COMMISSIONE II
GIUSTIZIA

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 28 giugno 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE PINO PISICCHIO

La seduta comincia alle 14,30.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del ministro della giustizia, Clemente Mastella, sulle linee programmatiche del suo dicastero.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del ministro della giustizia, Clemente Mastella, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
Prima di dare la parola al ministro, avverto che alla sua esposizione seguiranno gli interventi dei colleghi, ai quali il ministro potrà replicare.
Comunico che alle ore 16 è prevista la convocazione dell'aula per la prosecuzione dei lavori all'ordine del giorno.
Do la parola al ministro Mastella per lo svolgimento della sua relazione, ringraziandolo per la sollecitudine e la puntualità con cui ha accettato l'invito della Commissione.

CLEMENTE MASTELLA, Ministro della giustizia. Innanzitutto ringrazio il presidente e i colleghi deputati per questo mio esordio nella Commissione giustizia, che sarà il tratto distintivo, spero, di questo rapporto - in collaborazione, in distinzione, spero mai separatezza - tra l'azione del Governo e l'idea programmatica contenuta in queste mie riflessioni e quello che sarà il contributo di natura parlamentare.
È qualche tempo, ormai, onorevoli colleghi, che il tema dell'inadeguatezza delle prestazioni offerte dal nostro sistema giudiziario sembra aver perso molto del suo appeal, a favore di diatribe tra poteri interni, e fra questi e la classe politica, o della ricerca di soluzioni tecnicistiche per risolvere i problemi di pochi.
La sensazione che se ne ricava è che, al di là delle enunciazioni di principio sulle necessarie riforme di carattere procedurale ed organizzativo e sulla centralità della domanda espressa dai cittadini, l'amministrazione si stia sempre più allontanando dall'utente finale, al punto di rischiare di dimenticarsene e di farsi risucchiare da un dibattito tutto esterno alle problematiche reali.
Eppure, i quasi 9 milioni di processi pendenti, i 2,5 milioni di reati denunciati, i 61 mila detenuti che affollano le carceri sono lì a ricordare quali sono i problemi veri che si agitano sul tappeto e quale sia la portata dell'impatto del sistema giudiziario sulla popolazione. Il 90 per cento degli italiani - lo dice un'indagine del Censis di qualche tempo fa - boccia la giustizia, considerandola lenta, costosa, iniqua, farraginosa.
La giustizia italiana vive, quindi, una crisi strutturale e le ragioni vanno ravvisate nella sua scarsa efficienza. È necessario innovare, forse, profondamente il settore giustizia e dare vita a regole processuali


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nuove, radicali, coraggiose, che aiutino a fissare i limiti di durata massima dei procedimenti.
La denegata giustizia risulta essere un male devastante per ogni ordinamento statuale democratico e ogni ordinamento moderno. Non è possibile affrontare le questioni aperte senza un clima di sostanziale serenità all'interno delle istituzioni, ma anche - e questa è stata la conclusione del mio intervento, ieri, al Senato - senza la constatazione che, in assenza di adeguate risorse, ogni intervento sul servizio giustizia, dal punto di vista organizzativo, rischia di essere privo di concrete prospettive.
Sento necessario, anche in questa sede, ribadire che quasi tutti gli interventi in materia di giustizia hanno bisogno di un'adeguata provvista finanziaria, sia che riguardino la qualità dell'organizzazione, sia che riguardino l'informatica, la ristrutturazione degli uffici o l'adeguamento dei locali alle condizioni minime di sicurezza previste dalla legge.
Al di là di ogni polemica, basta attenersi ai fatti, e i fatti, per quel che raccontano e per come sono ricavati dalle leggi finanziarie degli ultimi anni, dimostrano come gli interventi operati sugli stanziamenti a favore del servizio giustizia in realtà hanno determinato una situazione assolutamente critica, vicina al collasso.
Anche se con la finanziaria 2006 gli stanziamenti sono aumentati a 7.819.041.068 euro - con un aumento, quindi, rispetto all'anno precedente, di circa 400 milioni di euro, pari al 5,4 per cento -, dobbiamo constatare che questo aumento è solo apparente, perché inferiore all'aumento delle spese obbligatorie e delle spese di giustizia. Sommando gli aumenti per il personale a quelli relativi alle spese di giustizia, si arriva ad un totale che non solo assorbe l'aumento di 400 milioni previsto, ma comporta anche un taglio rilevante alle spese di funzionamento corrente della giustizia, dall'informatica e alle spese di cancelleria.
Solo per il dipartimento dell'organizzazione giudiziaria è stata prevista una riduzione di 89,6 milioni di euro, per consumi intermedi, e di 15,4 per investimenti. Quel che è più grave è che i tagli seguono le notevoli riduzioni di spese degli anni passati. In conclusione, sulla base di un calcolo molto prudenziale, si può affermare che al 2002 e al 2005 le spese non obbligatorie del Ministero della giustizia sono diminuite di circa il 35 per cento, quindi l'ulteriore diminuzione del 2 per cento prevista dalla finanziaria 2006 ha portato la riduzione a quasi il 40 per cento in soli quattro anni.
Se si considera che le spese per la giustizia non sono mai state particolarmente elevate, neppure negli anni precedenti - e parlo di tutti gli anni precedenti -, si ha un quadro che evidenzia come sia limitato l'orizzonte delle prospettive future.
Tuttavia, se la giustizia è un servizio oneroso, e può contare attualmente su risorse limitate, è necessario che le proposte di razionalizzazione del sistema consentano di garantire in ogni caso la tutela dei diritti fondamentali. Occorre dunque intervenire, in modo coordinato, a più livelli, in modo attento e selettivo, per evitare che ragioni di bilancio e di praticabilità del servizio si traducano in una compressione di diritti fondamentali del cittadino e in una preclusione di fatto del diritto ad ottenere giustizia. È per questo che, pur non ignorando le tante esigenze del dicastero, mi guarderò bene dal ricorrere alle consulenze esterne, se non assolutamente necessarie, interrompendo così un'onerosa emorragia di denaro pubblico registratasi in precedenza.
Nonostante le rigorose disposizioni impartite al fine di eliminare ogni spesa o costo non essenziale, pur sapendo quali saranno le comprensibili reazioni degli uffici, è tuttavia un'esigenza non comprimibile che per la sola gestione corrente dell'esercizio 2006 occorreranno 150,4 milioni per l'amministrazione giudiziaria in senso stretto, 103,5 milioni per l'amministrazione penitenziaria, 22 milioni per la giustizia minorile: in totale, non meno di 275,9 milioni di euro.


