge elettorale, che il suo principale autore - non unico, per la verità - ha definito prima una «porcata», poi una «porcata riuscita male», utilizzando un linguaggio che a me non piace e che non userei mai, ma che è abbastanza eloquente dal punto di vista della responsabilità politica.
Lei ha fatto bene anche ad accennare, a mio parere in modo non dogmatico, quindi in modo critico, anche ad alcuni problemi che sono emersi nella fase di attuazione della riforma stralcio del Titolo V. Una riforma che intenzionalmente era una riforma stralcio e che intenzionalmente faceva riferimento alla necessità di un completamento.
Lei ha sottolineato - cosa che pochi rammentano e che, invece, proprio poche ore fa, insieme a qualche collega di questa Commissione, informalmente ricordavo - che l'ultimo articolo di quella riforma, l'articolo 11, non modifica la Costituzione, ma è un articolo con rango di legge costituzionale che, in attesa della riforma del Titolo I, autorizza la Camera e il Senato ad integrare la Commissione per le questioni regionali con rappresentanti del sistema delle regioni e delle autonomie locali.


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Lei è stata correttissima, da questo punto di vista, affermando che questo è compito del Parlamento, e ha fatto bene a dirlo. Voglio ricordare che, nella scorsa legislatura, avviammo nelle giunte per il regolamento di Camera e Senato il processo di attuazione dell'articolo 11, proprio in attesa della riforma del Titolo I. Purtroppo, anche in quel caso fu il centrodestra, che aveva la maggioranza anche nelle giunte per il regolamento, a bloccare un disegno riformatore molto complesso - non è facile attuare quell'articolo - di cui ero uno dei quattro relatori (eravamo due relatori, uno di maggioranza e uno di opposizione, alla Camera e due al Senato).
Fu il centrodestra, dunque, a bloccare quel disegno perché l'attuazione di quell'articolo 11 avrebbe in qualche modo depotenziato la spinta - secondo loro - verso una più generale riforma della Costituzione. Quell'articolo 11, invece, è esattamente un articolo-ponte rispetto ad una riforma del sistema bicamerale, del bicameralismo perfetto. La riforma, ovviamente, va fatta, ma è di particolare complessità, come si è visto non solo nei dibattiti politici, ma anche nelle riflessioni che in questi mesi e anni abbiamo ascoltato anche da molti esponenti della dottrina costituzionalista, appartenenti in senso politico-culturale al centrodestra, senza voler dare a nessuno etichette di carattere ideologico.
È vero che ci sono problemi di migliore chiarificazione dei criteri di riparto di competenze tra Stato e regioni ed è vero che, probabilmente, è necessaria un'ulteriore riflessione sul numero di competenze concorrenti. Tuttavia, a fronte di tre competenze definite esclusive - termine usato secondo me impropriamente, sul piano tecnico-giuridico; la dottrina, in genere, parlava sempre di competenze residuali, e non a caso - date alle regioni forse non dovremmo arrivare a ristatalizzare tredici competenze, come nel testo che si propagandava all'insegna della devolution, ma che aveva come segno prevalente la ristatalizzazione di ben tredici competenze di quelle attribuite alla competenza concorrente tra Stato e regioni.
Qualcosa, al riguardo, bisognava fare, e qualcuno ha già accennato a questo poco fa, ma credo che si dovrà intervenire con maggiore equilibrio e in modo condiviso. Quello che riterremo, con ampia maggioranza, condivisibile come correzioni e arricchimenti del testo costituzionale in vigore, sarà opportuno fare; sarà opportuno, invece, evitare forzature unilaterali.
Ho molto apprezzato, e forse qualche collega non lo ha ben capito - questa è la sensazione che ho avuto da qualche commento formulato a bassa voce -, tutto ciò che il ministro ha detto sulla questione dell'enorme contenzioso costituzionale: su quello che può essere fatto per evitarne uno futuro (con cooperazione preventiva, con concertazione, e via dicendo), ma anche su quello che può essere fatto per ridurre il contenzioso già in atto.
Credo che questo sarà un lavoro importantissimo che lei, signor ministro, potrà svolgere, come parte del Governo e, in particolare, nell'attività del suo dipartimento. Ad un certo punto, lei ha usato un'espressione un po' forte - non solo la condivido, ma io sarei stato meno delicato e avrei parlato di schizofrenia -, parlando di peculiare strabismo della legislazione ordinaria della scorsa legislatura. Si tratta della legislazione successiva alla riforma del Titolo V del 2001, allorché si è legiferato come se il Titolo V non fosse mai stato modificato e come se non ci fosse stato un rafforzamento enorme delle competenze delle regioni.
Per tale rafforzamento - devo darne atto - il ministro Calderoli, all'inizio del dibattito in aula in occasione della prima lettura alla Camera, ringraziò pubblicamente il centrosinistra. A differenza di altri suoi colleghi del centrodestra, che consideravano quella riforma una sciagura, devo riconoscere che il ministro Calderoli, in aula, nel settembre del 2004, diede pubblicamente atto al centrosinistra di aver fatto una riforma, su quel terreno, molto avanzata.
Il Governo e la maggioranza di centrodestra hanno, da una parte, sventolato la bandiera della devolution e, dall'altra parte, troppe volte (non dico sempre, sarei


