COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 9 maggio 2007


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
UMBERTO RANIERI

La seduta comincia alle 14,05.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del viceministro degli gli affari esteri, Ugo Intini, sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del viceministro degli gli affari esteri, Ugo Intini, sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente.
Do la parola al viceministro Intini per la sua relazione.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Signor presidente, farò poche valutazioni in questa introduzione, limitandomi a raccontare i fatti. Mi riservo, in seguito, di ascoltare e - traendo spunto dai vostri interventi - di svolgere qualche riflessione più strettamente politica.
Cominciamo dalla crisi palestinese, che è la madre di tutte le crisi del Medio Oriente. Segnali positivi sono stati registrati sul fronte del progresso del dialogo di pace con la costituzione del Governo di unità nazionale; l'avvio degli incontri bisettimanali tra il Primo ministro Olmert e il Presidente Abbas, concordati nel corso dell'ultima visita nella regione del Segretario di Stato americano, Rice; il rilancio da parte della Lega araba, in occasione del vertice di Riad del 28 e del 29 marzo, del piano di pace di Beirut del 2002. D'altro canto, la fragilità della situazione politica interna israeliana e la continuazione dei lanci di razzi Kassam dalla striscia di Gaza sul territorio di Israele condizionano significativamente le prospettive di avanzamento del dialogo.
Sul piano dei contenuti e dei contatti bilaterali, il 15 aprile scorso, a Gerusalemme, Olmert e Abbas hanno discusso alcuni elementi del cosiddetto orizzonte politico del futuro Stato palestinese, in particolare dei suoi aspetti economici. Non sono, tuttavia, state toccate le questioni fondamentali e più delicate (rifugiati, Gerusalemme e confini), come del resto Olmert aveva messo bene in chiaro con largo anticipo, annunciando l'intenzione di rinnovare l'accordo con l'Unione europea per la missione EUBAM a Rafah e di garantire l'apertura del valico per diversi giorni alla settimana, nonché l'impegno a proseguire la rimozione dei check-point. Sono, inoltre, stati avviati i negoziati per definire i dettagli di uno scambio di prigionieri che consentirebbe finalmente la liberazione del caporale israeliano Shalit.
Sul piano regionale, il rilancio da parte della Lega araba del piano di pace di Beirut del 2002 ha portato alla creazione di un comitato di lavoro, costituito da rappresentanti di Egitto e Giordania, incaricato di avviare contatti con Israele e di elaborare proposte per una soluzione del conflitto basata sui princìpi del piano. In questo contesto, è prevista per giovedì 10 maggio una riunione al Cairo tra i ministri degli esteri di Egitto, Israele e Giordania.