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Dall'insieme di questi dati emerge con evidenza che gli uffici giudiziari sono ormai prossimi alla paralisi. Starei per dire, se non fosse un paradosso, che per ogni amministrazione normale e per ogni azienda si dovrebbero portare, in questa condizione, i libri in tribunale.
Il problema delle risorse, però, non è l'unico che condiziona il servizio giustizia. L'amministrazione della giustizia è un servizio pubblico e pone un problema del livello quantitativo e qualitativo delle prestazioni da garantire, livello che è condizionato, oltre che dall'esistenza di risorse umane e materiali destinate al servizio, dalle regole di funzionamento del servizio, dalla concreta organizzazione delle risorse, dalle modalità di accesso degli utenti al servizio e dal tempo necessario per la risposta alla domanda formulata dall'utenza, il che significa dal cittadino italiano.
Tutti questi fattori, considerati in maniera unitaria e combinati fra loro, determinano la qualità delle prestazioni, che a sua volta condiziona inevitabilmente il sistema di tutela dei diritti e la sua effettività, che nelle società democratiche costituisce il criterio per misurare la civiltà giuridica di un paese.
Sono questi gli obiettivi che si devono cogliere: aumentare l'efficienza del servizio, per adeguarla alle legittime aspettative dei cittadini, rendere effettiva la tutela e la realizzazione dei diritti.
Tutti i soggetti del servizio giustizia devono contribuire a dare risposte socialmente accettabili, adeguate alle nuove domande di tutela, all'emersione di nuove frontiere di diritti, che richiedono il rispetto delle condizioni di indipendenza della giurisdizione e dei suoi attori all'interno del sistema istituzionale.
La giurisdizione è punto di riferimento in ordine a questioni di primaria importanza, che attraversano settori diversi e fondamentali della società, dall'economia alla finanza, dalla pubblica amministrazione alla repressione della criminalità organizzata, dalla tutela contro la violazione dei diritti umani alla tutela individuale e collettiva dei consumatori e dei cittadini, dalla protezione e promozione dei beni primari - come la salute, l'istruzione, la casa, il lavoro, i minori - ai rapporti familiari, ai conflitti in materia di bioetica.
Una risposta adeguata ai bisogni dei cittadini ha come precondizione una struttura di riferimento qualitativamente efficiente e la qualità dell'apparato giudiziario e del servizio giustizia si misura su tre componenti essenziali: l'accesso alla giustizia, la durata dei processi e l'attitudine alle nette decisioni imparziali, conformi alle prescrizioni del diritto sostanziale.
L'accesso alla giustizia è influenzato, a sua volta, da alcune variabili. Una di esse, che può dirsi quasi fisiologica, è l'aumento della domanda collegato al crescere della popolazione e all'aumento delle transazioni commerciali. La moderna società industriale crea anche la necessità di interventi del giudice, e in questa prospettiva sarebbero del tutto inopportune misure volte a mortificare questa domanda.
La durata ragionevole dei processi è garanzia dell'effettività dell'intervento giudiziario. Una irragionevole durata, invece, rappresenta un fattore di diseguaglianza e di disparità di trattamento dei cittadini, oltre che un limite al buon funzionamento dell'economia. Infatti, le inefficienze e la lunghezza dei tempi di definizione delle controversie si traducono anche in una distorsione per l'economia produttiva che sconta tali inefficienze, come costi, e le riversa sui prezzi.
Il problema della durata dei processi è, inoltre, tale da determinare giustificate reazioni ed una preoccupante esposizione finanziaria, a seguito delle condanne per l'equa riparazione da ritardi, con un crescendo esponenziale rispetto agli altri anni, senza considerare le maggiori somme non ancora soddisfatte. Per di più, va aggiunto che c'è una pazienza, non so fino a quanto illimitata, della Corte europea dei diritti dell'uomo, che non è soddisfatta del come e del quanto di tali indennizzi. Occorre, quindi, riconsiderare tutte le articolazioni della macchina, semmai - come mi auguro - anche con l'aiuto dell'Avvocatura.


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All'Avvocatura va dedicata un'attenzione particolare, in quanto essa è coprotagonista della giurisdizione e portatrice di valori essenziali per l'adempimento del servizio giudiziario.
Purtroppo, negli ultimi tempi si sono acuiti i contrasti e le incomprensioni con l'ordine giudiziario, mentre sono indispensabili intese fra gli uni e gli altri, confronti leali, nella piena disponibilità, da parte del mio Dicastero, a recepire suggerimenti da parte dell'Avvocatura, stimoli e critiche che da essa provengono, attraverso i suoi organi istituzionali e le associazioni di categoria, come già sta facendo per delicati problemi suscitati da recenti innovazioni legislative.
C'è, tuttavia, una riforma che tocca con maggiore intensità l'Avvocatura, che ha una sua peculiarità, evidentemente, e più in generale le categorie professionali: mi riferisco alla legge quadro sul riordino delle professioni intellettuali. Le continue interruzioni dei processi di riforma del sistema professionale italiano, che affondano le proprie radici nelle commissioni ministeriali degli anni Settanta, stanno inibendo al nostro terziario intellettuale la possibilità di cambiare in profondità e di dotarsi di un maggiore orientamento all'innovazione, e in più hanno creato competizioni di competenza fra ministri, che hanno ulteriormente accentuato le difficoltà.
Al tempo stesso, i confini del sistema non cessano di crescere. Gli iscritti all'albo e agli albi, nel 2005, erano 1 milione 828 mila persone, mentre gli esercenti delle professioni regolamentate erano circa 4 milioni.
Accanto alle professioni tradizionali sono cresciute, infatti, un notevole numero di attività intellettuali nuove, a fronte delle quali si è sviluppato un tessuto associativo ancora in formazione, ma molto attivo. Al momento, gli ordini sono 27, mentre le associazioni professionali non regolamentate sono 160. La riforma delle professioni deve essere, quindi, rimessa nell'agenda politica al più presto, per non far perdurare l'attuale stato di confusione e di conseguente deterioramento del tessuto professionale e di quello associativo a questo collegato.
Nella scorsa legislatura, la commissione Vietti, costituita presso il Dicastero della giustizia, elaborò una bozza di riforma - che aveva ricevuto, per la verità, molti consensi -, da cui credo che si possa ripartire, con opportuni aggiustamenti.
Ci sono, da un lato, i ben noti indirizzi dell'Unione europea e c'è l'esigenza di adeguare il sistema degli ordini professionali alla realtà di oggi, soprattutto per meglio soddisfare i bisogni dell'utenza. Alcune parti vanno riviste e aggiornate, senza tuttavia cedere all'idea di una completa ed assoluta liberalizzazione, che, andando oltre i benefici di una fisiologica concorrenza, potrebbe determinare lo scadimento delle prestazioni professionali, estremizzando la logica del costo sempre più basso.
Ancora, in tema di Avvocatura, occorre rivolgere uno sguardo più attento a quella parte di essa che svolge attività sostitutiva e di supporto alla magistratura ordinaria: mi riferisco alle varie categorie di giudici onorari, che chiedono risposte univoche per la loro posizione futura e assetti più precisi per talune esigenze essenziali.
Quanto alla macchina giudiziaria, ribadisco che va respinta la suggestione di mettere mano ad una grande stagione di riforme - credo che sia quasi impensabile -, laddove non si riscontrasse volontà politica ed estensione forte, all'interno del Parlamento, fra maggioranza e opposizione.
Un versante, quindi, che non è agevole praticare, date le circostanze, ma mi auguro si possa praticare questa forma di convergenza, questa unità nella distinzione o questa distinzione - mai separatezza - nell'unità, che prende non a pretesto, ma come soggetto fondamentale il cittadino in quanto tale.
Credo che sia preferibile, allora, concentrarsi su come riorganizzare il sistema, attraverso provvedimenti amministrativi e piani di sviluppo, e in questa prospettiva inserire le innovazioni legislative, al solo fine dell'efficienza. In realtà, le risorse, il


