COMMISSIONE I
AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di marted́ 11 luglio 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE

La seduta comincia alle 12,10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Seguito dell'audizione del ministro dell'interno, Giuliano Amato, sulle linee programmatiche del suo dicastero.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, il seguito dell'audizione del ministro dell'interno, Giuliano Amato, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
Do ora la parola agli onorevoli che desiderino porre ulteriori questioni al ministro.

FRANCO RUSSO. Essendo questa l'ultima seduta dell'audizione, cercherò di essere veramente breve nello svolgere le mie considerazioni.
Prima di intervenire in merito alla relazione dell'onorevole Amato, mi consenta, presidente, di interloquire per un paio di minuti con l'onorevole Biancofiore che, a mio avviso, ha toccato delle questioni talmente complesse e delicate che meritano una riflessione. Ovviamente, non essendo mia intenzione sostituirmi al ministro, parlo per la mia parte politica.
Con la sua consueta passione, l'onorevole Biancofiore, parlando del Sud Tirolo - Alto Adige, ha esposto la condizione di quella parte di popolazione che lei ritiene essere - e lo è effettivamente - la minoranza in quella regione, ma che è maggioranza rispetto allo Stato italiano, ossia quella italiana.
A me pare che l'onorevole Biancofiore sottovaluti completamente alcune questioni storiche che, invece, non dobbiamo assolutamente dimenticare. Per valutare la saggezza - detto da me che non vengo da quelle parti - delle scelte compiute da De Gasperi e dai governi da lui presieduti, in relazione alla sistemazione della questione del Sud Tirolo, vorrei ricordare all'onorevole Biancofiore soltanto due avvenimenti di cui non si parla mai.
Solitamente, infatti, quando si parla del popolo tedesco, o delle popolazioni di lingua tedesca, ci si ricorda, rispetto alla seconda guerra mondiale, delle atrocità del nazismo. Ricordare tali circostanze è assolutamente giusto e va sempre fatto.
Allo stesso tempo, tuttavia, si dimenticano le sofferenze che le popolazioni di lingua tedesca hanno subito. Mi riferisco ai 10 milioni di persone displaced, come si dice oggi con un termine inglese, dai Sudeti, dalla Cecoslovacchia.
Inoltre, non bisogna dimenticare un fatto che ai miei occhi appare addirittura paradossale, ovvero che la patria di Kant, Königsberg, oggi è un'enclave russa. Ebbene, alla luce di questi fatti, è facile rendersi conto della gravità di ciò che è successo nel corso del secondo dopoguerra.
A mio avviso, dunque, noi dobbiamo alla saggezza e alla lungimiranza di De Gasperi -


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e rimarco la mia lontananza ideologica da questo grandissimo statista italiano - il fatto di non aver conosciuto fenomeni di displaced men delle popolazioni di lingua tedesca dall'Italia, oltre che una sistemazione, anche attraverso il trattato con l'Austria, che non deve apparire come qualcosa di strano.
Proprio dopo la seconda guerra mondiale, infatti, ha avuto luogo una protezione internazionalistica dei diritti delle persone e delle minoranze linguistiche. In questo senso, anche l'accordo con l'Austria ha svolto un suo ruolo. Lungi dal limitare la nostra sovranità, ha utilizzato, invece, degli strumenti internazionali per difendere i diritti della popolazione tedesca che, come lei giustamente ha ricordato, è stata oppressa e colonizzata dal fascismo durante gli anni Trenta.
La seconda scelta che dobbiamo riconoscere a De Gasperi, e non solo, è quella europeista, che oggi dà la possibilità a tutti quanti noi di prefigurarci come delle minoranze all'interno della casa comune europea. Quindi, anche il discorso che l'onorevole Biancofiore ha svolto sulle minoranze italiane va inquadrato in una prospettiva europea che, effettivamente, dovrebbe contemplare uno statuto delle minoranze, in maniera che i diritti sia politici sia individuali (esercizio della lingua, della cultura e quant'altro) siano salvaguardati.
Fatte queste precisazioni - che a mio avviso erano necessarie, dal momento che non possiamo cancellare pezzi di storia, oltre che le scelte operate proprio per rispondere a quelle circostanze drammatiche -, vengo molto succintamente alle considerazioni svolte dal ministro Amato.
Innanzitutto, non si può che apprezzare - e non è un ossimoro - l'opzione culturale e politica compiuta dal ministro quando ha parlato di sicurezza dei diritti. Insomma, quello che appariva essere un ministero della polizia si è sempre più evoluto - mi pare che l'impronta che voglia dare l'onorevole Amato si muova proprio in questa direzione - verso la sicurezza dei diritti dei cittadini.
Su alcune questioni, tuttavia, onorevole Amato, devo esprimere le mie preoccupazioni, nella speranza che lei le possa condividere. Non affronterò la questione dei CPT - dal momento che ne ha parlato a lungo la mia collega di gruppo, Mercedes Frias -, a proposito della quale manteniamo ferma l'opzione, contenuta nel programma de L'Unione, del superamento degli stessi.
Ovviamente, non si può che apprezzare la proposta di una commissione d'indagine, che non si nega mai a nessuno e che è utile per acquisire ulteriori rilievi. Tuttavia, a mio avviso, le condizioni in cui versano i CPT sono ormai di dominio pubblico, della stampa nazionale e degli atti parlamentari.
Vorrei invece, oltre che mantener fermo il discorso del superamento dei CPT, richiamare la sua attenzione circa un punto sul quale lei, ministro Amato, non si è soffermato. Mi riferisco alla vicenda della legge Bossi-Fini.
Certo, ci sono degli aspetti securitari (i CPT e ciò che prima ricordavo), ma c'è un punto che lei, che ha insegnato a tutti noi i diritti di libertà, non può sottacere. Mi riferisco al legame esistente fra il contratto di lavoro per emigranti e il permesso di soggiorno e quindi, più in generale, tra i diritti di cittadinanza e il lavoro.
A me pare che questo legame rappresenti un qualcosa di assolutamente retrogrado, che va ben oltre i contratti di indenture, ossia quelli stipulati per gli apprendisti che lavoravano nelle piantagioni o nelle navi. Le ricordo, infatti, che dopo un lungo periodo (5-10 anni) quei contratti terminavano e la persona era libera di non lavorare più nelle piantagioni o sulle navi. Nel nostro caso, invece, leghiamo permanentemente la presenza dell'emigrante, e i suoi diritti, al contratto di lavoro.
Siccome sono certo della sua sensibilità, oltre che della sua dottrina in materia, credo che condividerà la mia convinzione, secondo cui il Governo deve farsi promotore non della correzione, ma della cancellazione di questo aspetto. Che poi si possa discutere sui flussi, o di come mettere


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in relazione il cosiddetto mercato del lavoro con la domanda, questa è tutta materia di riflessione approfondita.
In ogni caso - lo ripeto -, signor ministro, credo che non possiamo non toccare il ganglio vitale della legge Bossi-Fini che, a mio avviso, è costituito dal legame che intercorre tra il contratto di lavoro e il permesso di soggiorno.
L'ulteriore considerazione che vorrei svolgere in questa direzione non riguarda una sua competenza immediata. Tuttavia, approfitto della sua presenza e del suo peso specifico all'interno del Governo, per ricordare che abbiamo una convenzione internazionale ONU, sulla protezione dei diritti dei lavoratori emigranti e dei membri delle loro famiglie - alla cui elaborazione tutti i vari governi hanno partecipato -, che il Governo non ha ancora ratificato.
Non si tratta di un suo compito specifico come ministro, ma come membro del Governo lo è, perché l'iniziativa dei processi di ratifica non può venire che da parte del Governo. Le sarei grato, dunque, se potesse far presente all'interno del Governo che esiste questa convenzione. Tra l'altro, da anni le associazioni vanno chiedendo, a ogni piè sospinto, soprattutto a inizio legislatura, che questa venga firmata.
Più di un anno fa, è nato un comitato, presieduto da Bruno Trentin, che ha raccolto questo elemento di pressione sul Governo e sul Parlamento, per la firma di questa convenzione, volta alla protezione dei diritti dei lavoratori emigranti e dei membri delle loro famiglie, che rappresenterebbe uno strumento internazionale di difesa dei diritti.
Ministro, se ho ben compreso quanto da lei detto in occasione di un'assemblea delle ACLI, ossia che occorre ripensare la nostra legge del 1992 sulla cittadinanza e muoversi appunto in una direzione di cittadinanza di residenza - al di là del fatto che utilizzeremo il riferimento civile o penale rispetto alla definizione di residenza -, mi trova completamente d'accordo.
Per quanto riguarda me e il mio gruppo, non possiamo che condividere tale affermazione. Vale a dire che dobbiamo superare quel misto di ius sanguinis e ius solis che è ancora presente all'interno della nostra legislazione e procedere nella direzione indicata. Non voglio anticipare l'atteggiamento del mio gruppo, anche nella scelta della quantità degli anni, però mi pare che la misura da lei suggerita sia abbastanza ragionevole.
Allo stesso modo, ministro Amato, credo che sarebbe particolarmente importante muoversi a livello europeo, dal momento che si va verso una cittadinanza di residenza su scala europea. Già questo, infatti, permetterebbe la protezione dei diritti non solo dei cittadini comunitari, ma anche di quelli extracomunitari che potessero acquisire la cittadinanza di residenza.
Non voglio dilungarmi oltre. Questi erano i punti su cui volevo richiamare la sua attenzione, ministro. Spero che, anche se non vi è obbligato, nella sua replica possa rispondermi in merito alle questioni che ho sollevato.

