COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di luned́ 8 gennaio 2007


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE UMBERTO RANIERI

La seduta comincia alle 14.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata mediante l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva diretta sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del vice ministro degli affari esteri, Patrizia Sentinelli, sui recenti sviluppi della situazione in Somalia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del vice ministro degli affari esteri, Patrizia Sentinelli, sui recenti sviluppi della situazione in Somalia.
Ringrazio il vice ministro per la sua disponibilità. Colgo l'occasione per salutare il nuovo segretario della Commissione, il dottor Di Napoli, che ha sostituito il dottor Dickman, ora chiamato ad altri impegnativi compiti. Auguri al dottor Di Napoli.
Do ora la parola al vice ministro.

PATRIZIA SENTINELLI, Vice ministro degli affari esteri. Ringrazio il presidente e la Commissione per questa tempestiva audizione, che credo sia molto utile a noi, a tutti voi, ed anche al paese.
La situazione che si sta vivendo in Somalia e più in generale nella regione del Corno d'Africa è di grande criticità e reputo quindi del tutto utile un confronto ravvicinato tra di noi. Abbiamo avuto la possibilità di parlare diffusamente delle problematiche delle diverse regioni del continente africano nel corso di un'audizione svoltasi lo scorso 16 dicembre, pertanto mi soffermerò soltanto su alcuni punti che mi sembrano rivestire grande importanza per il ruolo del nostro paese, per l'Europa, per la comunità internazionale, relativamente alle recenti vicende in Somalia.
Peraltro, ho pensato fosse utile - per dare a voi la possibilità di intervenire e per soffermarci su alcune delle considerazioni che svolgerò - dare conto di ciò che stiamo facendo per risolvere questa delicata situazione. Non tornerò sulle vicende del semestre trascorso, a partire dalla sconfitta di quelli da noi definiti «signori della guerra», fino al ribaltamento della situazione, determinatosi a cavallo della fine dell'anno, con l'intervento militare etiopico in Somalia, notizia fortunatamente riportata in maniera diffusa, stavolta, al di là delle diverse accentuazioni, dai diversi giornali e gli organi televisivi.
Voglio solo ricordare, per arrivare poi al punto di merito della situazione attuale, che l'Italia è stato il paese che più di ogni altro ha sostenuto, in seno alla comunità internazionale, il valore della carta costituzionale, partorita a seguito della laboriosa conferenza di riconciliazione nazionale, che si è svolta a Nairobi dal 2002 al 2004, sotto l'egida dell'organizzazione regionale di IGAD, che raggruppa i sette paesi del grande Corno d'Africa, conferenza che ha costituito il sedicesimo tentativo di pacificazione della Somalia e che traeva il proprio punto di forza dall'essere la prima fondata su uno sforzo di composizione


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bilanciata della realtà clanica del paese e degli interessi dei paesi della regione che ospitano minoranze somale.
Il nostro paese ha sostenuto quella carta e ha lavorato per aiutare il consolidamento delle autorità transitorie (quando parlo di autorità transitorie, mi riferisco a tutte e tre le rappresentanze che dobbiamo tener presenti, ossia il Presidente, il Governo e il Parlamento). Insisterò su questo punto perché credo che uno dei problemi che abbiamo di fronte nel dare indicazioni al Governo transitorio sia proprio quello di tener conto di una realtà che deve considerare le tre soggettività presenti.
Abbiamo aiutato questo consolidamento, cercando di fare emergere ed alimentare un concreto concorso da parte dell'intera comunità internazionale, che, sia pure con variazioni di intensità, ha dimostrato più divisioni che unità, ciò che non ha di certo favorito il rafforzamento delle autorità transitorie, allorché vi erano forse le migliori condizioni per realizzarlo.
L'Italia è stata poi protagonista della creazione-conduzione del gruppo internazionale di contatto per la Somalia, in cui si sono ritrovati i principali soggetti impegnati in quel paese, e ha costantemente perseguito la direttrice del dialogo-negoziato, privilegiando cioè la soluzione politica quale unica via per riuscire ad innescare un processo di riconciliazione nazionale radicato sul territorio, coinvolgente, oltre alle due principali forze in campo, le principali realtà politiche, istituzionali e religiose, nonché le componenti della società civile di quel paese.
I passaggi di Khartum 1 e 2, così come gli interventi in sede comunitaria, delle Nazioni unite in seno all'Unione africana e all'IGAD hanno visto il nostro Governo riconosciuto come partner indispensabile. Ricordo, a mero titolo esemplificativo, come assieme al Governo norvegese abbiamo varato un progetto, attuato dall'UNDP, di creazione di amministrazioni locali, fornendo anche un contributo di due milioni di euro, che lo scorso autunno ha portato alla formazione di amministrazioni locali, in collaborazione con il Governo federale transitorio (le due regioni incentrate sull'allora sede provvisoria delle istituzioni federali e transitorie, che era Baidoa). Ricordo che io stessa ho avuto modo di intrattenermi di recente con il Presidente dell'Unione africana e con le principali autorità etiopiche, per sollecitare la ricerca di una soluzione politica, riconoscendo nello stesso tempo i legittimi interessi di sicurezza di Addis Abeba.
In quella occasione, parlando anche con il Primo ministro, ricordammo che erano davanti a noi altre strade da percorrere oltre a quella dell'opzione militare, quali un accordo possibile o un confronto negoziale. Siamo stati ascoltati con grande interesse, ma certo la situazione si è poi evoluta in una direzione diversa.
Infatti, le ultime due settimane hanno visto il rovesciamento di una situazione che vedeva le autorità transitorie divise tra di loro e decisamente indebolite. Vi segnalo questo aspetto, perché credo che meriti un'attenzione particolare nella valutazione che dobbiamo dare. Non siamo di fronte ad una situazione nella quale le autorità transitorie, come le abbiamo descritte anche nella tripartizione sopraelencata, fossero autorità forti; erano già indebolite, credo anche per problematiche interne a quella tripartizione. L'Unione delle Corti deteneva il controllo della parte centro-meridionale del paese e la prospettiva di negoziato, sempre più precaria, era considerata dall'Etiopia e da una parte della comunità internazionale troppo sbilanciata a favore delle Corti per dare le sufficienti garanzie di equilibrio e dunque di sicurezza; tutto ciò ha poi determinato la situazione. Abbiamo però avuto - va ricordato - un intervento della comunità internazionale, nei giorni precedenti (se non erro il 6 dicembre): il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha varato la risoluzione n. 1725. In pochi giorni il potere delle Corti si è virtualmente dissolto. Vi invito e mi invito ad un'attenzione particolare su questo punto e vi invito a ridiscutere anche questo aspetto.
Le Corti sembrano non esserci. Ho usato - lo sottolineo - l'allocuzione «virtualmente dissolto» perché rimangono,