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personale, le strutture degli apparati di giustizia vanno impiegati secondo modelli operativi che hanno prima di tutto bisogno di una razionale raccolta di dati, sia per misurare la realizzabilità dei programmi, sia per valutare la produttività, con metodi di rilevazione che riguardino il territorio, l'intensità e la natura della domanda, le scelte di politica giudiziaria. Conosciuti e censiti i bisogni e predisposte le risorse disponibili, occorre fissare standard di produttività, utilizzando per quanto possibile i criteri offerti dalla moderna scienza econometrica.
Ebbene, se si ottiene un panorama conoscitivo della macchina giudiziaria e delle sue dinamiche, se si fissano in anticipo gli standard di produttività, e in anticipo si misurano i bisogni, è più agevole elaborare programmi per fasce, uffici, e misurarne i risultati, acquisendo tra l'altro un prezioso materiale per futuri giudizi sulla capacità dei capi, dei dirigenti e degli stessi magistrati.
La giustizia poggia, in larga misura, anche sull'attività del personale amministrativo, una ricchezza fondamentale da valorizzare, perché l'efficienza degli uffici giudiziari dipende dall'opera di questo personale, che oggi risulta in sofferenza, quasi in «infarto», soprattutto per la mancata riqualificazione professionale. Si tratta di un problema delicato, sia per i profili di disparità di trattamento con altre amministrazioni dello Stato, sia per la situazione determinatasi a seguito delle numerose decisioni giurisdizionali sull'argomento, ma occorre comunque avviare un percorso fruttuoso e trovare soluzioni possibili, salvaguardando la duplice esigenza del riconoscimento professionale e del riassetto dell'amministrazione.
Riorganizzare l'apparato di giustizia significa richiamare le proprie responsabilità ad istituzioni ed organi che ne hanno il relativo dovere, vale a dire il Consiglio superiore, i capi degli uffici e il Ministero, che ha responsabilità per la dotazione di risorse strutturali e di personale, secondo l'articolo 110 della Costituzione. Ecco perché occorre un piano per la giustizia, secondo un programma, a nostro avviso, articolato in tre fasi: censimento analitico dei bisogni, ufficio per ufficio, previsione di produttività e relativi costi, nuovi assetti di efficienza con relative linee di indirizzo, concordate fra ministro e Consiglio superiore della magistratura.
Dunque, il Ministero può avviare piani generali in vari settori, come la geografia giudiziaria, la ristrutturazione gestionale degli uffici, l'eliminazione delle costose pendenze dei corpi di reato affidati a terzi, gli interventi nel settore informatico. A questo proposito, occorre completare il progetto per il processo civile telematico: notifica, comunicazione e iscrizione a ruolo fatte con questo mezzo.
Occorre avviare il processo telematico in settori ad alta percentuale di procedure routinarie ed a prevalenza di prova documentale. Nel settore penale, ove il bisogno telematico è parimenti avvertito, occorre realizzare un sistema integrato, attraverso l'individuazione di un unico flusso informativo, che dalla ricezione della notizia di reato giunga fino all'esecuzione della condanna, con eventuale innesto di fasi incidentali per le misure cautelari.
Occorre, poi, un'azione costante per una sempre maggiore diffusione della cultura informatica, non solo fra i magistrati, ma anche fra i dirigenti e tutto il personale amministrativo.
In questa strategia di piano intendo avvalermi anche dell'attività dell'ispettorato generale, utilizzato anche in funzione diversa da quella attuale, foriera, tra l'altro, di un circuito di informazione fra le esperienze dei vari uffici, come fattore di conoscenza e di stimolo per una riorganizzazione globale dell'intera macchina giudiziaria.
Presupposto indispensabile per avviare la strategia descritta è un clima di collaborazione tra Ministero e Consiglio superiore, invece di quell'atmosfera di perenne scontro, assai spesso rovente, che ne ha caratterizzato i rapporti negli ultimi anni. In questa prospettiva, assicuro fin d'ora il mio massimo impegno collaborativo nei rapporti con tutte le istituzioni, a cominciare dal Capo dello Stato. Rapporti più intensi, evidentemente, come è ovvio, sono


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e saranno quelli con il CSM, organo di governo autonomo della magistratura.
Il Consiglio superiore ha numerosi compiti di organizzazione, che riguardano l'assetto funzionale degli uffici, attraverso le tabelle, dove si enunciano per bienni i criteri di funzionamento della giurisdizione, le regole di distribuzione degli affari, l'adattamento a variabili emergenziali. I compiti riguardano anche la politica dei tramutamenti e la provvista per i vuoti di organico, gli incarichi direttivi e semidirettivi, il controllo dell'efficienza a carattere diffuso o per singoli uffici.
Mi auguro che rispetto a questa sintonia e alla leale collaborazione del Consiglio non agiscano in controtendenza il mutamento dei criteri operativi da una consigliatura all'altra e l'abbandono, quindi, di orientamenti prestabiliti per esigenze correntizie o prassi ritardatarie da mancata composizione di dialettiche tra gruppi consiliari.
L'attività dell'organo di autogoverno è ampia e complessa, perciò richiede un Consiglio superiore meglio strutturato nella composizione e nell'articolazione. Intendo dire che tale organo non è sufficientemente garantito, forse, dall'attuale consistenza numerica, per cui occorrerebbe, a mio avviso, riportare a trenta il numero dei componenti elettivi - venti togati e dieci laici -, assicurando al Consiglio la possibilità di continuare ad avvalersi anche dell'opera dei magistrati per la segreteria e per l'ufficio studi.
Nell'organizzazione della macchina giudiziaria anche i capi degli uffici hanno un ruolo essenziale, perciò è indispensabile che essi posseggano o acquisiscano metodi di gestione del personale, tecniche di utilizzazione delle risorse, capacità di programmare il lavoro. È altrettanto necessario che per queste qualità abbiano la necessaria autorevolezza e sappiano assumersi la responsabilità delle iniziative. Anzi, l'ordinamento dovrebbe stabilire l'obbligo, per i capi, di un progetto iniziale e l'analogo obbligo di periodici rendiconti, prevedendosi una responsabilità per cattiva gestione o, secondo i casi, un'ipotesi di destinazione ad altra attività per inettitudine alla dirigenza.
Anche ai singoli magistrati competono, dunque, doveri organizzativi per risultati, come programmare la gestione dei ruoli, attraverso criteri di priorità prestabiliti d'intesa con i responsabili dell'ufficio, modulare udienze e orari per massimizzare il rendimento e ridurre i costi umani e sociali, evitare dilatazioni istruttorie non coerenti alla natura della causa.
Nel campo penale, è necessario: potenziare la funzione del GUP, affinché il filtro dell'udienza preliminare possa rendere produttivo l'afflusso al dibattimento, anche per contenere quell'abnorme scarto fra rinvii a giudizio e statistica assolutoria; fare ricorso, per processi di particolare complessità, alle cosiddette udienze di programma, in modo che il successivo iter, una volta concordata tra le parti la relativa gestione, possa avere un andamento governabile nelle cadenze e anche nei tempi; valutare anche le pretese risarcitorie della parte civile, così da evitare agli interessati ulteriori e defatiganti istanze di giustizia.
Sono esempi tratti dall'esperienza di numerosi tribunali. Sono fermamente convinto che, mediante circolari, atti di indirizzo e imposizioni regolamentari, sia possibile incidere sia sugli aspetti organizzativi della giurisdizione, sia sulla dinamica della resa di questa giustizia, responsabilizzandone i protagonisti in termini di efficienza.
Questa strategia di riorganizzazione comporta necessariamente la revisione della geografia giudiziaria. Studi recenti hanno messo in luce l'esigenza, per i tribunali, di un organico minimo di 14 magistrati, come ho riferito ieri alla Commissione del Senato, così da rendere possibile ed economico strutturare l'ufficio con una sezione penale, una civile, un ufficio GIP-GUP, composti rispettivamente di un presidente e 5 giudici, per un totale di 12 magistrati e di 2 componenti dell'ufficio GIP-GUP.
Lo scopo è duplice: garantire una struttura efficiente, con sezioni che si occupano