OLGA D'ANTONA. Signor ministro, nel salutarla, desidero esprimere un particolare ringraziamento per l'attenzione e l'impegno che lei sta dando a questa Commissione.
Dall'inizio di questa sua audizione, molte cose sono accadute. Ci rendiamo conto che gli eventi, che riempiono le pagine dei giornali in questi giorni, rendono ancora più gravoso un compito che, già di per sé, è molto impegnativo.
Ho apprezzato il modo in cui lei ha presentato il suo programma di Governo, e in particolare il fatto che abbia dato un'ampia attenzione al tema dell'immigrazione.
A tal proposito, infatti, lei non ha soltanto indicato una precisa linea politica, ma ha anche dato prova di sensibilità umana e, soprattutto, di una dote di cui ci sarebbe molto bisogno, ma che è molto poco diffusa, quella del buonsenso. Mi riferisco ai temi del ricongiungimento familiare, dei permessi di soggiorno, della


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cittadinanza, rispetto ai quali - debbo dire - la legge Bossi-Fini è una normativa, per certi versi, inutilmente persecutoria.
Lei ha ragione. Personalmente, mi sono riconosciuta nelle sue parole, quando ha affermato che ognuno di noi si è trovato a doversi occupare di casi umani, per i quali, forse, le norme potrebbero superare l'imbarazzante compito delle raccomandazioni.
Lei, ministro, parlava, con il timore che fosse semplicistico, di come superare questi problemi. Tra tali problematiche, lei annoverava anche il tema del superamento delle povertà - tutt'altro che semplicistico, direi - e della necessità di politiche di cooperazione con gli Stati da cui queste immigrazioni provengono.
Per quanto mi riguarda, sono fra coloro che sostengono che debba essere contrastato il binomio per cui l'immigrazione è sinonimo di criminalità. Sappiamo bene, infatti, che gran parte dell'economia e anche, ahimé, dello Stato sociale di questo paese si poggia sul sostegno dell'immigrazione.
Ciò nonostante, sappiamo anche che, legati ad alcuni aspetti perversi dell'immigrazione, vi sono dei crimini particolarmente odiosi che, purtroppo, si basano su connivenze tra criminalità nazionale e straniera. Sto pensando al traffico di esseri umani, di donne e di minori. Concordo sul fatto che, da questo punto di vista, debba essere condotta una politica non soltanto repressiva, ma anche di intelligence e di cooperazione.
Mi congratulo con lei, dunque, perché, già dall'inizio del suo ministero, ha firmato l'accordo di Prum che, a mio avviso, è molto importante. L'assenza dell'Italia, infatti, determinava una sofferenza da parte degli altri paesi europei che avevano firmato quell'accordo. Parlo di paesi non secondari nell'Unione europea, quali la Germania, il Belgio, la Spagna, la Francia, il Lussemburgo, l'Olanda, l'Austria.
Come dicevo, quindi, le rivolgo un particolare apprezzamento per la tempestività con la quale lei, all'inizio del suo Governo, ha firmato tale accordo, che prevede una stretta collaborazione tra le polizie, con possibile operatività di poliziotti in divisa sui territori stranieri firmatari, con accesso alle banche dati e con scambi di dati (come il DNA, le impronte digitali, le targhe automobilistiche).
Mi auguro, pertanto, che l'adesione dell'Italia a questo trattato possa determinare risultati fruttuosi nella lotta alla criminalità, che è quanto mai importante rispetto ad un terrorismo internazionale sempre più pericoloso.
Come sappiamo bene, peraltro, l'Italia non teme soltanto un terrorismo ed una criminalità internazionali. Infatti, noi abbiamo qui, in casa nostra, problematiche come quella della mafia e altre situazioni particolari, come quelle della Calabria, con l'omicidio Fortugno, che ha concentrato l'attenzione nazionale su quel territorio.
Spero che tale attenzione non resti limitata al momento, ma determini invece una vigilanza particolare su determinati crimini e su una certa criminalità organizzata, estremamente pericolosa, che richiede non solo la repressione, ma anche il controllo del rispetto della legalità nelle stesse pubbliche istituzioni, con uno sguardo particolare alle amministrazioni locali e alla trasparenza.
Per questo motivo, abbiamo affrontato in questa Commissione una discussione circa la possibile istituzione di una Commissione antimafia, che speriamo dia buoni frutti.
Purtroppo, abbiamo anche a che fare con un terrorismo nazionale, con gruppi di anarco-insurrezionalisti. Non ultimo è il fenomeno delle brigate rosse in questo paese, con i detentori di un linguaggio, di un'ideologia, di un sistema di organizzazione, gli irriducibili nelle carceri, che continuano, come sappiamo, ad avere rapporti con altri simpatizzanti esterni.
Non so se lei sia della stessa opinione dell'ex ministro Pisanu. Nella sua relazione lei parlava di sconfitta, pressoché totale, dei grandi fenomeni terroristici interni; ciò che ci preoccupa, però, è proprio quel «pressoché». La scorsa settimana, infatti, su l'Unità del 6 luglio, è apparso un articolo in cui si diceva che era pervenuto, presso quel quotidiano, un volantino firmato


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dalle avanguardie di resistenza antimperialista per la costruzione del partito comunista combattente.
Mi sono procurata quel volantino, di cui vorrei leggervi alcuni passi, se lei avrà la pazienza di ascoltare. Le avanguardie di resistenza antimperialista parlano di ritorno alla lotta che l'ormai prossimo partito comunista combattente si assume la responsabilità politica di causare. Più avanti, si parla di tendenza, assolutamente crescente, di partecipazione alla cauta e silente strategia per il raggiungimento degli obiettivi. Inoltre, si annuncia l'inizio di un nuovo periodo di lotta, si minacciano nuovi giorni neri che aspettano la vita della borghesia imperialista e si prospettano nuove stagioni di vittoria del proletariato.
Si aggiunge ancora che, nel corso dei prossimi mesi, non mancheranno azioni atte alla concretizzazione degli obiettivi preposti. Si parla della necessità di preparare il terreno all'ormai prossima mobilitazione di massa per la lotta antimperialista con azioni mirate alla disarticolazione dell'apparato controrivoluzionario; di perfezionare la costituzione del partito comunista combattente e di internazionalizzare la lotta di classe. Infatti, i firmatari del volantino fanno riferimento e plaudono agli attentati di Londra e considerano il terrorismo islamico come lotta di liberazione. Si leggono, infine, parole come «guerra alla guerra», e «onore a tutti i compagni combattenti antimperialisti caduti». Il volantino, come ho detto, è firmato dall'avanguardia di resistenza antimperialista per la costruzione dell'ormai prossimo partito comunista combattente.
La domanda che le rivolgo, in merito, è la seguente: in che considerazione tiene questo volantino? Lo reputa attendibile? Considera queste minacce un pericolo? Quali sono le misure che intende adottare?
Si parlava, tempo addietro, di accorpare alla Commissione nazionale antimafia un centro di raccolta dati, anche per il fenomeno del terrorismo. Lei ritiene che questo possa essere uno strumento utile, oppure ha in mente altre forme di contrasto, prevenzione e monitoraggio? Crede che il terrorismo italiano sia un fenomeno di scarsa rilevanza e che, quindi, non sia indispensabile un impegno del suo ministero in questo senso? Restiamo in attesa di una sua risposta.