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demagogico) hanno legiferato in modo invasivo rispetto alle competenze regionali, sia quelle residuali - termine più esatto rispetto a «esclusive» -, sia quelle concorrenti. Questo è stato il principale fattore di moltiplicazione del contenzioso di fronte alla Corte costituzionale.
Non basta sventolare i numeri di questo contenzioso, e specifico che utilizzo il termine «contenzioso» in modo generico e «omnipervadente», sotto diversi profili: conflitti di attribuzione, impugnazione delle leggi regionali da parte dello Stato, e viceversa, e così via. Se ci fosse stato maggior rispetto del nuovo riparto delle competenze attuato con il nuovo Titolo V, sia pure con alcuni problemi che indubbiamente sono emersi - rispetto a due o tre argomenti, non tredici -, probabilmente quel contenzioso sarebbe stato enormemente inferiore.
Lei ha fatto molto bene, signor ministro, a individuare i modelli di comportamento istituzionale che potranno portare, in uno spirito di leale collaborazione tra poteri dello Stato, a ridurre al massimo per il futuro il contenzioso, ma anche a depotenziare quello che è attualmente in atto.
Ho anche apprezzato, da questo punto di vista, il riferimento all'articolo 114 della Costituzione, primo comma. Spesso non ci si è resi conto della portata straordinariamente innovativa di questa norma rispetto a un nuovo rapporto tra i diversi soggetti costitutivi, non dello Stato, ma della Repubblica. Del resto, quel comma non era stato modificato se non per aggiungervi un esplicito riferimento ai princìpi di leale collaborazione e di sussidiarietà, che comunque sono già nella giurisprudenza costituzionale. Il principio di sussidiarietà è esplicitamente previsto dall'articolo 118 e, all'ultimo comma, è stato introdotto il principio di sussidiarietà cosiddetta «orizzontale», dalla riforma del Titolo V del 2001.
Passo, ora, ad alcune considerazioni e richieste conclusive. Giustamente, signor ministro, lei ha fatto riferimento alla necessità di dare attuazione all'ultimo comma dell'articolo 114, per quanto riguarda Roma capitale. Mi chiedo se, da questo punto di vista, il Governo abbia in preparazione un progetto. Non sarà facilissimo e, comunque, bisognava aspettare di conoscere il risultato referendario di domenica e lunedì scorsi. Il nuovo testo della Costituzione, infatti, prevedeva che fosse la regione Lazio a decidere le competenze di Roma capitale, tramutando Roma nella capitale del Lazio e non della Repubblica. Il testo vigente, invece, reca che Roma è la capitale della Repubblica e che una legge dello Stato ne disciplina l'ordinamento. Questa legge può anche essere di iniziativa parlamentare, ma credo sia molto più opportuno che sia di iniziativa governativa. Immagino che sia opportuno che vi sia una concertazione preventiva anche con gli enti esponenziali del comune di Roma e, se necessario, della provincia e della regione, ma comunque con un'iniziativa da parte dello Stato.
Stessa domanda intendo porle rispetto ad eventuali iniziative legislative, anche queste non facili, in merito alle città metropolitane. Quando inserivamo le città metropolitane tra i soggetti costitutivi della Repubblica, con il nuovo articolo 114, tutti eravamo consapevoli che quella era una norma de iure condendo, ossia una norma programmatica. Essendo più vecchio di qualche collega presente, come esperienza parlamentare, ho partecipato ai lavori delle Commissioni affari costituzionali di diverse legislature, in cui ripetutamente abbiamo cercato di affrontare la questione delle città metropolitane, in relazione alle aree metropolitane, come si diceva nei testi di allora, e abbiamo trovato sempre delle difficoltà, quasi insormontabili. Difficoltà ci sono state dal centro alla realtà territoriale - non dico periferia -, ma soprattutto quando alcune realtà (penso anche a Venezia, Milano e Genova) hanno tentato dal basso di costruire un percorso istituzionale consensuale. È stato quasi impossibile. Il riferimento costituzionale alle città metropolitane ha dato maggiore forza a tutto questo, ma siamo ancora all'anno zero.
Le chiedo, signor ministro, se da questo punto di vista c'è qualcosa in cantiere,