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a tempo pieno di un unico settore, civile o penale, e conseguente specializzazione dei magistrati, ed eliminare il più possibile il problema delle incompatibilità processuali, soprattutto della funzione GIP-GUP. Al di sotto di questa composizione, il tribunale è costretto a costituirsi in sezione unica promiscua, realtà che determina una serie di problemi in tema di incompatibilità o di sovrautilizzo dei giudici onorari.
La soppressione o l'accorpamento può realizzarsi tra due circoscrizioni limitrofe, che quindi non subiscono modifiche territoriali o smembramenti. So che questo contrasta con la realtà territoriale, ma è uno degli aspetti ai quali bisogna dare luogo, se si vuole che la macchina giudiziaria possa riuscire a funzionare.
Come ho già evidenziato al Senato, quello dell'ordinamento giudiziario è un tema troppo importante per ridurlo ad una semplice occasione per offrire un segnale di diversità. L'esigenza di riaprire il confronto nasce da una diversa concezione del ruolo dell'ordine giudiziario. La mia cultura di base e l'esperienza parlamentare e di vita politica mi spingono a considerare la giurisdizione come categoria che esprime in via autonoma le tecniche di ricostruzione della realtà, ed in via autonoma opera la mediazione fra l'astratto senso giuridico delle norme e i fatti sottoposti al suo giudizio. Pertanto, considero la magistratura come un ordine professionale distinto dal funzionariato pubblico, un ordine che ha con l'apparato amministrativo legami di servizio, ma non connessioni strutturali nè articolazioni gerarchiche, né identità di status o cultura di carriera.
So bene quanto travaglio sia costato il passaggio dal giudice-funzionario alla concezione di una magistratura costituita come ordine dotato di autonomia e indipendenza, e quanto si sia discussa la maggiore o minore affinità con il sistema del funzionariato francese o con quello della concezione anglosassone. È un parallelismo artificioso, e poi, diciamo la verità, nella tradizione anglosassone vige un diritto consuetudinario, non c'è una codificazione rigida, tipica dei sistemi latini.
Ebbene, la legge n. 150 del 2005 e i decreti attuativi recano in buona parte una sorta di impronta burocratica, forse troppo burocratica - ho parlato ieri di ancient regime - ed è questa impronta che intendo rimettere in discussione, traendone le conseguenze sul piano normativo, tanto più che la VII disposizione transitoria prevedeva sì un nuovo ordinamento giudiziario, ma prevedeva anche un ordinamento pensato e redatto - essa dice - «in conformità con la Costituzione».
A partire da tale base concettuale analizzo brevemente i decreti legislativi per un oggettivo confronto.
L'accesso alla magistratura è configurato dal decreto n. 160 del 2006 come un concorso di secondo grado, forse al duplice scopo di una preselezione dei candidati e la prospettiva di una maggiore idoneità iniziale. Questi obiettivi, però, si possono raggiungere senza penalizzare, nell'attesa, fasce di giovani e famiglie non in condizioni di sostenere la relativa gravosità economica.
Si può rafforzare il sistema di accesso attraverso le scuole pubbliche di specializzazione e attraverso l'ammissione diretta di quanti abbiano riportato un altissimo voto di laurea e una buona media globale, con un piano di studi funzionale all'attività per cui si concorre. Si possono rivedere le regole di composizione della commissione esaminatrice, in modo da contenere i tempi di espletamento dei concorsi; si possono modificare le prove scritte, strutturandole in modo che il candidato sia chiamato a dimostrare una buona preparazione teorica e, contestualmente, la capacità di finalizzarla per la soluzione di problemi tecnico-giuridici.
Superato il concorso, è necessario un proficuo periodo di uditorato, al termine del quale occorre un severo controllo di professionalità, prima del conferimento delle funzioni. Due cose, tuttavia, vanno eliminate: in primo luogo, l'opzione anticipata fra attività giudicante e attività requirente, non solo perché spezza l'unità