CINZIA DATO. Rivolgo qualche breve domanda al ministro. Relativamente ai centri di permanenza temporanea, alcuni dei problemi che si pongono - e che credo siano particolarmente sentiti - sono quelli legati alla trasparenza di quanto accade al loro interno e, quindi, anche alla possibilità per la stampa di entrarvi. Questo ci viene richiesto da molti e, in questo momento, credo che un paese come l'Italia non possa essere distratto da tale tema.
Vengo ora ad un'altra questione. Durante il Governo che ha visto come ministro Enzo Bianco, si è lavorato ad un interessante bilancio annuale sulla sicurezza, che vedeva la presa in considerazione di numerose fonti e la collaborazione di vari istituti. Credo si sia trattato di un lavoro molto interessante e troverei importante che il suo ministero riprendesse una valutazione dell'analisi dello stato della sicurezza nel nostro paese, a partire da questa complessa raccolta di dati.
Ricordo, infatti, che nel corso degli anni del passato Governo c'è stata molta incertezza sull'affidabilità di alcuni dati relativi alla sicurezza del paese.
Inoltre, dal momento che si tratta di problemi per i quali è importante analizzare dei trend, un lavoro di questo tipo mi sembrerebbe di grande importanza.
Le sottopongo ancora una piccola questione di dettaglio, che mi è stata posta da alcune associazioni, relativa al fenomeno dei matrimoni celebrati per regolarizzare la propria presenza in Italia da parte di extracomunitari.
Qualcuno mi poneva il problema del peso che questo può avere quando il matrimonio avviene tra persone molto giovani e italiani molto anziani, in termini anche di spesa previdenziale. Le chiedo, dunque, se abbiamo un'idea dell'entità di questo fenomeno. Credo sarebbe un dato


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interessante da prendere in considerazione, visto che spesso si tratta di una forzatura alla quale il nostro stesso sistema induce.
Venendo all'articolo 51, ritengo sia inutile sottolineare proprio a lei l'importanza di una legge di sistema, che miri davvero non a riconoscere il diritto ad una maggiore partecipazione, ma ad imprimere una svolta al sistema, a tutti i livelli di istituzioni decisionali, siano esse elettive o meno. Credo che anche di questo il nostro paese abbia urgente bisogno.
Vengo ora al problema, lungamente richiesto, del terzo mandato. Penso che bisognerebbe svolgere una riflessione generale sul fatto che, nel caso dei sindaci e dei presidenti di provincia, si tratta dell'unico limite di mandato elettivo. Forse, dovremmo riflettere in generale sui limiti di mandato anche per le altre cariche elettive o, quantomeno, considerare questo tema.
L'ultimo punto riguarda gli italiani all'estero. Su tale questione, il mio giudizio è molto severo. Voglio sottolinearle un aspetto forse banale, ma assolutamente antistorico: oggi, un italiano che si trovasse all'estero continuerebbe a non poter votare, nel caso si celebrino elezioni in Italia. Ritengo che questa sia una lacuna da colmare con urgenza.

KHALED FOUAD ALLAM. Signor ministro, la ringrazio per l'ampiezza della sua analisi. Quasi tutti hanno parlato di immigrazione, e quasi tutto è stato detto su questa complessa problematica.
Al contrario di altri, io ho sempre pensato che la Bossi-Fini non fosse realmente una legge sull'immigrazione. Come lei ben sa, infatti, l'immigrazione è qualcosa che va ben al di là di un semplice contratto di lavoro, è un fenomeno che concerne direttamente il mutare totale di un'intera società.
La Bossi-Fini è una legge che regolarizza il rapporto fra un imprenditore e un extracomunitario, con tutti gli aspetti peculiari di questa legge. Tuttavia, l'immigrazione oggi si situa all'interno di un quadro nazionale e sopranazionale e pone numerosissimi problemi. Tra questi, bisogna considerarne uno in particolare - che si pone l'Italia, ma anche tutti i paesi che danno luogo al fenomeno dell'immigrazione -, e cioé quello dell'integrazione. Credo che, relativamente a tale faccenda, in Italia manchiamo di strumenti in grado di definire e di architettare, politicamente e strategicamente parlando, delle vere politiche pubbliche di integrazione.
Inoltre, ritengo che nel caso in cui il nostro Governo approverà una futura legge sull'immigrazione, evidentemente, non sarà più possibile parlare d'immigrazione in generale, in quanto esistono diverse tipologie di tale fenomeno: da quella di lavoro, a quella di alta qualità nell'ambito della ricerca scientifica, fino ovviamente alle politiche di ricongiungimento familiare.
Tutte queste politiche di integrazione, in quasi tutti i paesi d'Europa, sono legate alle procedure di acquisizione della cittadinanza, con delle logiche politiche che sono anche culturali e che appartengono alla storia di un singolo paese (dallo ius solis allo ius sanguinis).
Tuttavia, i recenti fatti di terrorismo di matrice islamica o di rivolta sociale - come abbiamo visto ultimamente in Germania o in Francia con la rivolta nelle banlieue, anche se in quest'ultimo caso la faccenda dell'Islam c'entrava poco - dimostrano che certamente la cittadinanza è un passo necessario per le politiche di integrazione, ma anche che non è l'unico mezzo attraverso cui un immigrato che diventi cittadino può realmente integrarsi. Ci vuole ben altro perché questo accada.
Proprio il terrorismo di matrice islamica, infatti, dimostra che si può avere benissimo una carta d'identità francese, inglese, tedesca o belga che sia, e sentire il mondo esterno come ostile. Ecco, dunque, che bisogna apportare delle innovazioni nell'ambito delle politiche di integrazione. Mi riferisco alla capacità di un Governo nel trovare soluzioni per architettare e definire delle autentiche politiche di coesione sociale e culturale. Per fare


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questo, esistono diversi strumenti: territoriali, urbani, o che passano attraverso il ruolo che può avere la scuola.
Tuttavia, in Italia manchiamo di una sorta di lettura incrociata che ci potrebbe aiutare ad affinare e a definire ancora meglio queste necessarie politiche di integrazione, ad esempio attraverso una commissione per l'integrazione.
Tra l'altro, credo che una nuova legge sull'immigrazione, oltre che definire le variegate tipologie presenti in questo ambito, dovrebbe fare dello stesso strumento legislativo un mezzo in grado di stabilire la natura di tali politiche di integrazione. Pertanto, dovrebbe avere, all'interno di questo stesso strumento giuridico, un ruolo sociale, culturale e, ovviamente, altri ruoli necessari alla complessità stessa della questione dell'integrazione.
Del resto, che lo vogliamo o no, la cittadinanza è l'unico strumento giuridico che gli Stati hanno a disposizione per rinnovare e riformulare la loro popolazione, in una situazione demografica anche abbastanza preoccupante. Come ho già detto in un'altra occasione, le statiche delle Nazioni Unite dicono che entro il 2025 il 29 per cento della popolazione italiana sarà di origine straniera.
Bisogna prepararsi a questo evento. È evidente, infatti, che la questione dell'eterogeneità delle provenienze, dalla Cina, dall'Africa, dal mondo arabo, dall'Asia, e via dicendo, porrà numerosi problemi.
Il secondo aspetto del quale non ha parlato e che, purtroppo per lei, ministro, rappresenta una bella gatta da pelare, è la questione dell'Islam e della visibilità pubblica, di uno spazio pubblico dell'Islam molto problematico in Italia e anche negli altri paesi.
Il suo ex collega Pisanu ha indicato ciò che si era fatto in Francia, attraverso la definizione di una consulta islamica non con un mandato elettivo, ma di nomina.
La consulta è uno strumento, e non la risoluzione dei problemi. La politica può aiutare, ma c'è qualcosa che interviene nella fenomenologia politica. Come diceva Braudel, c'è sempre il lavoro della storia sulla storia. È la storia che comunque aiuterà la formulazione, che è poi la definizione, di questa nuova problematica. Tuttavia, il compito di un Governo e della politica è quello di rispondere politicamente a questo problema politico.
Quasi tutti gli Stati, dall'Olanda, alla Germania, alla Spagna, e chiaramente anche l'Italia, hanno definito una specie di volontarismo dello Stato. Vale a dire che è lo Stato che interviene e che obbliga, in un certo senso, l'individuo e le comunità, a raggrupparsi e a definire un'architettura che possa dare maggiore visibilità ad uno spazio pubblico dell'Islam.
Bisogna fare attenzione, però, alla formulazione di una consulta sia in Italia sia altrove. Come ho già detto più di una volta, la consulta non può essere un'unità di crisi, non può essere il luogo al quale ci si rivolge per avere una risposta ogniqualvolta si verifichi un attentato terroristico.
Occorre far lavorare la consulta islamica che abbiamo oggi, magari aggiungendo anche altre personalità, non direttamente musulmane (su questo argomento tornerò più avanti). Bisogna aiutarla ad occuparsi di un aspetto che mi sembra fondamentale in Italia e anche in Europa, ossia la questione della formazione del personale di culto, sulla quale sono più volte intervenuto.
Credo che questo sia un passaggio molto stretto, in quanto pone dei problemi di legittimità anche in seno ad organismi musulmani internazionali, come l'organizzazione della conferenza islamica.
Tuttavia, l'unica strada che l'Europa e l'Italia hanno è quella di definire un vettore portante di persone istruite secondo i canoni delle scienze e dell'origine dell'Islam, ma non solo. Bisogna considerare anche l'insegnamento della storia delle religioni e dei diritti dell'uomo: è dunque necessario che la storia dell'Italia e dell'Europa siano all'interno di questo stesso vettore.
In questo, credo che la consulta avrebbe un ruolo importante da rivestire. Essa, infatti, potrebbe evidenziare gli elementi necessari per aiutare la formulazione di questo vettore portante, che de


