COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di giovedì 1° febbraio 2007


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE UMBERTO RANIERI

La seduta comincia alle 14,05.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del viceministro per gli affari esteri, Ugo Intini, sulla situazione in Medio Oriente.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del viceministro per gli affari esteri, Ugo Intini, sulla situazione in Medio Oriente.
Do la parola al viceministro Intini.

UGO INTINI, Viceministro per gli affari esteri. Grazie, presidente. In Medio Oriente tutte le crisi sono connesse: quella catastrofica in Iraq, la situazione delicata che si prepara nei rapporti con l'Iran, la crisi palestinese. Quest'ultima siamo soliti definirla la madre di tutte le crisi e, in effetti, è quella in più rapida evoluzione; su di essa, dunque, è possibile e doverosa un'azione urgente della comunità internazionale. Pertanto, di questa vorrei occuparmi innanzitutto, anche perché due settimane fa sono stato a Gerusalemme a incontrare sia gli israeliani che i palestinesi, per cui abbiamo un quadro della situazione abbastanza preciso.
Purtroppo, con un tragico tempismo, al quale ormai siamo abituati, in pochi giorni una nuova esplosione di violenza interpalestinese sembra aver distrutto un castello di risultati che pareva dovesse portare all'atteso accordo tra Fatah e Hamas per la formazione di un Governo di unità nazionale.
Le violenze, iniziate in concomitanza con l'anniversario della vittoria elettorale di Hamas - 25 gennaio 2006 - e che hanno provocato fino ad oggi oltre trenta morti e diverse decine di feriti, hanno spezzato il filo del dialogo che sembrava essere stato avviato con i diversi contatti tra il Presidente dell'ANP e i leader di Hamas, l'ultimo dei quali a Damasco, con Khaled Meshal, appariva preludere ad un'intesa sulla formazione di un nuovo Governo di unità nazionale.
Durante il fine settimana gli scontri, inizialmente confinati alle milizie armate contrapposte di Fatah e Hamas, si sono progressivamente estesi ed hanno visto un impiego di armi di calibro e potenza inusuale. Il dato nuovo, rispetto alle analoghe cronache di fine dicembre, è che gli uomini di Fatah si sono mostrati meglio organizzati e più motivati ed in alcuni casi sono passati all'offensiva. La recente nomina di Mohammed Dahlan - fedelissimo di Abbas e uomo forte dell'ANP - alla direzione della sicurezza palestinese nella striscia di Gaza potrebbe essere all'origine di questo rinnovato vigore.
Soltanto gli appelli di Haniyeh e di Abbas a cessare le violenze e soprattutto l'iniziativa di Re Abdallah di Arabia Saudita, lanciata il 28 gennaio, di invitare le parti a La Mecca per discutere senza


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interferenze straniere - così ha detto - delle divergenze dei due partiti, sembrano ora aver tranquillizzato la situazione. Situazione che tuttavia è costata la vita, come si diceva, ad oltre trenta persone, inclusi civili innocenti, e numerosi feriti.
L'iniziativa di Re Abdallah sembra l'ultima risorsa per salvare una situazione che, altrimenti, potrebbe precipitare di giorno in giorno. Il valore dell'invito nella città santa dell'Islam, da parte di quello che formalmente è il difensore stesso dei luoghi sacri, ha un valore morale innegabile nel mondo arabo, che rivela l'estrema degradazione della situazione.
Sia Abbas che Haniyeh hanno accettato l'incontro, che dovrebbe svolgersi a breve, probabilmente entro la fine di questa settimana: speriamo per il meglio.
Frutto dell'appello del sovrano saudita o dell'improvvisa consapevolezza del baratro ove stavano precipitando, la mattinata del 30 gennaio ha fortunatamente visto il raggiungimento di un accordo tra il Presidente Abbas e il Primo ministro Haniyeh.
Questa intesa prevede la rimozione dei posti di blocco delle milizie, il ritorno dei miliziani nelle caserme, un generale cessate il fuoco; il riconoscimento della responsabilità primaria del Governo nel mantenimento dell'ordine pubblico, della sicurezza e del rispetto della legge, come previsto dalla legge fondamentale palestinese; la liberazione immediata di tutti i sequestrati, la cessazione di ogni tipo di sobillazione attraverso comunicati stampa ed altri tipi di propaganda; la consegna alla giustizia dei miliziani di entrambi i movimenti accusati di essere stati protagonisti di violenze; l'impegno a non estendere in alcun modo le violenze in Cisgiordania, l'impegno a dare istruzione ai rispettivi movimenti di riprendere i contatti per la costituzione di un Governo di unità nazionale. Una sala operativa congiunta è stata incaricata di seguire il rispetto di queste intese.
Veniamo a una sintesi dell'evoluzione delle ultime settimane. L'incontro dello scorso dicembre tra il Primo ministro israeliano Olmert e il Presidente dell'ANP Abbas sembrava aver riaperto le prospettive per l'avvio di negoziati diretti fra le parti. In occasione di quell'incontro, Olmert aveva deciso di trasferire direttamente al Presidente dell'ANP 100 milioni di dollari dei fondi fiscali palestinesi trattenuti da Israele, che Abbas intende ora destinare al pagamento dei salari arretrati dei membri della polizia palestinese. Si era impegnato, inoltre, a riesaminare le procedure di sicurezza ai valichi tra Israele e Gaza e a rivedere la situazione dei check-points in Cisgiordania. Olmert si era, infine, dichiarato disponibile a liberare un numero elevato di prigionieri dopo il rilascio del caporale Shalit.
Anche le missioni svolte nelle scorse settimane nella regione da Condoleeza Rice e da Xavier Solana sembravano aver dato nuovo impulso al dialogo, con il supporto della comunità internazionale. Il mutamento della posizione degli Stati Uniti sembra essere la principale novità di queste ultime settimane. Nel tentativo, probabilmente, di diluire le difficoltà che stanno incontrando in Iraq, gli Stati Uniti sembrano, infatti, sempre più intenzionati ad ottenere qualche risultato visibile sul versante del negoziato israelo-palestinese.
L'obiettivo della missione della Rice era di esplorare la possibilità di giungere, entro i prossimi due anni, prima delle prossime elezioni presidenziali americane, alla creazione di uno Stato palestinese. D'altronde, si può supporre che la Rice sia stata spinta in questo senso dai dirigenti arabi, che ella ha incontrato successivamente alla sua visita in Palestina e Israele, in particolare in Arabia Saudita.
Il 2 febbraio è prevista una nuova riunione del «quartetto», che dovrebbe rilanciare l'avvio di negoziati diretti fra le parti. Subito dopo questa riunione, il segretario di Stato Rice intenderebbe organizzare un vertice a tre con il Presidente Abbas e il premier Olmert. Obiettivo a termine degli americani è ora l'organizzazione di un vertice a Washington con il Presidente Bush, che dovrebbe suggellare l'accordo, avviando la trattativa sullo Stato finale, secondo i termini della Road Map. Lo stesso Hamas, di fronte alle difficoltà