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Questo coinvolgimento diretto della Lega araba nell'evoluzione della crisi costituisce certamente un elemento interessante e promettente. Naturalmente è adesso fondamentale che Israele dimostri di voler accogliere e di dare seguito concreto a questi spunti negoziali. È, soprattutto, cruciale evitare il rischio che, in assenza di progressi visibili, il presidente Abbas esaurisca il suo capitale politico a beneficio delle fazioni palestinesi, che mirano a dimostrare l'impreparazione di Israele nel procedere sul cammino dei negoziati.
In questo contesto, ostacoli seri ad una evoluzione positiva della situazione potrebbero sorgere a causa dei recenti sviluppi della politica interna israeliana. La pubblicazione il 30 aprile scorso della prima parte del rapporto della commissione governativa d'inchiesta Vinograd sulla guerra del Libano ha infatti visibilmente complicato il quadro generale della situazione interna israeliana. Il rapporto accusa senza mezzi termini il Primo ministro Olmert di gravi mancanze e di aver agito affrettatamente nel prendere la decisione di portare in guerra il Paese senza una strategia generale né un piano dettagliato. Anche il ministro della difesa Peres viene fortemente criticato per non aver avuto contezza dello stato di preparazione delle forze armate.
Il rapporto, discusso il 3 maggio alla Knesset convocata per una sessione urgente, contribuisce dopo la conclusione del conflitto in Libano ad indebolire il consenso nei confronti del Primo ministro ed apre diversi scenari che potrebbero anche includere elezioni anticipate. Il futuro politico di Olmert, che ha comunque dichiarato la sua intenzione di mantenere l'incarico per rimediare agli errori commessi, dipenderà molto dall'atteggiamento della leadership di Kadima e dei suoi due candidati alla successione alla guida del partito laburista, che è il principale alleato della coalizione, Ayalon e Barak.
In questo contesto, il Governo di unità nazionale palestinese ha nel frattempo avviato le sue attività, pur con le inevitabili difficoltà di una situazione economico-finanziaria gravissima e in un panorama di grave deterioramento strutturale della pubblica amministrazione. Il programma di governo non accoglie espressamente le tre condizioni del Quartetto, ma prevede il riferimento al rispetto degli accordi firmati dall'OLP con Israele e delle risoluzioni internazionali, il mantenimento della tregua in corso con Israele nella striscia di Gaza, in cambio della fine dell'occupazione israeliana, il proseguimento degli sforzi per la liberazione del soldato Shalit, nel quadro di uno scambio di prigionieri.
Sia gli Stati Uniti che diversi paesi dell'Unione europea, hanno già avviato contatti selettivi con i ministri del nuovo Governo palestinese, che si riconoscono nei princìpi del Quartetto. Tra i paesi occidentali, la Norvegia e la Svizzera hanno riconosciuto integralmente il nuovo Governo, annunciando contatti diretti con tutti i suoi membri. Lo stesso ha fatto il Governo cinese.
Per quanto ci riguarda, siamo consapevoli che il programma del Governo di unità nazionale non soddisfa esplicitamente le condizioni del Quartetto; tuttavia pensiamo che il nuovo esecutivo vada giudicato sulla base dell'effettivo atteggiamento che assumerà nei prossimi mesi. Conformemente alle posizioni assunte dall'Unione europea, l'Italia continuerà a seguire perciò un approccio selettivo dei contatti con i membri del Governo di unità nazionale, privilegiando quelli che si riconoscono esplicitamente nei tre princìpi del Quartetto.
Siamo convinti che non siano proponibili progetti di forzata marginalizzazione del movimento di Hamas, che mantiene ancora nel territorio un appoggio popolare, la cui legittimità si fonda su elezioni regolari e democratiche. Pensiamo, piuttosto, che sia nel nostro interesse favorirne lo sviluppo democratico e un suo positivo orientamento nella direzione del dialogo e del confronto pacifico.
Con queste premesse, le nuove prospettive aperte dal Governo di unità nazionale consentono di riesaminare le condizioni dell'assistenza alla popolazione palestinese. L'Unione europea ha già avviato una


