COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 5 luglio 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE UMBERTO RANIERI

La seduta comincia alle 9,35.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata mediante l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del viceministro degli affari esteri, Ugo Intini, sulla situazione in Medio Oriente.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del viceministro degli affari esteri, Ugo Intini, sulla situazione in Medio Oriente.
Do la parola al viceministro per lo svolgimento della relazione.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Da qualche anno frequento la Commissione esteri, ed è un piacere ritornarci, anche perché si tratta di una Commissione un po' particolare, nel senso che svolge degli approfondimenti bipartisan e li fa con l'esigenza, molto spesso, di capire e non di fare propaganda. È questa, io credo, la particolarità felice di questa Commissione.
Sul Medio Oriente parlerò, come è naturale, con franchezza. Siamo in un momento in cui il pessimismo più nero deve essere preso in considerazione. Un'unica luce si può forse vedere, in questo pessimismo doveroso, e nasce da due flash-back che possono ritornare alla memoria di ciascuno di noi.
Primo flash: sui giornali degli anni Settanta, da un lato, c'era Israele, dall'altro, c'erano i palestinesi, individuati come terroristi, che non riconoscevano lo Stato di Israele. Secondo flash: in anni più recenti, ad esempio nel 1999, ad Oslo, all'Internazionale socialista, Arafat e Simon Peres, freschi di premi Nobel per la pace, vengono applauditi perché sono andati avanti nell'accordo di pace.
Questo ci insegna che i cicli viziosi possono essere seguiti da cicli virtuosi. Certo, oggi siamo all'interno di un ciclo catastrofico e vizioso.
Il Governo italiano ha parlato, in questi giorni, di equivicinanza. Penso che tutti noi potremmo parlarne, perché l'equivicinanza non è rispetto ai Governi. I Governi si muovono, compreso il nostro, a destra e a sinistra, in alto e in basso; invece, la nostra equivicinanza è stabile e profonda, io credo radicata nei sentimenti del popolo italiano. È un'equivicinanza non verso i Governi, ma verso due diritti profondamente radicati nella storia: da una parte, il diritto del popolo israeliano ad avere uno Stato sicuro e a vivere in condizioni di sicurezza; dall'altra, il diritto del popolo palestinese ad avere uno Stato.
Credo che questi siano diritti non incompatibili tra loro, ma, al contrario, speculari, interdipendenti, causa ed effetto l'uno dell'altro.
Veniamo alla situazione del momento. La crisi che si è venuta a determinare a Gaza e in Cisgiordania, dopo l'attacco di un commando palestinese al valico di Kerem Shalom il 25 giugno, con l'uccisione dei due soldati israeliani ed il rapimento del caporale Shalit, costituisce solo


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l'ultimo atto di un aggravamento esponenziale della crisi politica generale dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del 25 gennaio.
I recenti avvenimenti a Gaza, successivi alla reazione israeliana con l'avvio dell'operazione militare «Summer Rain», hanno annullato le speranze che si erano accese e quei timidi risultati raggiunti dal primo incontro informale svoltosi fra Abu Mazen e Olmert il 22 giugno scorso a Petra, che aveva fatto sperare in una graduale ripresa dei contatti tra israeliani e palestinesi, in vista di una rivitalizzazione del processo di pace.
Oggi, la domanda che ci poniamo è se vi siano ancora le premesse per la ripresa di quel processo e se sia legittimo definirlo ancora un processo di pace. Anche se quanto sta accadendo sul terreno non invoglia all'ottimismo, noi riteniamo che si debba rifuggire da questa logica e, invece, continuare ad impegnarci con maggiore determinazione, per ricreare le condizioni affinché quel processo si rimetta in moto.
Sappiamo, per esperienza, che nella regione mediorientale la violenza chiama violenza. Dobbiamo rompere, dunque, questa dinamica negativa e ridare una speranza. L'Italia, forte di un rapporto di consolidata amicizia con Israele e con il popolo palestinese ed anche con tutti gli Stati della regione, intende continuare a fornire il proprio contributo.
In questa prospettiva, subito dopo l'attacco al valico di Kerem Shalom, abbiamo immediatamente sensibilizzato il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, affinché venisse fatto tutto il possibile per l'immediato rilascio dell'ostaggio israeliano. Il giorno successivo, lo stesso ministro D'Alema ha avuto una conversazione telefonica con il presidente Abu Mazen, manifestandogli la sua preoccupazione per la gravità degli eventi, che rischiavano di condurre la crisi ad un punto irreversibile, mettendo a rischio la stessa prosecuzione del processo di pace.
Successivamente, abbiamo informato le autorità israeliane dei passi intrapresi, auspicando che il rilascio dei ministri e dei parlamentari palestinesi detenuti avvenisse, così come la fine delle incursioni nella striscia di Gaza. Ad entrambe le parti abbiamo rappresentato come fosse importante non cedere alla logica della violenza e prendere, invece, misure concrete per migliorare la reciproca sicurezza e porre fine alla drammatica escalation. Venerdì il ministro D'Alema ha nuovamente parlato al telefono con il ministro degli esteri israeliano, la signora Livni, e con il presidente Abu Mazen.
L'Italia è stata anche parte attiva nella definizione della dichiarazione emessa dall'Unione europea il 30 giugno, nella quale è stata duramente condannata l'uccisione del colono rapito in Cisgiordania e ribadito il forte richiamo all'Autorità palestinese, affinché ponga fine alla violenza e alle attività terroristiche, incluso il continuo lancio di razzi verso il territorio israeliano.
Nella dichiarazione si rammenta ad entrambe le parti la rispettiva responsabilità nella protezione della vita dei civili e, in particolare, si invita Israele ad esercitare il massimo autocontrollo per evitare reazioni sproporzionate e, nel riconoscimento del suo legittimo diritto all'autodifesa, si ricorda che le attività militari in corso devono comunque attenersi al rispetto del diritto internazionale.
L'Unione europea ha anche riaffermato che solo una soluzione negoziata, basata sull'esistenza di due Stati, può portare la pace e la sicurezza sia agli israeliani che ai palestinesi, ed ha sollecitato il ritorno al negoziato e all'individuazione di ogni possibile sforzo per una soluzione pacifica.
Al di là della situazione contingente in cui continueremo ad adoperarci, affinché si possa ritornare ad un percorso di dialogo, l'Italia pensa comunque che sia indispensabile che il Governo palestinese e la dirigenza di Hamas si adeguino ai tre principi contenuti nella Dichiarazione del Quartetto del 30 gennaio: diritto all'esistenza dello Stato di Israele, rinuncia al terrorismo, riconoscimento di intese e accordi pregressi.
In ambito palestinese, l'accordo raggiunto dalle diverse fazioni (ad eccezione del movimento della Jihad islamica) sul