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culturale della giurisdizione, ma anche perché delle rispettive professionalità l'interessato non può avere una cognizione piena, e finirà per orientare la sua scelta in rapporto alle sedi disponibili, prescindendo da un'effettiva vocazione (quasi una scelta per pigrizia); in secondo luogo, il colloquio psico-attitudinale nell'ambito delle prove orali, sulla cui rilevanza, metodologia applicativa ed efficacia nessuno dei esperti interpellati ha saputo dire granché.
Quanto alla carriera dei magistrati, nel decreto n. 160 del 2006 sono previsti vari concorsi interni, per accedere a gradi superiori e a funzioni più alte, sulla falsariga di un regime impiegatizio, che riproduce, nella filosofia di fondo, l'ordinamento del 1941, scomponendo l'assetto realizzato con i cosiddetti ruoli aperti, e ciò ha suscitato critiche di ogni specie.
A me sembrano decisive alcune considerazioni pratiche. Quante volte e per quanto tempo ogni magistrato si sottrarrà all'ordinario esercizio della sua attività per dedicarsi esclusivamente alla preparazione di quattro, cinque concorsi interni? Come potrà non sottrarre il suo impegno dalla giurisdizione? Quale stimolo ad un carrierismo indifferente alle sorti della giustizia questo sistema inocula nell'ordine giudiziario?
Nel decreto la possibilità di partecipare ai concorsi, con la prospettiva di relativi vantaggi di carriera ed economici potrebbe indurre numerosi magistrati a scegliere questa strada, abbandonando gli uffici di primo grado, dove si adottano le decisioni spesso più delicate e di maggiore impatto sociale. Tutto ciò in contrasto con l'interesse del cittadino ad avere un magistrato esperto fin dal primo grado del processo.
Allora, nell'interesse del servizio e dell'utenza, mi sembra necessario optare per un sistema diverso che non produca questi disastrosi effetti. Debbo dichiarare, con tutta franchezza, che le leggi sui ruoli aperti, le quali intendevano realizzare il principio costituzionale della pari dignità delle funzioni giurisdizionali, ebbero forse un'ispirazione troppo illuministica, in quanto facevano leva sull'idea che il magistrato, ormai libero dall'assillo della carriera, avrebbe conservato e potenziato la sua professionalità in rapporto al servizio giudiziario.
Purtroppo - dico purtroppo - la realtà ha offerto esperienze non sempre positive, suscitando la sensazione di una riforma incompiuta, perché le leggi sui ruoli aperti, per un verso, collocano il riscontro-giudizio in periodi troppo distanziati, soltanto in occasione della nomina alle qualifiche superiori; e per altro verso, invece, offrono parametri troppo elastici, che non consentono una reale ed oggettiva valutazione. Ebbene, per garantire una professionalità permanente, costantemente aggiornata, sensibile alle esigenze della collettività, per collocare alla direzione degli uffici presidenti e procuratori i quali siano autorevoli più che autoritari, per garantire in ogni caso quella professionalità forte che sta alla base di una magistratura come ordine autonomo, è necessario prevedere valutazioni periodiche, a tempi fissi, ad esempio ogni quadriennio. Valutazioni che costituiscono non solo presupposto del conferimento di altre funzioni, ma anche importanti momenti di verifica, suscettibili di concludersi, in caso di esito negativo, con il blocco, per un quadriennio, della progressione economica o con la destinazione ad altra funzione dei magistrati inidonei o, infine, con la rimozione di quanti non superano successive verifiche.
Tali verifiche potranno fondarsi - sulla falsariga di una proposta presentata durante la XIII legislatura - sui rapporti dei capi degli uffici, sul riscontro di produttività secondo degli standard, su segnalazioni eventualmente pervenute dal consiglio dell'ordine degli avvocati per fatti incidenti sulla professionalità, sull'autorelazione, in cui fra l'altro il magistrato dà conto degli obiettivi programmati e realizzati e di quanto ritenga di enunciare per esprimere la sua professionalità e i relativi modo di esercizio.
Si tratta di acquisizioni a futura memoria, tutte informatizzate, da utilizzare quando si maturano i tempi e le occasioni per conferimento di altre funzioni o altri incarichi. Insomma, una banca dati, dati


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valutativi da utilizzare al momento opportuno. Nulla impedisce, comunque, di attivare questa banca dati in riferimento a situazioni che riguardino comunque la capacità, la laboriosità, le professionalità specifiche, l'equilibrio, l'attitudine del singolo magistrato.
Quanto al conferimento delle funzioni di legittimità, va in primo luogo garantito che la valutazione permanga, secondo il sistema costituzionale, nell'ambito delle attribuzioni del Consiglio superiore; l'assegnazione dei magistrati alla Corte di Cassazione va organizzata secondo moduli valutativi diversi dall'assegnazione agli uffici di merito, per garantire un'adeguata valutazione della professionalità specifica.
Si può prevedere che l'organo di autogoverno si avvalga, a tal fine, della collaborazione di magistrati e professori universitari, per un primo esame dei provvedimenti degli aspiranti alla funzione di legittimità, finalizzato alla valutazione delle specifiche attitudini, per le quali l'interessato deve dimostrare di essere esperto nell'analisi delle norme e in quella diversa professionalità che è l'esercizio della nomofilachìa.
Tutto questo va integrato con la partecipazione ad appositi stages presso le scuole della magistratura, che devono condurre ad una valutazione finale, che non si limiti a registrare la mera partecipazione.
L'istituzione della scuola è un'antica aspirazione dell'ordine giudiziario, ma anche il decreto in atto risente della concezione burocratica di cui è intrisa l'intera riforma. Per una disciplina meglio ancorata ai principi costituzionali, è necessario che il comitato direttivo sia composto, in maggioranza, da magistrati di nomina consiliare, e rivedere talune capacità per chi entri a far parte dell'organizzazione della scuola.
Sul piano della garanzia degli equilibri nella composizione, è necessario evitare ogni possibile equivoco sulla rappresentanza della giurisdizione di legittimità, giacché il ruolo della Suprema Corte deve essere l'apporto di una giurisdizione diversa e non quello di un vertice.
La scuola ha bisogno di stanziamenti adeguati, superiori a quelli per la verità già previsti, ed ha bisogno di regolamenti esecutivi. Nel frattempo, è mia intenzione assicurare una continuità tra il lavoro formativo che il Consiglio ha già programmato e il periodo successivo, sino alla operatività reale della scuola, in modo da non lasciare vuoti. Ciò è possibile attraverso una snella struttura di cerniera, diretta da chi, nell'ambito del CSM, si sia costantemente e con alta dignità interessato dei profili formativi dei magistrati.
Ritengo che vada valutata meglio quella parte del decreto n. 160 del 2006 comunemente chiamata «distinzione delle funzioni». Pur convinto dell'unicità sistematica dell'ordine giudiziario, sono sensibile all'esigenza secondo cui chi ha esercitato funzioni requirenti o giudicanti in una sede non possa esercitare, per almeno un quadriennio, le diverse funzioni nel medesimo distretto. Sono altresì convinto dell'esigenza che ogni passaggio richieda l'obbligatoria frequenza di un corso di riqualificazione professionale e, ovviamente, un successivo giudizio di idoneità espresso dal CSM, previo parere del competente consiglio giudiziario. Queste esigenze, però, non impongono una scelta definitiva tra le due funzioni, potendosi conservare un impianto normativo aderente al dettato costituzionale che consenta, alle condizioni indicate, la possibilità di un passaggio dall'una all'altra funzione.
Nell'ordinamento elaborato dal ministro Castelli lo stigma burocratico è ancora più marcato quanto all'ufficio di procura: quasi un moloc tutto accentrato nel capo, titolare esclusivo dell'azione penale e dei relativi poteri, dispensatore degli incarichi di indagine revocabili ad nutum.
A ciò si associa un'idea della funzione di accusa che, spezzando l'unicità della cultura della giurisdizione, tende a trasformare il protagonista dell'accusa in un pubblico persecutore.
Certo, il principio del potere diffuso, che per la magistratura giudicante è radicato nel capoverso dell'articolo 101 della Costituzione, trova un'applicazione attenuata