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riflessione sulle modalità per lanciare la cooperazione economica e finanziaria con l'autorità palestinese e nel frattempo si sta adoperando per rinnovare il meccanismo temporaneo internazionale, il cosiddetto TIM, per un ulteriore periodo di tre mesi. In proposito, il ministro delle finanze Fayad si è recato a Bruxelles l'11 aprile scorso per incontrare il commissario Ferrero-Waldner e iniziare il processo di revisione del sostegno economico-finanziario internazionale all'autorità nazionale palestinese. Il deficit corrente ammonta a circa 1,6 miliardi di euro.
L'Italia è stata in prima linea nel sostenere l'opportunità di rilanciare la cooperazione con le istituzioni dell'autorità nazionale palestinese, i cui responsabili si riconoscano nei princìpi del Quartetto. Stiamo anche attivamente promuovendo il rinnovo temporaneo del TIM allo scopo di facilitare la transizione verso un efficace rapporto bilaterale con l'Unione europea.
Veniamo alla situazione in Libano. Il Libano, come sappiamo, si dibatte ormai da tempo in una crisi politica che neppure l'attivismo diplomatico registrato nei giorni scorsi sembra avere sbloccato. Mi riferisco, in particolare, alle visite del viceministro degli esteri russo Saltanov e del responsabile affari giuridici delle Nazioni Unite, Nicholas Michel.
Secondo quanto previsto dalla Costituzione, il presidente dell'Assemblea nazionale, Nabih Berry, avrebbe dovuto convocare il 20 marzo scorso l'Assemblea per l'apertura della seconda sessione ordinaria dei lavori. Il suo rifiuto ha suscitato la reazione di alcuni deputati della maggioranza che lo hanno accusato di violare le regole costituzionali e hanno avviato un sit-in di protesta in Parlamento. Malgrado non si sia interrotto il tenue filo di dialogo tra il premier Siniora e l'opposizione, per il tramite di Berry, il nodo principale del contrasto continua a rimanere la forma di un esecutivo formato secondo lo schema 19 più 11, schema che la maggioranza rigetta per il timore di fornire all'opposizione un potere di veto sulle decisioni più importanti, il cosiddetto «terzo di blocco». La mancata convocazione del Parlamento impedisce, soprattutto, l'adozione dello statuto sul Tribunale internazionale sull'assassinio di Hariri, che l'opposizione subordina all'intesa per la formulazione di un nuovo esecutivo.
Il 3 aprile 70 deputati della maggioranza, riunitisi in maniera informale in Parlamento, hanno redatto una petizione, trasmessa al segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, nella quale si richiede di adottare misure alternative per istituire il Tribunale internazionale, con un implicito riferimento alla possibilità che esso sia istituito d'autorità dal Consiglio di sicurezza, sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Nel dibattito, svoltosi il 2 maggio in Consiglio di sicurezza sugli esiti della sua missione a Beirut, il vicesegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari giuridici, Nicholas Michel, ha preso atto della sostanziale impossibilità in questa fase di giungere, nonostante gli sforzi condotti dall'organizzazione, ad un accordo politico tra le forze politiche libanesi per l'istituzione del Tribunale speciale. Il Consiglio di sicurezza si trova, pertanto, di fronte al problema di decidere il percorso da seguire per giungere alla creazione del Tribunale. Sono due le tendenze emerse dal dibattito: da una parte vi è chi ritiene che il Consiglio debba agire direttamente, a fronte dell'impasse esistente in Libano, dall'altra vi è chi sostiene l'esigenza che il Tribunale possa essere istituito solo sulla base di un accordo condiviso da tutte le parti libanesi e che, quindi, non vi siano alternative alla prosecuzione degli sforzi diplomatici.
Un altro nodo che rimane da sciogliere riguarda la prossima scadenza presidenziale. Il presidente del Parlamento Berry ha indicato la data del 25 settembre per la convocazione dell'Assemblea in collegio elettorale. Qualora le due parti non dovessero giungere in quella data all'individuazione di un candidato di compromesso, il quadro politico subirebbe un ulteriore deterioramento dalle conseguenze imprevedibili.
Questa prospettiva è, evidentemente, molto preoccupante. In particolare, oc


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corre riflettere attentamente sulle conseguenze della costituzione del Tribunale internazionale sull'omicidio Hariri, sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite e sui rischi che possa far degenerare in conflitto aperto le tensioni fra le opposte fazioni libanesi.
La comunità internazionale è già profondamente impegnata nella stabilizzazione del paese. La presenza dell'UNIFIL nel sud rappresenta la garanzia di questo impegno, nell'ambito del quale il nostro contingente continua a godere del rispetto e dell'apprezzamento visibili della popolazione. Non va, comunque, trascurata l'influenza esercitata dal ruolo d'Israele nella situazione interna libanese. Alcune questioni chiave appaiono ancora lontane da una soluzione: il rilascio dei soldati israeliani catturati, il ritiro delle fattorie di Sheba'a, il persistere dei sorvoli israeliani sul Libano, le informazioni sul contrabbando di armi. La questione delle fattorie di Sheba'a, in particolare, continua a rappresentare un focolaio di tensione al confine tra i due paesi. Il lavoro condotto negli ultimi mesi dai cartografi delle Nazioni Unite per la delimitazione precisa delle aree è molto utile ed attendiamo che sia presto elaborata una proposta che costituisca la base per consultazioni politiche.
Siamo anche preoccupati per le informazioni sul contrabbando di armi, che continuerebbero ad affluire in Libano, nonostante il divieto imposto dalla risoluzione n. 1701. Le forze armate libanesi hanno efficacemente ripreso il controllo del territorio, soprattutto nella regione a sud del fiume Litani. Tuttavia, occorre che i confini del Paese siano resi il più possibile impermeabili al contrabbando di armi. È in questa ottica che abbiamo sostenuto la proposta del Segretario generale delle Nazioni Unite di inviare una missione indipendente per valutare la situazione lungo tutta la frontiera libanese e formulare raccomandazioni.
Concludo il discorso sul Libano affrontando un ultimo punto. Il coinvolgimento della Siria nella stabilizzazione del Paese è fondamentale. Pensiamo che il governo di Damasco possa esercitare un ruolo positivo nella stabilizzazione e nello sviluppo della regione, ma solo se dimostrerà con i fatti di voler agire in buona fede e nell'interesse della pace.
Passiamo all'Iraq. Si sono svolte a Sharm El Sheik il 3 e il 4 maggio due conferenze sull'Iraq. Il 3 maggio è stata lanciata ufficialmente l'iniziativa dell'International Compact with Iraq, mentre il giorno successivo è stato dedicato al seguito del meeting svoltosi a Baghdad lo scorso 10 marzo nel formato esteso ai paesi del G8. Questo formato allargato ha consentito al nostro Paese di partecipare all'esercizio di coinvolgimento dei paesi limitrofi, a favore della stabilizzazione dell'Iraq. L'International Compact va nella direzione - da noi sempre auspicata - della piena «irachenizzazione», in un contesto di crescente multilaterizzazione del processo di sviluppo e di riforma dell'economia irachena. In esso è espresso, inoltre, un legame tra il processo di ricostruzione e gli aspetti connessi alla politica a alla sicurezza, che sono alla base del miglioramento delle condizioni sociali ed economiche della popolazione irachena.
In questa fase di rinnovato interesse della comunità internazionale a favore dell'Iraq, la stabilizzazione rimane comunque essenzialmente un problema interno al Paese, da affrontare da parte del Governo Al Maliki attraverso l'adozione di concrete misure di riconciliazione nazionale. Tra queste, sembra urgente stimolare il processo di revisione costituzionale, attenuando gli aspetti confederali, più che federali, dell'impianto attuale, provvedendo ad una più equa ripartizione delle risorse naturali e sottolineando le necessarie prerogative dello Stato centrale.
Auspicabile è anche una radicale revisione della «debaathificazione»: l'adozione di provvidenze economiche, quali l'estensione di un congruo trattamento pensionistico ai membri delle disciolte forze armate e degli apparati di sicurezza e una loro più ampia possibilità di reintegrazione nelle nuove strutture, lo scioglimento delle milizie, la costituzione di una polizia nazionale. Più in generale, si