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cosiddetto «Piano dei prigionieri» è suscettibile di aprire prospettive interessanti, e l'auspicio è che esso permetta di ricomporre i dissidi tra Fatah ed Hamas. Il piano dovrebbe soprattutto favorire la creazione di una coalizione di unità nazionale che induca Hamas ad accettare i tre principi propedeutici di cui parlavamo alla ripresa del processo negoziale previsto dalla road map.
Nel corso di sue recenti visite in alcune capitali europee - Londra, Bruxelles, Parigi - il Primo ministro israeliano Olmert, che tra pochi giorni sarà anche a Roma, ha ribadito l'impegno del suo paese a favorire la road map, anche se, in ragione dell'ostacolo che ancora oggi l'intransigenza di Hamas rappresenta sulla via dell'accordo, Olmert ipotizza il ricorso a misure unilaterali, che però, a nostro avviso, non rappresentano una soluzione nemmeno per la stessa sicurezza di Israele.
Sul versante degli aiuti alla popolazione palestinese, l'Italia ha contribuito all'elaborazione del cosiddetto «Meccanismo internazionale temporaneo (TIM)», ideato dalla Commissione europea per far giungere aiuti nei settori della sanità e dell'istruzione senza contatti diretti con il Governo di Hamas, e in modo da garantire la piena trasparenza dei trasferimenti e del loro corretto utilizzo.
Le modalità di funzionamento del TIM, limitato nel tempo (tre mesi) e negli obiettivi, sono suddivise in tre diverse «finestre»: Emergency Services Support Programme (ESSP), finanziato dal Trust Fund della Banca mondiale; Interim Emergency Relief Contribution (IERC), sovvenzionato dalla Commissione europea; Need-based Allowances, attivata provvisoriamente dalla Commissione per il pagamento dei «sussidi sociali» agli operatori del sistema nazionale (con esclusione dei dipendenti del ministero palestinese della sanità).
A giorni sarà operativa una squadra di quattro rappresentanti della Commissione (tra i quali un medico italiano) per avviare le prime fasi di questo intervento umanitario. Ci pare essenziale che il programma vada avanti comunque, malgrado la difficilissima situazione attuale. I recenti avvenimenti a Gaza non devono rappresentare un ostacolo all'erogazione di quelle risorse che sono necessarie per evitare una crisi umanitaria tra la popolazione palestinese.
Ci troviamo, dunque, una volta di più di fronte ad una situazione estremamente complessa, drammatica. Su questa incidono dinamiche di varia natura e la vicenda del rapimento del caporale israeliano rappresenta certo un elemento di ulteriore complicazione e drammatizzazione. La comunità internazionale, e l'Italia con essa, deve attivare ogni possibile canale affinché la vicenda si concluda positivamente e il soldato israeliano rapito possa tornare sano e salvo ai propri familiari.
Occorre assolutamente arrestare la spirale di violenza, che si autoalimenta distruggendo progressivamente le speranze dei popoli che vivono in Terra santa.
È necessario, invece, innescare nuovamente un circolo virtuoso, che sia capace di ricondurre il confronto israelo-palestinese nel naturale alveo negoziale, in modo da non disperdere quanto faticosamente raggiunto da alcuni decenni ad oggi.
Operare per la nascita di uno Stato palestinese pienamente funzionante, che viva in pace accanto allo Stato di Israele, garantito nella sua imprescindibile sicurezza, rimane la nostra priorità, ed il Governo farà quanto è in suo potere, bilateralmente ed in seno all'Unione europea e all'intera comunità internazionale, perché si avanzi verso questo traguardo di pace.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

IACOPO VENIER. Innanzitutto, vorrei approfittare della presenza del viceministro per esprimere la nostra perplessità per il fatto di non avere ancora, fino a questo momento, il testo del decreto sulle missioni e di non sapere, quindi, se alle 14,30 potremo cominciare la discussione politica su un passaggio così delicato.


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Nel merito della questione che affrontiamo oggi, a tutti noi è chiaro qual è il diritto internazionale. Conosciamo le risoluzioni delle Nazioni Unite sulla vicenda mediorientale e sappiamo qual è la condizione dei territori cosiddetti palestinesi, che non sono territori palestinesi, ma sono territori illegalmente occupati dallo Stato di Israele.
Siamo di fronte ad una crisi di proporzioni inedite, che vede la distruzione sistematica delle infrastrutture civili, comprese quelle essenziali per i servizi umanitari di base (ad esempio, erogazione dell'energia elettrica), il bombardamento di interi edifici, oltre che di spiagge dove passano i bambini, per i cosiddetti omicidi mirati e la sistematica opera di rapimento e di cattura di esponenti del Governo democraticamente eletto dai palestinesi.
Abbiamo inviato delegazioni parlamentari di tutta Europa a certificare la correttezza della procedura elettorale in Palestina. Oggi assistiamo alla cattura di ministri e di rappresentanti di quel popolo, oltre alla detenzione, lunga ormai anni, di importanti parlamentari palestinesi.
Assistiamo, inoltre, alla continua costruzione di un muro - il cosiddetto muro di separazione -, che è stato condannato e che non rispetta le norme del diritto internazionale, perché non viene realizzato sul confine riconosciuto, quello del 1967, e alla sistematica delegittimazione della parte palestinese da parte israeliana.
Tutto ciò, chiaramente, rientra nel contesto di un Governo palestinese nel quale, certo, ci sono forze e uomini che praticano o sostengono azioni di carattere terroristico.
Non vedo, a dire il vero, una grande differenza, in termini di giudizio, tra chi programma l'attentato su un autobus e chi bombarda una casa o una scuola; tra chi nega l'esistenza di uno Stato legittimo, come lo Stato di Israele, di cui va tutelata la sicurezza e il diritto internazionale, e chi, nella pratica, occupa illegalmente, ormai da decenni, il territorio di un altro popolo, senza garantire, in quel territorio, il rispetto dei diritti umani, del diritto internazionale e della stessa Convenzione di Ginevra e umilia un milione e mezzo di persone che vivono a Gaza nelle condizioni che sappiamo.
Noi siamo di fronte non solo a due diritti, ma anche a due parti che praticano e teorizzano, dentro gli stessi Governi, operazioni che non possono che essere definite nello stesso modo: se le chiamiamo «terrorismo», dobbiamo farlo in entrambi i casi.
Il nostro Governo, secondo la nostra opinione, ha fatto, ma non a sufficienza. Se siamo in presenza della premessa indispensabile che Israele deve essere garantito nella sua sicurezza e nel suo diritto all'esistenza e che ogni attacco - penso all'allucinante dichiarazione del Presidente iraniano sulla fine di Israele - deve essere condannato nettamente a livello internazionale, non possiamo, però, che prendere atto che la reazione internazionale di fronte ai crimini israeliani non è sufficiente. C'è una sorta di specialità che fa sì che ad Israele sia consentito ciò che non è consentito a nessun altro Stato del mondo.
Di fronte a questo, noi crediamo, come partito dei Comunisti italiani, che le reazioni non possano partire da un episodio di guerra, ma da un contesto in cui quell'episodio va inserito.
Ci auguriamo l'immediato rilascio del soldato israeliano, ma vogliamo ricordare che ci sono migliaia di palestinesi illegalmente detenuti nelle carceri israeliane, di cui non ci occupiamo e, per di più, si tratta, in molti casi, di dirigenti e di autorevoli rappresentanti del Governo palestinese.
Ecco perché pensiamo che il Governo debba valutare azioni più decise nei confronti della parte israeliana, per far capire che una crisi umanitaria di queste proporzioni non è accettabile dalla comunità internazionale e che, certamente, la comunità internazionale può contribuire al cosiddetto riavvio del processo di pace che si è interrotto con la morte di Rabin (ucciso proprio perché insieme ad Arafat aveva pensato a una soluzione che provvedesse alla nascita di due Stati per due popoli).


