COMMISSIONI RIUNITE
II (GIUSTIZIA) E IV (DIFESA)

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di marted́ 11 dicembre 2007


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA IV COMMISSIONE ROBERTA PINOTTI

La seduta comincia alle 11.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del Capo di stato maggiore della Difesa, Ammiraglio Giampaolo Di Paola, nell'ambito dell'esame della proposta di legge C. 2098 Pinotti, recante «Riforma del codice penale militare di pace».

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento, l'audizione del Capo di Stato Maggiore della Difesa, ammiraglio Giampaolo Di Paola, nell'ambito dell'esame della proposta di legge C. 2098 Pinotti, recante «Riforma del codice penale militare di pace».
Saluto e ringrazio l'ammiraglio Di Paola per la sua presenza; nonostante la scarsa partecipazione, considero il tema molto importante. Della riforma dei codici si è parlato durante la scorsa legislatura, ma non si è riusciti a portarne a termine l'esame, essendoci punti di vista diversi in materia. Tuttavia, ritengo che tale provvedimento sia importante e molto atteso, perché, pur essendo tuttora in vigore buoni codici, tenendo conto degli anni in cui sono stati scritti - risalgono al 1941 -, sicuramente si pone la necessità di modificare alcuni aspetti. Pertanto, potremmo svolgere un buon lavoro come Commissioni parlamentari.
Ammiraglio Di Paola, il suo punto di vista ci sarà prezioso, ovviamente, se vorrà commentare la discussione che stiamo portando avanti sulla proposta di legge.
Do la parola all'ammiraglio Di Paola.

GIAMPAOLO DI PAOLA, Capo di stato maggiore della Difesa. Saluto e ringrazio i presidenti delle Commissioni II e IV e tutti gli onorevoli intervenuti per avermi concesso il privilegio di questa audizione.
In tale occasione, desidero esprimere il mio contributo e il pensiero delle Forze armate su questa iniziativa legislativa, tesa a concretizzare un organico intervento sul sistema penale militare, che tenga conto non solo della nostra civiltà giuridica, quindi dei giusti e ormai maturati concetti giuridici, ma anche dei discendenti e successivi interventi della Corte costituzionale in questa materia. In modo particolare, mi riferisco alle implicazioni che scaturiscono dalla nuova configurazione strutturale delle Forze armate e dai costanti e dominanti impegni internazionali assunti dal nostro Paese e, nell'ambito di questi impegni, anche dal concorso dello strumento militare.
Innanzitutto, vorrei sottolineare che il crescente coinvolgimento dell'Italia nelle operazioni internazionali scaturisce, di fatto, da quella che è definita - piaccia o meno il termine - come globalizzazione del contesto di sicurezza. Per garantire il mantenimento della sicurezza, occorre quindi avvalersi di un ampio spettro di strumenti, non solo politici, diplomatici, economici e di formazione, ma spesso