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per i magistrati della requirente, ma ben altra cosa è la completa gerarchizzazione dell'ufficio di procura. Non c'è dubbio che occorre evitare iniziative unilaterali, estemporanee, talvolta meramente protagonistiche di ciascun sostituto, ma il quadro è molto più ampio.
Al procuratore compete certo la determinazione di modelli di organizzazione dell'ufficio, dei criteri di assegnazione del lavoro e delle direttive alle quali i sostituti devono attenersi per il coordinamento delle investigazioni e per l'impiego della polizia giudiziaria, però tutto questo deve rispondere a un progetto organizzativo approvato dal Consiglio superiore, secondo regole di trasparenza e di efficienza dell'ufficio.
Tutto ciò anche per attenuare quell'enorme responsabilità che il decreto impone ai procuratori, in uno scenario che sembra concepito per assoggettare i medesimi ad una futura protezione-vigilanza da parte di un qualsiasi ministro pro tempore.
Nella prospettiva che ho delineato è il procuratore che assegna i procedimenti e, a certe condizioni, può avocarli a sé o assegnarli ad altri, con provvedimento motivato sottoposto al controllo del CSM. È lui che dà notizie ad altri organi istituzionali o alla stampa; è lui che dà l'assenso per l'iniziativa di misura cautelari, personali o reali; infine, è a lui che va comunicata l'emersione, nel corso dell'indagine, di una nuova notizia di reato, affinché provveda alla relativa designazione.
Si raggiunge così un equilibrio fra la tendenziale uniformità funzionale dell'attività di accusa e il rispetto della dignità professionale degli altri magistrati dell'ufficio, senza incontrollate iniziative, ma con un fermo contrappeso nella vigilanza del Consiglio superiore.
Altrettanto delicato è il tema del disciplinare. Alcune figure sono indicate in termini così generici da contraddire la stessa tipicizzazione, mentre una maggiore puntualizzazione potrebbe ricavarsi dalla giurisprudenza della Cassazione in materia.
Altre figure sottintendono scelte che non possono condividersi, soprattutto quelle relative ad ipotesi esterne all'esercizio delle funzioni, che in certi casi finiscono per vietare libertà di partecipazione ad iniziative di cultura politica nel più ampio senso della polis greca, come se il magistrato fosse un estraneo all'assetto socio-economico dello Stato.
Non basta. L'obbligatorietà dell'azione disciplinare, oltre ad avere un impatto preoccupante per ogni magistrato cui si riferisca il facile e infondato esposto di un qualunque scontento per la sorte della propria causa, determina una vera e propria invasione cartacea della procura generale, esposta ad un faticosissimo e spesso inutile lavoro e ad un definitivo blocco, con la conseguente paralisi della sezione disciplinare. Ciò perché mancando il necessario contrappeso di un'archiviazione presso quell'ufficio, dovrebbe essere il giudice consiliare a gestire sia le procedure attive, sia le richieste di archiviazione.
Insomma, laddove si voleva essere più rigorosi e severi con la magistratura, si è messo in piedi un sistema che rende impraticabili anche quelle sacrosante reazioni disciplinari che qualche magistrato merita. Meglio sarebbe, in conclusione, limitare l'obbligatorietà dell'azione disciplinare solo con riferimento a talune fattispecie, fortemente tipizzate, affidando le restanti alla discrezionalità tecnica degli organi competenti.
Nella materia del diritto processuale civile, occorre prima di tutto pensare a filtri precontenziosi preliminari o di fase, ed eliminare dal procedimento quelle inutili complicazioni non funzionali alla realizzazione di un giusto processo. Inoltre, possono istituirsi, presso gli uffici giudiziari, strutture filtro per individuare cause seriali, motivi di manifesta inammissibilità o questioni di diritto analoghe, utilizzando tra l'altro il lavoro che la rete europea dei consigli della giustizia ha istituito per l'analisi del tema nelle giurisdizioni degli Stati membri dell'Unione.
Un simile intervento deve, poi, essere accompagnato dalla creazione, da lungo


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tempo auspicata, dell'ufficio del giudice, concepito come una struttura di supporto all'entità giudiziaria e composto, oltre che dal personale amministrativo, da professionalità esterne, derivanti dal mondo universitario e post universitario nel contesto della formazione pratica finalizzata alle professioni legali.
Sul piano più strettamente legislativo, occorre rivedere, con notevole parsimonia, quelle inutili complicazioni che incidono sulla celerità del procedimento e creano dissidi interpretativi, come è accaduto per alcune riforme negli ultimi tempi. Viceversa, il giudice terzo e garante per tutte le parti, deve essere maggiormente dotato di poteri discrezionali che possono indirizzare il processo verso binari che assicurino il suo ordinato e leale svolgimento.
Rilevo per inciso che alcune delle scelte adottate nella precedente legislatura sono apprezzabili, come l'opzione verso il concordato piuttosto che verso il fallimento tout court, come la tutela dell'impresa familiare, e via dicendo. Purtroppo, non sono state tecnicamente realizzate in modo idoneo, con il pericolo di effetti perversi, tanto da suscitare critiche nel mondo forense e in quello accademico. Perciò, ho dato incarico all'ufficio legislativo del Ministero di operare un appropriato censimento delle norme da rivedere per meglio realizzare le scelte effettuate dalla precedente legislatura.
Se volete, posso consegnarvi il testo scritto e saltare la parte relativa al processo penale, per passare ad argomenti che possono interessare più direttamente.

PRESIDENTE. A questo punto, possiamo disporre che la relazione del ministro sia messa in distribuzione.

CLEMENTE MASTELLA, Ministro della giustizia. Certamente.
In questi giorni si è parlato tanto di intercettazioni. Confermo qui, come ho detto al Senato, che ritengo improcrastinabile, quasi una questione democratica, affrontare un intervento normativo in materia di intercettazioni telefoniche. In concreto, i problemi sono i seguenti: come qualcuno ha scritto, una sorta di bulimia intercettativa, che rende necessario incrementare il controllo esercitato dal GIP; la tenuta del segreto sul contenuto delle intercettazioni nella fase procedimentale; la conservazione, lo stralcio e la distruzione di intercettazioni non rilevanti; l'utilizzo dei brogliacci ai fini processuali; l'atteggiamento della stampa.
So bene che, nell'ambito delle indagini preliminari, episodi e circostanze coinvolgono spesso l'esercizio legittimo del diritto di cronaca. Va considerata, tuttavia, la necessità di assicurare un'adeguata tutela dei diritti di persone coinvolte dalla pubblicazione, talvolta integrale, di brani di conversazioni telefoniche, semmai intercorse con terzi estranei ai fatti o non indagati.
L'obiettivo è quello di contemperare un efficace mezzo di ricerca della prova, correlato con la tutela della riservatezza. Un obiettivo che verrebbe ad incidere su un fenomeno che ha riguardato, nel solo 2005, 131.200 richieste, 178.154 decreti emessi, 57.565 utenze, 89.154 punti di intercettazione, con un impegno economico, per il solo 2005, per fatture per intercettazioni e per l'acquisizione di tabulati, pari a 307.346.676 euro.
L'intervento, quindi, a mio parere può esplicarsi, sul versante legislativo, attraverso modifiche che introducano adeguate sanzioni pecuniarie a carico di testate giornalistiche che illegittimamente pubblichino documenti coperti dal segreto; sul versante amministrativo, dando attuazione al codice per la privacy, in sintonia con le iniziative già assunte dal Garante per la protezione dei dati personali.
La questione è particolarmente rilevante, se si considera che gli uffici giudiziari sono carenti di controlli di sicurezza in ordine alla conservazione materiale dei fascicoli, ai mezzi di trasmissione dei documenti, alla sicurezza degli stessi sistemi informatici adottati, sicché quanto contenuto nei fascicoli risulta spesso intercettabile, anche piuttosto agevolmente.
Altro punto che considero nevralgico è quello del terrorismo. Nonostante i progressi realizzati a livello dell'Unione europea,