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Ci sono degli strumenti che possiamo utilizzare e dobbiamo farli valere nelle relazioni con entrambi i governi e con entrambe le identità politiche. Se il Governo italiano ha deciso di sostenere l'azione dell'Unione europea nel finanziamento, attraverso la Presidenza palestinese, di una straordinaria azione di intervento su questa crisi umanitaria, non si vede perché Israele, che viola sistematicamente i diritti umani, debba avere una relazione speciale con l'Unione europea. Davvero, non si comprende perché non dobbiamo considerare che le reazioni sono inaccettabili in entrambi i casi.
Ci aspetteremmo un'azione più decisa anche nei confronti del Governo israeliano e delle sue rappresentanze diplomatiche in Italia, per far capire che tutto questo deve interrompersi, che questa spirale non ha nessun senso e non porta a nessuna soluzione, se non quella della definizione sul campo della situazione di fatto.
Ho ascoltato e apprezzato le parole del viceministro, che sono coerenti con le parole del ministro D'Alema, il quale sostiene che siamo contro una soluzione unilaterale della vicenda mediorientale. Questa è la linea della comunità internazionale, ma bisogna che tutta la comunità internazionale agisca perché sul campo non si definisca un nuovo Stato non più modificabile.
Non posso che concludere dicendo che la responsabilità dell'Europa è particolarmente significativa anche sul piano storico. L'Europa ha certamente la necessità di difendere il diritto di esistenza dello Stato di Israele, ma, al contempo, deve imporre la nascita dello Stato di Palestina.
Non stiamo parlando di due entità che combattono sullo stesso piano, con la stessa situazione, ma stiamo parlando di uno Stato e di un popolo che stanno cercando di realizzare la propria condizione di sovranità e la propria possibilità di vivere in sicurezza in quell'area. In questa fase, l'Europa è completamente assente.
Chiediamo - e siamo sicuri che così sarà - che il Governo italiano agisca anche a livello europeo per un'immediata azione dell'Unione europea, non solo sull'emergenza sanitaria, ma anche sul piano politico e diplomatico.

ALESSANDRO FORLANI. Ringrazio il viceministro Intini per la sua esposizione, per le comunicazioni e per gli elementi di riflessione che ci ha fornito. Anch'io condivido il suo giudizio rispetto a passaggi molto importanti che si erano registrati in questi ultimi anni, seppure tra contraddizioni, riprese di violenze ed elementi di sospetto.
Indubbiamente, però, c'è stata una fase, tra il 2004 e il 2005, che ci ha indotto a sperare che il processo di pace potesse essere portato a definizione: penso all'azione del Quartetto e all'azione di governo dello stesso Sharon. Anche in quest'ultimo caso, abbiamo registrato contraddizioni iniziali e azioni che non abbiamo condiviso, ma, nell'ultima fase del suo Governo, si era delineata una linea di tendenza che sembrava portare ad un assetto definitivo accettabile. A questo si aggiunga la stessa elezione di Abu Mazen e il ruolo che egli ha svolto e la fine dell'epoca di Arafat, con il carico di ombre e sospetti che, a torto o ragione, si portava dietro.
Tutto ciò ha offerto alla comunità internazionale un momento di ottimismo e di speranza. C'era stata la road map ed era cominciato il ritiro da Gaza. Io stesso ebbi modo, durante una visita in Israele, di registrare il trauma e il disorientamento del popolo israeliano di fronte a quella decisione, eppure la fermezza con cui fu portata avanti. C'erano state le elezioni democratiche in Palestina, prima dell'elezione del Presidente della Repubblica e poi del Parlamento, il periodo di tregua dalle violenze, la decisa presa di posizione nei confronti dei coloni più recalcitranti.
Tutto questo, alla luce dei fatti più recenti, sembra almeno temporaneamente vanificato. C'è un'evidente volontà di destabilizzazione, una volontà di non arrivare ad una soluzione; c'è sicuramente una regia - ho sempre ritenuto che fosse legata anche ad altri fatti che avvengono nell'area, in altri paesi limitrofi, mediorientali


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- che cerca di mantenere il quadro in una condizione di conflitto e di instabilità e di ostacolare il processo di pace e di realizzazione di un assetto geopolitico definitivo: due Stati limitrofi in condizioni di reciproco rispetto, se non addirittura di cooperazione e di sovranità.
Certo, le reazioni di Israele, rispetto alle violenze, agli attentati e al lancio di missili, pur nel pieno rispetto del diritto di autodifesa, non aiutano in questa fase, e soprattutto, per come sono portate avanti, rischiano, molte volte, di colpire gli innocenti o, comunque, chi non ha responsabilità nella realizzazione delle azioni violente e conflittuali.
Credo che Abu Mazen resti un interlocutore fondamentale per la comunità internazionale, per il Quartetto, per l'Unione europea. Occorre valutare il ruolo del Governo palestinese. C'è stata molta retorica, negli anni scorsi, sull'esportazione della democrazia, soprattutto della democrazia elettiva, che non è democrazia nella sua pienezza. La democrazia elettiva ha prodotto Ahmadinejad, ha prodotto in Palestina Haniyeh, e questo è un dato che la comunità internazionale deve affrontare, non può fingere che non esista, non può rimuovere.
Sappiamo che sempre questi processi di realizzazione di nuovi assetti geopolitici e di superamento di conflitti e di situazioni di crisi hanno visto condizioni contraddittorie, che poi hanno registrato evoluzioni: pensiamo ad Arafat, che, negli anni Settanta, quando venne in visita in Italia, da alcuni era considerato un criminale, un terrorista, e poi divenne interlocutore di un processo di pace. Sono situazioni che possono non piacerci, ma sono connaturate a certe evoluzioni storiche.
Bisogna considerare, certamente, tutti gli accertamenti e gli approfondimenti sulla posizione di Haniyeh, su eventuali legami con il terrorismo, con la Jihad, su chi veramente orchestra o favorisce gli attentati, ma anche tener presente che si tratta di una figura ormai esponenziale di una comunità, di un popolo, ed è stato eletto secondo elezioni che anche noi abbiamo voluto.
Da una parte, quindi, occorre la massima attenzione, e dall'altra, pur senza ancora avviare un dialogo diretto o rapporti diplomatici diretti, occorre cercare di tenere comunque una finestra aperta, per favorire da quella parte o, almeno, dalla parte che si dice più moderata di Hamas, una progressiva disponibilità tanto al riconoscimento della legittimità dello Stato di Israele, quanto al compimento del processo di pace. Una finestra, dunque, va tenuta aperta.
Il piano dei prigionieri ritengo sia una strada percorribile, sicuramente interessante: ritiro dello Stato ebraico entro i confini del 1967, liberazione dei prigionieri, Gerusalemme est come capitale del nuovo Stato.
Francamente nutro diversi dubbi - questo è un problema di cui deve farsi carico la comunità internazionale e anche, possibilmente, i paesi arabi limitrofi - sul rientro dei rifugiati, che certamente porrebbe grandi problemi alla stessa sopravvivenza di Israele, o almeno della sua attuale identità etnica. Un problema, questo, che sicuramente non può essere affrontato in quella forma; si dovrebbe prendere in considerazione un'altra soluzione per rispondere al diritto dei rifugiati ad avere una patria, ma anche al diritto di Israele, nelle sue attuali connotazioni, di continuare ad esistere.