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interne e alle pressioni esterne, era sembrato mostrarsi più aperto al dialogo.
Il 20 gennaio, per tentare di sbloccare l'impasse politico-negoziale, il Presidente Abbas si era recato a Damasco per incontrare le autorità siriane e Khaled Meshal, leader di Hamas esiliato in Siria, e verificare i possibili margini di un'intesa.
Secondo le informazioni raccolte anche da Solana, il pacchetto negoziale attualmente sul tavolo prevedrebbe la costituzione di un nuovo Governo, alla cui guida resterebbe Haniyeh, ma nel quale Fatah otterrebbe i ministri delle finanze, dell'interno e, forse, delle informazioni, oltre all'incarico di vice primo ministro.
Abbas punterebbe, più che alla specifica composizione del Governo, soprattutto all'adozione e all'osservazione di un programma, che vincoli i ministri al rispetto degli accordi stipulati dall'OLP, della legalità internazionale e dei principi sanciti dall'iniziativa della Lega Araba nel vertice di Beirut del 2002. Accanto a tale possibilità e, soprattutto, in caso di fallimento della mediazione saudita di Re Abdallah, Abbas continua a mantenere aperta l'opzione di convocare nuove elezioni entro un anno, nonostante gli ostacoli giuridici che la legge fondamentale palestinese gli oppone. Questa, infatti, non consente una fine anticipata della legislatura, né prevede l'istituto del referendum, pure invocato da Abbas per sancire la sua legittimità di fronte al popolo palestinese.
Anche in questa prospettiva, il grave attentato di Eilat del 29 gennaio potrebbe essere interpretato come un tentativo delle frange palestinesi più estreme di ricompattare il fronte anti-israeliano, militarizzando il dialogo per la formazione del Governo di unità nazionale e tentando di influenzare il quadro, ancora in formazione, delle possibili future consultazioni elettorali.
Il Presidente palestinese aveva, comunque, definito fruttuosi i colloqui con Meshal, che avrebbero permesso un riavvicinamento delle rispettive posizioni, anche se non tutte le divergenze (in particolare, riguardo all'attribuzione del dicastero dell'interno, erano state risolte).
Haniyeh, da parte sua, a più riprese ha sottolineato l'importanza di proseguire i negoziati, anche in presenza di obiettivi contrasti politici, per arrivare alla formazione di un Governo di unità nazionale, dichiarando tuttavia illegittima un'eventuale convocazione di nuove elezioni da parte del Presidente Abbas.
Meshal, peraltro, era persino arrivato recentemente a dichiarare l'esistenza di Israele come una realtà e un dato di fatto, e aveva accennato la possibilità che, una volta costituitosi lo Stato palestinese, Hamas stessa potesse considerare un formale riconoscimento dello Stato di Israele.
Di rilievo, in una possibile prospettiva negoziale, è stato anche il deciso coinvolgimento del cosiddetto quartetto arabo - Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e Giordania -, che si è impegnato a sostenere il Presidente palestinese, dal punto di vista sia politico che finanziario.
Questo quadro relativamente promettente è stato interrotto dalle violenze scoppiate il 25 gennaio, che ho prima ricordato, che hanno indotto il premier Haniyeh a sospendere il dialogo con Fatah. L'iniziativa di mediazione lanciata da Re Abdallah di Arabia Saudita potrebbe, però, effettivamente riaprire la finestra di opportunità che le concessioni del Primo ministro israeliano Olmert avevano fatto percepire in occasione dell'incontro con il Presidente Abbas di dicembre.
Un suo manifesto fallimento rischierebbe, tuttavia, di lasciare libero il campo agli estremisti e di rilanciare pericolosamente gli scontri, con conseguenze imprevedibili; di questo mi ha parlato Abbas nel nostro incontro di due settimane fa.
In questa difficilissima situazione, è indispensabile non cedere a sentimenti di scoramento. Ora più che mai è necessario fare appello al senso di responsabilità delle leadership dei due principali partiti palestinesi, per esortarli a riprendere i negoziati per la formazione di un Governo di unità nazionale, l'unico in grado di proporsi come interlocutore credibile, in vista della ripresa di un dialogo costruttivo con Israele.