Pag. 4

anche, - ormai è la realtà a dirlo - del contributo delle Forze armate. Tale compito, peraltro, è in armonia e in coerenza con un'attenta e corretta lettura dell'articolo 11 della Costituzione. Ricordo che tale articolo, in un suo passaggio, prevede limitazioni di sovranità nazionale necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni, promuovendo e favorendo le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Proprio in relazione a tale norma, mi sembra che più volte il Capo dello Stato abbia chiaramente espresso una lettura completa e totale dell'articolo 11, non limitandone l'interpretazione ad un solo comma, ad una sola parte o ad una sola articolazione.
In questo quadro lo strumento militare costituisce oggi un mezzo, sovente non sostituibile, per favorire lo stabilirsi, o il consolidarsi, delle condizioni essenziali di sicurezza nelle aree a rischio e per consentire lo sviluppo e il consolidamento di basilari diritti umanitari e di principi democratici. Tutto ciò, inoltre, ha portato a evidenti e positive ricadute, in termini di sicurezza nazionale e internazionale. Oggi, dunque, le Forze armate hanno piena consapevolezza del fatto che il loro ruolo è parte di una strategia multidisciplinare a sostegno e supporto di un obiettivo politico, auspicabilmente chiaro. A volte, del resto, nell'espletamento delle missioni alle quali prendiamo parte, le condizioni contingenti non permettono di avere quadro e obiettivi politici particolarmente chiari.
In sostanza, l'intervento dello strumento militare non deve essere, né viene più inteso - certamente non da noi -, come acquisizione di una superiorità operativa tesa a neutralizzare un nemico, un opponente, un avversario con l'utilizzo esclusivo della forza, bensì come mezzo attraverso il quale l'uso legittimo e legale della forza consente il raggiungimento dello scopo e dell'obiettivo politico della missione. Si tratta di un concetto - credo essenziale - che presuppone l'esistenza di un forte senso di responsabilità e di una piena conoscenza del quadro giuridico di riferimento. Al contempo, tuttavia, esso comporta una maggiore complessità del processo di pianificazione e di utilizzo della forza, quando necessario, da parte delle unità militari che operano per concorrere al conseguimento dello scopo politico.
La realtà è che per fronteggiare le nuove esigenze e le nuove sfide del contesto di sicurezza globale è stato avviato - come voi ben sapete, anche perché sono intervenuto più volte su tale tema in questa stessa Commissione - un processo di trasformazione delle Forze armate, di cui l'elemento più innovativo, o comunque più evidente, è la cosiddetta «professionalizzazione», o modello professionale, delle Forze armate. Tale modello è stato votato dal Parlamento con la legge n. 331 del 2000 e si pone in sostituzione del precedente modello misto, a forte componente di leva, ossia con una forte componente di coscritti. Questo nuovo strumento, altamente specializzato e caratterizzato da elevati standard tecnico-addestrativi, richiede però un riferimento normativo univoco, al quale ricondurre l'assolvimento dei compiti istituzionali, in armonia con i principi fondamentali di comportamento e di disciplina; pilastri sui quali si basa la coesione delle parti dell'intera compagine militare, nonché presupposti insostituibili, affinché siano assicurate l'efficacia e l'efficienza dello strumento militare.
La trasformazione dello strumento militare, abbinata alla sempre maggiore presenza delle Forze armate italiane sullo scenario internazionale, ha richiesto, e richiede, strumenti normativi e giuridici più rispondenti alle mutate realtà nazionali e internazionali. A tal fine la riforma del codice penale militare di pace rappresenta - e su questo le Forze armate non hanno alcun dubbio - un tassello fondamentale, per consentire allo strumento militare di affrontare, gestire e concorrere alla risoluzione delle situazioni di crisi e, nel contempo, per garantire certezza normativa al personale militare, impegnato in attività istituzionali caratterizzate spesso da elevato indice di rischio. Infatti, la capacità di assolvere i compiti assegnati alle Forze armate è la risultante di numerosi e molteplici fattori, tra i quali