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ancora, non solo le Corti (se le intendiamo come unità) ma, comunque, delle rappresentanze consistenti. Le milizie di queste Corti sono in fuga, in parte frammentate, sfarinate, e il Governo transitorio è tornato a Mogadiscio, tuttavia - dobbiamo ricordare anche questo - basandosi sulle proprie scarne forze armate e, soprattutto, su quelle di un robusto - alcune voci lo definiscono consistente, ma non è precisato nella quantità -, contingente militare etiopico.
Noi, come paese, abbiamo criticato duramente questo intervento, denunciandolo ed anche condannando l'intervento dell'Etiopia. A questo riguardo, vorrei sottolineare un punto che mi sembra molto importante: perché lo abbiamo condannato? Ci troviamo - ritengo - in presenza di una progressiva modifica di taluni principi fondanti del diritto internazionale, che sancisce nella Carta dell'ONU il suo non uso della forza (in particolare, mi riferisco all'articolo 2, paragrafi 3 e 4).
Penso che nel Consiglio di sicurezza - ormai ne facciamo parte, anche se come membri non permanenti - dovremo insistere proprio e molto su questo punto - ci viene chiesto da molti paesi - per la difesa di tali principi fondamentali, senza i quali la salvaguardia della stabilità internazionale potrebbe andare in fumo, cioè essere semplicemente un'aspirazione velleitaria. Si tratta di una discussione che da questo punto di vista va affrontata molto delicatamente, peraltro, anche nella comunità internazionale.
In pochi giorni, il potere dell'Unione delle Corti sembra essersi dissolto e le sue milizie sono in fuga. Si è aperto, dunque, un nuovo scenario che, apparentemente semplificato rispetto a due settimane orsono, suscita molta inquietudine per i molteplici fattori che implica e che appaiono suscettibili di innescare una deriva degenerativa, anche sul piano regionale. Cito alcuni di questi fattori: il riemergere di quelli che abbiamo chiamato «signori della guerra» e dei loro sistemi di affermazione del potere; il fattore tempo, che non lavora certo a favore della permanenza delle forze armate etiopiche. Dico questo perché, al di là di ciò che abbiamo espresso e che ritengo vada rimarcato - cioè, distanza, denuncia, condanna -, ora queste forze armate ci sono. Qual è, allora, l'elemento politico? Noi sosteniamo che debbano andare via. Sono invise alla popolazione, come si è cominciato a constatare anche di recente. Il Governo transitorio, che si regge al momento apparentemente in virtù della loro presenza, ha tutto l'interesse a liberarsi della loro tutela, se si prefigge di conquistare un livello di consenso.
La missione di pace IGASOM appare di difficile materializzazione, sia perché solo l'Uganda parrebbe disponibile ad inviare un battaglione di uomini - ben pochi di fronte alla bisogna - sia perché non si ravvisa, al momento, una fonte di finanziamento adeguata. Lo abbiamo potuto verificare; il 3 gennaio ero presente al vertice di Bruxelles insieme al Gruppo di contatto europeo, più la Norvegia; abbiamo a disposizione - lo ha detto in quel contesto il commissario europeo Michel - 15 milioni di euro, che certamente non sembrano essere sufficienti; altro è poi il tema del mandato, su cui tornerò più avanti.
Sarà giocoforza ipotizzare un ampliamento del bacino di reclutamento a tutta l'Africa, e proprio in queste ore sappiamo che l'Unione africana sta affrontando il problema ad Addis Abeba. Potrà non escludersi anche un'opzione «ibrida», con un apporto delle Nazioni unite; pare esservi un certo interesse a questo proposito.
Tuttavia, la nostra posizione, che abbiamo esplicitato e sottolineato anche a Bruxelles - e che sottopongo oggi alla vostra attenzione -, è che vale il ragionamento attorno a quale forza (quindi, anche al finanziamento necessario) ma, soprattutto, come la comunità internazionale può favorire l'avvio di un processo politico di vera riconciliazione che, partendo da una ritrovata unità delle autorità transitorie - una sorta di nuova alleanza dell'accordo firmato tra Yusuf e lo speaker, il 5 gennaio del 2006 -, superi la divisione attuale (per questo motivo facevo riferimento alla tripartizione), permettendo di


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affermare, sulla base di una concordata cessazione delle ostilità, una sorta di processo di inclusività sociale che comprenda le principali istanze politiche, istituzionali e della società civile, nonché quelle religiose - cioè, anche quelle islamiche - che siano disponibili al dialogo. È un obiettivo difficile, ma penso sia la sola che oggi può offrire la possibilità concreta di una riapertura consistente di una prospettiva di pace.
La Presidenza tedesca ha riunito a Bruxelles, il 3 gennaio scorso, il Gruppo europeo di contatto. In quella sede, al di là di alcune diversità di posizioni, che però non sono nuove (non era stata chiamata e quindi non era presente la rappresentanza degli Stati Uniti e certo la Gran Bretagna ha fatto registrare toni diversi), si è però riscontrata una sostanziale convergenza (in seguito dirò qualcosa anche sul Gruppo di contatto, che si è invece riunito in forma allargata, piena, il 5 gennaio, a Nairobi) sia sui fattori di preoccupazione, sia sulle urgenze, prima fra tutte il rilancio della riconciliazione nazionale, in seno alle istituzioni federali transitorie e nel più ampio ambito della società somala, all'insegna di una visibile insclusività che dal vertice si estenda all'intero territorio somalo.
Il secondo obiettivo concordato nella riunione di Bruxelles riguarda il perseguimento del rientro delle truppe etiopiche in Etiopia il più presto possibile. Anche su questo punto, le parole non debbono tradire - per non essere così precise - lo scopo. Infatti, anche in questo caso, non tutte le forze hanno espresso con la stessa nettezza della Norvegia, che ha usato parole a nostro parere convincenti, parlando di invasione dell'Etiopia, temi e termini diversi. L'importante è, oggi, dire che prospettiva abbiamo e, quindi, che cosa dobbiamo fare affinché non si determini un'occupazione indotta dalla necessità.
Quando ho parlato della difficile situazione del contributo finanziario per le truppe IGASOM allargate, mi riferivo anche a questo, cioè, al fatto che se non si trova un modo - anche da parte nostra - di contribuire ad una forza di interposizione, di pacificazione a supporto del processo politico, non in sostituzione di esso, si può determinare un'opzione con due corni entrambi negativi: la permanenza, foriera di una difficile situazione di pacificazione, quindi con rischi evidenti, oppure un rientro dell'Etiopia, posto che, per la parte che li interessa, sono in una difficile situazione, oggettivamente determinatasi. Quindi, è emerso a Bruxelles un certo interesse a lavorare in modo convergente per determinare una ripresa del processo politico e, quindi, della natura politica dell'intervento nei confronti delle autorità transitorie e anche di un'operazione IGASOM allargata. Un certo consenso deriva anche perché c'è il riconoscimento della necessità di una stretta condizionalità fra il dispiegamento della missione di pace e l'impegno delle autorità transitorie verso un governo rappresentativo.
Su questa scorta il 5 gennaio si è riunito a Nairobi il Gruppo internazionale di contatto, che deve lavorare affinché la determinazione contenuta nel comunicato finale venga recepita anche dal Consiglio di sicurezza nella ridefinizione della prossima nuova risoluzione, che non può però mettere in discussione il fondamento molto discusso della vecchia risoluzione n. 1725. Il passaggio qualificante è il seguente: «se il sostegno internazionale vorrà essere efficace, è essenziale che un processo inclusivo di dialogo politico e riconciliazione - che comprenda rappresentanti clanici, religiosi, della comunità d'affari, delle donne e di altri gruppi politici che rifiutano la violenza e l'estremismo - sia attivato senza alcun ritardo».
Questa è dunque la chiave della comune strategia politica sulla quale occorre lavorare in queste ore con la massima disponibilità ed efficacia.
Nel Gruppo di contatto abbiamo sostenuto che la situazione attuale presenta possibilità ma anche grandi rischi e che la sconfitta militare delle Corti islamiche non comporta di per sé - lo dico in modo chiaro perché sulla stampa avete letto molte affermazioni diverse dalla posizione che voglio manifestare oggi - la soluzione