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avendo comunque apprezzato il fatto che lei abbia affrontato anche questo argomento.
Da ultimo, voglio anch'io sottolineare il riferimento che lei ha fatto al ruolo delle cinque autonomie speciali. Non ho capito perché il collega D'Alia, che pure ha svolto un intervento molto pacato e riflessivo, com'è sempre nel suo stile, ha detto che il centrosinistra ha danneggiato le autonomie speciali. Nell'articolo 116 c'è stato, semmai, un arricchimento per quanto riguarda, in particolare, la regione Trentino-Alto Adige Südtirol; una conferma delle autonomie speciali, che hanno, ormai, quattro di esse oltre 50 anni di storia, e una, il Friuli-Venezia Giulia, circa 40 anni di storia.
Tuttavia - lei non ha toccato questo tema, che sembra quasi un tabù, ed io invece voglio toccarlo esplicitamente - nell'articolo 116 della Costituzione è stato inserito il terzo comma, con un'innovazione straordinaria dal punto di vista costituzionale. Su questo sono pronto a confrontarmi a viso aperto. Il presidente Formigoni e il presidente Galan, anziché mettersi a pontificare contro le autonomie speciali confinanti, in particolare quella del Trentino-Alto Adige, negli ultimi mesi della legislatura, avrebbero fatto meglio a cominciare ad attuare il terzo comma dell'articolo 116. Cito, non a caso, due regioni a maggioranza di centrodestra, ma due regioni di grandissima importanza e di grandissimo rilievo economico-sociale. Ebbene, il terzo comma dell'articolo 116 non prevede affatto la disgregazione dello Stato, né la secessione (tutte idiozie che ho sentito dire in qualche campagna elettorale).
Quella norma, oltre a delimitare l'ambito di condizioni particolari di autonomia, parla di iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119 (federalismo fiscale). La norma parla, altresì, di una legge approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa tra lo Stato e la regione interessata. Insomma, questo è l'opposto del secessionismo, della disgregazione, e quant'altro. Su questo, però, nulla è stato fatto da chi ha scoperto il federalismo fiscale quando era già stato messo in frigorifero.
La Costituzione parla specificamente di iniziativa della regione interessata, ma siccome il terzo comma dell'articolo 116 parla di intesa tra Stato e regione interessata, anche lo Stato - e lei rappresenta lo Stato, come ministro del Governo - ha un ruolo importante a questo riguardo.
Credo che le materie che lei ha posto alla nostra attenzione siano state di grande importanza. Le chiederei di approfondire meglio - ma devo dire che già ci sono delle tracce nella sua relazione - come si colloca, in questo nuovo quadro istituzionale che lei ci ha delineato, il rapporto fra le sue competenze e le competenze del ministro e del Ministero dell'interno in materia di autonomie locali. È in corso, come forse lei sa, una contemporanea audizione, che si sta prolungando per il dibattito molto ampio, con il ministro Amato. Immagino che questo sia un tema di particolare delicatezza istituzionale, che potrebbe essere da lei approfondito in sede di replica, al pari della questione del federalismo fiscale, che, come è ovvio, chiama in causa una sua iniziativa - per le responsabilità che lei ha rispetto al sistema delle regioni e delle autonomie locali -, ma anche, per altri aspetti, le competenze del Ministero dell'economia e delle finanze e dello stesso Ministero dell'interno.
Le chiedo, in fase di replica, un approfondimento su questi aspetti.