Pag. 5

assume particolare rilievo quello di una disciplina giuridica aggiornata e funzionale.
Ovviamente, partendo da tali presupposti, le mie considerazioni sono essenzialmente legate più che a valutazioni di natura squisitamente giuridica, di cui non sono competente, a una visione di carattere concettuale tecnico-operativa, discendente dal mio titolo e dalla responsabilità che rivesto nell'ambito dell'istituzione militare. Ritengo pertanto essenziale che la revisione del codice penale militare di pace debba muovere e tener conto dei presupposti e dei concetti che ho espresso in precedenza, al fine di assicurare una rivisitazione della normativa vigente concretamente idonea a fronteggiare le sempre più complesse attività istituzionali, evolutesi nel corso degli anni. Tra queste, ha assunto particolare rilevanza e predominanza lo svolgimento di missioni operative internazionali condotte nel quadro dell'ONU, dell'Unione europea e della Nato, ma talvolta anche su base di alleanze ad hoc, seppur sempre nel quadro di legittimità delle Nazioni Unite.
Con riferimento alle missioni internazionali, ritengo necessario evidenziare che la fine del bipolarismo e l'era della globalizzazione della sicurezza ha segnato - e questo è importante - l'inizio di una revisione della politica di sicurezza e di difesa delle istituzioni e delle alleanze di cui siamo parte, certamente della Nato e dell'Unione europea, ma anche delle Nazioni Unite. La Nato, come sapete, ha rivisitato il proprio concetto strategico - e già si parla per il prossimo summit di una nuova rivisitazione, non a Bucarest, ma in quello che si terrà tra due anni -, estendendo il concetto di difesa del territorio a un approccio che individua l'obiettivo di concorrere al mantenimento della stabilità e della sicurezza internazionale, da perseguire anche con interventi ad ampio spettro. Da qui discendono le missioni a guida Nato condotte in Kosovo, in Afghanistan e via dicendo.
Nel contempo, anche l'Unione europea si è dotata di una propria politica estera e di sicurezza, i cui riferimenti concettuali e strategici sono stati recepiti sia nell'ambito del concetto strategico dell'Unione (il famoso documento Solana «A secure Europe in a better world», ossia un'Europa più sicura in un mondo migliore), che con il recepimento delle cosiddette «missioni di Petersberg» nel trattato dell'Unione europea. Le missioni di Petersberg comprendono anche situazioni in cui può essere previsto l'impiego di forze con capacità di combattimento. Quindi, nell'Unione europea, non si parla soltanto di missioni strettamente umanitarie, ma anche di interventi nei quali può essere previsto l'uso della forza con capacità significativa, proprio perché il contesto lo richiede.
Del resto, anche le Nazioni Unite, nel corso del tempo, hanno evoluto nella loro percezione della gestione della sicurezza. Si sono susseguiti diversi documenti di visione da parte del Segretario generale, l'ultimo dei quali è quello di Kofi Annan. Tali documenti in qualche modo definiscono un ruolo sempre più proattivo delle Nazioni Unite nella gestione delle crisi internazionali, anche con l'utilizzo di missioni militari.
In questo quadro concettuale, quindi, l'ONU, l'Unione europea e la Nato hanno ritenuto - e ritengono tuttora - indispensabile disporsi e prevedere un'ampia gamma di missioni, caratterizzate da molteplici e specifiche peculiarità, comprese alcune - ci tengo a sottolinearlo - in cui può essere previsto l'utilizzo di forze con capacità di combattimento, quindi con l'uso legittimo e legale della forza. Si verifica, infatti, una variabilità di situazioni che non consentono più di ricondurre la classificazione delle missioni internazionali alla tradizionale differenziazione tra missioni di pace e missioni in contesti di guerra o ad essa assimilabili. È il contesto, più o meno pacifico o conflittuale, in cui si svolgono le missioni internazionali - che hanno sempre per scopo un obiettivo di pacificazione certamente, o di ripristino di una stagione di pace - a caratterizzare la natura della missione stessa, più che le definizioni di una volta, quali quelle di stato di guerra, o missione