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politica del problema. Infatti, la fine del modello organizzativo rappresentato dalle Corti non è di per sé né il dissolvimento (a cui facevo riferimento all'inizio) né la scomparsa del movimento islamico e neppure il rafforzamento delle autorità transitorie. Si rende, quindi, necessaria la continuazione della formula che propende per un allargamento del negoziato per l'accordo, senza il quale nessuna misura di stabilizzazione, anche con il supporto di una forza di interposizione, potrebbe essere realmente efficace.
Abbiamo sottolineato la necessità di tradurre il principio del dialogo, peraltro anche affermato nell'intervento del Presidente Yusuf, affinché possa muoversi attorno a cinque elementi. Primo: la riconciliazione delle istituzioni, con la creazione delle condizioni perché il Parlamento, con tutti i suoi rappresentanti, possa riunirsi anche a Mogadiscio. Secondo: la costituzione di amministrazioni locali rappresentative, nominate da un processo partecipato che parta dal basso, a partire dalla regione del Benadir-Mogadiscio. È questo un punto, per quello che ho potuto rilevare, importante. Terzo: identificazione di un nuovo percorso; non è, infatti, ipotizzabile semplicemente il ritorno a Khartoum; dopo la scomparsa delle Corti ciò non sembra possibile, almeno per ora, ma occorre cercare di instaurare un dialogo fra le istituzioni e le realtà non ancora adeguatamente rappresentate per favorire l'emersione della componente politica del movimento islamico. Quarto: l'esclusione di forme di disarmo della popolazione semplicemente coercitive, in quanto ciò non darebbe alcun seguito positivo, privilegiando invece il ruolo delle amministrazioni locali, che, una volta istituite, possono costituire gli elementi primari del processo di disarmo. Quinto e ultimo elemento: la necessità di evitare ogni forma di legislazione marziale o di emergenza.
Questa nostra impostazione ha ricevuto una forma di accordo, esplicita da alcuni partner, meno da altri, per i motivi che richiamavo prima (accentuazioni, diversificazioni interne eccetera), ma, dopo un lungo dibattito, si è riusciti a far approvare da tutto il Gruppo di continuità - quindi non solo il livello europeo - quella formulazione che vi ho letto precedentemente, che ci sembra rappresenti un passo in avanti, in quanto consente di avere a disposizione una piattaforma coerente con le posizioni sostenute dall'Unione europea e dall'Italia negli ultimi mesi. Viene salvaguardato, infatti, il principio di condizionabilità per il supporto internazionale collegato alla prosecuzione del dialogo e della riconciliazione. È richiamata la risoluzione n. 1725, nella parte che, come spirito, può essere ancora presa in considerazione per l'attuazione della prossima.
Vi segnalo ancora che lo sviluppo delle recenti vicende ha confermato la validità del nostro approccio. L'esempio più evidente della preoccupazione riguardante il rischio di una implosione e di un'ulteriore precipitazione è stato fornito in questi giorni dalle manifestazioni popolari anti-etiopiche scoppiate a Mogadiscio. Sono personalmente turbata per questo, perché quando parlammo recentemente ad Addis Abeba sembrava che i nostri interlocutori, tra questi anche il rappresentante del Ministero degli esteri ed il suo vice, fossero quasi costretti a scegliere l'opzione militare anche quando noi cercavamo di segnalare che si sarebbero messi in un vicolo cieco. Eravamo interessanti per loro, nel senso che l'Italia è vista bene dall'Etiopia come partner politico o per la cooperazione, ma non siamo riusciti a distoglierli dai loro propositi.
Ora, senza fare come quelli che cadono dal pero, conosciamo bene le pressioni a livello internazionale che sta subendo l'Etiopia, anche rispetto ai rapporti con gli Stati Uniti, ciò nondimeno credo che non dobbiamo cessare di percorrere la strada dell'aiuto alle popolazioni e della ripresa del dialogo politico.
Al riguardo mi sembra sia stata utile l'iniziativa assunta dalla società civile - lo segnalo perché non l'ho vista emergere neppure dalla stampa - nei giorni precedenti all'entrata per così dire nel canale di queste ultime vicende. Si è costituito un comitato di cittadini, un gruppo, con lo scopo di minimizzare il rischio rappresentato


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dalla presenza etiopica, che possa fungere da interlocutore delle autorità transitorie. A mio parere l'operazione non è banale. Non si può certo parlare di una società civile che riprende di nuovo uno spirito ed un afflato unitario, se prima abbiamo parlato di divisioni claniche, ma vi è comunque un'indicazione che mi pare valga la pena di prendere in considerazione per dare un ulteriore sostegno. Fanno parte di questo comitato rappresentanti di organizzazioni della società civile operanti da tempo (intellettuali, uomini d'affari, leader tradizionali, rappresentanti di alcune comunità religiose); alcuni di questi sono collegati al mondo delle Corti. Lo voglio ricordare in questa sede perché anche quando segnaliamo la divisione esistente nei toni, anche se non ancora trasfusa - mi auguro - nella risoluzione finale del Consiglio di sicurezza, abbiamo un atteggiamento un po' diverso da parte degli Stati Uniti rispetto a quello rappresentato all'inizio. La stessa rappresentante del Dipartimento di Stato americano, la signora Frazer, si è recata in visita nello Yemen, dove ha incontrato anche alcune rappresentanze di quelle che chiamiamo Corti islamiche. Durante questa visita ella ha detto di ritenere indispensabile un dialogo con rappresentanti delle Corti, anche perché esse hanno dimostrato nei mesi scorsi di essere in grado di mantenere un certo grado di sicurezza in Somalia.
In questi giorni il giornale la Repubblica ha dato un resoconto di alcune situazioni molto delicate e difficili, ma certo alcune «speranze di sicurezza» erano state presentate qualche tempo fa a Mogadiscio. Il problema vero è che neppure le Corti, in realtà, hanno dimostrato nel tempo di «tenere»; è questa un'altra grande difficoltà che abbiamo di fronte: difficoltà del Governo transitorio per le cose che si dicevano, ma anche altre.
Domenica scorsa, la stessa signora Frazer ha incontrato anche lo speaker del Parlamento somalo che dovrebbe, peraltro, recarsi in Italia per un colloquio; anche in quella occasione vi è stato un certo incoraggiamento a riprendere il dialogo ed a perseguire la riconciliazione all'interno di quel processo. Anche la CNN ha dato ampia notizia dell'incontro tra la signora Frazer e Sharif, sottolineando le dichiarazioni rilasciate dallo speaker che ha chiesto la cessazione generale delle ostilità, il dispiegamento della forza di pace internazionale ed ha invitato i rappresentanti delle Corti ad accettare il dialogo con le istituzioni, anche a fronte della nuova situazione che si è creata.
Vorrei concludere con una nota preoccupante. Le notizie pervenute sono comunque complicate: guai ad essere generosamente predisposti alla ripresa del dialogo e della riconciliazione, a prescindere da tutte le problematicità emerse. Difficile, complessa e drammatica è la situazione della popolazione dal lato umanitario. Siamo anche intervenuti recentemente, ieri e l'altro ieri, con l'invio di alcuni beni di prima necessità. Addirittura, sembra vi siano alcune modifiche al regolamento parlamentare per rendere possibile la rimozione dello speaker (sarebbe drammatico in questo momento se ciò avvenisse), nonché la sospensione delle garanzie parlamentari.
Ci è stato segnalato un fatto molto grave, effetto di tale atteggiamento: il ministro degli esteri del Kenya, su pressione delle autorità transitorie, ha minacciato di espellere 25 parlamentari somali, attualmente a Nairobi, in seguito ad una conferenza stampa, nella quale essi avevano pesantemente criticato le dichiarazioni del vice primo ministro Aidid, secondo le quali sarebbe stato ormai possibile abolire i passaporti e le frontiere tra la Somalia e l'Etiopia, dichiarazioni che, tra l'altro, erano state apertamente criticate anche da alcuni rappresentanti delle autorità transitorie. Insomma, vi sono alcuni segnali non solo preoccupanti ma che ci auguriamo non vengano più riproposti, come l'incidente al neogovernatore della regione Hiran, nominato dalle autorità transitorie dopo lo sconfitta delle Corti ad opera degli etiopici. Il governatore Afrah si era rifiutato di consegnare agli etiopici il leader islamico Mohomood che si era arreso spontaneamente nei giorni precedenti.


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Tale posizione è stata supportata da un documento sottoscritto dagli anziani e dai capi tradizionali, nel quale veniva fornita un'attestazione di buona condotta del ricercato. Per tutta risposta il governatore è stato arrestato e tradotto al quartier generale etiopico, provocando la protesta della popolazione e, quindi, anche morti e feriti.
Per questo dobbiamo essere molto attenti e cauti, ma anche molto determinati.
A ciò si aggiunga il rientro in Somalia di tutti quelli che abbiamo chiamato i signori della guerra (sembravano scomparsi, ma, in realtà, esistono, ci sono, tornano). Per questo motivo dobbiamo lavorare e spingere perché anche la predisposizione di una forza di interposizione possa essere accompagnata da una ripresa del dialogo a favore della riconciliazione. Lo abbiamo sostenuto a Bruxelles, a Nairobi e lo sosteniamo in questa sede; lo facciamo presente in tutti i modi, anche attraverso la rete delle nostre ambasciate.
Questa è la situazione: molto delicata e difficile. Abbiamo alcune carte politiche in mano: cerchiamo di giocarle. Speriamo che la situazione possa ritrovare un andamento positivo. Peraltro, nella regione dei grandi laghi il processo elettivo che si è concluso (vedremo come si dispiegherà la situazione relativamente al Congo) in un certo senso ci conforta. Successivamente, se lo credete opportuno, potrò tornare con una relazione anche più ampia sul Darfur ed il Sudan.
Bashir ha mostrato una certa disponibilità rispetto alla forza dell'Unione africana, implementata anche con le forze ONU, e ciò può dare risultati migliori del passato.