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auspica una politica che estenda i benefici del nuovo corso, allargando la base del consenso. Il nuovo piano di sicurezza per Baghdad, recentemente varato, che costituisce lo strumento militare rivolto a favorire il processo di stabilizzazione interna, ha sì prodotto una certa diminuzione della violenza della capitale, ma sembra soprattutto aver causato uno spostamento dello scontro nelle aree limitrofe.
Ad aggiungere ulteriori difficoltà, si registra la spaccatura della compagine governativa con i contrasti ormai aperti tra SCIRI e sadristi. L'Italia ha confermato e rinnovato il proprio impegno per l'Iraq sul piano civile con la firma, lo scorso 23 gennaio a Roma, di un trattato di amicizia, partenariato e cooperazione.
Infine, voglio affrontare la questione nucleare dell'Iran. Quanto al dossier sul nucleare iraniano, lo sviluppo più significativo, come si sa, è stata l'adozione, il 24 marzo scorso, della risoluzione 1747 del Consiglio di sicurezza, basata anch'essa, come la 1737, sull'articolo 41 del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, resasi necessaria a causa del mancato adempimento da parte iraniana delle precedenti disposizioni del Consiglio di sicurezza. Gli elementi caratteristici della nuova risoluzione sono i seguenti: la 1747 ripete l'obbligo di sospendere le attività di arricchimento e di riprocessamento, nonché la costruzione del reattore ad acqua pesante; la sospensione deve essere verificata dall'AIEA ed il direttore dell'Agenzia deve presentare rapporto al Consiglio di sicurezza entro il 24 maggio 2007; viene proibita l'esportazione dall'Iran di tutte le armi convenzionali e raccomandata particolare cautela (restraint) nella vendita all'Iran degli armamenti convenzionali, indicati nel registro delle Nazioni Unite; la 1747 raccomanda agli Stati e alle istituzioni finanziarie di non prendere nuovi impegni con il Governo dell'Iran relativi a doni, assistenza finanziaria e crediti d'aiuto, ad eccezione dei programmi umanitari e di sviluppo; se l'Iran non avrà ottemperato entro il 24 maggio alle disposizioni della risoluzione 1747, il Consiglio di sicurezza adotterà nuove misure per rispondere al mancato adempimento iraniano.
Anche l'Unione europea ha confermato, a più riprese, il sostegno all'approccio cosiddetto del «doppio binario». Da un lato, disponibilità alla riattivazione del negoziato nucleare, non appena le condizioni da parte iraniana (sospensione dell'arricchimento e del riprocessamento) siano adempiute, sulla base del pacchetto offerto a Teheran da Solana nel giugno 2006; dall'altro, urgente applicazione della risoluzione dell'ONU e disponibilità ad aumentare la pressione attraverso il ricorso al Consiglio di sicurezza.
Il 25 aprile scorso si sono svolte ad Ankara consultazioni bilaterali tra il negoziatore iraniano Larijani e l'alto rappresentante Solana. Non sembra siano emersi elementi di novità dai colloqui, stante il perdurante rifiuto iraniano ad adempiere le risoluzioni 1737 e 1747.
Queste sono, in sintesi, le informazioni.