PRESIDENTE. Ricordo che intorno alle 16 dovremo sospendere la seduta, per svolgere la riunione dell'ufficio di presidenza, che può avvenire anche contemporaneamente ai lavori dell'aula, non essendo previste votazioni.

ENRICO LA LOGGIA. Ho tre motivi di particolare compiacimento: il primo deriva dalla possibilità di ripetere pubblicamente gli auguri al nuovo ministro, peraltro mio successore in questo ramo di competenza del Governo; il secondo è legato all'aggiunta,


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nella definizione del ministero, dell'espressione «autonomie locali», cosa senz'altro utile e opportuna; il terzo deriva dalla circostanza di poter vedere con gli occhi del mio successore un'esperienza precedente che è stata esaltante, seppur ricchissima di difficoltà.
Sostanzialmente, nel corso della passata legislatura si sono svolte contemporaneamente due battaglie culturali. La prima, forse la più robusta, mirava a far comprendere alle diverse amministrazioni centrali che vi era stato un cambiamento radicale nei rapporti tra Stato e regioni e che, quindi, non si potesse fare a meno di considerare la nuova riforma dal punto di vista delle iniziative non soltanto legislative, ma anche amministrative, tecniche, burocratiche, tributarie e fiscali. Questa battaglia ha avuto un'evoluzione lenta, ma oggi, signora ministro, lei avrà la possibilità di operare sulla scorta di un'esperienza già maturata nei cinque anni passati, quindi in un solco già segnato, che pure va ulteriormente approfondito e meglio indirizzato.
La seconda battaglia culturale mirava a far comprendere cosa sono le regioni a statuto speciale. I colleghi che, come me, vengono da regioni a statuto speciale, sanno con quanta difficoltà riusciamo a far comprendere...

PRESIDENTE. Poi non l'hanno deciso loro!

ENRICO LA LOGGIA. Poi non l'hanno deciso loro. È un fatto assolutamente occasionale, del quale peraltro sono lietissimo, presidente Violante.
Parlavo della difficoltà di far comprendere la natura storica, giuridica, istituzionale e l'attualità delle regioni a statuto speciale. Faccio parte della schiera di coloro - so che non è argomento condiviso, trasversalmente, nel mondo politico italiano - che considerano ancora attuale l'istituto autonomistico speciale. Dico che l'argomento non è condiviso trasversalmente perché, anche nella riforma del 2001, il ruolo delle regioni a statuto speciale fu quasi di risulta, con l'aggiunta di un comma nel quale sostanzialmente si affermava che, laddove vi fossero state situazioni di ulteriore autonomia, si sarebbero ovviamente estese anche alle regioni a statuto speciale. Insomma, quasi una postilla notarile per dire che non ci si era dimenticati di queste regioni; nella realtà, tutta l'impostazione del Titolo V prescinde, sostanzialmente, dalla definizione e dall'evoluzione del ruolo degli statuti autonomistici.
Da qui è nato, sostanzialmente, questo enorme contenzioso. I dati che risultavano fino al termine della mia esperienza parlavano di oltre 2.400 tavoli tecnici istituiti nel corso della legislatura precedente, in preparazione di singoli argomenti, relativi a possibili contenziosi fra lo Stato, le regioni e le istituzioni locali.
Quando diciamo che il contenzioso si è ridotto a meno di un quinto, ossia a 450-500 tra ricorsi reciproci dello Stato e delle regioni, conflitti di attribuzione e liti di altro genere, credo che abbiamo comunque tentato di attenuare un fenomeno che avrebbe potuto avere dimensioni devastanti nella funzionalità dell'insieme del sistema repubblicano.
Noi, comunque, ci abbiamo provato. Il 20 maggio 2002, con un enorme sforzo, in parte di fantasia, in parte di tecnica giuridica, si concluse un'intesa interistituzionale - credo fosse la prima volta che si usava in un documento ufficiale l'espressione «interistituzionale» -, nel pieno rispetto, collega Boato, dell'articolo 114, come innovato dalla riforma del Titolo V.
Dire che quell'intesa abbia funzionato sarebbe falso; lo sarebbe altrettanto, però, dire che non ha funzionato completamente. Possiamo dire che ha funzionato pochissimo, in parte preventivamente, in parte successivamente, in parte soltanto per l'instaurarsi di rapporti di conoscenza e di collaborazione singoli, che certamente nulla hanno a che vedere con il rango delle istituzioni. La procedura avrebbe dovuto essere senz'altro diversa. Per colpa di chi è avvenuto tutto questo? Come ho detto, delle due battaglie culturali che si