PRESIDENTE. Grazie vice ministro Sentinelli per la sua relazione. Passiamo ora agli interventi dei colleghi.

ALESSANDRO FORLANI. Ringrazio il vice ministro Sentinelli per la relazione così ampia e precisa che ha investito tutti gli aspetti rilevanti di questa situazione così complessa e che si protrae ormai da lungo tempo, con alterne vicende, in un quadro sempre più drammatico e difficile da decifrare. Ciò rende ancor più apprezzabile la relazione e la sintesi.
Condivido in larga misura l'analisi svolta rispetto alle prospettive ed alle iniziative da porre in essere, in seguito agli ultimi sviluppi della situazione. Mi sembra che nella direzione indicata dal nostro Governo si intendano muovere anche le autorità locali, come emerge dai segnali riscontrati.
Questa vittoria deve essere considerata (al riguardo, condivido le affermazioni del vice ministro Sentinelli) un evento temporaneo; in queste condizioni, infatti, la repressione dei vari movimenti non presenta mai un carattere definitivo ed, in mancanza di una soluzione politica credibile e condivisa, può tornare a riaccendere i conflitti.
Oggi il portavoce del Governo si apre ai rappresentanti moderati dell'alleanza e li invita a collaborare alla nuova fase di ricostruzione istituzionale e materiale del paese, a condizione che vengano deposte le armi e che si realizzi il disarmo. Anche il Primo ministro Gedi intende escludere tutti coloro che si sono macchiati di atti di terrorismo internazionale o che si attestano su posizioni particolarmente estreme. Ciò coincide con le pressioni degli Stati Uniti e dell'Europa, anche con riferimento ai colloqui ricordati dal rappresentante del Governo con il segretario di Stato per l'Africa Frazer.
Dopo anni di conflitto, di polverizzazione del paese, di sua destrutturazione internazionale, di alterne vicende tra le forze in campo, credo che l'unica soluzione sia quella di coinvolgere le rappresentanze moderate delle Corti, e quella parte dei cosiddetti signori della guerra che evidenzino intenti costruttivi e non di prevaricazione. Anche queste sono forze imprescindibili, di cui difficilmente, in questa fase, si potrebbe fare a meno, dato il sofferto e sparpagliato assetto sociale del paese. Vi è l'esigenza che, previa la forza d'interposizione ed il ruolo dell'Unione africana per garantire la pacificazione, non insorgano e si evidenzino intenti di condizionamento stranieri che potrebbero


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riaprire le conflittualità e ledere quel minimo di credibilità ed autorevolezza che le istituzioni provvisorie, nella tripartizione indicata, possono ancora vantare.
Nelle settimane scorse, il primo ministro etiopico, Zenawi, ha dichiarato come suo unico intento quello di intervenire per garantire la pacificazione del paese e l'effettivo esercizio da parte del Governo transitorio della sua autorità, assicurando che, subito dopo, le truppe etiopi si sarebbero ritirate senza cercare di interferire nella fase successiva. Mi auguro che tale impegno sia mantenuto e non si evidenzino da parte dell'Etiopia volontà egemoniche o di intromissione, che non farebbero altro che giustificare nuovi intenti di destabilizzazione e di guerra civile. Il ruolo della comunità internazionale deve essere di interposizione e di garanzia della pacificazione.
È necessaria, inoltre, la coesione di tutte le forze in campo che evidenzino intenti costruttivi ed abbiano a cuore la ricostruzione del paese e l'eliminazione di qualsiasi volontà di guerra civile e di prevaricazione etnica, culturale o religiosa, con il tentativo (uno dei compiti che potrebbe essere della forza d'interposizione) di epurare tra le forze che parteciperanno alla ricostruzione le propaggini di Al Qaeda o del terrorismo internazionale islamico.

SABINA SINISCALCHI. Ringrazio a nome del gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea la vice ministro Sentinelli per il suo intervento e, soprattutto, perché si sta dimostrando che il Governo italiano si espone e si coinvolge direttamente nel dramma di una popolazione che dura ormai da sedici anni, di fronte al quale vi sono responsabilità dell'Europa e, in generale, dei paesi occidentali, se non altro la responsabilità di aver abbandonato a se stessa la Somalia e di avere chiuso i «rubinetti» della cooperazione (la Somalia ha ricevuto negli ultimi anni il minimo degli aiuti).
Condividiamo i cinque punti esposti dalla vice ministro come tipologia di intervento in una regione così difficile e destabilizzata, in cui la posizione dell'Europa e degli Stati Uniti è stata o di indifferenza e presa di distanza o di contributo alla destabilizzazione. L'Etiopia è il paese africano che riceve i maggiori aiuti militari dagli Stati Uniti. Dialogo e riconciliazione devono essere le parole d'ordine, come ricordava la rappresentante del Governo: siamo pienamente e fermamente d'accordo. Non bisogna mai abbandonare la via della politica e della diplomazia. In ogni area del mondo, l'opzione militare si sta dimostrando fallimentare. Questa deve essere la posizione del Governo. Siamo favorevoli al ripristino della legalità, della salvaguardia e della tutela del diritto anche in quei paesi, come negli altri paesi del mondo, e siamo favorevoli al principio generale, ricordato dalla vice ministro, dell'applicazione piena e del ripristino della Carta costitutiva delle Nazioni unite e della riduzione del ricorso all'uso della forza sia in generale sia in particolare nella regione considerata.
Sosteniamo il Governo sulla strada intrapresa. Vorremmo che vi fosse un impegno anche sotto il profilo delle risorse da destinare al paese per favorire, in particolare, la ricostituzione di una società civile che, com'è stato ricordato dal collega Forlani, è stata frantumata e distrutta negli ultimi sedici anni. Vediamo con favore ogni intervento che sostenga le organizzazioni della società civile, in particolare le organizzazioni delle donne ed i comitati dei cittadini. Vorremmo che fosse condannata la repressione della manifestazione antietiopica che vi è stata e ci auguriamo che il ripristino del diritto ed il sostegno al dialogo significhi anche una diminuzione della violazione dei diritti umani che, in quel paese, si mantiene molto alta.

PIETRO MARCENARO. Anche noi abbiamo trovato soddisfacente l'intervento del rappresentante del Governo, il vice ministro Patrizia Sentinelli. Siamo di fronte ad una situazione che dimostra, in primo luogo, che la soluzione emersa dal tormentato e faticoso processo del tentativo di riconciliazione, svoltosi a Nairobi,