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La riunione del «quartetto» a Washington il prossimo 2 febbraio dovrà esaminare la situazione e ribadire l'interesse della comunità internazionale alla fine delle violenze e al rilancio del dialogo. L'Italia in più occasioni ha sottolineato la necessità urgente di elaborare nuove strategie, che offrano alle parti una prospettiva negoziale chiara.
Siamo consapevoli della fragilità dell'impianto della Road Map nell'attuale situazione politica. Pur mantenendo l'impostazione sequenziale, l'approccio basato sui risultati proprio della Road Map, riteniamo sia necessario accelerare il processo e offrire alle parti una chiara percezione del punto di arrivo. Questo è l'argomento centrale: il punto di arrivo, il raggiungimento cioè di una soluzione bi-statuale, che conduca alla creazione di uno Stato palestinese democratico, indipendente e vitale, e che fornisca al contempo precise garanzie di pace e di sicurezza per Israele e per i paesi vicini.
Infine, qualche osservazione sulla situazione interna di Israele. L'incertezza attuale, naturalmente, nuoce anche alle relazioni tra l'Autorità palestinese e Israele. Olmert è ormai orientato a intraprendere un processo diplomatico consensuale, piuttosto che nuove azioni unilaterali, riconoscendo gli insuccessi ottenuti con i due disimpegni dal Libano nel 2000 e da Gaza nel 2005. Tuttavia, le violenze nei territori palestinesi e le difficoltà nel raggiungimento di un'intesa sul Governo di unità nazionale indeboliscono la posizione del Primo ministro nei confronti dell'opinione pubblica israeliana. Di questo ho parlato con i miei interlocutori israeliani, con Shimon Peres e altri, nella mia visita di due settimane fa.
L'attentato suicida del 29 gennaio a Eilat, rivendicato tra gli altri dalla jihad islamica - il primo in Israele dall'aprile 2006 -, complica la situazione e conforta chi sostiene in Israele che sia inopportuno proseguire il dialogo con i palestinesi. Olmert, pur dichiarando che la lotta al terrorismo non troverà tregua, avrebbe deciso, però, di non avviare una vasta offensiva militare in risposta all'attentato, per non rompere la fragile tregua dichiarata a novembre con i palestinesi.
Nella notte del 29 gennaio, in un raid aereo mirato, è stato però distrutto, nei pressi della città di confine di Karni, nella striscia di Gaza, un tunnel che sarebbe stato utilizzato per far entrare militanti palestinesi in Israele e trasportare armi per compiere attentati.
La difficile situazione politica interna non aiuta certo il Governo a presentarsi con un profilo solido. Le dimissioni, il 16 gennaio, del capo di Stato maggiore Dan Halutz, accusato di un'impropria conduzione del conflitto contro Hezbollah nella scorsa estate, la recente apertura di un'indagine giudiziaria sulle presunte ingerenze di Olmert, quando era ministro dell'economia, nella privatizzazione della banca Leumi per favorire un imprenditore amico e soprattutto le accuse di stupro rivolte al Presidente Katsav, che l'hanno indotto ad autosospendersi dal suo incarico, costituiscono altrettanti traumi per la credibilità delle istituzioni.
In sostanza, ci sarebbe bisogno di un forte Governo israeliano e di un forte Governo palestinese, e purtroppo mancano l'uno e l'altro. Ciò nondimeno, la gravità della situazione, il fatto che il tempo giochi non a favore di chi vuole la pace, ma di chi le è contro, spinge ad un'azione la più incisiva e la più rapida possibile da parte della comunità internazionale e dell'Europa.

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Intini. Mi pare che ci siano le condizioni per un proficuo scambio di idee.
Do la parola ai deputati che intendano porre domande o formulare osservazioni.

SERGIO D'ELIA. Ringrazio il viceministro Intini per la puntuale relazione. Abbiamo un quadro chiaro della situazione in Medio Oriente, almeno limitatamente al territorio occupato dallo Stato di Israele e dalla Palestina.
Ho apprezzato soprattutto il passaggio della relazione del viceministro nel quale ha riferito che il punto di arrivo - seppure


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nella situazione difficile in cui gli eventi di ogni giorno rendono sabbioso il terreno su cui ci si sta muovendo - è la costituzione di uno Stato palestinese indipendente e democratico, ma anche la sicurezza di Israele.
Non so se, da questo punto di vista, ci sia un'evoluzione della posizione del Governo e di quanti ritengono che la costituzione dello Stato di Palestina, qualunque esso sia, possa essere di per sé decisiva della crisi tra palestinesi e israeliani. Penso che l'aggettivazione che lei ha scelto per descrivere lo Stato palestinese - «indipendente» - faccia riflettere, considerata l'interferenza e l'ingerenza esterna in Palestina: lo ha descritto bene anche lei, in relazione al ruolo di Hamas, il cui leader è rifugiato in Siria, e in relazione alla necessità del Presidente palestinese di recarsi in Siria per tentare, con quel Governo e con la sua leadership, soluzioni che possano ripercuotersi in Palestina. Inoltre, il ruolo che svolge l'Iran, non soltanto in quell'area, ma anche in Libano, è sotto gli occhi di tutti.
Pertanto, il connotato di indipendenza di un futuro Stato di Palestina è assolutamente fondamentale, come pure il connotato di democraticità. Credo che i palestinesi possano aspettarsi tutto fuorché uno Stato che non risponda ai criteri e agli standard internazionali, per cui si possa definire democratico, fondato sulla separazione dei poteri, sulle regole di uno Stato di diritto, insomma sui diritti politici e civili delle persone palestinesi. Uno Stato indipendente e democratico è l'unica garanzia per un rapporto di buon vicinato con Israele e per la sicurezza dello stesso.
Non ho domande da rivolgerle, signor viceministro, ma ho inteso solo sottolineare un passaggio della sua relazione che mi è sembrato molto importante.