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finirebbe non soltanto un personale di culto, ma anche la legittimità delle istituzioni, delle moschee in Italia e in Europa.
Su questo argomento ho una mia opinione personale, sulla quale potremo tornare a discutere in altre occasioni e in altre sedi.
In ogni caso, ritengo che l'Italia potrebbe aiutare e dare il «la», come un direttore d'orchestra, all'Europa, per definire questo canale molto strenuo che non risolverebbe tutte le problematiche, ma aiuterebbe notevolmente a meglio interpretare la condizione storica del secolo appena iniziato. Vale a dire la definizione di un Islam che si determina all'interno della storia dell'Europa e del nostro paese. Parliamo, dunque, non di un Islam europeo, ma di un Islam d'Europa che sia consonante alla storia di questo paese e anche alle tradizioni musulmane, ovviamente rivisitate proprio perché si assiste alla formulazione di un Islam della diaspora.
In quanto esperto di islamologia, dico che un processo di questo tipo non è impossibile da realizzarsi, perché storicamente, o topologicamente, parlando, l'Islam lo ha sempre fatto. Quando l'Islam si è diffuso in Asia centrale, ha definito una scuola giuridica che si articolava in funzione degli usi e costumi di quella parte del mondo. Allo stesso modo, nell'Africa subsahariana, l'Islam ha definito uno strumento giuridico in grado di tradurre giuridicamente le tradizioni islamiche, da una parte, e la tradizione propria alla cultura dell'Africa subsahariana, dall'altra.
Oggi, si tratta di definire, giuridicamente parlando, un nuovo strumento che traduca l'Islam della tradizione e il diritto italiano ed europeo.
Questo, purtroppo, i musulmani lo hanno dimenticato. Tuttavia, la consulta serve anche a questo: a riscoprire questa memoria e ad aiutare ad individuare gli strumenti giuridici e politici in grado di riformulare ciò che è necessario oggi.

FELICE BELISARIO. Sarò brevissimo, signor ministro.
Vorrei porre alla sua attenzione alcune problematiche e rivolgerle qualche domanda sull'ordine pubblico e la sicurezza. In quest'aula, qualche settimana addietro, abbiamo ascoltato il presidente degli industriali della Calabria, all'indomani delle minacce che aveva subito. Egli ci ha ribadito dei fatti che già conoscevamo, ma ce li ha esposti in termini ufficiali e preoccupanti.
In questo momento parliamo di quel determinato territorio, ma penso che anche in altri luoghi si verifichi la stessa circostanza. Vale a dire che non si denunciano più i microcrimini, come il furto di un'auto piuttosto che di un appartamento, sempre ammettendo che questi fenomeni debbano essere considerati come microcriminalità.
Le chiederei se il suo dicastero sta studiando un modo per restituire ai cittadini una fiducia smarrita in tema di sicurezza, non soltanto nelle zone del Mezzogiorno, ma anche del nord Italia. Penso al problema delle rapine in villa, dei centri storici e delle periferie degradate, dopo un certo orario, di notte.
Un suo collega di Governo ha ipotizzato la possibilità di approvare una legge sanatoria per le badanti. Volevo sapere se ciò implica un suo parere al riguardo, se si tratta di un'iniziativa che andrà approfondita in seguito, se rientra nelle quote che noi conosciamo, o in un allargamento, o in un'interpretazione o in un'abolizione di norme all'interno della legge Bossi-Fini.
Quanto all'agenzia dei segretari comunali, le chiedo se essa sia ancora incardinata nel suo ministero o meno. In modo particolare, vorrei sapere se corrisponda al vero quanto avviene sul territorio, ossia che molti segretari comunali sono in lista di mobilità e vengono chiamati, quando va bene, nel periodo estivo, indipendentemente dalle maggioranze di Governo che si succedono; le maggioranze presenti all'interno dei comuni sono dirimenti sulla capacità, sulla professionalità e sulla laboriosità dei segretari comunali.
Siccome noi abbiamo un contrordine di legittimità che è sempre più diradato sugli


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atti delle amministrazioni locali, le domando se anche su questo punto lei abbia qualcosa in cantiere.
Infine, vorrei parlare di una questione che non nasce oggi, certo non dalle ultime elezioni, e non voglio - ci mancherebbe -, per la mia parte politica, mettere in discussione il risultato della tornata elettorale. Tuttavia, le domando se, viste le lungaggini avvenute nello spoglio, la cattiva affluenza in termini di tempo, e gli errori che a volte sono stati commessi, non sia il caso di pensare ad un'individuazione dei presidenti di seggio che avvenga, forse, con un albo, e in tempi leggermente più anticipati rispetto alle consultazioni elettorali.
La stessa cosa dovrebbe avvenire per la composizione dei seggi. In qualche maniera dovremo pure fare, affinché questo paese, all'indomani delle elezioni, non si ponga sempre il problema di possibili brogli, o di ritardi inconcepibili, o di una burocrazia terzomondista.
Mi fermo qui, in quanto gli altri argomenti sono stati trattati sufficientemente dai colleghi.

CARLO GIOVANARDI. Approfitto della presenza del ministro per sottolineare - lo faremo anche in aula - quello che sta accadendo questa mattina e che riteniamo di una gravità eccezionale. Sto parlando della pubblicazione di verbali secretati, attraverso i quali - vero o non vero che sia - terze persone in altri paesi vedono il loro nome pubblicato come collaboratore dei servizi italiani.
In tal modo, viene messa a rischio l'incolumità e anche la vita di queste persone. Inoltre, attraverso questo meccanismo, questo corto circuito - che vede l'intervento dell'autorità giudiziaria, l'interrogatorio di teste o di imputati, non si capisce bene, la secretazione degli atti e la pubblicazione degli stessi - vengono pubblicati in tutto il mondo, cosa inusitata credo, i nomi di coloro che hanno collaborato con i servizi italiani. Penso al caso Sgrena, Quattrocchi, o a quello delle due Simone. In definitiva, quindi viene resa pubblica la rete dei nostri collaboratori internazionali.
Mi rivolgo al ministro degli interni e dico che questa cosa mi sembra essere di una gravità al di là di ogni immaginazione. Credo che il Governo possa ricorrere a degli strumenti giuridici - non so se al segreto di Stato o a che cos'altro - per impedire che tali fatti avvengano, pur nel rispetto dell'autonomia di ogni organo, compreso quello inquirente. Bisogna evitare, infatti, che questi avvenimenti si evolvano, trasformandosi in qualcosa che non è neanche immaginabile per le conseguenze che può avere, per la nostra credibilità e per tutti coloro che, nel mondo, possono avere la cattiva idea di collaborare con le strutture dello Stato italiano.

JOLE SANTELLI. Forse questo riguarda più le competenze del ministro della giustizia, che quelle del ministro Amato, però il problema...

GIULIANO AMATO, Ministro dell'interno. Rivendichi le tue vecchie competenze!

JOLE SANTELLI. Ciò che è ancora più grave è che, spesso, degli stralci di interrogatorio, contenuti in un articolo leggermente più ampio, possono essere riportati. In questo caso, ci troviamo di fronte ad una pubblicazione a pagina intera, con un titolo, un sottotitolo, l'interrogatorio, e le frasi virgolettate. Tutti ci rendiamo conto che questo comporta un problema enorme per qualsiasi tipo di indagine. Immaginiamo, quindi, quali dimensioni assuma la questione quando stiamo trattando un'indagine così delicata, come quella che, al di là delle responsabilità soggettive, coinvolge la sicurezza del paese e i servizi di sicurezza.
Alla luce di quanto detto, credo che tutti noi dovremmo farci parte attiva, per far ascoltare la voce politica contro alcune stonature veramente eccessive.