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era strutturalmente debole ed incapace di garantire alla Somalia la stabilità e la possibilità di ricostruzione dei lineamenti di uno Stato e della sua credibilità.
Abbiamo assistito per una lunga fase ad una situazione in cui il Governo transitorio non aveva alcun potere sull'insieme del territorio somalo. La Somalia ha continuato ad essere, anche dopo la conclusione della conferenza di Nairobi, un paese senza stato, senza leggi, senza garanzie. In questo quadro, l'avanzata ed il successo delle Corti islamiche ha avuto, per una certa fase, il riscontro di un atteggiamento favorevole da parte di strati importanti della popolazione. Non bisogna dimenticare, infatti, che il carattere islamico della Somalia non è recente. La Somalia è un paese islamico dal 1200, 1300 circa, un islamismo che non ha mai presentato, nell'epoca moderna, i tratti del fondamentalismo, ma è profondamente radicato. Come sappiamo, nella linea e nel modo in cui le Corti islamiche si sono presentate vi sono state svolte ed un elemento di rottura, un vero e proprio cambiamento e quelli che sembravano interlocutori possibili si sono presentati in altra veste.
Oggi, la situazione è tale perché determinata dall'intervento militare di una forza che non è quella del Governo transitorio, ma di una nazione straniera che, oltre a tutte le questioni di principio che ciò solleva, è, per prima, conscia di non essere in grado di sostenere per molto tempo un impegno militare di quel tipo, esponendosi alle possibili conseguenze. La Somalia, nonostante sia un paese diviso in clan, è una nazione somala, nel senso che la popolazione è costituita da somali.
Invece, l'Etiopia è un insieme di popolazioni, e non solo di clan; quindi, l'apertura di tensioni e di contraddizioni, come quelle che potrebbero derivare da una prolungata presenza militare e dall'esplosione di forme di conflitto da essa determinate, potrebbe produrre conseguenze difficilmente immaginabili. Tuttavia, se questa è la situazione, la linea emersa dalla relazione svolta dal vice ministro Sentinelli mi sembra condivisibile.
Provo ad aggiungere soltanto un ulteriore elemento. Penso che la comunità internazionale dovrebbe affermare, con chiarezza, che bisogna costruire le condizioni per riavviare non più a Nairobi, ma a Mogadiscio un processo di dialogo volto, attraverso appositi accordi, alla ricostruzione costituzionale e statuale di quel paese. Mi riferisco a quel processo che proprio a Nairobi era stato interrotto e che aveva prodotto un risultato che si era dimostrato insufficiente.
In tale ambito, occorrerebbe mettere in primo piano, nettamente, una proposta politica finalizzata alla ricostruzione, attraverso il concorso di tutte le forze, comprese quelle parti delle Corti islamiche (o comunque una parte di quel mondo) che rappresentano un aspetto significativo della realtà somala. Ciò perché ritengo che l'idea che il problema delle presenze islamiste in Somalia possa essere risolto con la forza - si tratta di una vecchia idea, perché ricordo che nel 1974, sulla base di tale convinzione, Siad Barre fece giustiziare, in una notte, dodici rappresentanti del mondo islamico - non possa avere successo.
Per questo motivo, pensiamo che, in tale quadro, oggi sussistano le condizioni affinché la comunità internazionale possa svolgere un ruolo e condizionare il suo intervento, di cui si avverte la necessità, all'avvio di un processo politico che vada in questa direzione e che consenta di riprendere il confronto. Ciò perché, in caso contrario, non riemergerebbe un nuovo Stato dominato dai «signori della guerra», ma vi sarebbe il ritorno ad una situazione di caos, in assenza degli elementi statuali necessari.
Per quanto riguarda quest'ultimo punto, mi sembra che vi sia un problema che riguarda in maniera particolare l'Italia. Come è stato già affermato, vi è indubbiamente un orientamento del Governo italiano in tale direzione, nel quadro di un'iniziativa della comunità internazionale. Tuttavia, desidero sottolineare la circostanza che in quel paese, per una serie di ragioni anche storiche, abbiamo responsabilità particolari e specifiche.


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Pertanto, chiediamo al Governo di valutare se non sussistano le condizioni affinché possa essere assunta, in questo quadro, un'iniziativa italiana, rafforzata dalla consapevolezza di tali responsabilità, nonché dal ruolo che essa può svolgere in questa situazione. Ci sembrano infatti questi, a nostro avviso, gli aspetti essenziali della discussione su un tema così delicato e difficile da affrontare.

GIANCARLO GIORGETTI. Signor presidente, ringrazio anch'io il vice ministro Sentinelli per la sua relazione.
Vorrei subito affermare che concordo sugli auspici formulati, ma sono assolutamente in disaccordo riguardo al giudizio che viene espresso in ordine alle ultime vicende, in particolare sull'intervento etiopico. Ciò perché, molto semplicemente, penso che quanto è accaduto nell'ultima settimana si possa interpretare nel modo seguente, e si deve avere anche il coraggio di dirlo. Uno Stato straniero, l'Etiopia, si è intromesso in vicende interne somale in un modo chiaramente ispirato da qualche interesse, anche sovranazionale. Mentre ritengo sia un interesse anche italiano che non si realizzi la possibilità che si instauri un nuovo stato islamico non democratico, il quale potrebbe pericolosamente degenerare in qualche forma di «stato-canaglia».
Credo, quindi, che sia questa la chiave di lettura per comprendere quanto è successo in queste settimane. Dopodiché, è chiaro che anche noi siamo assolutamente favorevoli alla creazione di uno stato possibilmente non «centralista», poiché tale assetto non può essere assolutamente prefigurato per una nazione come quella somala: credo che se qualcuno avesse in mente di creare condizioni di questo tipo, dovrebbe lasciare spazio alla realtà!
Siamo altresì favorevoli all'inclusione di tutti i corpi sociali e di tutte le religioni, comprese quelle parti delle Corti islamiche che non fiancheggino il terrorismo. Crediamo comunque che oggi, 8 gennaio 2007, questo processo sia maggiormente praticabile rispetto alla situazione esistente una settimana fa. Ciò, infatti, potrà realizzarsi nella misura in cui sarà possibile tagliare le unghie a certi «signori della guerra» ed a certe frange delle Corti islamiche e nel momento in cui anche il presidente Yusuf (se la notizia fosse confermata) potrà finalmente tornare a Mogadiscio, dopo anni in cui era impossibilitato a farlo.
Penso, allora, che un intervento che forse è sanzionabile dal punto di vista del diritto internazionale - ma sappiamo che, negli ultimi anni, il diritto internazionale è stato «tirato» un po' come un elastico! - abbia creato le condizioni per avviare un processo che conduca una condizione di «democrazia compatibile», migliorando anche la situazione della popolazione somala.

IACOPO VENIER. Signor presidente, non posso iniziare ad affrontare il tema della Somalia senza rilevare che tutti noi dovremmo sempre riconoscere che si tratta di un paese in cui l'Italia ha svolto un ruolo nefasto al tempo del colonialismo e nei confronti del quale abbiamo sicuramente responsabilità storiche.
Per questo motivo, dobbiamo prestare un'attenzione particolare nella costruzione di un percorso volto alla definizione di uno Stato somalo, il quale, in questi ultimi decenni, non si è realizzato anche per responsabilità della stessa comunità internazionale, la quale è già intervenuta in modo errato sulla situazione somala, peggiorando la realtà esistente.
Quindi, credo che anche il nostro Governo farebbe bene a tenere sempre in considerazione la necessità di esprimere chiaramente, con riferimento alle relazioni con quel paese, un giudizio sulle esperienze sia passate, sia più recenti - comprese quelle condizionate da interventi esterni e da logiche esterne di guerra - volte a risolvere i problemi interni. Tali problemi, come è stato detto benissimo dal vice ministro Sentinelli, hanno bisogno, invece, di dialogo, di costruzione politica, di partecipazione di nuove soggettività e dell'ingresso in campo di nuove energie. Ciò per superare quelli che sono stati, all'interno della Somalia, i riferimenti anche