MARGHERITA BONIVER. Ascoltando la assai bilanciata ed «equivicina» relazione del viceministro Intini, naturalmente non si può non dichiararsi d'accordo con questo rendiconto della situazione attuale. Francamente, però, il sentimento che più mi colpisce - mi verrebbe da dire che tutto è a posto e niente è in ordine - è che siamo veramente arrivati, ancora una volta, ad un punto di svolta, in una crisi che è, in assoluto, la più incancrenita, crudele e longeva praticamente di tutto lo scacchiere internazionale.
Ci siamo arrivati, come sempre, senza capire, probabilmente, fino in fondo qual


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è la genesi di questa ulteriore crisi, ovvero se si tratta dell'ennesimo precipitare della guerra civile fra le varie fazioni a Gaza e nei territori occupati palestinesi, oppure di una recrudescenza molto visibile di una diplomazia sotterranea, ma anche ormai esplicitata, da parte di Damasco e di Teheran. I grandi problemi, naturalmente, sono legati non soltanto alla situazione del territorio, ma anche a quel che avviene in capitali più o meno lontane.
L'appoggio di queste capitali, da un punto di vista sotterraneo - in alcuni casi, invece, dichiarato - alle fazioni più estremiste di Hamas, alle quali danno addirittura diritto di cittadinanza, è una parte del problema, che però, francamente, non viene mai affrontata con sufficiente chiarezza e correttezza.
È facile, naturalmente, per l'Unione europea trovare una posizione unanime per condannare Israele. In genere, l'Europa trova l'unanimità sulle scelte sbagliate. Siamo perfettamente consapevoli delle spaventose condizioni di vita dei palestinesi nei territori e, naturalmente, non siamo contrari - ci mancherebbe - all'aiuto umanitario che l'Unione europea sta elargendo in questi giorni e in queste ore, ma sono dei «pannicelli»: credo che ce ne rendiamo conto tutti.
Mi auguro che la visita del Primo ministro israeliano Olmert in Italia dia la possibilità all'Esecutivo di assumere qualche iniziativa di visibilità, ma, soprattutto, di concretezza, un po' più alta di quanto è avvenuto finora, così come mi auguro che il Governo tragga spunto da questa ennesima crisi per rafforzare il più possibile quel rapporto con Abu Mazen, che evidentemente, in questo frangente, non può che riuscire particolarmente indebolito.
Mi rendo conto che l'operazione che, ormai dieci giorni fa, ha portato al rapimento del giovane soldato israeliano Shalit significa una vera e propria dichiarazione di guerra. È vero che il Governo di Hamas è stato eletto democraticamente, ma mi chiedo in quale paese possa essere ammessa ad una competizione elettorale una formazione politica che fa del terrorismo il suo credo e il suo pane quotidiano.
Vedo, in questo frangente, la necessità di un'azione politica. Naturalmente penso all'Unione europea - non possiamo sospingere gli altri membri del Quartetto, con un'energia sufficiente -, che dovrà riprendere il cammino che si era totalmente impantanato, la road map e un negoziato che era diventato invisibile, ma che - beninteso - rimane sempre e soltanto il nostro unico credo per arrivare alla famosa, agognata soluzione: due popoli, due Stati.

ALÌ RASCHID KHALIL. Signor presidente, signor viceministro, abbiamo ascoltato la relazione e abbiamo seguito con molta attenzione i primi passi della politica estera del nostro Governo, nella quale scorgiamo segnali di cambiamento importanti nella direzione di un rispetto della legalità e del diritto internazionale.
Valuto molto positivamente anche questo principio di equivicinanza nei confronti di due popoli, che spesso sono vittime di politiche sbagliate, da parte dei rispettivi Governi, e di condizionamenti che vengono dalla parte più estremista di entrambi i popoli.
Questa equivicinanza, che apprezziamo molto, non si traduce molte volte in politiche concrete, come avviene in questi giorni. Tutte le volte che si parla di conflitto israelo-palestinese si riparte dall'ultimo episodio di uso della violenza o di qualche atto di terrorismo, dimenticando che il popolo palestinese versa in queste drammatiche situazioni da sessant'anni.
È giusto parlare della sicurezza di Israele, ma in quella situazione il popolo che soffre maggiore insicurezza è il popolo palestinese. E non ci vuole molto per vederlo. Gli unici interventi concreti riguardano alcuni aiuti umanitari, che pure sono importanti e necessari oggi, vista la situazione drammatica che si è determinata a causa delle politiche aggressive del Governo israeliano. Quello che manca è un'iniziativa politica e diplomatica, basata su un rigoroso rispetto del diritto e della legalità internazionali, che deve essere rivolta anche ad Israele.