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molto resta ancora da fare. È necessario procedere ad un monitoraggio del terrorismo internazionale, e la proposta che viene affidata alla vostra attenzione è anche quella, eventualmente, di poter prevedere l'istituzione di una sezione all'interno della Procura nazionale antimafia.
Do per letta la parte della relazione relativa al settore penalistico e passo al sistema penitenziario. Quanto a questo sistema, un particolare impegno deve essere finalizzato a trovare mezzi e risorse, materiali e professionali, idonei non soltanto a porre rimedio alla drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri, ma anche a distinguere il trattamento penitenziario dei condannati da quello degli imputati.
Nel contempo, occorre potenziare le misure alternative alla detenzione, per rendere più facile il reinserimento sociale e ridurre il fenomeno della recidiva. Tutto ciò, ovviamente, necessita di risorse e richiede investimenti sulle professionalità interne all'amministrazione penitenziaria, che con grande spirito di abnegazione e senso di responsabilità hanno fatto fronte fino ad ora ad un carico di lavoro mai affrontato prima.
Esemplare della sinergia indispensabile con gli enti locali è l'annosa questione, ad esempio, dell'offerta sanitaria rivolta ai detenuti, che necessita finalmente di un'organica sistemazione; e, ancora, l'irrisolto problema della detenzione delle madri di figli di età inferiore ai tre anni, quindi di quei bambini che nei fatti risultano reclusi. Nella XIII legislatura il Parlamento approvò una legge finalizzata alla promozione di misure alternative per le madri dei bambini più piccoli, ma l'assenza di strutture di accoglienza sul territorio hanno vanificato questa legge. Sono, tuttavia, certo che è possibile, su questo terreno, fare passi ulteriori e realizzare una rete di strutture capaci di far fronte alle necessità.
Infine, quanto all'effettività dei diritti dei detenuti, traendo spunto dall'esperienza di alcune regioni, ad esempio, si può pensare all'istituzione di un garante dei diritti delle persone recluse o trattenute negli istituti penitenziari, negli ospedali psichiatrici e giudiziari, negli istituti penali per minori, nei centri di permanenza temporanea per stranieri, nelle caserme.
Su un piano più generale vanno, inoltre, considerati gli inconvenienti che discendono da alcune normative che comportano transiti di breve periodo nelle strutture penitenziarie e che coinvolgono soggetti di spessore delinquenziale non allarmante, provenienti dall'area del disagio sociale e della povertà. Intendo riferirmi a persone raggiunte dai rigori della legge Bossi-Fini, che nel solo 2005 ha provocato 13.654 ingressi in carcere, mentre per 11.519 soggetti è stata contestata la violazione delle norme sull'espulsione, quasi sempre come unico reato; persone colpite dai rigori della più recente legge sulla tossicodipendenza, che comporta la possibilità dell'arresto da parte degli organi di polizia, pure in presenza di situazioni che non necessitino del rimedio custodialistico; infine, persone colpite dai rigori della legge cosiddetta Cirielli sulla recidiva, la quale ha provocato carcerazioni a carico di soggetti che hanno già subito condanne penali, impedendo al giudice valutazioni discrezionali intese ad adeguare la pena alla reale entità del fatto e all'eventuale percorso di rieducazione dell'imputato.
«Un segno di clemenza verso i carcerati mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l'impegno di personale recupero in vista di un positivo reinserimento nella società». Non sono le mie parole, sono le parole pronunciate da Giovanni Paolo II nell'aula del Parlamento italiano. Le ragioni della politica hanno spinto purtroppo altrove, mentre il rimbalzare di ipotesi, proposte, chiusure, provoca nella concretezza della quotidianità carceraria effetti di particolare gravità, infliggendo una quota aggiuntiva di malessere e di sofferenza. Capisco anche il timore delle forze politiche di apparire poco efficaci nell'azione repressiva. Un giusto equilibrio, però, fra queste due esigenze è da ricercare,


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per consentire al Parlamento di assumere finalmente una qualche decisione.
Sono ben consapevole che la concessione di clemenza è da abbinarsi a misure di sistema, ed è per questo che interesse primario deve essere un intervento rivolto a garantire la ragionevole durata dei processi. La prospettiva di clemenza che intendo segnalare va intesa come stimolo alle forze politiche, per maturare elementi di serenità, poiché, ove questo sforzo si realizzasse in maniera congiunta, il merito sarebbe del Parlamento.
Purtroppo, la situazione di sovraffollamento delle carceri rende difficile assicurare dignitose condizioni di vita per i detenuti. Voi sapete che i detenuti attualmente sono 61.353 e nell'ultimo anno sono entrati nel carcere 90 mila detenuti. È del tutto evidente, quindi, che il livello di guardia raggiunto dal sovraffollamento penitenziario non solo ha ridotto al lumicino le risorse umane e finanziarie destinate ad un'efficace politica per il reinserimento dei condannati, ma costituisce un rischio per lo stesso principio che vieta i trattamenti contrari al senso di umanità. La cifra complessiva degli scarcerati per effetto di provvedimenti di clemenza del 1990-1991 fu di 12.237 detenuti, dei quali 10.311 per indulto (concesso per due anni) e 1.926 per amnistia (concessa per reati puniti con pena fino a quattro anni). Nella situazione attuale, l'applicazione dell'indulto comporterebbe, secondo quei parametri, la scarcerazione di circa 10.481 unità, pari a circa un sesto della popolazione carceraria, se concesso nella misura massima di due anni, ovvero di 12.756 unità, se concesso nella misura massima di tre anni. Comporterebbe, inoltre, ulteriori effetti negli anni a venire, perché avrebbe efficacia anche sulle pene più lunghe. Quanto all'amnistia, è prevedibile, sulla scorta di quanto accaduto in passato, un effetto additivo di scarcerazioni pari a circa il 20 per cento.
Do per letta la parte relativa alla giustizia minorile, per ragioni di economia di tempo, e quella relativa al versante europeo, che richiede maggiore cooperazione, cosa che è in animo da parte di questo Governo. Molte altre questioni, che emergeranno fuori dal dibattito, saranno certamente affrontate in questa sede. Quello che mi preme, tuttavia, evidenziare è una questione di metodo. Tutte le problematiche trattate dimostrano che la giustizia non può essere terreno di scontro tra schieramenti politici ma, in quanto fondamento dello Stato di diritto, essa costituisce una funzione che va salvaguardata e potenziata, attraverso un approccio di grande equilibrio e saggezza. Come i magistrati dovranno svolgere esclusivamente il loro ruolo di interpreti della legge, così la politica dovrà trovare le soluzioni legislative più adeguate per la tutela degli interessi dei cittadini, in modo che da tali sinergie nasca una concreta modernizzazione delle istituzioni e della vita del paese.
Ringrazio il presidente e tutti i presenti per avermi ascoltato.