PRESIDENTE. Ringrazio il viceministro Intini, per aver fornito un quadro utile allo scambio di idee sulle questioni cruciali della situazione mediorientale.
Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

RAMON MANTOVANI. Signor presidente, ringrazio il viceministro per la sua relazione, molto ricca, articolata ed utile alla nostra discussione.
Come lei sa, noi auspichiamo - stavo per dire da diversi mesi, ma sarebbe più esatto parlare di diverse settimane - che l'Italia rompa gli indugi e scelga di avere un rapporto con il Governo palestinese non improntato sulle distinzioni che anche lei qui ha ricordato. A tale riguardo, la posizione dell'Unione europea, è stata già «violata» - anche se in realtà non si tratta di una violazione - dalla Svezia e, se non erro, anche dalla Norvegia. In ogni caso, noi pensiamo che l'Italia, per il ruolo che ha avuto storicamente, e soprattutto in questa ultima fase, possa farsi battistrada di un atteggiamento che naturalmente non è indifferente alla natura delle forze politiche


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che compongono il Governo palestinese. Infatti, anche noi condividiamo talune preoccupazioni circa la natura della forza politica Hamas, molto lontana dal nostro modo di concepire l'organizzazione della società e anche delle istituzioni e dello Stato, caratterizzata da una venatura teocratica, considerata da noi sempre molto preoccupante.
Tuttavia, proprio in ragione di quanto lei stesso ha detto, ossia della natura democratica del processo che ha portato alla formazione del Parlamento palestinese e al parto veramente difficile del Governo, bisognerebbe fare un investimento lungimirante, che verta sulla democrazia e sulla natura democratica del processo, piuttosto che sul giudizio relativo alle forze e alla loro teorica o ideologica approvazione dei famosi tre punti previsti dal Quartetto. Dopodiché, vi è l'approvazione da parte del Presidente e da parte del Primo ministro. Non c'è, quindi, bisogno di «impiccarsi» a quelle definizioni, a meno che non si voglia da un lato mantenere un piede nella scarpa del processo di pace e dall'altro prendere le distanze da eventuali sviluppi negativi. Credo che sia un errore, detto in tutta franchezza.
In altre parole, penso che l'Italia potrebbe essere un po' più coraggiosa e guidare l'azione battendo una strada che potrebbe essere seguita da altri paesi europei (non credo però dall'intera Unione) per dare un vero contributo alla soluzione di questo problema. Ciò sarebbe tanto più opportuno nel momento in cui il Governo Olmert vacilla - si parla, come lei stesso ha ricordato, di elezioni anticipate - e vi è una crisi di credibilità, dovuta ad una vicenda di politica interna. Tale vicenda non verte su un argomento qualsiasi, bensì sul conflitto che Israele ha aperto con il Libano. Non è una questione di poco conto.
Con questo, non voglio dire che dobbiamo intrometterci nella vita interna israeliana, per far trapelare o lasciare intuire le diffidenze del nostro Paese e del nostro Governo nei confronti di questo o di quell'altro protagonista israeliano. Proprio per questo motivo, occorre maneggiare con molta cura l'intera vicenda, perché dall'esito della crisi latente - che potrebbe precipitare in modo concreto - del Governo israeliano potrebbero scaturire esiti che farebbero ripiombare nello scontro, piuttosto che nel progresso del processo di pace. Per questo motivo chiedo che, nello stesso ambito da lei ricordato, l'Italia si renda protagonista di iniziative proprie, che possano contribuire a dipanare la matassa e a risolvere questo problema.
Dalla descrizione che lei ha fatto della situazione libanese, ricaviamo una certa preoccupazione, che mi pare il Governo abbia in qualche modo espresso in questa sede. Noi condividiamo tale preoccupazione, in quanto riteniamo giusto che il Governo italiano non venga utilizzato da nessuna delle posizioni - da lei definite fazioni -, articolate al loro interno, ai propri fini. Dunque, non vogliamo che il nostro Governo venga utilizzato strumentalmente all'interno dello scontro libanese, a maggior ragione a causa della presenza dei nostri soldati nell'ambito della missione ONU.
Sono ancora più preoccupato per la situazione irachena. La nostra Commissione si appresta a svolgere una missione, che credo sia stata già autorizzata e della quale restano da stabilire i dettagli tecnici. Tuttavia, la situazione sta precipitando. Nel dibattito internazionale è rientrata - anche se non dalla porta, come quando fu introdotta da importanti esponenti del dipartimento di Stato - l'ipotesi della tripartizione dell'Iraq.
Finora ho svolto alcune considerazioni, che mi auguro lei possa tenere in considerazione, ma in merito a questo argomento voglio porle una domanda. Pochi giorni fa è stato presente in quest'aula il presidente del Kurdistan iracheno, il quale ha manifestato viva preoccupazione e ribadito la propria volontà di risolvere, pacificamente e con intelligenza politica, ogni problema che si presenta sul piano della vita interna irachena. Il presidente Barzani ha riferito - credo di riportare quasi letteralmente le sue parole - che, mentre nel Kurdistan iracheno esiste una