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Dal momento che Israele rappresenta, come si dice, l'unico Stato democratico in Medio Oriente, bisogna esigere da Israele, come da tutti gli altri Stati del Medio Oriente, un atteggiamento rispettoso della legalità internazionale. A me sembra che ad Israele sia stata data una licenza di fare quel che vuole e di sentirsi al di sopra del diritto e della legalità. Questo si traduce nelle politiche quotidiane che porta avanti nei confronti del popolo palestinese. Basta vedere come si è trasformato tutto il territorio palestinese sotto occupazione: Gaza e la Cisgiordania sono piccole e grandi carceri, dove, molte volte, basta schiacciare un bottone per trasformare un intero popolo in prigionieri.
Oltre a iniziative di carattere umanitario, è necessaria, oggi, una forte iniziativa politica. È per la mancanza di un'iniziativa politica che crescono, giorno dopo giorno, tutte le tendenze più estremiste in Medio Oriente: l'uso sistematico della violenza, la crescita del terrorismo, la crescita delle ideologie fondamentaliste.
Tutti questi fenomeni sono cresciuti su un terreno dove viene a mancare innanzitutto un'iniziativa politico-diplomatica forte. È vero: vedo un desiderio di equivicinanza, ma la politica concreta - mi dispiace dirlo - anche del nostro Governo, attraverso i primi passi e le dichiarazioni che abbiamo ascoltato, mi sembra più spostata verso Israele piuttosto che il contrario.
Questo atteggiamento è controproducente, considerata la complessità che caratterizza tutta la situazione in Medio Oriente. Per il rispetto della legalità internazionale sono state fatte diverse guerre in Medio Oriente, e continuano ad essere portate avanti, ma è stato fatto molto poco a favore di un processo di pace che promettesse davvero libertà e democrazia per tutti i popoli della regione.
Non si possono neppure dividere al 50 per cento le responsabilità che hanno determinato questa situazione. Mi sembra che le responsabilità israeliane, trattandosi di un Governo democratico e di un paese che ha una sovranità, siano maggiori.
La situazione che si sta determinando in questi giorni è il frutto della politica di due estremismi: da una parte il terrorismo di Hamas, dall'altra parte le scelte sbagliate del Governo israeliano. Basta leggere i commenti dei giornali israeliani, che rivelano che il 53 per cento della popolazione non approva la politica dell'attuale Governo, anche rispetto alla soluzione della questione dell'ostaggio israeliano.
Oggi, l'intero popolo palestinese è ostaggio. A Gaza 1 milione e 300 mila palestinesi vivono una condizione di carcerati. Né si può pensare che la parte del popolo palestinese che vive in Cisgiordania viva in condizioni di libertà.
In mancanza di un'iniziativa politica che chieda ad Israele, come a tutti gli altri Stati, il rispetto rigoroso della legalità internazionale, la situazione non cambierà. Credo che la politica estera italiana debba essere indirizzata in questo senso, ma bisogna prevedere anche un margine di autonomia per questa politica. Ci sono iniziative europee e internazionali importanti, ma sono tutte bloccate. La responsabilità non ricade esclusivamente sul Governo palestinese (anzi, si dice che è responsabilità di alcune delle organizzazioni terroristiche palestinesi); dall'altra parte il Governo israeliano ha bloccato tutti i tentativi di una soluzione politica.
In mancanza di una soluzione politica, è dalla questione palestinese e dal conflitto israelo-palestinese che bisogna ripartire, per immaginare una situazione di libertà, democrazia e stabilità in tutto il Medio Oriente; altrimenti, si vanificano tutte le iniziative in questa direzione che vengono assunte anche da parte della comunità internazionale.
Vorrei chiedere al signor viceministro se non sia opportuno mettere in discussione anche l'accordo di cooperazione scientifico-militare fra Israele e Italia, perché anche questo è uno strumento di aggressione nei confronti, in particolare, del popolo palestinese e di tutti i popoli dell'area.
Sono convinto delle buone intenzioni del nostro Governo, ma è necessario trasformarle in politica concreta. Bisogna


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anche condannare in modo fermo gli atti del Governo israeliano che hanno trasformato un intero popolo in un popolo di prigionieri e di schiavi, violando tutti i diritti sanciti dalla legalità internazionale, umani e politici.
Un intervento di questo tipo rafforzerebbe l'autorevolezza del nostro Governo e della sua politica in Medio Oriente. Credo, dunque, che sia urgente procedere in questa direzione.

PIETRO MARCENARO. Ringrazio il viceministro Intini per la sua esposizione, che condividiamo nelle sue linee fondamentali e nei suoi orientamenti di massima.
Limiterò questo intervento a pochissime considerazioni. Innanzitutto, siamo indubbiamente di fronte ad una nuova fase di una crisi molto grave, che ha ragioni varie e molto profonde, derivanti dagli errori compiuti, a partire da quello tragico che segnò, anni fa, il rifiuto del compromesso possibile a Camp David, fino alle conseguenze di una situazione internazionale che è mutata dopo l'11 settembre e la guerra in Iraq. La stessa vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi non è solo il risultato di vicende e processi interni a quella situazione, ma si colloca indubbiamente in un quadro che è caratterizzato, nell'insieme della regione, da un prendere peso e rilievo di importanti forze estremistiche.
Questo fatto non necessariamente deve comportare un pessimismo sulle possibilità di sviluppo della situazione. Noi abbiamo visto molte volte, in questi anni, che il processo politico è riuscito a far diventare protagoniste di relazioni e di rapporti forze che avevamo considerato come più ostili alla pace. Quante volte abbiamo visto diventare protagoniste di evoluzioni positive forze e personalità che si erano caratterizzate in passato in altro modo? Penso che questo aspetto anche oggi andrebbe considerato.
Naturalmente è molto importante che, nel momento in cui viene riaffermato il quadro degli impegni internazionali ed europei per evitare una crisi umanitaria in Palestina, vengano riaffermate le condizioni essenziali che il Quartetto ha posto ad Hamas come condizioni di riconoscimento.
Al tempo stesso, a noi pare che andrebbero valorizzati atti che sono avvenuti nelle scorse settimane e negli scorsi giorni. Pensiamo, ad esempio, all'ipotesi di accordo tra Hamas e Abu Mazen, a partire dalla piattaforma dei prigionieri, non perché la piattaforma dei prigionieri debba essere sposata integralmente, punto per punto, ma perché segna una possibile evoluzione della situazione.
Probabilmente, tutto quello che sta accadendo porta ad arricchire quella che è stata una posizione che tradizionalmente abbiamo espresso con la formula «due popoli, due Stati». Forse, oggi bisognerebbe porsi come obiettivo della politica internazionale il seguente: due popoli, due Stati, due democrazie. Non era, questo, un elemento scontato fino a qualche anno fa, ma mi sembra che, in questo quadro, esso risulti più chiaramente come condizione necessaria della pace.
Non credo che la via da seguire, per il nostro paese, sia quella di interrompere le relazioni. Abbiamo bisogno, al contrario, di accrescere le relazioni e di farle diventare terreno di influenza politica e di considerare il sistema di relazioni e il modo in cui le indirizziamo come uno degli strumenti - forse quello fondamentale - per arrivare a una soluzione.
In secondo luogo, mi preme sottolineare che è essenziale, nell'orientamento su questo problema, una scelta - che il viceministro Intini ha ribadito a nome del Governo e che corrisponde agli orientamenti dell'Unione europea e, in generale, delle organizzazioni internazionali - che si muova nella direzione di una soluzione negoziata, ossia una scelta che giudichi che le decisioni unilaterali sono insufficienti a produrre soluzioni realistiche. Anche su questo punto, probabilmente, sarebbero utili un approfondimento e una riflessione.
Siamo passati da una fase, negli anni Sessanta, in cui i soggetti del negoziato sulla questione palestinese erano fondamentalmente gli Stati della regione, ad una


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fase nella quale, anche sulla base di una sollecitazione internazionale, è stata affidata fondamentalmente al rapporto diretto tra palestinesi e israeliani la soluzione di questa vicenda.
Ebbene, in questa situazione, è necessario capire come riaprire un confronto che, nel riaffermare il rapporto diretto tra Israele e Autorità palestinese, coinvolga gli Stati della regione in un negoziato. In particolare, pensiamo al ruolo che la Lega araba potrebbe svolgere. Credo che questa condizione sia fondamentale per avviare un processo di pace che conquisti le condizioni di resistenza a tutti i tentativi di destabilizzazione ai quali ogni passo avanti nei negoziati e nelle trattative è stato destinato.
Infine, è evidente che come esistono, in queste vicende, questioni immediate ne esistono anche altre che riguardano il medio termine dell'azione politica. Penso che, da questo punto di vista, l'azione europea, in particolare, possa avere un grande significato. Mi riferisco alle stesse ipotesi che sono state prospettate, anche in questi ultimi mesi, di un'Unione europea capace di offrirsi ad Israele e allo Stato palestinese che deve nascere come un possibile riferimento, come un contesto nel quale tale questione possa essere affrontata e questo conflitto, che rimarrà tale per molto tempo, possa essere governato. Nessuno, naturalmente, immagina una soluzione a cui si arrivi improvvisamente, in assenza di conflitto.
Bisogna capire come creare le condizioni e offrire gli strumenti per governare un conflitto che, in forme non così drammatiche, probabilmente, è destinato ad essere superato solo gradualmente.