ALESSANDRO FORLANI. Anch'io ringrazio il viceministro per questa relazione veramente ampia e interessante. È evidente che, in questo tormentato scenario mediorientale, la Palestina è una parte molto rilevante, direi incandescente. Purtroppo, essa è anche parte di uno scenario più ampio, in cui tutte le iniziative e le azioni miranti a destabilizzare e a creare nuova conflittualità possono considerarsi in qualche modo collegate e concatenate, a volte orchestrate in base a un disegno comune.
Oggi, anche per evitare un'eccessiva dispersione di argomentazioni, ci siamo concentrati sul conflitto arabo-israeliano, che ormai è parte di una polveriera che riguarda anche altre aree, nella quale i soggetti che operano sono fondamentalmente gli stessi.
In questo scenario di confusione e di destabilizzazione costante di ogni intento e di ogni iniziativa che tenda a ricomporre il quadro e a creare condizioni di stabilità e di pace, vi è un punto fermo, che - almeno negli anni più recenti - mi è sembrato potesse suscitare credibilità nella comunità occidentale, nel «quartetto», in tutta quella parte del mondo che si è interessata alla pace in quell'area. Tale punto fermo, portatore di intenti positivi, mi è parso, fin dalla sua elezione e successione ad Arafat, il Presidente Mahmoud Abbas, Abu Mazen. Mi sembra che, pur tra molti ostacoli e condizionamenti, questa sia la figura che sta cercando di resistere ad ogni intento di destabilizzazione e di distruzione dei risultati che vengono raggiunti. In qualsiasi momento, anche quando il negoziato compie dieci o venti passi indietro, mi pare che Abu Mazen mostri sempre l'intento di ricominciare a tessere il filo della concordia all'interno dell'Autorità palestinese, tra Autorità palestinese e Governo israeliano, e nei confronti della comunità internazionale.
Con apprensione ho riscontrato che, tra le rivendicazioni dell'attentato del 29 gennaio - il primo attentato kamikaze in territorio israeliano ormai da diversi mesi -, c'era quella delle brigate di Al-Aqsa, il braccio armato di Fatah, che è il partito di Abu Mazen come lo fu di Arafat. Questo ha gettato, dal punto di vista degli israeliani, un'ombra su Abu Mazen.
C'è stato un momento in cui il Governo israeliano ha addebitato qualche responsabilità, quantomeno morale, al Presidente


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Abu Mazen, che ha invece condannato l'attentato o, comunque, ne ha preso le distanze. Vorrei sapere se ci siano state delle rassicurazioni, da parte del Presidente Abu Mazen, rispetto all'estraneità all'attentato, non soltanto sua - la darei per scontata -, ma anche del suo partito.
Inoltre, in relazione all'incontro che dovrebbe tenersi a Washington tra la Rice, Olmert e Abu Mazen a fine febbraio, per delineare le prossime tappe della Road Map, vorrei rilevare come ormai la stessa azione del «quartetto», così com'è stata impostata negli anni scorsi, possa considerarsi insufficiente.
Tanto nella vicenda palestinese, quanto in quella irachena - insieme al Libano, sono gli scenari più caldi, che quotidianamente registrano violenze, scontri e azioni di destabilizzazione -, ormai i due soggetti fortemente corresponsabilizzati rispetto all'instabilità di queste aree sono la Siria e l'Iran.
L'Iran ha aspirazioni di potenza regionale - ma anche mondiale, se pensiamo all'aspetto del nucleare - sempre più forti, sempre più pressanti; aspirazioni agevolate, e forse favorite, dalla distruzione del regime di Saddam Hussein. Del resto, anche oggi su alcuni quotidiani abbiamo letto - attraverso interviste e testimonianze di taluni osservatori - dell'esistenza di un disegno di una grande area di influenza sciita, integralista, che vada oltre i confini nazionali dei singoli Stati, che sia guidata naturalmente dall'Iran, con la complicità della Siria (il cui regime non può ascriversi alla confessione sciita, ma comunque in questa fase, nello scacchiere internazionale, è strategicamente alleato dell'Iran).
C'è il rischio che questi conflitti, in particolare quelli che riguardano Libano, Iraq e Palestina, non possano risolversi proprio in virtù di un disegno - ricordiamo l'episodio dei finanziamenti ad Hamas, che poi furono sequestrati ad Haniyeh qualche settimana fa - di destabilizzazione che tenda a portare gli intenti della comunità internazionale ad arenarsi, attraverso azioni di sostegno dei gruppi estremi nei singoli paesi (mi riferisco alle lotte tra fazioni in Iraq, all'azione di Hezbollah in Libano e alla destabilizzazione a corrente alternata operata da Hamas in Palestina).
Chiedo, dunque, al viceministro Intini se non sia ormai il caso, per la Palestina ma anche per l'Iraq, di coinvolgere nel dialogo - pur essendoci grandi resistenze americane, che abbiamo più volte riscontrato - la Siria e l'Iran. Per quanto presumiamo la malafede negli altri o che i propositi altrui non possano assolutamente coincidere con i nostri, l'azione di questi due attori assumerà sempre maggiore rilevanza rispetto ad ogni nostro sforzo e tenderà a bloccarlo o a vanificarlo. Le chiedo, dunque, se non debbano anche l'Italia e l'Europa rendersi promotrici, nei confronti degli americani - così come aveva chiesto lo stesso Becker, nel suo rapporto poi accantonato dall'amministrazione americana -, di un'azione che favorisca il coinvolgimento di questi due soggetti (sappiamo che nella dialettica tra grandi soggetti politici è sempre difficile avere una concezione oggettiva delle ragioni) nelle azioni volte al ristabilimento della pace e della concordia in queste aree tormentate.