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erano sostanzialmente sviluppate a partire dal novembre del 2001, con l'entrata in vigore della riforma del Titolo V.
Abbiamo messo in atto un ulteriore tentativo - mi fa piacere che sia stato ricordato - con la legge n. 131 del 2003, che ha compiuto un percorso senz'altro positivo, per tanti aspetti. Penso ai rappresentanti dello Stato, alla nuova procedura dinanzi alla Corte costituzionale e alla possibilità di richiedere o di far riconoscere la sospensiva per gravi e comprovati motivi, al ruolo e alle funzioni delle sezioni regionali della Corte dei conti. Penso, altresì, al ruolo delle regioni nella politica comunitaria o negli accordi internazionali, anche con riferimento alla ricognizione dei princìpi.
Tre o quattro decreti legislativi sono arrivati in porto. Probabilmente il più significativo è quello che riguarda le professioni, argomento sul quale si era sviluppato, giustamente, nel paese un amplissimo dibattito; forse questo è uno dei pochi argomenti sul quale ho sentito opinioni a confronto, documentate sulla base del diritto, a livello trasversale, e non soltanto su posizioni politiche preconcette di schieramento.
Altri decreti non sono nati, per la semplice ragione che sono stati diversamente concepiti, con deleghe diverse da quella prevista dalla legge n. 131 (penso ai beni culturali, alle comunicazioni, e via di seguito). Altri tre o quattro sono sostanzialmente definiti, salvo ulteriori miglioramenti, aggiustamenti e intese, con il mondo delle autonomie.
Permettetemi di fare un cenno al federalismo fiscale, con particolare riferimento all'intervento del collega Zaccaria. Non c'è affatto stato un tentativo ben riuscito di insabbiamento, ma è stata una scelta deliberata. Non si è voluto accantonare il problema, ma si è trattato, lo ribadisco, di una scelta ben precisa. L'Alta commissione ha funzionato, per quel che ha potuto. Tuttavia, dinanzi ad una riforma costituzionale che avrebbe ridisegnato funzioni e competenze di Stato, regioni e istituzioni locali, concludere prima di conoscere la risposta dei cittadini, attraverso il referendum, in merito ad un adeguato ed equilibrato modello di federalismo fiscale, probabilmente sarebbe stato molto imprudente.
Non a caso, l'ultimo rinvio è previsto al 30 settembre o al 30 ottobre di quest'anno, proprio per rendere possibile una valutazione ex post, dopo l'esito del referendum. È argomento, questo, sul quale - vi prego di credermi, ma il ministro Lanzillotta lo sa bene - c'è molta poca tecnica e moltissima politica. L'argomento potrà essere risolto tecnicamente, senza nemmeno tantissime difficoltà, solo dopo che si sarà assunta una scelta politica ben definita e, mi auguro, equilibrata. Parlo per il sud, per le isole, per le regioni a statuto speciale: tre problemi in uno che, se non verranno considerati con equilibrio e saggezza, potranno sicuramente far fallire anche il migliore dei progetti di federalismo fiscale che abbiamo di fronte.
Faccio, ora, un breve riferimento anche al ruolo della Conferenza Stato-Regioni e della Conferenza unificata. Intanto, mi auguro che il ministro Lanzillotta potrà anche essere incaricata di presiedere la Conferenza Stato-città: sarebbe un completamento di questa nuova impostazione, che condivido, la quale consiste nell'accorpamento di funzioni relative alle autonomie locali, accanto a quelle relative alle autonomie regionali.
Le conferenze sono state sostanzialmente un luogo per tentare di far deflagrare il meno possibile il contrasto. Vi sono state situazioni molteplici - su questo non vi trattengo, non lo ha fatto il ministro e non lo voglio fare neanch'io - riguardanti i rapporti fra Stato e regioni, con riferimento alla diversa tipologia di intervento della conferenza, in accordi, in intese, in semplici pareri, secondo le modalità previste dalle singole leggi.
Mi permetto, tuttavia, di contestare che si sia trattato soltanto di un luogo di ratifica. Sicuramente non lo è stato in casi estremamente importanti, nei quali si è trovata una sintesi proprio in sede di conferenza. Penso alla legge-obiettivo, alla riforma Moratti, alla riforma Biagi, ai diversi modelli di riforma sanitaria, agli