SERGIO D'ELIA. Evidentemente, su questo punto non posso che parlare a titolo personale, non avendo consultato il collega Mancini. Ritengo, peraltro, che, all'interno del gruppo a cui appartengo, non ci sia identità di giudizio, di analisi e di proposte di soluzione sulla questione israelo-palestinese. Possiamo dire che siamo nel campo della libertà di pensiero e di proposta. Tuttavia, dal momento che intervengo anche a nome del gruppo della Rosa nel Pugno, ritenevo che questa premessa fosse importante. Naturalmente discuteremo e, probabilmente, troveremo un punto di accordo.
Non condivido il principio della equidistanza o della equivicinanza, sia riguardo ai giudizi che si possono dare sulla questione israelo-palestinese, sia, soprattutto, riguardo alle proposte e alle soluzioni che sono sul tappeto.
Da una parte, abbiamo una democrazia. Certo, non è una democrazia perfetta, ma è una democrazia che si trova in una situazione di crisi evidente e di conflitto permanente, ma dobbiamo prendere atto che è l'unica democrazia esistente in quell'area ed è accerchiata. Basta guardare la cartina geografica. Non c'è uno Stato che confini con Israele che possa essere riconosciuto come uno Stato rispettoso dei principi in base ai quali il diritto internazionale riconosce a un paese di essere un paese democratico.
Non sono sufficienti l'esistenza di processi elettorali e il confronto fra partiti in una competizione elettorale per qualificare un sistema democratico. Certo, se consideriamo la democrazia israeliana, non possiamo dire che sia una democrazia perfetta, ma, se la paragoniamo agli altri sistemi e ai regimi di quell'area, il paragone non esiste nemmeno. Noi dobbiamo cogliere questa differenza e agire di conseguenza.
In Israele esistono partiti e movimenti politici che esprimono una rappresentanza parlamentare che, in alcuni casi, è contraria anche alle linee di politica adottate nei confronti dei palestinesi; esiste un'opinione pubblica; esiste una libera stampa, che non è certo stampa di regime; esistono diritti civili e politici che sono garantiti anche ai palestinesi che vivono nello Stato di Israele (non parlo dei territori occupati). Esiste una Corte suprema, che è intervenuta spesso in questi anni, a fronte di crisi e di controversie, e che, spesso, ha riconosciuto diritti civili e politici che non erano garantiti dal Governo, anche con riferimento alla situazione nelle carceri israeliane.


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Ci troviamo di fronte, evidentemente, ad un'illusione. Proprio perché Israele è accerchiato da regimi non democratici, credo che sia un'illusione pensare di poter garantire la propria sicurezza e la propria difesa all'interno dei soli propri confini. Da qui, la proposta che la componente radicale della Rosa nel Pugno, Marco Pannella in particolare, avanza da molti anni e che trova nello Stato di Israele un'opinione pubblica favorevole al 70 per cento: la proposta di uscire dai propri confini e, quindi, di avere un rapporto con l'Unione europea e la proposta di far entrare Israele nell'Unione europea.
Anche all'interno del Governo ci sono posizioni diverse, oltre che nella maggioranza. Il sottosegretario Vernetti, nei giorni scorsi, ha affermato che Israele dovrebbe trovare una forma di associazione alla NATO. Siamo sempre nell'ambito della sicurezza e credo che si debba compiere, semmai, un passo verso una soluzione politica. Si tratta di una soluzione politica di garanzia della sicurezza di Israele, ma anche di garanzia dei diritti civili e politici di chi vive in Israele e nei territori: Israele potrebbe aderire all'Unione europea, ossia agli standard europei di rispetto dei diritti umani. Come sapete, esiste una procedura che prevede il rispetto di alcuni principi fondamentali del Trattato europeo per poter aderire all'Unione europea.
Sono d'accordo con il collega Marcenaro quando parla di due Stati per due popoli - intanto, da una parte uno Stato esiste ed ha fondamenti democratici -, ma credo che la soluzione risponda alla formula più giusta «due democrazie per due popoli». Lo ripeto: non è sufficiente la garanzia di un processo elettorale perché si arrivi al rispetto dei trattati internazionali sui diritti civili e politici. Non abbiamo una Costituzione dello Stato palestinese, perché lo Stato palestinese non c'è. Ebbene, nel processo costitutivo di uno Stato, quella è la prova del nove. La Costituzione dello Stato palestinese è una Costituzione in linea con la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, il patto internazionale sui diritti civili e politici? Questa è la prova, questo è il parametro e non può essere costituita semplicemente dal processo elettorale. Quindi, due democrazie per due popoli mi sembra la soluzione più adeguata.
Concludo riprendendo una considerazione espressa sia dal collega Forlani, sia dalla collega Boniver: non sottovalutiamo l'esistenza nell'area di entità esterne - veri e propri Stati - sia ad Israele, sia al popolo palestinese, che hanno, evidentemente, propaggini all'interno di movimenti politici che agiscono nei territori occupati. Tali entità hanno tutto l'interesse a destabilizzare quella situazione, così che abbia un ruolo uno Stato che si propone alla comunità internazionale come portatore di stabilizzazione in quell'area.
C'è un nesso diretto fra l'Iran e non soltanto gli hezbollah libanesi ma anche movimenti politici estremistici che hanno fatto terrorismo. Non vorrei sbagliarmi, ma ritengo che Hamas sia ancora inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche dell'Unione europea, non soltanto del Dipartimento di Stato americano. Mi rifiuto di porre sullo stesso piano la democrazia israeliana, con tutti i suoi partiti e movimenti politici, e il Governo di Hamas, il cui movimento politico di origine è inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Un ruolo iraniano in Palestina esiste - è evidente - e non credo che vada nella direzione di una soluzione politica - quale deve essere - del rapporto fra Israele e Palestina.

TANA DE ZULUETA. Ringrazio il rappresentante del Governo per averci puntualmente aggiornato sia sull'analisi sia sulle azioni intraprese dal Governo di fronte ad una crisi molto grave, che si trascina da tanto, troppo tempo.
Anch'io ritengo opportuno, anzi, essenziale, il fatto che il Governo abbia sostenuto e spinto l'Unione europea ad assicurare un piano di assistenza umanitaria. Ha ragione, tuttavia, l'onorevole Boniver quando dice che stiamo parlando di pannicelli.