Pag. 6

di pace o di guerra. È notorio, infatti, che si sono dovute coniare nuove terminologie, come quella di «conflitti asimmetrici», per definire situazioni che non sono di guerra - assolutamente - ma che pure presentano conflitti e scontri. Non si tratta più del classico confronto o scontro tra Stati, come appunto una volta si definiva la guerra, o lo stato di guerra, o la condizione di guerra, ma di situazioni in cui agiscono attori conflittuali di differenti livelli. Parliamo di contesti operativi che presuppongono, ove e quando necessario per l'assolvimento della missione, il legittimo uso della forza, a salvaguardia non solo di tutti i soggetti coinvolti nella crisi, ma anche, ovviamente, dei nostri militari.
Proprio la crescente problematicità dei contesti operativi in cui le Forze armate sono chiamate a operare, mi induce, in qualità di Capo di stato maggiore della Difesa, a portare alla vostra attenzione, quale vitale spunto di riflessione, l'esigenza di porre in debito risalto, nella revisione del quadro normativo-giuridico, la centralità e la particolare rilevanza di un'adeguata tutela del comandante. Il comandante è un elemento essenziale della struttura militare e, certamente, dei contesti operativi e dei contingenti in cui si opera. Tale figura, infatti, responsabile della coesione interna dell'unità militare e garante del rispetto della disciplina nell'esercizio delle sue peculiari azioni di comando, è chiamato a prendere decisioni anche in tempi ristretti e in situazioni ad elevato rischio. Tali scelte, peraltro, devono da un lato salvaguardare la sicurezza e la vita dei propri uomini e, dall'altro, raggiungere l'obiettivo assegnato, in conformità e nel rispetto delle norme nazionali e del diritto internazionale e umanitario.
Ritengo, quindi, che l'impianto normativo in discussione debba tenere in debito conto diversi fattori fondamentali, tra cui l'opportunità di regolare in modo sistematico la disciplina delle operazioni militari all'estero, anche assegnando in modo chiaro la competenza territoriale al solo tribunale militare di Roma per i reati militari commessi nel corso di tali tipologie di operazione. In questo quadro, si dovrebbe considerare, da un lato, la necessità di accentrare univocamente la competenza altrimenti estremamente frazionata, anche in ragione della struttura composita, dei nostri contingenti e, dall'altro, a seguito delle professionalizzazione delle Forze armate, l'opportunità che la previsione di un giudice dedicato, in via esclusiva e a tempo pieno, trovi una sempre maggiore legittimazione definitiva, senza dover ricorrere, di volta in volta, ad interventi normativi emanati in connessione con ciascuna autorizzazione di istituzione o di proroga delle missioni.
È una scelta questa che rappresenta una spinta significativa verso la genesi di una vera e propria «expertise» di giudizi, di cui si avverte la necessità, proprio per assicurare nella trattazione di casi spesso delicati e complessi un più competente, appropriato, e quindi più giusto, metro di giudizio, derivante da un approfondito livello di conoscenza della peculiarità e specificità del contesto operativo.
Ritengo, inoltre, che il provvedimento in discussione accolga - e questo certamente lo considero un fattore molto positivo - l'esigenza di disciplinare, prevedendo una serie di apposite disposizioni, la tutela dei cosiddetti «soggetti deboli» e anche del personale delle Forze armate, nel quadro dell'imprescindibile rispetto dei diritti umani e delle norme del diritto internazionale verso tutti coloro - militari, civili e popolazioni locali - che a qualunque titolo si trovano coinvolti nella situazione di crisi.
Altrettanto significativa mi appare la previsione di trasferimento dal codice penale militare di guerra a quello di pace della disciplina prevista per perseguire i reati contro le leggi e gli usi di guerra, ovvero di quella parte del diritto meglio conosciuto come diritto umanitario, peraltro integralmente recepito nel nostro ordinamento con le leggi di ratifica delle convenzioni di Ginevra e dei relativi protocolli addizionali, nonché di tutte le altre convenzioni internazionali in materia.
Considero, pertanto, che questo provvedimento fornisca una ulteriore forma di