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accordi annuali (l'ultimo al quale ho partecipato si è tenuto nel marzo dell'anno scorso).
È evidente che le scelte politiche influiscono anche sul modello procedurale. Abbiamo fatto anche un tentativo assolutamente armonico, con il presidente Errani, di migliorare le procedure e restringere gli argomenti, sul modello del CIPE (l'ex assessore Incostante, che ha partecipato tante volte a questi incontri, può essermi buon testimone). Non sempre, però, si è riusciti a trovare una definizione univoca. Mi auguro fortemente - lo dico perché so bene di cosa parlo - che questa intesa si possa trovare. Certamente, le azioni della conferenza si gioverebbero di una maggiore energia, potendosi concentrare soltanto su alcuni particolarissimi argomenti.
C'è un argomento non risolto - lo sottopongo alla Commissione, dando anche qualche spunto al ministro per un'eventuale risposta -, perché mai realmente affrontato, né dalla riforma costituzionale, né dall'unica legge attuativa di quella riforma, la n. 131, né in altra sede. Mi riferisco al rapporto fra le due conferenze, Stato-Regioni e Unificata, il Governo e il Parlamento. Del resto, quante volte è capitato - ed è stato anche oggetto di polemica da parte delle regioni -, dopo aver raggiunto faticosissimamente un accordo conferenza-Governo, di arrivare in Parlamento e di vederlo stravolto o comunque modificato? Ciò è avvenuto, peraltro, secondo il potere legittimamente riconosciuto al Parlamento. Questo, però, costituisce indubbiamente un ostacolo ad un equilibrato rapporto tra i rappresentanti dei governi regionali e i rappresentanti del Governo nazionale (che sono fra loro omogenei, nell'ambito del potere esecutivo), il legislativo nazionale, che è il Parlamento, e i legislativi regionali.
Non c'è dubbio che, rispetto a questo argomento, non troviamo una risposta normativa. Tuttavia, sarebbe assolutamente indispensabile trovarla, magari studiando insieme un modello per attuare questa possibile riforma e compiere sicuramente un passo avanti, a prescindere da quelle che potranno essere le ulteriori modifiche del Titolo V, che, obiettivamente, avendo dimostrato tutti i suoi limiti, andrebbe modificato.
Vorrei fare una considerazione sulla mancata attuazione della delega, con riferimento al testo unico degli enti locali. Anche in questo caso, l'argomento è molto più politico che tecnico. Fra i tanti aspetti che si potrebbero trattare, in questo ambito, mi piace citarne solo uno, quello che riguarda le città metropolitane. A mio avviso, è un'impostazione sbagliata quella di immaginare di poter istituire contemporaneamente tredici aree metropolitane o tredici città con area metropolitana annessa, nel nostro paese. Le situazioni sono troppo diverse fra loro per poter individuare un modello unico; sono troppo diverse dal punto di vista ambientale, urbanistico, della popolazione e delle attività che vi si svolgono.
Credo, invece, che sarebbe molto più saggio stralciare le tre vere grandi aree metropolitane del paese - Milano, Roma e Napoli - e sperimentare su di esse quale possa essere un modello, non unico, ma adeguato alla realtà di ciascuna delle tre aree. Da qui, semmai, si potrebbe avviare una riflessione successiva, con riferimento alle altre dieci aree. Pretendere, come si è tentato di fare, sia pure con la migliore delle intenzioni, di fare tutto e subito, lo trovo non soltanto illusorio, ma profondamente sbagliato.
Vi sono alcuni argomenti che, nella relazione del ministro, sono stati approfonditi meno di altri. Innanzitutto, mi riferisco alla scelta di prosecuzione o meno, di istituzionalizzazione o meno di due organismi che, richiesti, erano stati istituiti più di fatto che di diritto: una conferenza ad hoc Governo-automomie speciali e un organismo che si occupasse del rapporto Governo-minoranze linguistiche. Si tratta, secondo me, di due organismi estremamente utili, peraltro fortemente richiesti, che non abbiamo avuto il tempo o la possibilità di formalizzare attraverso atti normativi, ma che comunque sono stati strumenti preziosi nel rapporto con queste diverse realtà.