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di parti della comunità internazionale e di Stati esteri, non solo africani, per controllarne la dinamica interna.
Per questo motivo, il gruppo dei Comunisti italiani ed io personalmente abbiamo apprezzato moltissimo l'intervento svolto dal vice ministro degli affari esteri, in particolare quando ha ribadito la necessità di affermare il principio della legalità internazionale, che non può essere «tirato». Noi, infatti, abbiamo la responsabilità di non «tirarlo» come un elastico e di farne veramente un principio da rispettare: pertanto, dobbiamo condannare, a prescindere dai soggetti e dagli interessi che stanno dietro un'eventuale invasione, tutte le invasioni.
Il rispetto degli Stati in quanto tali, infatti, è uno dei principi che ci consentono di lavorare per favorire la stabilità internazionale. Bisogna far sì che vi sia il diritto e non solo l'uso della forza: per questo motivo, la condanna dell'invasione etiope, sostenuta dagli Stati Uniti, costituisce un dovere per un paese che si richiami alla Carta delle Nazioni Unite. Allo stesso tempo, vorrei evidenziare che il nostro paese, rispetto all'obiettivo di avviare un intervento che favorisca la costruzione di un futuro migliore per la popolazione somala, deve assumere un atteggiamento responsabile.
È stato affermato che il ritorno dei signori della guerra non rappresenta una soluzione, ma è la condizione attuale.
Credo che la vicenda somala, in cui si è pensato di potersi affidare ai signori della guerra - come, ad esempio, in Afghanistan - per stabilizzare un paese, dopo un'esperienza terrificante, come quella dei talebani - anche in quel caso di un integralismo islamico esasperato -, evochi realtà presenti anche in altri Stati.
Ciò non ha prodotto alcun effetto. Infatti, ciò che dobbiamo ottenere è la scesa in campo, da protagonisti, di nuovi soggetti che rompano lo schema di guerra, di distruzione e di controllo tribale e vadano verso l'affermazione di quei principi, che - sono d'accordo - erano presenti nel processo di Nairobi, nella costruzione dell'architettura istituzionale, che tenga conto delle realtà, ma che indichi una prospettiva diversa da quella della certificazione dei rapporti tribali o religiosi, che è fallita in Libano e che fallirà in Somalia e in Iraq, quando vuole essere affermata come elemento della costruzione di una presunta identità che affida a forme prepolitiche la rappresentanza e la soggettualità della società civile.
Sosteniamo l'azione del nostro Governo con tali sollecitazioni. Vedrei bene anche un riferimento alle relazioni nuovamente tese tra Etiopia e Eritrea che sono sullo fondo dell'intervento etiope in Somalia ed esplicitamente richiamate nel giustificare questo tipo di intervento. Infatti, l'intera area è instabile e deve trovare una sistemazione sulla base del principio della legalità e dell'intervento internazionale.
In questo senso, non si dovrebbe escludere per principio un coinvolgimento italiano in una iniziativa internazionale in Somalia, nonostante il giudizio, secondo me molto netto, che era stato espresso sulle esperienze precedenti, anche dal punto di vista operativo, sul campo, della presenza italiana anche nelle ultime operazioni internazionali. Tuttavia, questo eventuale coinvolgimento e questa prospettiva devono essere inquadrati in un giudizio molto fermo su ciò che stiamo realizzando e sugli obiettivi che dobbiamo affermare; mai confondere la rappresentazione della realtà con la realtà. Infatti, se si vuole sconfiggere (e questo è il nostro obiettivo) l'ipotesi che sia l'integralismo islamico a dare un'alternativa ai signori della guerra o alle presenze straniere sul territorio, bisogna anche sapere che, quando ci presentiamo a queste popolazioni, non possiamo mostrarci con la forza delle armi o della violazione dei principi di sovranità, che generano, come ha indicato il vice ministro, problemi e pericoli maggiori di quelli che proclamano di volere evitare.

LEOLUCA ORLANDO. Signor presidente, intervengo brevemente per unirmi all'apprezzamento nei confronti della relazione svolta dal vice ministro e per esprimere condivisione per le scelte del


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Governo sin qui fatte. Credo sia l'ennesimo esempio del tentativo, per il nostro paese, di svolgere un ruolo positivo, anche in questa Commissione.
Le scelte e l'entità della nostra presenza sono nei cinque punti espressi dalla signora vice ministro. Non aggiungo altri commenti.
Vorrei porre soltanto una semplice domanda, probabilmente ingenua, ma credo sia rimasta nell'aria di questo confronto, a partire dall'affermazione dell'onorevole Forlani. Mi chiedo quale sia il livello di collegamento (che risulta, rispetto alle informazioni che si hanno, al di la di ciò che appare sulla stampa) delle Corti islamiche con Al Qaeda e, in particolare, se vi sia un livello di forte identificazione o se, invece, è da ritenere che la dimensione della realtà somala, in qualche modo, attenui questo collegamento con Al Qaeda. Credo che la risposta a questa domanda sia essenziale.
Probabilmente, da questo dipende la possibilità di praticare una forma di interposizione tra la realtà islamica somala e Al Qaeda. C'è una forma di sganciamento, se questo è ancora possibile. È evidente che il tempo che passa e gli eventuali insuccessi del dialogo, inevitabilmente, se quel contatto non è forte, lo renderanno tale.
La domanda è la seguente: allo stato degli atti, quel contatto è ritenuto dagli osservatori molto forte o è attenuato dalla dimensione statuale somala?

BRUNO MELLANO. Vice ministro, vorrei rivolgerle soltanto alcune domande. Innanzitutto, esprimo un apprezzamento per il suo intervento, che è stato sia di sintesi sia di grande respiro, ma, a mio giudizio, ha lasciato da parte, evocandola, ma non approfondendola, l'interlocuzione con gli Stati Uniti d'America e con l'Inghilterra; ha detto che, anche a livello della riunione europea del Gruppo di contatto, vi è stata una diversità di visioni e di sottolineature. Anche a seguito dell'intervento del collega Venier, credo che questo sia un nodo da dipanare e credo sia responsabilità del nostro Governo aprire un confronto che deve essere alto e nobile, ma anche chiaro rispetto ad un situazione, come quella del Corno d'Africa, che, indubbiamente, non è una crisi territoriale, locale, ma rischia, per le cose dette ora dal collega Orlando e richiamate prima dal collega Forlani, di svilupparsi all'interno di una destabilizzazione globale che vede nel terrorismo internazionale la continua ricerca di sedi e di locazioni territoriali come base di partenza per le proprie attività criminose.
Vorrei richiedere anch'io un approfondimento rispetto alle relazioni con gli alleati, gli amici americani ed inglesi, e rispetto ad una situazione locale e non.
Ultima considerazione riguarda un modello di intervento assolutamente condivisibile, ma che rischia di riproporre uno schema nazionale e statuale ottocentesco che sicuramente va stretto a noi, Stati europei, ma rischia di andare strettissimo a realtà molto più magmatiche e complicate (la complicazione l'ha descritta benissimo lei precedentemente). Mi chiedo come affrontare, anche dal punto di vista intellettuale e progettuale, una richiesta di autorità territoriale che, a mio giudizio, non può essere ricondotta ad una autorità statuale nazionale, poiché occorre tenere assieme realtà territoriali statuali e di popolazione molto diverse, molto allargate, che richiedono un intervento non solo politico, non solo sulla sicurezza, ma anche ideale, progettuale e di più ampio respiro.

TANA DE ZULUETA. Signor presidente, anch'io, molto rapidamente, vorrei ringraziare il vice ministro Sentinelli per la chiara esposizione di una posizione del Governo italiano che condividiamo in pieno, a cominciare dalla centralità della Carta delle Nazioni unite nell'impostazione di politiche di sicurezza.
Credo che i cinque punti che lei, vice ministro, ha elencato siano importanti e molto condivisibili come percorso. Per la verità, sono stata incuriosita dalla differenza di accento cui lei ha accennato per quanto riguarda la posizione della Gran Bretagna nel Gruppo di contatto. È importante


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capire che qual è l'intento strategico sia della Gran Bretagna sia degli Stati Uniti, non solo per il fortissimo sostegno che gli Stati Uniti hanno dato all'Etiopia nella sua iniziativa di occupare la Somalia, ma anche per via della presenza di due parti importanti della Somalia che, attualmente, hanno una specie di sovranità propria, il Puntland ed il Somaliland, che coincidono con le zone di cui si era appropriata la Gran Bretagna. I vecchi giochi coloniali si sono riprodotti nella geografia attuale, ma è molto importante che essi non si autoriproducano nel percorso di statualizzazione della Somalia.
Vorrei anche capire nel dialogo - evidentemente stretto - con il Governo dell'Etiopia, se abbiamo qualche idea della loro condizionalità per quanto riguarda l'obiettivo. Noi sappiamo, in base alle dichiarazioni che hanno fatto, che sono consapevoli dei rischi di una presenza prolungata, ma hanno bisogno di garanzie. Invece, lei non ci ha fornito molte prospettive immediate circa l'arrivo di una forza internazionale che potrebbe sostituirli. Non so se siano fondate le voci che parlano dell'ambizione etiopica di avere un accesso garantito al mare, che non derivasse solo da un accordo politico, ma qualcosa di più.
Gli altri giocatori importanti di cui non conosciamo le intenzioni sono l'Eritrea - non so se abbiate avuto dei contatti - e il Kenia. Infatti, ciò che rimane delle milizie - se non sbaglio - è addossato ad un pezzo della frontiera tra Kenia e Somalia (le sorti di qualche centinaio di uomini in quelle zone non sono chiare). Sarebbe importante che la soluzione avvenisse sotto l'egida internazionale, affinché non vi siano atti di rivalsa violenti e soprattutto affinché si possa compiere un primo passo verso quel percorso di riconciliazione di cui lei ha parlato.
Anch'io penso che sia molto importante che il percorso - ammesso che riusciamo ad avviarlo - che porta alla creazione di uno Stato minimo in Somalia non ricalchi degli errori precedenti e, per esempio, non trasformi le milizie in polizia. Mi chiedo se, sul piano europeo - soprattutto con i partner scandinavi, quindi non solo con riferimento all'Unione europea ma anche alla Norvegia che è stata molto attiva in quella parte dell'Africa - vi sia una riflessione su come evitare questo tipo di trappola.
L'ultima domanda riguarda le garanzie per la popolazione civile: la Somalia infatti è stata colpita da devastanti inondazioni. Mi chiedo se vi sia la possibilità di far arrivare cibo ed assistenza medica o se la situazione, anche sul piano della sicurezza, sia troppo compromessa. Sarebbe importante sapere, proprio sul fronte umanitario, se riusciamo ad impostare delle soluzioni che riguardano non solo la capitale, ma anche l'interno.