PIETRO MARCENARO. Anch'io ringrazio il viceministro Intini per il preciso aggiornamento della situazione e per la conferma di una linea del Governo italiano; una linea al tempo stesso attiva e prudente, che cerca di svolgere il ruolo che è possibile sviluppare nel segno della ricomposizione delle condizioni di un negoziato, di un dialogo e della riduzione di quegli elementi di conflitto che compromettono anche le prospettive di più lungo termine.
Il quadro che il viceministro Intini ha prospettato, che in parte conoscevamo, da un certo punto di vista evidenzia una situazione che in realtà continua ad aggravarsi, nella quale ogni volta che si delinea una possibilità di una soluzione, la stessa viene continuamente rimessa in discussione e resa incerta o addirittura


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vanificata dal sopraggiungere di conflitti che hanno molte origini e molte ragioni, interne ed esterne.
Cercherò di essere breve, anche perché non mi pare che siamo di fronte ad elementi che giustifichino una particolare discussione. In questo quadro, l'elemento di novità positivo - ne ha parlato il viceministro Intini - mi è parsa la modifica dell'atteggiamento di alcuni dei protagonisti internazionali, in particolare dell'amministrazione americana, che sembra orientata a muoversi con maggiore determinazione per la ricerca di una soluzione e di uno sbocco.
Forse converrebbe valutare se siamo in una situazione nella quale anche un altro grande paese, la Russia, possa riprendere a giocare un ruolo positivo. A proposito di un coinvolgimento e di una dimensione regionale del problema, richiamata poco fa dal collega Forlani, non c'è dubbio che siamo oggi di fronte ad una Russia che, dopo una fase di relativa assenza e di forte passività sulla scena internazionale, per una serie di ragioni, tende a sviluppare un'iniziativa più forte. Lo vediamo in molti campi, ma anche nello scenario del Medio Oriente, nel quale la Russia - non dimentichiamolo - ha rapporti storici (penso alla Siria).
La scena internazionale è sicuramente quella decisiva. A mio parere, addirittura - naturalmente posso sbagliarmi - la ripresa dei conflitti interpalestinesi così acuti non si spiega del tutto se non con la percezione, all'interno del mondo palestinese, di un mutamento dei rapporti di forza. I mutamenti dei rapporti di forza interpalestinesi avvengono non per ragioni autonome, ma quasi sempre - sia dalla parte di Hamas, dalla parte radicale, sia dalla parte più moderata - come effetto e conseguenza del grado di supporto e legittimazione internazionale che queste forze sono in grado di ricevere. Non c'è dubbio che, se oggi Fatah si muove in modo più aggressivo, è perché pensa di aver ricevuto le risorse e i mezzi, da un lato, per permettere ai palestinesi di pagare gli stipendi e, dall'altro, per armare le forze di sicurezza in modo più efficace del passato.
In questo quadro, richiamare la dimensione internazionale, contrariamente ad altre volte, non significa sfuggire alle vere responsabilità evocando altri scenari, ma piuttosto constatare l'unica dimensione possibile di azione che è capace di influenzare fortemente le parti. Sussistono molti segnali negativi ma, in questo quadro, comunque si aprono degli spazi nuovi di interesse e di possibilità: forse questo è lo spiraglio di maggior ottimismo sul quale sarebbe possibile sviluppare il massimo dell'iniziativa dell'Europa e del Governo italiano.

ALÌ RASHID KHALIL. Abbiamo ascoltato con molta attenzione il viceministro Intini, che apprezziamo molto per la chiarezza della sua relazione.
Con il passare degli anni la questione palestinese e il conflitto israelo-palestinese diventano sempre più complessi e gli elementi nuovi sono la testimonianza di questa complessità.
Oltre ai problemi che questo conflitto, che dura da sessant'anni, ha già causato - lo sradicamento degli oltre due terzi dei palestinesi dal proprio territorio e l'occupazione dell'intera Palestina in due fasi, nel 1948 e nel 1967 -, oggi assistiamo anche all'inizio di una guerra civile, che mi auguro la comunità internazionale possa aiutare a risolvere.
È evidente che nutro molto pessimismo rispetto al futuro del popolo palestinese e, quindi, di tutta la regione. Sono passati 15 anni dall'accordo di Oslo, sostenuto dall'intera comunità internazionale, che avrebbe dovuto dare finalmente una soluzione a questo conflitto, nella logica di due Stati per due popoli, entro confini sicuri e riconosciuti dalla legalità internazionale. Ciò sulla base di quelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che rappresentano, in fondo, anche un'ingiustizia subita dai palestinesi: accettare quelle risoluzioni, infatti, significava per i palestinesi rinunciare al 78 per cento del loro territorio storico.