PRESIDENTE. Ringrazio l'onorevole ministro per la sua relazione. Approfittando della straordinaria velocità del ministro ed avendo egli messo tempestivamente a disposizione della Commissione il testo della sua relazione, credo che si possa, senza indugio, passare al dibattito.
Do quindi la parola ai colleghi che desiderano porre questioni.

ALESSANDRO MARAN. Vorrei intervenire sull'ordine dei lavori. Per evitare di comprimere oltre il ragionevole la discussione, potremmo prevedere di proseguirla e concluderla in una data diversa?

PRESIDENTE. Non ho alcuna difficoltà al riguardo. Questo, naturalmente, va concordato anche con il ministro, per avere la garanzia della sua presenza. Tuttavia, intendo segnalare ai colleghi che abbiamo già nove iscritti a parlare e ne vedo altri che, con giusta ragione, avanzano richiesta di iscrizione. Dal momento che sono già le 15,20, se siamo d'accordo, credo di poter accogliere la proposta avanzata; non mi pare che esista alcuna ragione ostativa. Potremmo, intanto, consentire lo svolgimento dei primi interventi, prevedendo un


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termine massimo di cinque minuti per ciascuno, in base al quale sviluppare tutto il successivo dibattito, anche quando non avremo tempi così rigorosi da rispettare per la pressione dei lavori d'aula (l'esperienza del Parlamento europeo ci ha insegnato ad essere molto sintetici).
In ogni caso, vorrei conoscere l'opinione dei commissari su questa organizzazione dei lavori.

GAETANO PECORELLA. Signor presidente, credo che in altre situazioni sia ragionevole porre dei limiti di tempo, ma di fronte ad una relazione così ampia, mi pare difficile che si possano trattare, non dico tutti, ma quantomeno gli argomenti principali in un ambito temporale così ristretto.
Lascerei al buonsenso e all'equilibrio di ciascuno la scelta di limitare il proprio intervento, ma mi pare che, in Commissione, togliere la parola sia un fatto eccezionale.

PRESIDENTE. Onorevole Pecorella, la ringrazio per averlo sottolineato; in realtà lei ha esternato un'opinione che era già la mia. Quello che ho detto riguarda l'ordine dei lavori di questa giornata, per il tempo che ancora abbiamo a disposizione. Credo, comunque, che possiamo cominciare ad ascoltare i primi interventi, con la preghiera di tener conto, per coloro i quali intendano prendere la parola in questo momento, del fatto che il dibattito proseguirà nella prossima seduta con modalità differenti.
Il ministro conferma comunque la sua disponibilità a seguire tutto il dibattito.

CLEMENTE MASTELLA, Ministro della giustizia. Mi rendo conto che, in un certo senso, è «colpa» mia, ma devo rispondere in sede di question time, per ragioni di opportunità e di rigore parlamentare. Tuttavia, non voglio minimamente sacrificare il tempo degli interventi, anche perché mi rendo conto della complessità e dell'ampiezza della mia relazione (peraltro arricchita dal testo su cui ho riferito ieri al Senato, che i colleghi hanno la possibilità di valutare).
Ferma restando la potestà della Commissione, utilizzando i tempi parlamentari, non ho alcuna difficoltà a partecipare ad un dibattito concordato, in modo tale che tutti potranno intervenire secondo i criteri che riterranno più giusti.
Assicuro, dunque, la mia disponibilità - purché si concordino i tempi, cosa che farò, se lo riterrà, con il presidente - a dedicare una giornata al dibattito. Mi scuso, ma questa è l'unica possibilità che abbiamo.

PRESIDENTE. Per essere chiari, signor ministro, le chiedo quanto tempo può dedicarci.

CLEMENTE MASTELLA, Ministro della giustizia. Purtroppo, non so dirlo con precisione: il question time è già iniziato, quindi al massimo posso trattenermi 15 o 20 minuti.

PRESIDENTE. A questo punto, considerato che siamo sotto la «minaccia» di un suo «rapimento» per il question time, mi pare ragionevole rinviare il dibattito ad altro momento. Mi pare che tutti abbiamo compreso che il ministro non può trattenersi a lungo in Commissione.
Abbiamo di fronte due strade: strozzare la discussione, quindi costringere i colleghi a interventi assolutamente ristretti nei tempi, oppure sviluppare un dibattito articolato. Se l'onorevole Contento, primo iscritto a parlare, immagina di intervenire in tempi compatibili con questo quadro di riferimento, può farlo, ma non voglio limitare il dibattito.

GAETANO PECORELLA. Presidente, vorrei intervenire sull'ordine dei lavori. A me pare che le questioni poste siano troppo serie perché si possa, ad esempio, interrompere a metà un intervento nel momento in cui il signor ministro viene chiamato in aula.
Mi pare più ragionevole utilizzare questo tempo per affrontare gli altri argomenti all'ordine del giorno e sviluppare un dibattito omogeneo e organico in seguito. Se il collega Contento vuole intervenire,


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per carità, lo faccia pure, ma faccio notare che la risposta potrebbe arrivare tra quindici giorni, o quando sarà possibile. Non so se l'onorevole Contento sia d'accordo su questa proposta.

MANLIO CONTENTO. È difficile dire di no ad un collega come Pecorella.

GIUSEPPE CONSOLO. Signor presidente, a questo punto, quello che dovrebbe caratterizzare il primo rapporto con il guardasigilli è proprio un «botta e risposta», nei tempi che lei dovrà decidere, compatibilmente con le esigenze del ministro.
Cominciare adesso, sapendo che tra un quarto d'ora il ministro dovrà allontanarsi, non ha alcun significato. Personalmente, pensavo che, almeno fino alle 16, orario d'inizio dei lavori d'aula, il ministro potesse trattenersi. Allora, possiamo stabilire di dedicare mezza giornata, compatibilmente con le esigenze del ministro e con le nostre relativamente ai lavori dell'aula, al dibattito.

PRESIDENTE. Credo che sia ragionevole organizzare i nostri lavori nel senso indicato. Peraltro, onorevole Consolo, avevamo tutti cognizione del fatto che i lavori dell'aula sarebbero ripresi alle ore 16; evidentemente, non avevamo tenuto conto dell'urgenza del question time. In ogni caso, credo che l'esigenza di sviluppare un dibattito completo, non strozzato e omogeneo, per quanto concerne la possibilità di intervento da parte dei colleghi, prevalga su tutto il resto.
Nel ringraziare ancora il ministro e i sottosegretari per la disponibilità manifestata, rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta.

La seduta termina alle 15,30.