PRESIDENTE. Do la parola al ministro per la replica.


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GIULIANO AMATO, Ministro dell'interno. Ho assistito con piacere alla mia audizione. Intendo dire che l'interesse suscitato dai temi che sono propri dell'amministrazione di cui mi occupo ha determinato una partecipazione molto ampia e approfondita dei colleghi alla discussione. Infatti, con gli ultimi soldi che Padoa-Schioppa ci sta lasciando, i miei uffici, preparando le risposte per il ministro alle domande precedenti, hanno già prodotto un volume piuttosto voluminoso, nel quale mancano, ovviamente, le risposte alle domande formulate stamattina.
Si tratta di un volume che, evidentemente, non sono grado di leggere nei minuti che ci rimangono. Parlerò di alcune cose e poi, a meno che non vogliamo rendere questo incontro un dato permanente della legislatura, invierei per iscritto - tanto è già bello e scritto - le risposte che non farò in tempo a fornire. Nulla di ciò che è stato detto in questa sede deve rimanere non trattato.
Cercherò perciò, senza particolari ripetizioni su ciò che abbiamo già discusso, di scorrere sui temi più importanti, salvo a sottolineare io stesso il punto che Fouad - scusate, ma dal momento che siamo amici, ci chiamiamo per nome - ha prima messo in luce. Mi riferisco, innanzitutto, al fatto che l'immigrazione non è mai un fenomeno che viene contenuto nelle leggi. Queste ultime lo possono orientare in un modo o nell'altro, ma finiscono sempre per toccare solo una parte di un tema che si realizza attraverso gli esseri umani che lo vivono, con le loro idee e anche con i loro pregiudizi che, a volte, ahimè, pesano più di quanto possano fare le leggi che, certe volte, li riflettono.
In secondo luogo, tuttavia, le leggi riflettono un modo di vedere il fenomeno che è bene che sia chiaro. Vale a dire che un paese toccato da un fenomeno significativo, come quello migratorio, si deve domandare se è disposto verso una integrazione di altri nella sua comunità nazionale, o se, invece, è orientato a respingere l'ingresso di altri dalla sua comunità nazionale.
Naturalmente, è inutile dare luogo in questa sede a battaglie ideologiche sull'identità. L'identità italiana si è venuta formando attraverso i secoli, in ragione dell'ingresso in Italia di tanti esseri umani che, a suo tempo, non ci stavano. Successivamente, abbiamo costruito una cultura e dei valori che, tuttavia, sono sempre stati figli di questo processo.
Esistono splendidi libri che descrivono l'Europa come il cuore del mondo, sino a quando ha saputo tradurre in cultura europea gli input che le venivano dal resto del mondo. Chi parla di decadenza dell'Europa al nostro tempo fa proprio riferimento all'attenuarsi di questa capacità dell'Europa di far proprio, assorbendolo ma in qualche modo mantenendolo, il tratto di chi ha concorso alla sua identità. Questa considerazione riguarda anche i singoli paesi, oltre che l'Europa.
Stamattina, sono andato in visita alla comunità ebraica di Roma. Mi sono recato al museo che è stato ripristinato negli ultimi mesi e che è molto bello. Merita una visita. Ebbene, c'erano le tracce dell'arrivo degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Ho detto a coloro che me lo illustravano che la mia famiglia arrivò in Sicilia nel 1492, ma non so se fosse araba o ebrea e non lo saprò mai. In ogni caso, sono italiano, se non sbaglio. Sono quello che sono e faccio parte della comunità italiana, anche se non so se chi ho alle spalle era ebreo o arabo. Sono sempre lo stesso in realtà.
Questi atteggiamenti sono importanti. In proposito, ho notato che il Giappone ha una propensione molto restrittiva ad accettare altri nel proprio paese, e quindi pensa ad una preservazione dai fenomeni migratori di quella comunità che si è venuta costituendo. Come ho detto, dunque, questi sono atteggiamenti importanti che, poi, finiscono per determinare il tipo di leggi che approviamo.
In una recente presentazione di uno studio sulle famiglie di immigrati, a cura delle ACLI, emergeva che la maggior parte di queste sono composte da giovani, tra i 25 e i 39 anni, che hanno da due figli in su. In queste famiglie, entrambi i coniugi


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lavorano e hanno una fortissima propensione ad acquisire le abitudini italiane. Più del 65 per cento di queste persone, infatti, sostengono che rendersi partecipi delle abitudini italiane è facile.
Questo dimostra che la famiglia immigrata, di fatto, è diversa da quella che viene immaginata. È giovane, non è conservatrice nei costumi, è composta da coniugi che lavorano entrambi, è molto motivata dal punto di vista della mobilità sociale, è molto interessata alla casa e a mandare i figli nelle nostre scuole, ed è molto aperta ad integrarsi. Inoltre, se davvero è così facile acquisire le abitudini italiane, vuol dire che anche gli italiani sono molto disponibili a far acquisire le loro abitudini.
Questo quadro va tenuto presente, poi ci possiamo anche ghignare sopra, pensando ad un passato ariano o ad altre sciocchezze di questo genere.
Tuttavia, il nostro problema è quello di rendere la nostra comunità capace di mantenere un suo tratto forte, assorbendo cambiamenti che sono parte del tempo futuro, e mettendo gli immigrati in condizioni di corrispondere - questo lo ammetto - ad una capacità di assorbimento che ciascun paese ha entro un certo limite.
Su questo punto non si possono fare ideologie restrittive, né espansive. Se un paese non ha capacità di assorbimento, evidentemente, condanna ad una cattiva condizione sia chi c'era sia chi c'entra. Tuttavia, altro è valutare la capacità di assorbimento come un fine in sé stesso, e altro è vederla come un modulo intelligente per gestire un fenomeno preso nelle sue dimensioni. Noi forse ci occupiamo di questo aspetto in fondo, e non dell'interezza del fenomeno.
Da questo punto di vista, la legislazione esistente ha piccole carenze, alcuni pregi e difetti significativi.
L'intenzione del Governo è quella, nelle prossime settimane, di mettere a punto un pacchetto di modifiche che possa viaggiare anche su binari istituzionali distinti, in modo da sfruttare gli strumenti esistenti, con il massimo di efficienza possibile. Siamo in grado di migliorare la condizione per i ricongiungimenti familiari, attuando una direttiva comunitaria che di essi parla, con decreto legislativo che, naturalmente, verrà esaminato dalle Commissioni parlamentari, e risolvendo i problemi ai quali ho accennato nel corso della mia audizione precedente e sui quali non torno.
Abbiamo la capacità di risolvere problemi attinenti alla durata - troppo limitata in più casi, come è stato ammesso direi da tutti voi - dei permessi di soggiorno modificando il regolamento, senza bisogno di intervenire sulla legge. Di questo, devo darne atto al senatore Mantovano, che è autore sia della legge sia del regolamento. Sbagliando, ho attribuito alla legge la questione della durata, invece la faccenda si può modificare attraverso il regolamento, il combinato disposto di legge e regolamento.
I temi della legge che devono essere modificati sono a dir poco due, aldilà del quadro a cui prima mi riferivo. Uno è quello che riguarda le espulsioni, a proposito del quale c'è una specie di vuoto nella legge Bossi-Fini che la Cassazione ha di recente sottolineato. Infatti, per chi è comunque nella condizione di illegalità - poi si può anche discutere quali sono queste condizioni, ma esisterà sempre una condizione di illegalità - è previsto il decreto di espulsione. Se l'immigrato non ottempera, si può arrivare all'arresto, all'accompagnamento alla frontiera, ma non oltre, o al trattenimento all'interno dei CPT. Al termine di questa ultima fase, se nulla è stato fatto, l'individuo in questione torna in libertà nel paese. Questo è ciò che stabilisce esattamente la legge.
Tuttavia, a me non è chiaro per quale ragione il tempo medio di identificazione del paese di origine di un immigrato clandestino appena arrivato oscilla tra i 15 e i 40 giorni e perché, invece, per un individuo che già si trova in Italia illegalmente, i 60 giorni di permanenza nei CPT passano senza che si riesca esattamente ad identificarlo. Dovrò svolgere un approfondimento in merito; in ogni caso, al momento, la norma si presenta con una sorta di buco.