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Siamo di fronte ad un raccolto molto amaro: anche quella poca cosa che lo Stato palestinese avrebbe dovuto raccogliere su quella parte del territorio gli è stata negata. Dopo l'accordo di Oslo il numero delle colonie e dei coloni israeliani nella Cisgiordania è raddoppiato e si è costruito un muro. Sono state distrutte e liquidate tutte le strutture e le infrastrutture dell'Autorità nazionale palestinese in nome della lotta contro il terrorismo ed oggi si sta incentivando una guerra civile tra i palestinesi.
Anch'io credo che quello Stato palestinese che dovrebbe e deve nascere per arrivare a una soluzione debba essere indipendente e democratico. Mi sembra che, nella cultura e nella storia del popolo palestinese, non manchino le condizioni per avere uno Stato democratico. Oggi, di fronte alla sofferenza che vive il popolo palestinese da moltissimi anni - di fronte ad un assedio totale, alla distruzione delle scuole, degli ospedali e di tutte le infrastrutture per una vita normale - gli Stati Uniti d'America cosa pensano di fare per aiutare i palestinesi? Dare 78 milioni di dollari per fornire armi alla polizia palestinese, quindi per incentivare la guerra civile.
Mi rendo conto che ci sono interferenze da parte della Siria e da parte dell'Iran, ma vediamo anche le altre interferenze. Vediamo cosa fa Israele, vediamo cosa fanno gli Stati Uniti d'America, vediamo i tentativi di sabotare la possibilità della formazione di un Governo di unità nazionale, che è una condizione indispensabile per impedire la guerra civile e per riavviare il processo di pace.
Parliamo di democrazia e siamo i primi a contestare e a contrastare gli esiti di un'elezione democratica che aveva espresso quella parte della società palestinese che non piace neanche a me. Tuttavia, la democrazia ha voluto questo e noi avremmo dovuto lasciare Hamas governare. Sia il Primo ministro palestinese Haniyeh sia Meshal hanno detto parole molto chiare rispetto all'esistenza dello Stato di Israele e alla sua sicurezza, accettando i confini del 1967. Questi sono i termini che Hamas poteva esprimere: perché infierire e mettere in difficoltà questa organizzazione, che ha dimostrato la disponibilità per arrivare ad una soluzione?
Incentivare una guerra civile in Palestina vuol dire sabotare la possibilità, in futuro, di un processo di pace. Oggi cosa si offre ai palestinesi? Di scannarsi tra di loro, con armi che vengono loro fornite.
Condivido e apprezzo molto l'affermazione del viceministro, sull'importanza di stabilire il punto di arrivo delle trattative. Nel Medio Oriente sono quindici anni che si tratta, ma dentro un rapporto di forza che alla fine permette agli israeliani di dire che non sono d'accordo. Oggi tutte le forze politiche, tutti gli Stati del mondo, tutte le superpotenze affermano che, se non si arriva ad una soluzione della questione palestinese, non si potrà trovare una soluzione per la stabilità del Medio Oriente.
I palestinesi chiedono che, nella ricerca di questa soluzione, vengano rispettati i criteri e le risoluzioni delle Nazioni Unite - e non sono i popoli come quello palestinese a condizionare le scelte del Consiglio di sicurezza, sono sempre le grandi potenze a farlo -, dentro quelle condizioni di ingiustizia che essi stessi hanno accettato. Invece bisogna vedere cosa decide il «quartetto», come si evolve, e così via. Ma il «quartetto» fu scelto in una formula così vaga proprio per non arrivare a una soluzione, per lasciare aperte a mille possibilità le prospettive finali di questo processo. Io credo che i prossimi mesi e il prossimo anno costituiscano un tempo determinante per condizionare almeno la direzione degli eventi in Medio Oriente.
Il ministro D'Alema, in più di un'occasione, ha espresso il suo sostegno alla Conferenza di Ginevra, vedendo in essa un elemento importante, in quanto stabiliva il punto di arrivo e non solo quello di partenza.
Bisogna immaginare un processo di pace e di soluzione politica con una forte partecipazione della comunità internazionale, nel rispetto della legalità internazionale, delle risoluzioni delle Nazioni Unite,


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in una cornice in cui Israele non può fare quello che vuole, come ha fatto sempre, non è libero di farlo.
La situazione oggi si caratterizza anche per la guerra civile, che speriamo di sconfiggere e di limitare attraverso un intervento più responsabile da parte della comunità internazionale, ma è necessario soprattutto che la comunità internazionale cambi atteggiamento. Si parla di sicurezza di Israele: ma quale sicurezza? Qui c'è un popolo che sta soccombendo, il popolo palestinese; la sua sopravvivenza viene minacciata e colpita ogni giorno. Quale sicurezza di Israele, se Israele è la potenza più forte di tutta la regione? È anche ora che la comunità internazionale capisca finalmente che i popoli del Medio Oriente non accettano - quando si parla dell'Iran o della Siria - di vedere un Medio Oriente dominato dagli Stati Uniti d'America e dalla superiorità militare, tecnologica e scientifica dello Stato di Israele. Non possono essere questi i criteri. Stiamo sbagliando strada, bisogna assumere un atteggiamento più equilibrato e equidistante. Fino ad oggi, però, mi sembra che vengano privilegiate le condizioni israeliane, ai fini di una soluzione politica. La storia, dal 1948 ad oggi, dimostra che Israele ha optato sempre a favore della forza come unico mezzo per risolvere questi problemi. La cultura della guerra e della forza sta creando fenomeni negativi di corruzione e malcostume, a Israele, ma anche nel popolo palestinese e nella regione intera. Questi fenomeni negativi sono il risultato della mancanza di democrazia e della scelta della forza come unico mezzo per risolvere i problemi. La mancanza di democrazia è la mancanza di qualsiasi forma di certezza e di diritto. Queste sono le ragioni principali del conflitto in Medio Oriente, e non le scaramucce tra Hamas e Al Fatah, che vengono alimentate dall'esterno.
Il Governo italiano ha tutti gli strumenti - sul piano politico, della conoscenza, della storia - per svolgere un ruolo ancora più positivo. In Libano si schiera a favore del Governo Siniora, malgrado la sua illegittimità e le forze armate italiane in Libano dicono che il ruolo dell'Italia non deve essere percepito come a favore di una parte o dell'altra, perché questo danneggia anche la posizione dell'esercito italiano. Questo vale per la Siria, per il Libano, per la Palestina. Insomma, cerchiamo di vedere le cose in modo più obiettivo. Alla base di tutto c'è un'occupazione israeliana, ma sicuramente ci sono altri mille fenomeni negativi, che andrebbero affrontati con una cultura e un metodo di legalità che sono mancati fino ad oggi.