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Il Governo ci ha detto che non crede nella percorribilità di una soluzione unilaterale e, presumibilmente, la sua azione diplomatica e politica deriva da questa convinzione. Per quanto mi riguarda, la considero assolutamente giusta, ma non sono sicura che l'azione del Governo sia sufficientemente convinta, forte ed alta.
Il concetto di equivicinanza, seppure un po' ambiguo, di certo è importante, perché contiene, appunto, la vicinanza, ossia il tentativo di condividere e di capire le due diverse situazioni vissute dai due popoli. Come ha sottolineato un collega che mi ha preceduto, si tratta in un caso di uno Stato e, nell'altro, di un popolo che non ha ancora ottenuto il riconoscimento statuale.
Credo che, nella sua valutazione e nella sua analisi, il Governo abbia ripetuto quella che, purtroppo, è quasi una consuetudine. Ogni volta che questa crisi precipita, le valutazioni - l'ha detto il collega Khalil - partono dall'ultimo episodio, senza una sufficiente presa in considerazione di quanto l'ha preceduto.
Anch'io faccio parte di coloro che realmente sperano e hanno chiesto che il giovane soldato israeliano possa tornare a casa, ma il suo sequestro è solo l'ultimo anello di una catena che ha fatto precipitare la situazione. Il numero di morti, nel solo mese di giugno, in particolare a Gaza, è stato altissimo. Questi morti sono, in parte, obiettivi di omicidi mirati e, in parte, rappresentano il «danno collaterale» di queste azioni, azioni in sé criminali, perché è evidente che un omicidio mirato è un'azione extragiudiziaria estremamente grave.
Credo che anche di questo si debba tener conto, perché, prima del più grave di questi episodi, la strage sulla spiaggia, era in atto - il Governo di Hamas lo aveva sostenuto - un cessate il fuoco che poi è stato revocato.
Condivido l'affermazione di chi mi ha preceduto, che ha parlato dell'importanza di un'azione politica più convinta. Credo, ad esempio, che sia importante che il Governo italiano abbia chiesto la liberazione dei ministri e dei parlamentari arrestati a Ramallah. Riconosco l'importanza di questa richiesta, in quanto, al G8 e nei contesti multilaterali in cui operiamo, ci si è fermati ad una richiesta di moderazione dell'azione militare, ma non vi è stata nessuna valutazione di quella che, dopo tutto, è una scelta senza precedenti, ossia quella dell'arresto dei rappresentanti eletti dai palestinesi.
Mi sembra di capire dalle parole del viceministro Intini che il Governo ripone le sue speranze in un Governo di coalizione. C'è stata una comunicazione diretta con Abu Mazen e la speranza sembra essere questa. Anch'io penso che questo sia un elemento estremamente importante, ma sostengo anche la necessità di un aggiustamento della politica italiana ed europea. Nell'illustrare le linee guida della politica estera italiana, il ministro D'Alema ha parlato della scelta di una politica di isolamento, di ostracismo, di fatto, nei confronti del Governo di Haniyeh. Credo che «isolamento» sia stata la parola usata nell'intervento al Senato.
Personalmente, credo che questa sia stata una scelta, nella sostanza, sbagliata della comunità internazionale. Certo, era opportuno segnalare la disapprovazione rispetto ad alcune scelte e l'importanza dei criteri stabiliti dal Quartetto, ma l'ostracismo non è condivisibile, così com'è stato impostato, in un primo momento, e poi mitigato con un po' di aiuti umanitari.
Condivido la valutazione di James Wolfensohn, che su questo punto ha rassegnato le dimissioni dal suo incarico presso la Banca mondiale, illustrata, con grande autorevolezza, davanti al Congresso americano: con questa politica non si fa altro che aggravare la situazione nei territori occupati e rafforzare le derive estremiste in quelle zone.
L'Europa, ma anche il nostro Governo, dovrebbe trovare dei percorsi più creativi di una diplomazia che porti gli eletti di Hamas, che sono sopravvissuti alla retata, nella direzione che è implicita - in modo molto significativo - nel documento dei prigionieri, il quale, a sua volta, rappresenta, in forma embrionale, un'idea di coalizione (i prigionieri sono sia di Fatah, sia di Hamas).


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Si parla dell'importanza della scelta di parlare con Abu Mazen e non con Hamas. Ero nei territori occupati il giorno delle elezioni di Abu Mazen. Quando si dice che l'unica democrazia compiuta del Medio Oriente è quella israeliana, è vero, ma dobbiamo dire anche che quel percorso fu realmente democratico. Tuttavia, sul percorso democratico palestinese pesava una grandissima ipoteca e ricordo che gli osservatori arrivarono alla conclusione che Abu Mazen avrebbe potuto realmente portare una svolta per il suo popolo se la condizione materiale di vita di quel popolo, nell'anno successivo, fosse migliorata. Purtroppo, non è migliorata affatto e noi non ce ne siamo preoccupati. Questa è stata la grande inadempienza europea. Di fronte alla constatazione che la scelta di Abu Mazen non aveva portato i frutti desiderati - ossia un minimo di condizione di vita dignitosa -, gli elettori palestinesi hanno preferito un'opzione politica più radicale.
Noi non possiamo ignorare un Governo eletto da una parte così consistente degli elettori palestinesi. Dobbiamo trovare altri modi di inclusione e noi europei abbiamo esperienze di percorsi di inclusione e di dialogo, anche con forze terroristiche. Penso al percorso di dialogo con l'ETA che il Governo spagnolo ha iniziato, che ha un precedente in quello del Governo inglese con l'IRA.
In conclusione, equivicinanza dovrebbe significare saper vedere le cose con gli occhi di entrambe le parti. Quando lei, signor viceministro, ha parlato della speranza che si alimentò nel 2004-2005, ho ritrovato questa speranza molto forte nei miei amici israeliani, ma non conosco un solo amico palestinese che l'abbia condivisa, perché i palestinesi sapevano che Gaza sarebbe rimasta una prigione.
Allora, ci saremmo dovuti preoccupare di quel punto di vista in tempo utile, non quando, ormai, era troppo tardi. Spero che, da questi segnali che lei ha riferito, di una rimodulazione della posizione italiana ed europea - meno propensa ad assecondare l'unilateralismo -, venga qualche risultato concreto. La speranza del 2004 era basata sull'idea che, dopo tutto, unilateralmente qualcosa si ottiene. È molto facile essere in Israele e non vedere quello che sta avvenendo intorno a Gerusalemme, con la crescita velocissima degli insediamenti in quella zona.
È un tentativo di creare un fait accompli. Anche questo è un tentativo, così come il percorso sempre modificato del muro, di arrivare al negoziato, che tutti sanno ci sarà, con molte carte da una parte. Un amico israeliano mi ha detto che loro sanno che ci sarà il negoziato e, a questo punto, è bene discutere il prezzo. Ma noi non possiamo consentire che si alzi il prezzo a costo della vita delle persone.