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situazione di stabilità controllata, nel resto dell'Iraq regna il caos. Non ricordo se abbia usato questo termine, ma il senso della descrizione della situazione, anche per quanto riguarda i rapporti con la Turchia, corrisponde a quanto ho appena riferito. Infatti, la Turchia ha minacciato l'invasione del Kurdistan iracheno, non soltanto per la presunta violazione dei diritti nei confronti della minoranza turcomanna, negata da Barzani e dalle organizzazioni che si occupano della protezione dei diritti umani internazionali. La Turchia è molto prodiga di riconoscimenti per le minoranze turcomanne in altri paesi, ma è molto avara nel riconoscimento dei diritti alle minoranze presenti sul proprio territorio. Proprio in questa chiave, la Turchia vede di cattivo occhio la formazione di uno Stato federato iracheno, e in misura ancora maggiore l'eventuale tripartizione dell'Iraq, che porterebbe alla costituzione di uno Stato curdo indipendente.
Voglio rivolgerle le seguenti domande: Il Governo italiano assiste a questa situazione? Ha opinioni precise in merito? Cosa pensa della posizione statunitense, all'apparenza piuttosto propensa ad appoggiare le posizioni turche? Nell'ambito dell'ipotesi di tripartizione per la soluzione del problema iracheno, viene ventilato un ritiro delle truppe statunitensi nel Kurdistan turco. Quindi, gli Stati Uniti abbandonerebbero progressivamente l'Iraq, per attestarsi in questa zona e garantire la Turchia dalla minaccia di questa eventuale entità curda, vista da Ankara come fumo negli occhi. Ebbene, il Governo italiano ha presente il problema? Quali sono le sue opinioni? Quali sono le azioni che, eventualmente, intende intraprendere?
Volevo soffermarmi su questi aspetti e cogliere l'occasione per ringraziare di nuovo il viceministro per il contributo offerto.