PRESIDENTE. Do la parola al ministro Intini per la replica.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Risponderò molto brevemente, perché di questi temi parliamo a fondo e più volte, in Assemblea e in Commissione.
La Road Map è certamente utile, ma ancor più utile è vedere il punto di arrivo: di questo si stanno rendendo conto ormai quasi tutti. Purtroppo la cosa amara, quasi kafkiana, è che il punto di arrivo lo si conosce; in cuor loro tutti i protagonisti sanno - e da alcuni decenni - quale sia il punto di arrivo. I problemi, alla fine, si riducono a tre: i territori, i rifugiati e Gerusalemme.
Per quanto riguarda i territori, si è capito che Israele restituirà, se non tutto, quasi tutto quello che ha preso con la guerra del 1967. Non sarà facile definire esattamente i territori; ci sono tanti problemi, bisogna tener conto degli insediamenti, ma non è una questione insolubile e tutti sanno dove si deve arrivare.
Quanto ai rifugiati, bisogna evitare due posizioni «estremiste»: se è estremista affermare che non c'è un diritto dei palestinesi che hanno perso la terra e la casa, è estremista anche affermare che i palestinesi possono ritornare sul territorio di Israele (a quel punto, Israele non sarebbe più Israele). Allora, probabilmente, come un autorevole esponente israeliano mi ha detto recentemente, bisogna costruire un ponte di denaro e di parole per i palestinesi: di parole, per il riconoscimento,


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e di denaro perché bisogna compensare in denaro un diritto che non può essere implementato praticamente.
Per quanto riguarda Gerusalemme, il problema è più spinoso, perché ha un valore psicologico ed emotivo fortissimo. Anche in questo caso, però, tutti hanno capito che la parte israeliana deve essere la capitale di Israele, la parte palestinese deve essere la capitale della Palestina. Nel 1947 le Nazioni Unite avevano deciso che Gerusalemme dovesse avere uno statuto internazionale, ma la Gerusalemme del 1947 non c'è più. Ci sono, però, 50-60 mila persone che abitano nella vecchia Gerusalemme, tra le vecchie mura e in quel caso occorre uno sforzo di creatività e di fantasia per stabilire un ruolo particolare, che tenga conto del fatto che quest'area ha la natura di essere la capitale di tre religioni. Ma non è impossibile; in fondo stiamo parlando di 50 mila persone. Ho avuto occasione di parlarne anche con il cardinale Bertone e non è una questione insolubile.
Il tempo non gioca a favore di chi vuole la pace. Purtroppo, tutti lo sanno, ma se non tutti ne traggono le conseguenze una ragione molto allarmante c'è, ed è che sia in Israele sia nel mondo arabo qualcuno pensa che si debba guadagnare tempo, perché il tempo favorisce una soluzione finale a suo vantaggio.
In Israele c'è chi pensa che la Bibbia abbia stabilito che un certo territorio sia del popolo di Israele e chi pensa che, alla fine, siccome il mondo arabo è diviso, si possa andare avanti così a tempo indeterminato.
Nel mondo arabo c'è chi pensa - e questo preoccupa profondamente - che i decenni risolveranno la questione a proprio vantaggio; che alla fine la demografia farà sì che Israele diventerà una sempre più piccola porzione, circondata da un immenso mare di mondo arabo; che il gap tecnologico e culturale, che un tempo metteva gli israeliani in cima e il mondo arabo in basso, con i decenni si vada colmando; che la memoria dell'Olocausto, che influisce fortemente sull'Occidente, passato un secolo, un secolo e mezzo, finirà inevitabilmente per affievolirsi. C'è da preoccuparsi profondamente del fatto che, da una parte e dall'altra, si pensi che guadagnare tempo significhi andare verso una soluzione catastrofica - questo penso -, ma risolutiva per l'uno o per l'altro.
La soluzione, invece, come è evidente, sta nel compromesso e nel buonsenso. Non c'è nessun ostacolo che sia insormontabile. Israele giustamente pone come una condizione irrinunciabile il riconoscimento di se stesso. Tuttavia, noi sappiamo, avendo tutti una certa esperienza in questa materia, che decenni fa si diceva che non si poteva discutere con l'OLP perché non riconosceva Israele e perché era un'organizzazione terroristica, e poi si è visto com'è finita.
Probabilmente, oggi chi ha una posizione rigida nel mondo arabo può chiedersi perché si dovrebbe riconoscere lo Stato israeliano se non c'è ancora lo Stato palestinese. Ma nel momento in cui lo Stato palestinese c'è, ha i suoi confini, diventa impossibile per chiunque sostenere una situazione sbilanciata di riconoscimento reciproco.
Credo che si debba rassicurare chi si preoccupa di questo - come l'onorevole Forlani - sul fatto che Abu Mazen e Fatah abbiano una posizione assolutamente aperta e disponibile ad ogni collaborazione con chi cerca di isolare e cancellare il terrorismo come strumento di lotta politica. Credo che la prospettiva di una mezzaluna sciita, di cui tanto si parla, sia presente a tutti, e tuttavia, fortunatamente, alla mezzaluna sciita si contrappongono delle forti contraddizioni: innanzitutto la Siria, che dovrebbe farne parte, sciita non è; Hamas non è sciita, ma sunnita. In Libano la situazione è così complessa anche perché - fortunatamente - le linee di divisione non sono più quelle interreligiose, rigide (ad esempio, una parte del mondo cristiano - penso ad Aoun, a Lahoud - è tatticamente alleata con gli sciiti e non con i sunniti o i filoccidentali).
Un autorevole esponente dei paesi del Golfo ha intimato - e io gli do ragione - di stare attenti, perché si scherza con