SANDRA CIOFFI. Ringraziando il viceministro Intini per la sua equilibrata relazione, vorrei svolgere alcune brevissime considerazioni su un argomento che riguarda tutti noi.
Stiamo vivendo una nuova fase di un problema mai risolto, che deve vedere il nostro paese, anche nell'ambito dell'Unione europea - in questi giorni si sta definendo l'agenda per i prossimi sei mesi di Presidenza finlandese -, impegnato nel raggiungimento di una soluzione.
L'auspicio è quello di raggiungere davvero una posizione di equivicinanza, per usare il termine, che mi è piaciuto molto, scelto dalla collega De Zulueta. Al riguardo, sono pienamente d'accordo con lei, perché nessuno di noi può permettersi di non tenere conto del dramma del popolo palestinese, della prigione di Gaza, della situazione economica e della sicurezza nei territori. Allo stesso modo, non si può non tenere conto delle condizioni di vita del popolo israeliano, quotidianamente soggetto al terrore delle bombe. In questo quadro, il ruolo dell'Italia, un paese che ha sempre garantito la legalità internazionale e il rispetto dei diritti umani, può essere quello importante di esercitare una diplomazia creativa, di cui parlava l'onorevole De Zulueta.
È necessario agire su due piani, quello del rispetto degli accordi pregressi e di una lotta senz'altro dura al terrorismo, e quello della crescita economica e del rispetto


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dei diritti di due popoli che vivono drammaticamente questa situazione.
Chi di noi è andato in questi paesi e ne ha visto le drammatiche situazioni di vita non può pensare di affrontare questo problema solo come un problema di rispetto della legalità internazionale. È necessario cercare di aiutare il paese più debole, la Palestina.
Credo che l'Italia possa avere un grandissimo ruolo in questo senso. Lo dico anche per un discorso di tradizione, ricordando il rapporto che ha avuto l'Italia con tanti paesi che avevano difficoltà di questo genere.
Auspico che l'azione del Governo sia indirizzata a portare avanti la strada del rispetto della legalità internazionale e degli accordi pregressi, ma anche di un aiuto maggiore - non solo pannicelli caldi - per migliorare le condizioni di vita dei due popoli.

PRESIDENTE. Do la parola al viceministro Intini per la replica.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Ringrazio i deputati che sono intervenuti dai quali, sebbene di maggioranza e di opposizione, abbiamo ascoltato toni non confliggenti. Qualcuno sottolinea in modo più critico le responsabilità di parte israeliana e qualcuno quelle di parte palestinese. Qualcuno sottolinea di più i diritti degli israeliani e qualcuno i diritti dei palestinesi.
Tuttavia, mi sembra che maggioranza e opposizione concordino sull'essenziale, ossia sul fatto che ci sono due diritti, quelli di Israele e quelli dei palestinesi, e due binari lungo i quali l'Italia e l'Unione europea devono lavorare: da una parte, il diritto di Israele, dall'altra, il diritto del popolo palestinese. Due diritti che non confliggono, ma che si devono integrare fra loro.
Credo che molte riflessioni espresse in questo dibattito si possano fare proprie ed essere ripetute, per memorizzarle e per trasformarle in azione politica. È vero: l'Europa non è abbastanza presente in questa crisi. Ciò è grave, perché credo che l'Europa unita, più di ogni altro paese, abbia credibilità verso entrambe le parti, verso Israele e verso il mondo arabo.
Non possiamo avere rapporti con Hamas, questo rimane un punto fermo. Tuttavia, dobbiamo tenere aperta una finestra di osservazione e nutrire la speranza che Hamas cambi, per renderci conto che è un Governo democraticamente eletto. Aggiungo che sappiamo come ci siano, all'interno di Hamas, sei fazioni in contrasto tra loro e si può sperare che si rafforzino le fazioni più propense al dialogo e alla razionalizzazione.
Gli aiuti umanitari sono insufficienti di fronte ad una situazione che degenera di giorno in giorno. Bisogna utilizzare la visita di Olmert a Roma per un'iniziativa più incisiva dell'Italia e rafforzare Abu Mazen, che è l'interlocutore più affidabile.
Ci troviamo di fronte a due popoli che sono stati e sono vittime di politiche sbagliate, di politiche estremiste. Ce n'è uno, il popolo palestinese, che soffre da sessant'anni più di altri una condizione di sofferenza e di precarietà.
La piattaforma dei prigionieri è una piattaforma interessante, che può portare ad un percorso non vizioso, ma finalmente virtuoso, quello che può essere identificato nello slogan «non soltanto due popoli e due Stati, ma due popoli, due Stati e due democrazie».
Israele è l'unica democrazia di stampo occidentale nella regione. Per questo abbiamo, da sempre, un rapporto particolare di confidenza con la politica israeliana. Non possiamo certo mettere la democrazia israeliana sullo stesso piano di Hamas, e, infatti, non lo facciamo, non foss'altro per il fatto che con Hamas non abbiamo rapporti. Tuttavia, proprio perché è così simile a noi, a Israele chiediamo di assumere quella che è stata definita una posizione di restraint, di prudenza nelle reazioni.
Si parla di associazione di Israele all'Unione europea e di un suo ingresso nella NATO. È un'ipotesi suggestiva. Si parla di ingresso della Turchia nell'Unione europea, e perché non di Israele? Su


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questo si può aprire un dibattito appassionante, proiettato nel futuro naturalmente.
Tuttavia, perché un dibattito di questo genere si apra, occorrerebbe un'inversione, anzi, un capovolgimento di filosofia da parte degli israeliani. Noi sappiamo che la filosofia israeliana può essere riassunta in questo atteggiamento, anche psicologico: la sicurezza di Israele non la deleghiamo a nessuno; nessuno ci dica che cosa dobbiamo e che cosa non dobbiamo fare per garantire la nostra sicurezza. Ecco, senza il capovolgimento di questa filosofia, è difficile immaginare l'integrazione di Israele in un'alleanza militare.
L'idea di equivicinanza vale non soltanto perché parla di vicinanza a due diritti profondamente radicati. Non dobbiamo mai partire dall'ultimo episodio, anche se il rapimento del caporale ci colpisce profondamente e deve essere assolutamente risolto in senso positivo. Tuttavia, non si può considerare l'uccisione di innocenti, come è avvenuto in queste settimane e in questi mesi, un danno collaterale.
Credo, e concludo, che non occorra alta politica per capire ciò che si deve fare. Bastano il buonsenso e l'esperienza. La strada del negoziato è l'unica possibile e un negoziato, per definizione, è bilaterale e si pone l'obiettivo di raggiungere dei risultati non unilaterali, ma condivisi da due parti.
Non c'è altra strada. Considerato che non esiste nemmeno altro punto di arrivo, meglio arrivarci prima, piuttosto che dopo, meglio arrivarci dopo meno anni, piuttosto che dopo più anni, meglio arrivarci dopo meno sangue, piuttosto che dopo più sangue. Questo mi pare suggerisca più che l'alta politica il semplice buonsenso e credo che sia un buonsenso largamente condiviso in questa Commissione e nel nostro Parlamento.

PRESIDENTE. Si conclude così un'audizione su uno dei temi più drammatici di queste settimane. Dall'esito di questo dibattito mi pare che sia interessante pensare anche ad un'eventuale missione di una delegazione di questa Commissione a Gerusalemme e nei territori, per approfondire la situazione, naturalmente se le circostanze lo permettono e se la missione non si riveli in contraddizione rispetto ad altre iniziative in essere. Ne potremo discutere nei dettagli nel prossimo ufficio di presidenza.
Ringrazio il viceministro per la sua partecipazione e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 11.