Pag. 7

tutela del comandante che, come detto, è spesso chiamato a prendere decisioni delicate, in tempi rapidi e in situazioni difficili e ad alto rischio. Infatti, la nuova disciplina offre la cornice entro la quale pianificare e attuare legittimamente l'uso della forza, fissando precisi parametri di riferimento, quale l'osservanza delle convenzioni internazionali e specifiche disposizioni regolanti le missioni e gli ordini ricevuti.
La realtà è che l'uso legittimo della forza rientra nel novero delle ipotesi operative che potrebbero verificarsi nel corso delle missioni militari, purché ovviamente questo uso, proprio in quanto legittimo - così lo definisco -, avvenga nel rispetto delle convenzioni internazionali del diritto umanitario. Tuttavia, è importante comprendere che l'uso legittimo della forza non può essere interpretato di per sé come esistenza di una situazione di guerra. L'identificazione di una situazione di guerra con l'uso della forza non è, nel contesto attuale, assolutamente appropriato e significativo.
Sono dell'avviso anche che non vada sottovalutata la previsione, volta a far chiarezza in un delicatissimo settore quale quello dello status e del trattamento delle persone catturate o fermate nel corso di operazioni militari all'estero. L'equiparazione, in ogni caso, al trattamento riservato ai prigionieri di guerra di tali soggetti - indipendentemente dalla denominazione data alla missione e dai riferimenti normativi ad essa attribuiti - consentirà ai comandanti, ma in particolare ai militari impegnati sul campo, di operare in un circostanziato quadro giuridico di riferimento, che contribuirà senz'altro a conferire maggiore sicurezza e nel contempo tranquillità a coloro che si trovano ad affrontare questo tipo di situazioni.
Quali ultime considerazioni, e per sintetizzare alcuni punti essenziali del mio breve intervento, ritengo opportuno evidenziare ancora una volta la necessità che il nuovo strumento normativo tenga conto dei particolari contesti in cui si trovano a operare i nostri militari. Si tratta, come noto, di missioni che non sono di guerra, ma che si svolgono spesso in situazioni di conflitto armato e, pertanto, riconducibili a circostanze che spesso richiedono l'uso legittimo della forza per l'assolvimento della missione.
Concludendo, vorrei sottolineare con particolare calore l'esigenza primaria di creare con il provvedimento legislativo in esame una cornice giuridica in grado di assicurare la tutela del personale, con particolare riguardo alla figura del comandante, ai militari impiegati sul campo e ai soggetti protetti dal diritto umanitario, nonché di dare una reale ed effettiva configurazione dei soggetti ostili, sempre più spesso non organi di veri e propri Stati e delle relative Forze armate, e dunque combattenti riconoscibili, ma, al contrario, indefinite forze di fatto di varia consistenza e pericolosità. Queste sì, spesso - per non dire sempre -, agiscono al di fuori di qualsiasi regola stabilita dagli usi e dalle leggi di guerra e, soprattutto, dal diritto umanitario.

PRESIDENTE. La ringrazio, ammiraglio; una parte della sua riflessione - quella dedicata all'uso della forza, alla definizione del concetto attuale di missione internazionale e all'articolo 11 della Costituzione - sarà sicuramente di aiuto rispetto ad un altro provvedimento in discussione, quello sulle missioni.
Per quanto riguarda nello specifico i codici, l'esigenza di una «expertise» cui lei si riferiva, rispetto al fatto che esistono reati particolari, viene comunque salvaguardata anche dalla proposta fatta in finanziaria dal Ministro della difesa sulla riduzione dei tribunali militari. Per il momento, infatti, la proposta è quella di avere tre tribunali, per cui, da questo punto di vista, rimane una specificità rispetto a tali aspetti.
Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.

ANDREA PAPINI. Ringrazio l'ammiraglio per la chiarezza con cui ci ha fornito indicazioni preziose.
Vi è un aspetto della questione che ho bisogno di approfondire, ovvero quello


Pag. 8

relativo alla regole di ingaggio in occasione delle missioni internazionali.
Le regole di ingaggio, che hanno una rilevanza giuridica ai fini degli argomenti che stiamo trattando in questo momento, sono conoscibili dal magistrato? Evidentemente sì. Sono conosciute anche da chi opera sul terreno? Deve essere così, altrimenti, non saprebbe che cosa rispettare.
Dicendo questo, arrivo a un argomento che non è strettamente connesso al tema dei codici, ma che si riallaccia - e colgo l'apertura fornita dal presidente - alla questione delle missioni internazionali. Ammiraglio, perché le regole di ingaggio non sono conoscibili dal Parlamento?
Forse nel formulare tale quesito mi allontano dall'argomento in questione - mi scuserà il relatore della Commissione giustizia -, ma questo problema non mi è mai stato chiaro. Non sarebbe più opportuno che le regole di ingaggio fossero note al Parlamento nella fase di avvio delle missioni, in modo da avere pieno appoggio parlamentare, ancorché in forme ristrette? Del resto, in ogni caso - e questo è il tema collegato -, tali regole devono essere conoscibili dal magistrato. Altrimenti, l'intero ragionamento non torna.
Spero di non aver fatto confusione a proposito di un argomento che magari agli altri appare molto chiaro, ma che a me personalmente non risulta tale. Da questo deriva la mia domanda. D'altronde, i quesiti si pongono per chiarirsi le idee.