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il fuoco quando si parla di un conflitto sunnito-sciita. A volte, solo parlando di qualche pericolo, lo si rende concreto: quindi, meno si parla di una simile prospettiva, che sarebbe catastrofica, meglio è.
L'onorevole Forlani si è soffermato su un punto che mi trova molto d'accordo, e questo la dice lunga su come, su questi temi, tra maggioranza e opposizione ci sia non solo un dialogo, ma anche un'intesa. Penso che si debba discutere con la Siria e con l'Iran, perché se sono parte del problema possono anche essere parte della soluzione.
Del resto, abbiamo tutti il ricordo della guerra fredda: Mosca era il nemico dell'Occidente, eppure parlavamo con Mosca, pensando che parlare fosse utile, comunque. Tuttavia, siccome gli Stati Uniti, come sappiamo, sono di opinione contraria, serve parlare con la Siria e con l'Iran se gli Stati Uniti non sono disponibili a farlo? Non è decisivo parlare, dal momento che l'altro polo è Washington, e se quest'ultimo non è disponibile a seguire la strada indicata da Becker, ne dobbiamo prendere atto.
Come Becker e Hamilton, anche noi pensiamo che sia una strada pericolosissima quella di un confronto con l'Iran. Abbiamo un motivo di conforto, peraltro oggi diffuso in Medio Oriente: c'è chi pensa che il rapporto Becker sia stato disatteso da Bush per quanto riguarda la parte relativa alla necessità di dialogo con Siria e Iran, ma che sia stato accettato silenziosamente per la parte che sostiene la necessità di dialogo per risolvere il problema palestinese. Può darsi che Bush abbia accettato silenziosamente almeno questo suggerimento di Becker, che sostiene che il problema palestinese è al centro di tutti i guai del Medio Oriente, quindi bisogna assolutamente affrontarlo.
L'onorevole Marcenaro pone la questione del coinvolgimento della Russia ed io credo che su questo si debba essere assolutamente l'accordo. Si prospetta, fino a questo momento, un dialogo a tre: Israele, Palestina e Stati Uniti, questi ultimi mediatori. Così non va bene: è necessario che il «quartetto» entri in scena con forza, quindi c'è bisogno dell'Europa e della Russia, che hanno l'esperienza e il quadro geopolitico di cognizione necessari per dare un aiuto.
L'onorevole Khalil lo si ascolta sempre con la tendenza a capire e a valorizzare la passione che mette in quello che dice. Ascoltandolo si impara sempre qualcosa: non sapevo, ad esempio, che il 78 per cento del territorio storico palestinese fosse stato alla fine ceduto. Sappiamo tutti, però, che in quest'area del mondo sono in conflitto non due torti, ma due diritti: un diritto di Israele e un diritto dei palestinesi. Sappiamo anche, come ha detto efficacemente l'onorevole D'Elia, che questi diritti non sono in contrasto tra di loro, anzi, sono l'uno la condizione dell'altro. Non c'è uno Stato palestinese senza sicurezza di Israele e non c'è sicurezza di Israele senza uno Stato palestinese.
L'onorevole Khalil sa - me lo ha detto ancora una volta il ministro degli esteri giordano, che ho incontrato il mese scorso - che ha ragione il Re di Giordania quando dice, esattamente come lei, onorevole, che il 2007 deve essere l'anno in cui parte un processo di pace. Se non sarà così, avremo davvero un effetto boomerang in senso opposto, cioè nella direzione di una catastrofe generale.
Mi consenta, però, di osservare che Israele conta solo su di sé e sulla sua forza anche perché ha avuto delle lezioni amare: la comunità internazionale, nel 1948 e nel 1967, non è stata capace di impedire che si formassero due coalizioni di Stati arabi che, se ne avessero avuto la forza, avrebbero certamente liquidato la presenza di Israele.
Sulla questione del Libano e della necessità di prudenza, da parte del nostro Governo, nel manovrare questa materia così incendiaria, credo che l'invito alla prudenza sia giusto, come è giusto sostenere che il nostro Esecutivo - come qualsiasi Governo occidentale e come qualsiasi Governo impegnato con l'UNIFIL - non


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debba essere partigiano, contro o a favore di qualcuno. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che in questo momento il Governo Siniora ha la maggioranza parlamentare, e che Siniora è l'interlocutore al quale la comunità internazionale ha appena dato 7,6 miliardi di dollari. La funzione di pilastro della stabilità va riconosciuta al Governo Siniora, sempre restando l'esigenza di prudenza di cui dicevamo.

PRESIDENTE. Ringrazio l'onorevole Intini per la sua replica e per aver contribuito a meglio definire alcuni aspetti della nostra politica in Medio Oriente.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,10.