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Altro argomento poco approfondito è quello delle politiche per la montagna: argomento che mi è stato particolarmente caro, che tuttavia non è stato coronato da un successo al 100 per cento (la percentuale, comunque, è buona) solo perché le ristrettezze finanziarie non ci hanno consentito di fare di più. So che questo non è un momento particolarmente felice dal punto di vista finanziario, ma un piccolo sforzo aggiuntivo forse si potrebbe immaginare, e sicuramente sarebbe molto apprezzato da tutti noi.
Da parte nostra, naturalmente riproporremo il disegno di legge per lo sviluppo delle aree montane e su questo tema ci piacerà confrontarci con le iniziative del Governo. Altro tema sul quale ci confronteremo è quello relativo alle tipologie di intervento per le isole minori. Argomento, anche questo, non definito, ma fortemente sentito.
Ultimo argomento che voglio affrontare, signora ministro, riguarda l'iniziativa del suo ministero - su questo non ho sentito nulla nella sua relazione, spero di ascoltare una risposta in fase di replica - relativamente al ruolo del Governo italiano nel perseguire l'obiettivo di una convenzione per l'approvazione della Carta delle regioni in seno al Consiglio d'Europa. L'azione svolta dal Governo nella precedente legislatura è stata di forte appoggio all'ipotesi di convenzione, sulla quale si era raggiunto un consenso di quasi - purtroppo quasi - i due terzi dei paesi componenti il Consiglio d'Europa. Se non si raggiungeranno i due terzi, però, la convenzione non potrà essere approvata.
Per iniziativa del Governo, e mia in particolare, si è scelto di non archiviare definitivamente la questione, ma di rinviarla alla prossima riunione di Madrid del 2007. Inutile dire che, su questa materia, nell'interesse del nostro paese e soprattutto delle nostre regioni, anche da parte nostra ci sarà il massimo sostegno e un atteggiamento favorevole laddove il Governo intendesse proseguire in questa azione. Stesso discorso vale per lo strumento messo in piedi, riguardante il rapporto fra le regioni e l'Europa, con riferimento alla migliore utilizzazione dei fondi tematici. Anche su questo, credo che possa essere utile una prosecuzione di attività, anzi un'intensificazione della stessa, dal momento che questo organismo aveva cominciato a funzionare soltanto da poco, potendo disporre di una struttura e, per quello che è stato possibile, di strumenti finanziari che ne hanno consentito comunque l'avvio.
Concludo con un augurio sincero e lei, signora ministro, sa che lo è davvero. Il suo non è un ruolo facile. L'opposizione con la quale dovrà confrontarsi saranno le amministrazioni centrali dello Stato e delle regioni, che non sempre hanno interpretato nel modo corretto la riforma del Titolo V, agendo le une e le altre, in tante circostanze, come se quella riforma non fosse mai avvenuta.
Accanto a questa opposizione ne troverà un'altra, questa sì, politica, ma non penso che le verrà dalla nostra parte. Le verrà sicuramente da coloro i quali dovranno decidere, nell'ambito del suo Governo, quali risorse mettere a disposizione per l'attuazione di questa parte di federalismo e per l'avvio di una sana, obiettiva ed equa ripartizione di risorse tra lo Stato e le regioni.
Per questo motivo, signora ministro, le rinnovo gli auguri che, come vede, sono assolutamente sinceri.