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Il vero problema è rappresentato dal legame tra contratto di soggiorno e soggiorno. Come ho già detto, ritengo che un immigrato non possa essere mandato via per il solo fatto di aver, già oggi, terminato il suo lavoro.
Inoltre, trovo grottesco che a chiunque di noi sia consentito di vivere a lungo, tra un lavoro e l'altro, campando con i risparmi che è riuscito a mettere da parte, mentre l'immigrato deve dimostrare di avere permanentemente un reddito da lavoro; altrimenti, al di là di un certo numero di mesi, viene mandato via.
Questi meccanismi vanno cambiati. Un immigrato, teoricamente, può arricchirsi anche raccogliendo pomodori. Se dopo il terzo anno egli riesce a vivere di rendita, perché gli deve essere vietato di farlo in Italia?

CARLO GIOVANARDI. Questa era la Turco-Napolitano!

GIULIANO AMATO, Ministro dell'interno. Non c'è niente di male. Tagliando canne da zucchero in Australia, gli italiani, dopo qualche anno, hanno messo da parte una quantità sufficiente di soldi per vivere in quel paese senza continuare a svolgere quel lavoro. Non vedo perché la stessa cosa non debba accadere in Italia, a meno che non ci facciamo cogliere tutti dalla sindrome giapponese.
Stando a quel tipo di ragionamento, infatti, dovremmo stabilire che gli italiani sono coloro che vivono in Italia almeno da tre secoli, mentre coloro che si sono insediati più di recente se ne devono andare perché l'italianità deve essere preservata. Nessuno di noi pensa una cosa del genere, infatti non attribuisco a nessuno un ragionamento simile.

DOMENICO BENEDETTI VALENTINI. La tesi è elegante, ma non si regge!

GIULIANO AMATO, Ministro dell'interno. Non è affatto elegante, è semplicemente banale. Siccome trovo impensabile che qualcuno creda questo, non lo attribuisco a nessuno, proprio per questo motivo, penso si debbano cambiare quelle norme che lasciano intendere una cosa del genere.
Dico tutto ciò, fermo restando che chi entra nel paese mi deve garantire di farlo in una condizione corrispondente alla capacità di assorbimento, ossia se la sua venuta - l'ho detto fin dall'inizio - ha un rapporto col lavoro.
Il difetto della Bossi-Fini è quello di fingere una cosa che non è. Il contratto di soggiorno è indifendibile sul piano della realtà dei fatti, in quanto esso presuppone di essere stipulato con persona che si trova all'estero nel momento in cui il contratto viene stipulato. Infatti, è dopo l'accertamento della regolarità della domanda che il lavoratore, rimasto nel suo paese, acquisisce il visto dal consolato italiano con il quale può venire legalmente in Italia. Non è così che stanno le cose.
Per forza, allora, che questo paese ha oltre un terzo della sua economia sommersa! Tale situazione è dovuta al fatto che in Italia si fa finta che accadano cose che in realtà non succedono.
Questa è una legge di regolarizzazione permanente di presenze irregolari in Italia. La prova irrefutabile, davanti a qualunque giudice, che ciò che dico corrisponde al vero è che le file per portare queste domande le hanno fatte non gli imprenditori e le padrone di casa bisognose di una colf, ma direttamente gli immigrati. Ciò vuol dire che queste persone non erano nel loro paese, ma in Italia.
In parole molto semplici, dunque, lo strumento del contratto di soggiorno corrisponderebbe alla realtà delle cose se lo usasse la Germania, la quale fa entrare esclusivamente persone che hanno un'alta qualificazione.
Se faccio entrare nel mio paese soltanto personale di alta qualificazione, è realisticamente possibile che io stipuli dei contratti individuali con persone, da me identificate, che non sono in Italia (quel tale ingegnere pachistano, quel tale ingegnere indiano, quel tale chimico di non so quale paese).


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Tuttavia, un paese come il nostro - che addirittura tende ad essere restrittivo col personale altamente qualificato e che al contrario favorisce, per tempi brevi, l'ingresso di personale non qualificato - pretende di credere che seleziona i lavoratori, personalmente, quando questi si trovano all'estero. Dal momento che questo non è credibile, la legge va cambiata.
Dobbiamo verificare altre formule per fare entrare le persone nel paese, in relazione ad un lavoro che si trova. Ovviamente, mi riservo di formulare proposte affinché questo possa accadere.
Lo ripeto, mantengo fermo il legame dell'ingresso con il lavoro, ma ritengo che tale legame debba essere garantito con strumenti più realistici che consentano alla persona non qualificata di trovare legalmente il lavoro; e non di fingere di trovarlo legalmente, simulando di essere all'estero, dopo essere stata qui illegalmente ed averlo trovato. Questa è la situazione allo stato attuale, che esigerà il cambiamento della legge.
La questione dei CPT e anche quella della trasparenza, vorrei che venissero esaminate dalla Commissione. Non desidero ripetere una cosa che ho già detto, ma voglio essere molto franco. Personalmente, non sono mai ideologico nei miei comportamenti, quindi dico che sento il bisogno di questa trasparenza, ma sento anche la necessità di tutelare chi lavora bene per garantire la sicurezza e buone condizioni di vita, in qualche CPT in cui questo accade.
È facilissimo fare dei servizi che presentano qualunque realtà come se essa fosse ottimale o pessima. Dicevo per scherzo che, se qualcuno volesse dimostrare che vivo in un tugurio, dovrebbe semplicemente venire in casa mia oggi e riprendere soltanto gli infissi tutti scrostati, che devo cambiare e che stanno cadendo a pezzi. Se di casa mia si mostrano solo gli infissi, si dimostra che vivo in una casa di serie C. Non ci troverei comunque nulla di male ad abitare un una casa simile, ma credo che quella descritta non sarebbe una rappresentazione corretta della mia abitazione.
È necessario, dunque, definire delle regole che permettano una rappresentazione non imposta, ma onesta - in inglese si direbbe fair - di qualunque realtà, sia essa positiva sia essa negativa.
Mi è stato posto il problema delle modalità dell'ampliamento della quota di immigrati regolari. Ebbene, stiamo provvedendo. Esiste questa lunga procedura, prevista dall'articolo 3 della legge Bossi-Fini vigente, che consente di adottare ulteriori decreti, oltre a quello che ha fissato il primo contingente, quando ve ne siano le ragioni. Una delle ragioni - non quella espressamente indicata da quell'articolo - può ben essere che le domande, che possono essere regolari, superano di gran lunga il numero dei posti del primo contingente.
Di conseguenza, dobbiamo preparare gli uffici competenti a esaminare anche delle domande in più, rispetto alle prime 175 mila, che risultino regolari.
Queste persone, non solo hanno già presentato la domanda, ma, se è vero quello che dicevo della Bossi-Fini, hanno già anche un lavoro. Parliamo di persone che si trovano già qui e che svolgono l'impiego, per il quale è stata presentata la domanda.
Non vorrei sembrarvi venale, ma si tratta di reddito nazionale che viene prodotto in nero in questo stesso momento. Nell'istante in cui queste domande regolari vengono accolte, quel reddito emerge e, tra l'altro, paga anche i contributi previdenziali. Per avere un'idea generale della questione, vi basti pensare che vi sono almeno 350 mila di questi lavoratori che oggi stanno già lavorando, ma in nero, dal momento che la domanda non è stata ancora accolta. Quando questo avverrà, cominceranno ad essere versati mille euro l'anno di contributi.
Come ho detto, non voglio sembrare venale, ma sottolineo che si tratterebbe solo di un passaggio da un lavoro nero attuale ad un lavoro regolare che, peraltro, già esiste.
La parte relativa all'integrazione degli immigrati mi coinvolgerebbe molto personalmente, ma mi tocca meno come ministro