CLAUDIO AZZOLINI. Desidero innanzitutto ringraziare il dottor Dickman per il lavoro svolto e dargli un cordiale saluto e allo stesso modo rivolgere un affettuoso benvenuto al dottor Di Napoli, consapevole che la sua esperienza non ci farà rimpiangere il passaggio, trattandosi di due consiglieri della stessa levatura professionale.
Ciò detto, esprimo il mio sincero apprezzamento per le cose dette dal vice ministro e per l'esaustiva esposizione che ha fatto, considerato che ci mancava un «panorama del genere». Non scendo nel dettaglio perché il contributo offerto dagli interventi dei colleghi ha fugato alcune mie perplessità. Faccio mie le loro osservazioni così da risparmiarle all'uditorio. Tuttavia, vorrei ricordare che esiste una pubblicazione di cui intelligentemente il collega Marcenaro ha fatto omaggio ad alcuni addetti ai lavori, che è un «bignami» di sintesi della De Agostini: contiene, dal 9 novembre del 1989 ad oggi, «tutto e di più» sul mondo in guerra, su quello in guerriglia e in esagitazione, ma si rintraccia poco e niente sulla Somalia. Evidentemente, esiste un buco da riempire dal 1989 ad oggi: credo sia il caso di adempiere a questa mission e sarei intenzionato a farlo - e questa è la mia sottolineatura - in «salsa» europea, non prescindendo dall'osservazione che faceva poc'anzi la collega De Zulueta rispetto alla posizione


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che i paesi scandinavi hanno in quella zona, sia per gli interessi che possono avere maturato nel tempo, sia per il tipo di contributo che possono offrire ad una coalizione che intervenga per ristabilire, in modo definitivo, la pace e la prosperità.

PRESIDENTE. Do ora la parola al vice ministro Sentinelli per la replica.

PATRIZIA SENTINELLI, Vice ministro degli affari esteri. Vi ringrazio sinceramente. È stata una riunione per me di grande utilità, dalla quale ho tratto dei contributi che possono aiutarci a proseguire sulla nostra strada. Ora potrò essere assolutamente puntuale nel dare le risposte alle domande formulate ed esprimere delle considerazioni aggiuntive rispetto alle proposizioni esposte.
Tra qualche giorno, al mio rientro dall'Africa occidentale - viaggio che ho rinviato di qualche giorno solo per questa audizione -, vi potrò riferire sugli incontri che avremo con le organizzazioni non governative del nostro paese che sono ancora sul campo in Somalia. Faccio riferimento, in particolare, all'Intersos e al CISPE che hanno scritto per invitarci ad un confronto con loro, un confronto che trovo molto utile anche rispetto alle vostre osservazioni e non solo per parlare - come sarà necessario - degli interventi di carattere cooperativo, ma anche per conoscere il punto di vista di chi si trova sul campo. Questa potrebbe essere anche l'occasione per un ulteriore confronto tra noi.
Rispetto ad altre considerazioni - parlo di un'altra riunione, non vado quindi in ordine, ma solo per il contributo che è emerso riprendendo il terreno comune - si è fatto riferimento alla necessità di un confronto più di approfondimento e di merito sulla situazione rispetto al modello istituzionale che a me pare, onorevole Mellano, di grandissimo valore. Non parlo solo della Somalia, in quanto in gran parte dell'Africa ci troviamo di fronte a questa situazione. Mi riferisco all'Africa subsahariana, e ad altre aree dove i Governi istituzionali di tipo centralistico non possono essere la strada da indicare e da seguire. Nel stesso tempo, nel momento in cui affrontiamo il tema del governo locale, dobbiamo sapere che stiamo parlando di situazioni molto delicate e anche lontane dalla storia, dalla cultura, dalla pratica italiana ed europea.
Ciononostante, penso che dovremmo approfondire, anche da un punto di vista politico-culturale questo aspetto. Noi stiamo lavorando per essere concreti su due terreni (parlo della iniziativa che, come Governo, mi compete in questo momento). Mi riferisco, da un lato, al terreno della proposizione teorica, su cui vi farò sapere; è proprio di questi giorni un'ipotesi di lavoro con alcuni esperti e docenti universitari di cui non faccio i nomi perché mi sembrerebbe inopportuno; si tratta di un'indicazione di lavoro al fine di approfondire il tema istituzionale che riguarda l'Africa - e la Somalia in particolare - rispetto al cosiddetto concepimento delle autorità di amministrazione locali. Dall'altro lato, in termini più propriamente politici, vi è un lavoro - di cui parlavo prima - di riconciliazione, così come lo abbiamo chiamato, e di appello alla ricostruzione, che deve necessariamente passare per la valorizzazione delle amministrazioni locali ancora oggi semplicemente indicate, ma per le quali si dovrà arrivare ad un momento elettivo.
Ci dovrà essere questa svolta. Noi ci auguriamo che le cose vadano in un certo modo e ci stiamo impegnando in tal senso.
Per quanto riguarda, invece, la domanda posta dall'onorevole Orlando, concernente una questione seria ed anche importante che ha costituito oggetto della considerazione anche di altri presenti - si tratta della possibile connessione, dai nostri punti di vista, tra le Corti islamiche ed Al Qaeda -, a me pare di poter dire, con grande tranquillità (per quello che si può in politica; comunque, ci si espone formulando giudizi e valutazioni ai quali è certamente connessa la produzione di conseguenze e responsabilità), che non vi è un rapporto fortemente determinato, proprio per le considerazioni che sono state sviluppate in questa sede. Tra gli altri, l'onorevole Marcenaro ne ha fatto un elemento