TANA DE ZULUETA. Ringrazio il viceministro Intini per il periodico aggiornamento. Voglio riprendere quanto detto dal collega Mantovani riguardo alla questione palestinese.
Come sicuramente sa, signor viceministro, un consistente e autorevole gruppo di parlamentari europei ha rivolto un appello che riprende grosso modo le argomentazioni del collega Mantovani. Il gruppo ha sottolineato l'importanza di un'apertura di credito più sostanziale nei confronti del nuovo Governo di unità nazionale palestinese, alla luce delle dichiarazioni rilasciate dal primo ministro Haniyeh, riguardo al riconoscimento del negoziato già svolto e all'importanza di una soluzione pacifica. Secondo il mio parere e quello dei colleghi del Parlamento europeo, vi era nelle sue parole un tacito riconoscimento di Israele e del percorso negoziale svolto fin qui. Soprattutto, vi era l'impegno per una soluzione negoziale e non più militare.
Il gruppo di parlamentari europei, guidato da Borrell, ex Presidente del Parlamento europeo, comprende il Partito Socialista, i Verdi e la Sinistra europea (tra i firmatari figurano due o tre parlamentari italiani) nonché un conservatore inglese, il che dà la misura della sua trasversalità. Sono tutte persone investite di una profonda conoscenza dell'area. Quell'appello non fu fatto alla leggera; io stessa l'avrei firmato, se fossi parlamentare europeo. Comprendo che il Parlamento nazionale in un certo senso gode di minore libertà. Tuttavia, ritengo che sarebbe importante tentare di dare seguito all'appello e che pochi paesi siano in una posizione migliore dell'Italia per farlo.
Per quanto riguarda il Libano, è molto importante, nella situazione estremamente fragile di crisi perdurante dal mese di novembre ad oggi, che le parti in causa non percepiscano l'Italia come schierata da una parte piuttosto che dall'altra. La mia convinzione non è dovuta soltanto ad evidenti motivi che riguardano gli spostamenti e la sicurezza del nostro contingente, ma anche al fatto che una posizione super partes ci consentirebbe di essere - e mi auguro che ciò sia possibile - parte attiva nel negoziato per ricomporre l'attuale rottura nazionale. Ritengo che vi siano motivi per ritenere del tutto infondata la querelle sollevata dai partiti che hanno deciso di abbandonare il Governo.


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Tali motivi riguardano, in particolare, le peculiarità del sistema elettorale libanese, che forse potrebbero essere affrontate.
Vorrei trattare un'altra questione, forse troppo delicata. Tuttavia, è un tema che non possiamo non affrontare con molta attenzione. Mi riferisco alla questione del Tribunale e, in particolare, alle modalità con cui si ricorre alla giustizia internazionale per risolvere un gravissimo problema interno. Credo che tale soluzione generi ulteriori problemi. Penso, ad esempio, ai detenuti, che dal momento del loro arresto non hanno potuto difendersi, essendo oggetto di contestazioni penali formali. Per garantire maggior giustizia, rischiamo di inficiare quella libanese.
Ebbene, personalmente mi avvierei con cautela lungo questo percorso, estremamente caro al Presidente Chirac. Tuttavia, credo che vi fossero motivi quasi personali alla base della sua convinzione e che, alla luce della nuova presidenza francese, si potrebbero proporre nuove soluzioni che noi dovremmo prendere in considerazione.
Non voglio rubare troppo tempo. L'altra questione riguarda il dossier - anche questo delicatissimo - del nucleare iraniano. Mi chiedevo, alla luce dell'incontro in Turchia fra Solana e il capo dei negoziatori iraniani, se sulla questione della condizione preventiva, posta dalla Comunità internazionale - ossia la cessazione delle operazioni di arricchimento - non vi sia la possibilità di una face-saving formula (per dirla come gli anglosassoni) per poter aprire un negoziato. A mio parere, se l'Iran potesse salvare le apparenze su questo punto, non vi sarebbero motivi ostativi per un negoziato vero. Infatti, non hanno mai dichiarato l'intenzione di uscire dal trattato e di rinnegare la legittimità del percorso all'interno dell'AIEA.
Ho esposto solo una ipotesi, probabilmente velleitaria.

SANDRA CIOFFI. Voglio ringraziare, innanzitutto, il viceministro Intini che ci tiene sempre aggiornati in modo puntuale e costante, illustrando con precisione la situazione di questi luoghi.
Voglio porre solamente una breve domanda circa i rapporti tra Palestina, Israele e Libano. In questo processo di pace, che si sta portando avanti, più volte ho sollevato la questione dei tanti palestinesi che si trovano in Libano e che rappresentano una grossa spina nel fianco - in aggiunta alla drammatica situazione in cui versa - di questo Paese, già squassato da tanti disagi, a dimostrazione dei grandi problemi che assillano i palestinesi; infatti, tutti noi siamo a conoscenza della loro drammatica situazione. In che modo il nostro Paese sta operando su questo versante?
Infine, vorrei porre un'ulteriore domanda sulla posizione che il nostro Paese sta assumendo. Abbiamo notato che, in questo momento, persino dagli Stati Uniti è in atto un riavvicinamento con la Siria. Quali rapporti vuole mantenere il nostro Paese con la Siria, in questa fase iniziale di disgelo dei rapporti?