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degli interni, in quanto investe le competenze che ora sono suddivise tra il Ministero del lavoro e quello della solidarietà sociale.
Di sicuro, ho una responsabilità per quanto riguarda il voto e la cittadinanza, a proposito dei quali ho già espresso la mia opinione. Credo sia opportuno dare la cittadinanza a coloro che si trovano almeno da cinque anni nel nostro paese, e che sono maturi per ricevere la carta di soggiorno. Personalmente, infatti, sarei molto restio a darla, prima che si siano manifestati segni di effettiva volontà di radicarsi. Del resto, sono molto numerose le persone che vengono in Italia per qualche anno, per fare soldi e per poi tornarsene al loro paese. Non c'è nessuna ragione di offrire la cittadinanza a chi se ne vuole tornare a casa sua. Dopo due anni, francamente, non credo che questa volontà di radicamento possa ancora essersi determinata.
Tuttavia, se qualcuno chiede la carta di soggiorno è perché ha intenzione di stabilirsi in Italia e, magari, ha già dei bambini che sono nati qui e che si sono inseriti nel nostro sistema scolastico. Ebbene, penso che a quel punto i genitori debbano avere la cittadinanza. Allo stesso modo, ritengo che debba averla un bambino, figlio di genitori che sono già in quella condizione, o un bambino che abbia maturato un certo numero di anni di presenza nella scuola italiana. Non si può imporre nulla ad un bambino, quindi si può valutare se aspettare che egli compia la maggiore età, oppure se dargli la cittadinanza prima e prevedere che la rigetti quando compie i 18 anni, nel caso in cui se ne voglia andare.
Possiamo considerare varie formule, con le quali cercherei comunque di risolvere il problema del diritto di voto. Infatti, girare attorno all'articolo 48 della Costituzione, per riconoscere il diritto di voto a prescindere dalla cittadinanza non è poi così semplice. Cambiare la norma costituzionale, per la quale - banalmente, ma abbastanza persuasivamente - si prevede che è la cittadinanza a dare una serie di diritti, tra i quali vi è anche quello del voto, non mi sembra proficuo. A quel punto, anziché dare vita ad un tormentone, possiamo stabilire che, dopo un certo numero di anni, possa essere conferita la cittadinanza, che include anche il diritto di voto.
Certo, si pensa al diritto di voto dopo 5 o 6 anni che si sta in Italia, se si colloca la cittadinanza dopo 15 anni. Tuttavia, se si diventa leggermente più ragionevoli e si rimane nella media europea per quanto riguarda la cittadinanza, non c'è ragione di scindere queste cose.
Passerei ora ai temi della sicurezza, che finiscono sempre per essere sacrificati. Vi faccio notare che la sicurezza è un argomento sul quale, in Italia, abbiamo delle grandi capacità e un'insufficienza crescente di mezzi finanziari, nonostante si dica che abbiamo tanti poliziotti. Questo è vero, ma è altrettanto vero che la propensione a coprire il territorio che noi abbiamo, fa sì che scatti un'attenzione da parte degli italiani non appena il loro quartiere - ed è vero - non è coperto come gli altri.
I CPT sono 14 in tutto, ma dobbiamo considerare che ci girano attorno 800-850 persone per la sicurezza. Come ho già detto, alla polizia di prossimità ci credo molto. Infatti, pur sapendo che il poliziotto di quartiere è stato visto in modo vario - anche in ragione del fatto che è stato inventato da una determinata parte politica - devo sottolineare che questa figura, oggettivamente, ha funzionato.
È anche possibile che esistano modi migliori di fare polizia di prossimità, ma i dati di cui sono in possesso affermano che, dove il poliziotto di quartiere è stato istituito, si è verificata una diminuzione della criminalità e una percezione di maggiore sicurezza da parte di cittadini.
Il mio problema sarà quello di estendere la polizia di prossimità con quello strumento, ed eventualmente, se le risorse finanziarie non saranno sufficienti, anche con altri mezzi. Per quanto mi riguarda, tuttavia, lo vedo piuttosto come un problema di mix, determinato da ragioni finanziarie, che non necessariamente da


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altro. Per questo motivo, ringrazio chi ha posto il problema dei mezzi e delle risorse per la sicurezza.
Inoltre, vi chiedo di fare attenzione ai documenti che il Governo di cui faccio parte vi sottoporrà, affinché ne sia verificata l'adeguatezza e quant'altro. Mantengo un minimo di discrezione, in nome della collegialità, su questo argomento.
Per quello che riguarda la criminalità, le cose da dire possono essere tante, ma questa mattina voglio rispondere all'onorevole D'Antona e invitarla a fare attenzione. Il fatto che il fenomeno brigatista sia pressoché sconfitto - giustamente lei notava il senso sinistro del termine «pressoché» - è irrefutabile.
Nella sua grande tragica stagione, il terrorismo brigatista era costituito da una rete cospicua di partecipanti alla cospirazione politica complessiva, e da una rete, ancora più ampia, di solidarietà fatta di silenzi, di coperture e di omertà.
Come sappiamo, il delitto Moro rappresentò il punto di svolta in questa vicenda. Infatti, la repulsione morale che scattò nel paese per l'uccisione di quest'uomo, amato da molti italiani, stimato da tutti e assassinato in quel modo fu tale che la rete si essiccò. Fu a partire da quel momento che queste persone si ritrovarono ad essere dei criminali sempre più isolati.
Oggi, abbiamo a che fare con alcune figure, limitate nel numero, che continuano a perseguire quel disegno, ma che non sono più circondate dalla doppia rete di allora. Questo rappresenta per loro una sconfitta comunque, perché quello è un fenomeno che ha un senso se riesce a «sollevare masse», o presunte tali, intorno a sé. Allo stato attuale, questo è del tutto impensabile; tuttavia, ciò non lo rende meno pericoloso, anzi ne aumenta il grado di pericolo per i singoli casi.
Tale eventualità, dunque, ci impone di prestare un'attenzione maggiore rispetto a quella del passato, quando ci potevamo avvalere di ciò che si veniva dicendo nella rete, in termini di informazione, di notizie, di consapevolezza di relazioni, di aspettative di eventi.
Oggi, tale rete non esiste più e c'è il silenzio intorno a costoro. Pertanto, due o quattro persone che progettano un attentato - come quello che lei ricorda più di ogni altro essere umano al mondo, e come un altro che è seguito - si muovono in una specie di vuoto. E noi abbiamo il problema di detectarli in quel vuoto.
Il grado di pericolo, dunque, è ancora maggiore. In proposito, se c'è qualcosa di cui gli apparati che in parte a me rispondono sono consapevoli è proprio questa pericolosità che, naturalmente, è diversa da quella della grande criminalità.
Quest'ultima è pericolosa perché sfuma drammaticamente nella legalità. Questo è il suo vero problema.
Ormai, non si tratta più soltanto della maestra mafia, ma bisogna tenere conto anche della 'ndrangheta, della camorra e di altri fenomeni di criminalità organizzata entrati nel paese, che, attraverso collegamenti interni e internazionali, si legano ad attività finanziarie, mediante le quali riciclano danaro sporco. In seguito, il frutto di tutto questo processo criminale lo vediamo arrivare nei nostri paesi attraverso attività che ci si presentano con il massimo di pulizia apparente.
Giorni fa, parlando con la Reuters, ho affermato che se dovessi fare una classifica dei pericoli che l'Italia corre oggi su questo terreno, metterei al primo posto, ex aequo, la camorra e la 'ndrangheta, e la mafia a seguire. La camorra e la 'ndrangheta, infatti, hanno sviluppato in modo impressionante questa capacità di collegamento con il mondo esterno.
Purtroppo, nel napoletano, o nel casertano, assistiamo agli ammazzamenti, ossia all'aspetto più intollerabile e brutale di questa presenza criminale. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli del fatto che essa è anche altrove e che fa tutto questo in ragione di attività apparentemente lecite. Questo implica grossissimi problemi, che tutti dobbiamo affrontare.
Vorrei dire qualcosa su tutte le diverse questioni che sono state affrontate, anche se su molte di esse dovrò limitarmi ad una risposta scritta.


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Del terzo mandato dei sindaci, ne ho parlato in aula. Vi confesso che finirò per presentare una proposta, anche se in realtà ne dobbiamo discutere assieme.
A mio avviso, non è poi così importante che il limite ci sia o meno, perché potrebbe anche non esserci. I presidenti della regione, ad esempio, non lo hanno. Perché, allora, la questione dovrebbe riguardare i piccoli comuni?
Piccolo è bello per tante ragioni, ma non è bellissimo dal punto di vista della sclerotizzazione dell'establishment politico-amministrativo. Insomma, nelle grandi città la concorrenza è più facile che nelle piccole, in quanto esse offrono serbatoi più ampi per un eventuale ricambio. Nei piccoli centri, possiamo creare dei sindaci senza fine, perché è meno facile il ricambio. Da questo punto di vista, quindi, non vedo la ragione di privilegiare i piccoli.
L'altro aspetto che non capisco chiaramente è il seguente: posto che voi, Parlamento della Repubblica, decidiate di introdurre il terzo mandato, perché poi dovreste fare una sanatoria per quei venti che hanno violato la legge, mentre tutti gli altri l'hanno rispettata?
Il sindaco del paese in cui sono residente, ad esempio, è una bravissima persona di Alleanza nazionale. Naturalmente, noi, come centrosinistra lo criticavamo, ma era indiscutibilmente un bravo sindaco. Se si fosse ripresentato, sarebbe stato di sicuro rieletto per il terzo mandato, ma ha rispettato la legge e non lo ha fatto. Allora, perché questa persona non deve più rivestire la carica di sindaco, mentre qualcuno deve fare una sanatoria per coloro che hanno violato la legge?
Non li considero un problema sociale, francamente. Inoltre, non amo, da ministro dell'interno, salvo in situazioni di disperazione umana, che un giudice possa accertare che il modo per cambiare la legge sia quello di violarla, da parte di pubblici ufficiali, peraltro, che non versano in stato di bisogno materiale per loro e per la loro famiglia. Detto questo, lavoriamo pure sul terzo mandato.