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di assoluto rilievo del suo intervento: la popolazione somala è tutta musulmana, come a Gibuti, ma per storia e per tradizione è del tutto staccata dalla concezione islamica estremista, radicale.
Ciò nonostante - e questa è una diversità che caratterizza la posizione del Governo (e la mia) rispetto all'onorevole Giorgetti -, la precipitazione degli eventi, alla quale abbiamo assistito in questi giorni, ed eventuali errori che si potrebbero ulteriormente commettere, in una direzione diversa da quella che abbiamo indicato - di un processo di ricostruzione che, benché difficile e faticoso, deve essere allargato alla società civile - potrebbero mettere in pericolo il processo medesimo. Invero, non essere capaci di dare un contributo alla risoluzione dei problemi, anche di ordine materiale (è noto che gran parte della popolazione, non soltanto a Mogadiscio, soffre a causa di una condizione economica e sanitaria difficile, non risolvibile con una semplice pacca sulle spalle, tanto per intenderci, o prefigurando chissà quale intervento); non essere capaci di dare risposte immediate significherebbe alimentare aspettative diverse, fenomeni di ribellione e, magari, anche qualcosa di più.
Per questo motivo, l'intervento e la riconciliazione non riguardano soltanto l'aspetto istituzionale, che pure è fondamentale, ma necessitano di una ripresa sul terreno economico e su quello degli scambi commerciali. Quando, come Governo italiano, abbiamo predicato (anche nella fase precedente) la necessità di favorire il rapporto ed il confronto tra il Governo di transizione, che era allora a Baidoa, e le Corti, che avevano preso Mogadiscio, abbiamo sempre sostenuto che bisognava fare attenzione, perché quella comunità di affari, certamente non legata ad Al Qaeda, richiedeva un intervento positivo. Non a caso, appena arrivate le Corti, erano state ben viste da tutta la comunità l'apertura del porto e quella dell'aeroporto. Quindi, escludiamo, per ora, un rapporto che è così tristemente famoso e pericoloso in altri luoghi, ma siamo consapevoli che dobbiamo lavorare con accortezza e con acutezza.
Poiché è stato ripetutamente chiesto (da ultimo, dall'onorevole De Zulueta) di capire meglio le diverse accentuazioni di toni (almeno, così le ho definite io; potrebbe trattarsi anche di diverse opinioni, ma mi auguro che non si arrivi - ed il nostro lavoro, in questo momento, è volto ad evitare tale risultato - a diverse strategie nell'impostazione del lavoro politico per il Corno d'Africa) di parte dei paesi europei e degli Stati Uniti, voglio essere più precisa al riguardo.
Per non farla troppo lunga, sia perché non ci aiuta la storia passata (anche se si tratta della storia delle relazioni politiche) sia perché occorre avere riguardo all'attualità, agli ultimi incontri di Bruxelles (al quale ho fatto già riferimento) e di Nairobi la Gran Bretagna ha letto l'intervento militare in modo diverso da come lo leggiamo noi ed i norvegesi: quello dell'Etiopia in Somalia viene letto dalla Gran Bretagna come un intervento legittimo, in quanto sollecitato dalla stessa Somalia. La Svezia, invece, come la Norvegia, sostiene, in maniera più opportuna (e più vicina alla nostra posizione), che l'intervento è stato determinato anche dal bisogno dell'Etiopia di garantire la propria sicurezza.
Il tema è molto delicato. Noi crediamo che dobbiamo operare nel modo di cui ho già detto in precedenza. Anche gli onorevoli Venier e De Zulueta hanno fatto riferimento, tra gli altri, alla lettura precisa di un diritto internazionale che non può essere rimesso in discussione per il fatto che qualcuno si sente insicuro. Noi stessi abbiamo affermato che, nella difficile situazione che vive l'Etiopia (Stato, ma non nazione propriamente detta), la sicurezza del paese deve essere garantita della comunità internazionale. Tuttavia, non possiamo permettere che l'articolo 2 della Carta delle Nazioni unite venga tirato da una parte e dall'altra. Quindi, bisogna mettere in moto un processo politico che abbia la grande ambizione di dare a ciascuno la risposta giusta, sul piano pacifico e delle relazioni politiche, non su quello dello stravolgimento operato con i dati di fatto.


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La Gran Bretagna ha avuto l'atteggiamento di cui ho detto ed ha tentato di riproporlo anche a Nairobi. Per alcuni versi, sembravano conformi alcune prime posizioni degli Stati Uniti ma, come ho già detto, si è pervenuti ad una sorta di avvicinamento e di mediazione nella formulazione finale della risoluzione di Nairobi e, dunque, possiamo dire che si è lavorato anche con gli Stati Uniti per avere una strategia univoca.
Segnalo, e sottolineo - mi rivolgo a Venier e ad altri: mi avete dato conforto su questo punto, ma non vorrei tradire la discussione - un aspetto che a me pare rilevante: in questo momento, è importante che l'Italia faccia la sua parte (anzi, tengo a dire che veniamo invitati a farla vieppiù, sia sul piano della proposizione politica sia su quello dell'attività di intervento vera e propria) senza isolarsi dal resto della comunità internazionale, perché un eventuale isolamento, da un lato, darebbe poca soddisfazione e, dall'altro, non produrrebbe alcun risultato. Dunque, dobbiamo tentare - e a me pare che lo stiamo facendo - di lavorare nella direzione che ho più volte indicato: quella della riconciliazione e della pace e, per rispondere in modo molto può pertinente, perché l'Etiopia vada via, sostituita da una forza di interposizione credibile.
Da quest'ultimo punto di vista, è chiaro che dobbiamo fare la nostra parte anche sotto il profilo dei finanziamenti. In caso contrario, per l'Etiopia potrebbe diventare necessario restare, anche se sappiamo che l'Etiopia - rispondo ad una domanda e ad un'osservazione dell'onorevole Marcenaro - non ha, apparentemente, interesse a restare per lungo tempo. Il primo ministro afferma che le truppe etiopiche andranno via tra quindici giorni; in ogni caso, potrebbero anche essere costrette, per così dire, a farlo. La tempestività dell'iniziativa è utile, in questo momento, per favorire un disimpegno e per evitare i rischi di escalation e di provocazioni (che potrebbero essere utilizzate da parte di qualcuno). Inoltre, vi è la necessità di offrire al mondo intero, alla Somalia e, quindi, all'Etiopia un'ipotesi di exit strategy.
Poiché le cose sono terribilmente legate anche alla questione eritrea (ci siamo già occupati del tema, ma lo riprendo), si pone il problema grave della demarcazione dei confini. In particolare, potrebbe essere posta la questione dell'accesso al mare. Affronteremo le situazioni nell'ordine in cui si presenteranno, secondo la priorità anche temporale di cui dobbiamo tenere conto. Per quanto riguarda l'Eritrea, dobbiamo pure chiedere all'Etiopia di fare il passo necessario, perché le risoluzioni del Consiglio di sicurezza valgono anche per loro. Quindi, dobbiamo procedere anche in quella direzione. In questo momento, i rapporti bilaterali tra Italia ed Etiopia debbono essere improntati al riconoscimento di ciò che l'Etiopia deve fare (e la comunità internazionale deve poterne tenere conto).
Tra i partner che, oltre agli Stati Uniti, stanno dalla stessa parte, sia pure con diverse posizioni, vi sono i cosiddetti paesi nordici e, in particolare, la Svezia e la Norvegia. Voi sapete (potremo riprendere l'argomento in altra occasione) che abbiamo proposto, insieme alla Svezia, una conferenza dei donatori per la Somalia, da ospitare nel nostro paese. In questo momento, abbiamo un po' accantonato l'idea (non perché non ci crediamo, ma perché stiamo valutando altre situazioni molto più importanti dal punto di vista di una risposta immediata, dell'emergenza), ma essa rimane sullo sfondo come possibilità da tenere presente.
Quindi, sia la Svezia sia la Norvegia potrebbero essere interessate, insieme a noi, a finanziare consistentemente una forza di interposizione altrimenti non daremmo la possibilità all'Etiopia di ritirarsi; dobbiamo creare le condizioni affinché questo diventi credibile, altrimenti ci ritroveremo tra l'incudine e il martello.
Per ciò che concerne l'intervento umanitario, dobbiamo poterlo fare nei confronti di entrambe le parti perché quando c'è un conflitto la situazione è difficile per tutti. Io mi rendo conto dell'apprensione con cui seguiamo tutte le vicende, sapendo poi che, in alcune zone del paese, non arrivano effettivamente gli aiuti che dovrebbero


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arrivare; per questo motivo ritengo che anche la riunione con le ONG - iniziativa di cui ho parlato all'inizio del mio intervento - possa aiutare a capire rapidamente dove operare e in che modo fare la nostra parte.
In questa situazione - con questo chiudo perché mi sembra di non aver dimenticato nulla - abbiamo la necessità di lavorare politicamente in maniera propositiva; è vero, infatti, che esiste il problema del terrorismo - chiamiamolo così - dell'anarchia, del caos, della ripresa di una guerra civile e di una regressione dei problemi; ciò nondimeno io penso - senza alcuna enfasi di ottimismo inutile - che le condizioni che si sono aperte possano determinare una ripresa, non solo di un nostro ruolo, ma anche di un dialogo che apra qualche spiraglio ad una proposta ed ad una prospettiva positiva per la Somalia.

PRESIDENTE. Ringraziamo il vice ministro Sentinelli, augurandole buon lavoro nel suo viaggio nell'Africa occidentale.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,40.