ROBERTO COTA. Anch'io ringrazio il ministro per la sua relazione. Prendo atto che, rispetto ai toni della campagna referendaria, non c'è stato ancora un cambiamento. Mi riferisco al fatto che nulla ha detto il ministro su come si intende far fronte a quelle istanze di cambiamento che sono emerse dal referendum, con il voto del nord.
Si è parlato, criticandola, della riforma della devoluzione, ma anche su questo bisogna chiarirsi le idee. Non può la devolution che è stata proposta contemporaneamente dividere il paese e realizzare una nuova forma di statalismo o di centralismo: delle due l'una.
Se bisogna ragionare per il futuro - e bisogna farlo - dobbiamo muoverci lungo


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direzioni precise. La prima è quella dell'attribuzione alle regioni di competenze chiare. Quanto ai conflitti davanti alla Corte costituzionale, secondo me, non si possono archiviare come derivanti dalla mancanza di comunicazione tra il Governo e le regioni. Né possiamo pensare che ci sia un potere impositivo dello Stato precedente alle deliberazioni dei consigli regionali, nel senso che le leggi, nelle regioni, vengono approvate dai consigli regionali e il meccanismo di formazione delle leggi, a livello regionale, non contempla neanche procedimenti come la decretazione d'urgenza, con conseguente conversione, che in qualche modo avrebbero la possibilità di blindare i procedimenti.
La realtà è che i conflitti davanti alla Corte costituzionale ci sono stati perché la precedente riforma non ha assolutamente fatto chiarezza nei rapporti tra Stato e regioni. Inoltre, la metodologia dell'attribuzione delle competenze concorrenti è una metodologia sbagliata, che crea confusioni e conflitti.
Ho sentito parlare di statalizzare le competenze. Penso che anche voi siate d'accordo sul fatto che sostenere, sulle grandi reti di trasporto, sull'energia o sulle professioni intellettuali, la necessità di una competenza regionale non vuol dire parlare di federalismo, ma di anarchia, e significa creare una situazione di incertezza proprio su queste materie.
La via da seguire, come dicevo, è quella dell'attribuzione di competenze chiare. Il modello dovrebbe essere quello dell'attribuzione di competenze legislative esclusive, ovviamente nel vincolo della Costituzione, sul quale siamo tutti d'accordo.
Quanto al federalismo fiscale, infine, evocato dal ministro, faccio notare che è materia importantissima, forse l'obiettivo vero delle regioni del nord. Tuttavia, per realizzarlo è necessario prevedere competenze esclusive delle regioni e, contemporaneamente, «asciugare» lo Stato centrale. Diversamente, non solo non riusciremo a creare un modello efficiente, ma potremo arrivare, per assurdo, ad un aumento delle spese, poiché le regioni spenderebbero per creare un apparato per competenze che non hanno e lo Stato manterrebbe tutto il suo apparato elefantiaco.
Se non agiamo su questi due livelli, rischiamo veramente di trovarci a Roma, al prossimo giro, con 1.500 soggetti, tra parlamentari e sottosegretari! Parlo in generale, senza riferirmi ad una parte politica, piuttosto che all'altra.

PRESIDENTE. In considerazione delle imminenti votazioni in Assemblea e dovendosi procedere alla riunione dell'ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta, la cui data sarà concordata con il ministro.

La seduta termina alle 16.