GRAZIELLA MASCIA. Bisogna fare una circolare su questo?

GIULIANO AMATO, Ministro dell'interno. Non è una circolare.
Personalmente, non lascio i prefetti nel bagnasciuga dell'omissione di atti d'ufficio, quindi questi stanno provvedendo a ciò che è di loro competenza. Del resto, c'è sempre un giudice a Berlino che ritiene che la legge è in vigore, ed io non voglio che i miei prefetti caschino in questo.
Rispondo alla questione dell'Alto Adige. L'autonomia dinamica fu tirata fuori in Parlamento. Ritornando ai miei studi di costituzionalista, mi chiedevo cosa fosse l'autonomia dinamica, dal momento che non si trova nei libri. In realtà, essa nasceva dalla senatrice che disse che il Governo aveva interpretato in modo dinamico l'autonomia e il presidente Prodi affermò che questo era giusto. Tuttavia, come sa anche lei, questo è giusto perché, al cambiare delle circostanze - a prescindere dall'esistenza dei diversi e veri problemi che lei ha sollevato - bisogna adattare gli istituti. Questo è un problema generale, in quanto se non li si adatta, si resta indietro.
Quando abbiamo privatizzato diverse attività pubbliche, il principio della proporzionalità che regge il rapporto tra gruppi etnici, in quanto pensato per strutture eminentemente pubbliche, minacciava di cadere per tre quarti delle strutture rilevanti. Era necessaria, dunque, una interpretazione dinamica, che serviva anche al gruppo italiano. Diversamente, infatti, essendo gli italiani - come lei ha detto giustamente - la minoranza e non la maggioranza in quelle zone, rischiavano di essere emarginati nella ripartizione dei posti.
Anche a me ha sempre colpito la questione del quadriennio di residenza, che è previsto dallo statuto speciale e fa parte del pacchetto. Tuttavia, mi colpisce, per converso, anche il fatto che non ci siano procedure di infrazione che lo riguardino. Ciò significa che la stessa Comunità europea, alla quale lei faceva riferimento, ritiene che vi siano degli adattamenti che


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sono propri di situazioni di autonomia speciale.
Per quanto riguarda la faccenda delle caserme, mi informerò. Ad ogni modo, quelle di cui ho la responsabilità (quelle della Polizia e in parte quelle dei Carabinieri) non sollevano il problema da lei prospettato.
All'onorevole Carfagna, volevo dire che il fenomeno delle rapine in villa, che è molto diffuso, per essere contrastato ha bisogno proprio di quella prossimità, in assenza della quale non andiamo da nessuna parte. Infatti, dal momento che tali rapine, in genere, avvengono ai bordi dei centri urbani, bisogna avere un'effettiva presenza di polizia di prossimità, oltre che dei sistemi di sicurezza. Riguardo a questo, spero che ciascuno provveda a sé stesso, ma di solito chi possiede queste case è nelle condizioni di affrontare tale spesa nel proprio interesse.
Inoltre, onorevole, le volevo far notare che questo fenomeno rappresenta lo 0,06 per cento dei reati complessivi, lo 0,1 per cento dei reati definiti predatori (furti e rapine) e, riferendosi alle sole rapine, il 3,33 per cento di esse. Ovviamente - lo riconosco -, tali dati rendono evidente anche quanto siano numerose le rapine che vengono effettuate.
Sempre a tal proposito, tuttavia, devo anche sottolineare che è in corso una tendenza alla diminuzione relativa di questo fenomeno, in quanto l'azione di contrasto ha prodotto la scoperta degli autori del reato nel 30 per cento dei casi nel 2004, nel 34 per cento dei casi nel 2005, nel 38,64 per cento nel 2006. Ciò significa che con il passare del tempo - non distinguo tra Governi, d'altra parte l'azione di polizia è quella che è - vi è stata una crescente capacità di contrasto di questo fenomeno.
Sarebbero tante le cose che vorrei dire, ma non credo di avere tempo a sufficienza per esaurire tutti gli argomenti. Con il consenso dei colleghi, quindi, rimetterei alla documentazione scritta, che ho qui con me, le risposte che non ho dato oralmente.

CARLO GIOVANARDI. Chiederei soltanto al ministro la sua opinione in merito al fuori sacco.

GIULIANO AMATO, Ministro dell'interno. Come notava giustamente la collega Santelli - sensibile alle competenze della giustizia che ha a lungo esercitato -, si tratta di un problema a proposito del quale bisogna consultare il ministro Mastella.
Personalmente, sono assolutamente esterrefatto da quello che sta accadendo in Italia e da quello che sto sentendo dire. Dobbiamo considerare che si tratta di una prassi fortemente consolidata che si ripete da molto tempo. Addirittura, alcuni giornalisti mi hanno spiegato che esistono dei contratti di fatto tra alcuni dei loro colleghi e coloro che sono in condizione di erogare la notizia; mi hanno detto che esistono collegamenti anche tra procure e giornali, per cui la password per entrare viene comunicata al giornalista nel momento in cui l'atto viene dato ai difensori, o comunicato all'indiziato o all'imputato. Vi è quindi una propensione alla circolazione di queste informazioni che, oltre ad essere contraria alla legge, è sconcertante.
Il punto sul quale bisogna riflettere riguarda, casomai, esclusivamente le intercettazioni non attinenti al fatto reato che, di sicuro, dovrebbero essere come minimo accantonate, poi distrutte, e non comparire mai nell'eventuale fascicolo relativo a quella determinata vicenda. Questa potrebbe essere una delle leve sulle quali lavorare. Non c'è dubbio che è il magistrato ad essere responsabile di questo passaggio, che non è l'unico da prendere in considerazione, ma che comunque deve essere affrontato.
Ovviamente, in questo momento sto esprimendo delle opinioni personali. Non sono abilitato a spiegare quale sia la posizione del Governo su questo argomento.

CARLO GIOVANARDI. Mi consenta di sottolineare che per parlare di tali faccende mi rivolgo al ministro degli interni, non al ministro della giustizia. Si pongono anche problemi di sicurezza nazionale...


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GIULIANO AMATO, Ministro dell'interno. Da questo punto di vista sono una vittima. Infatti, nella misura in cui - come dicevano alcuni di noi da giovani - queste intercettazioni incrinano rapporti, strutture, e profili riservati ai quali è affidata la credibilità degli apparati di sicurezza, che almeno pro quota dipendono da me, viene meno, pro quota, una sicurezza di cui sono responsabile.
Lei ha ragione a sottolineare tale questione, ma questo non cambia che debbo rivolgermi a competenze di Governo e di Parlamento complessive per trattare tale tema che, comunque, deve essere affrontato. Non possiamo, ogni settimana, assistere ad un caso diverso che, tuttavia, somiglia al precedente, sempre ed esclusivamente su questo punto.

PRESIDENTE. Voglio solo aggiungere che vi è un'ambiguità enorme, nel codice di procedura penale, su questa materia. Infatti, si distingue tra notizie di cui è vietata la divulgazione e altre di cui, invece, è vietata la pubblicazione. Per divulgazione, si intende che si può riportare cosa è stato detto, ma non citare tra virgolette, cosa che non è vietata in molti casi. Esiste, dunque, anche un equivoco di fondo all'interno delle norme che credo vada risolto. Diversamente, continueremo a trovarci in questo tipo di situazioni.
Signor ministro, la ringrazio molto per la pazienza che ha avuto e per la completezza del suo intervento. Se non ho capito male, farà arrivare per iscritto ai singoli colleghi le risposte che non ha dato oralmente.

MARCO BOATO. Non ai singoli colleghi, ma alla Commissione.

PRESIDENTE. I singoli colleghi potranno trarne ciò che a loro interessa.

GIULIANO AMATO, Ministro dell'interno. Siccome le risposte sarebbero state presentate al collegio, io comunicherò con lei, poi ciascuno dei colleghi saprà comprendere a chi si riferisce ogni singola risposta.

PRESIDENTE. Grazie ancora, signor ministro.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,35.