GIAMPAOLO DI PAOLA, Capo di stato maggiore della Difesa. Ovviamente le regole di ingaggio sono conosciute molto bene (così mi sento di dire) da chi opera. Altrimenti, saremmo proprio nei guai! Allo stesso modo, chiaramente, esse sono note al magistrato. Nel momento in cui un magistrato si trova a dover giudicare il comportamento di un militare, è chiaro che deve avere accesso alle regole di ingaggio.
Per quanto riguarda il riferimento al Parlamento, credo si tratti di una questione più strettamente politica, nel senso che non sono i militari a negare la conoscenza delle regole di ingaggio. Del resto, occorre considerare che un conto sono i principi cui si ispirano - che sicuramente nei concetti generali, essenziali possono essere noti al Parlamento senza problemi - altro conto sono gli aspetti - cui forse si riferiscono alcuni interventi di tipo politico - relativi ai dettagli di ciascuna singola regola. Per le regole di ingaggio, infatti, esistono determinati concetti, ma anche venti, trenta o quaranta norme specifiche, rispetto alle quali, tutto sommato, può essere opportuno mantenere una certa riservatezza.
Certo il Parlamento, anche in un'azione ristretta e confidenziale, credo che possa venirne a conoscenza, se lo ritiene opportuno. Tuttavia, esistono norme individuali e specifiche che è bene restino riservate, perché, in definitiva, non è opportuno che l'altro sappia come quel militare è autorizzato a comportarsi in una certa situazione. Del resto, se si conosce esattamente il mio modo di agire, il mio opponente può reagire. Quindi, le regole di ingaggio sono fatte di concetti abbastanza «open». Vi è poi una serie di regole più specifiche, su cui ritengo opportuno mantenere una certa riservatezza. Del resto, so che lo stesso Ministro Parisi si è espresso in questo senso, quando in un'interrogazione gli fu chiesto dell'opportunità di mantenere una certa riservatezza. Peraltro, anche negli ambiti parlamentari, quando è necessario, sono previste sedute segrete.
Onorevole Papini, il problema non è tecnico. Non si tratta di tenere nascoste alcune informazioni o di tenere una classifica di segretezza. Certo, esiste una sorta di classifica riservata che, tuttavia, se trattata con il dovuto riguardo, può essere resa nota ai parlamentari. Ad ogni modo, il problema è più di natura politica che tecnica.

ANDREA PAPINI. Vi è sicuramente una rilevante questione politica, ma si pone anche una questione che per certi versi è tecnica. Vale a dire che se abbiamo degli elementi di riservatezza, motivati dal fatto che possono mettere in pericolo il personale in azione, e dunque vi è l'esigenza di tutelare tale riservatezza, mi


Pag. 9

chiedevo come essa venga garantita di fronte al magistrato. Del resto, il magistrato chiamato a giudicare, deve ovviamente conoscere le norme a cui era sottoposto il militare che ha operato e dunque sappiamo che qualunque aspetto alla fine può essere reso pubblico, nel momento in cui viene richiamato all'interno di un dibattimento.
Questo è il nodo che volevo cogliere. Se a un certo punto tali informazioni cessano di essere riservate, mi chiedo come ciò si coniughi con l'esigenza di riservatezza.

GIAMPAOLO DI PAOLA, Capo di stato maggiore della Difesa. Innanzitutto, c'è da dire che il magistrato opera in un ambiente ristretto e che viene chiamato in causa solo in presenza di un fatto specifico. Inoltre, anche il magistrato - a sua volta - deve attenersi alla famosa riservatezza nella gestione della causa e del giudizio. Pertanto, se determinate tematiche hanno carattere di riservatezza, il magistrato certamente può accedervi, essendo però anche lui tenuto a gestirle con riservatezza per esprimere il suo giudizio, anche nella parte dibattimentale. Il fatto che - ahimè - talvolta, troppo spesso, si sappia dai giornali tutto ciò che pure è segreto, è un altro discorso. Ognuno è chiamato a risponderne.

ANDREA PAPINI. Devo intervenire nuovamente, perché non mi riferivo al fatto che possono uscire notizie nel corso dell'istruttoria o del procedimento, ma a quello che alla conclusione di un procedimento tutto diventa necessariamente pubblico. Quindi, non parlavo della problematica, che pure esiste, di eventuali fughe di notizie, ma del fatto che se si arriva ad un giudizio, esso diventa pubblico. Infatti, tutti gli elementi che hanno contribuito alla sua formazione, se non sbaglio - sono presenti giuristi più autorevoli di me -, diventano pubblici e quindi il problema si pone.

GIAMPAOLO DI PAOLA, Capo di stato maggiore della Difesa. Sono presenti giuristi anche più autorevoli di me, ma so che, comunque, anche nella formazione di giudizi, vi sono elementi che posso rimanere riservati. Se una particolare regola di ingaggio, necessaria ai fini del dibattimento, diventa pubblica, tale pubblicità si limita alla singola regola e non si estende al contesto generale. Quindi, una cosa è dire che una certa norma in quel momento deve essere resa pubblica per forza; altra cosa è rendere pubblico tutto l'insieme delle regole di ingaggio.

PRESIDENTE. Ammiraglio, la ringraziamo molto. Sicuramente questa audizione sarà tenuta presente nel prosieguo dei nostri lavori.
Sono state richieste molte audizioni - ne parleremo in ufficio di presidenza -, ma vista la presenza non fortissima, forse potremmo ridurre i tempi da dedicare alle audizioni per procedere con l'esame del provvedimento. Magari approfondiremo la questione.

GIAMPAOLO DI PAOLA, Capo di stato maggiore della Difesa. Mi permetta, presidente. Vorrei aggiungere solo una considerazione a conclusione dell'audizione.
Anzitutto, condividiamo pienamente la necessità di normare, in maniera precisa, il quadro nel cui contesto operano le missioni internazionali, che ormai sono veramente l'elemento rilevante. Siamo quindi anche sostanzialmente favorevoli all'impianto complessivo del progetto di legge, così come attualmente in discussione. Mi premeva comunque sottolineare - infatti quella odierna non è stata un'audizione tecnica, ma di tipo concettuale - la necessità che voi parlamentari teniate conto del contesto in cui si opera, comunque conflittuale. Non mascheriamoci dietro la definizione di missione di pace. La finalità è di pace, ma l'ambiente non lo è affatto; altrimenti non ci sarebbero le forze armate. Quindi, come vanno tutelati i soggetti deboli, così vanno tutelati anche i militari o i civili che il Parlamento e il Governo inviano in missione.
Questo elemento è molto importante. A volte, infatti, ho l'impressione che nel dibattito rimanga in ombra l'aspetto relativo


Pag. 10

alla necessità di salvaguardare anche chi cerca di comportarsi al meglio delle sue capacità, in un contesto certamente di rispetto delle norme - se si violano le norme è giusto punire -, ma in cui l'uso della forza è parte integrante della circostanza. Non si usa la forza solo per il gusto di farlo. In quei contesti, non ci si può sorprendere se qualcuno spara. A volte nel dibattito e nella verve della discussione politica questo aspetto sembra rimanere in ombra.

ANDREA PAPINI. Ha fatto bene a sottolinearlo.

PINO PISICCHIO. A volte si dice opponente e non nemico!

PRESIDENTE. Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 11.40.