ALESSANDRO FORLANI. Condivido le linee essenziali dei passaggi enunciati dal viceministro Intini, che rispecchiano le posizioni assunte in questi delicati scenari dal Governo italiano.
Per quanto riguarda la Palestina, credo che si debba continuare a mantenere una posizione pragmatica, non dogmatica né eccessivamente schematica, utilizzando ogni strumento di pressione possibile, anche quelli relativi agli aiuti e all'assistenza finanziaria, per spingere le autorità attuali dell'ANP ad accettare i principi richiesti dal Quartetto: la cessazione delle violenze, il riconoscimento dello Stato di Israele, l'accettazione degli accordi precedentemente assunti con la comunità internazionale. Allo stesso tempo si deve perseguire e favorire il coinvolgimento del Governo, caratterizzato dalla forte presenza di Hamas, che tuttavia risulta meno consistente rispetto al precedente esecutivo Haniyeh. Esiste un Governo di coalizione, insomma, con questa forte componente al suo interno. Una estraneità sostanziale dell'esecutivo alle relazioni internazionali, finalizzate ai negoziati di pace, rischia alla fine, di indebolire lo stesso ruolo del


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Presidente, Mahmoud Abbas. Recentemente lo abbiamo ascoltato in questa sede; mi è sembrato molto preoccupato e desideroso di potersi sentire più forte, proprio in virtù di un appoggio da parte del Primo ministro e del Governo. In tal modo potrebbe mostrarsi più saldo davanti alla comunità internazionale, in quanto rappresentativo di tutte le componenti interne, compresa quella ancora estrema, ma che risulta essere costituita da tante anime e che al suo interno presenta diversi impulsi e diverse strategie. Come sempre in movimenti del genere, in Hamas vi è una parte più orientata alla collaborazione costruttiva e all'accettazione di un metodo di lavoro istituzionale ed un'altra che ancora persegue la destabilizzazione e la disgregazione, ostacolando il raggiungimento di una soluzione diplomatica.
Ascoltando le parole del ministro, mi è sembrato di capire che ci si debba muovere nell'ottica della pressione affinché il movimento abbandoni le posizioni più violente ed estremistiche. Allo stesso tempo si accetta l'interlocuzione, se non con Hamas, almeno con il Governo, che ha tra le sue componenti anche quel movimento.
Per quanto riguarda il Libano, credo che le vicende più recenti confermino il valore della missione delle Nazioni Unite, cui abbiamo garantito un apporto assai rilevante. Ebbene, tale missione consente ancora oggi di mantenere la tregua in una situazione di fragile pacificazione e stabilità in quell'area, mentre tutte le gravi questioni che caratterizzano il rapporto tra le componenti sociali di quel Paese restano in piedi: soldati catturati, le fattorie di Sheba'a, il traffico di armi, il ruolo ambiguo di Hezbollah. Mi riferisco, in altre parole, ad una crisi istituzionale, per la quale non si intravede alcuna soluzione, che passa per la difficile successione al Presidente Laoud. Credo che sia essenziale il coinvolgimento e la disponibilità della Siria ad un atteggiamento più chiaro e costruttivo dei suoi rapporti con Hezbollah e la sua rinuncia ad improprie ingerenze, quando non ad impulsi verso azioni destabilizzanti.
Credo nella giustizia internazionale e nella necessità di perseguire i crimini internazionali e di non eludere le esigenze di giustizia, diffusamente invocate anche in Libano a seguito della morte di Hariri e di Gemayel e di molti altri parlamentari caduti in attentati di oscura matrice. Tuttavia, in questo momento, non so quanto sia utile esasperare eccessivamente la pressione per riconoscere il ruolo della giustizia internazionale né se tale obiettivo garantisca la disponibilità della Siria a svolgere un ruolo importante nell'azione di pacificazione del Libano, rinunciando ad improprie ingerenze e alla concezione quasi coloniale finora dimostrata nei confronti di questo Paese.
Per tutti questi scenari e per tutti questi teatri di crisi ritengo sempre più essenziale il coinvolgimento dei paesi frontalieri e di tutti gli attori interessati. Lo stesso discorso svolto per la Siria nei confronti del Libano, vale per la Siria stessa, per l'Iran e per la Turchia nei confronti dell'Iraq. Il coinvolgimento di tutti gli attori avviato a Sharm El Sheikh, il 3 e 4 maggio può essere condivisibile. La soluzione confederale e la ripartizione delle risorse petrolifere fra i diversi territori e le diverse etnìe, la questione delle pensioni dei funzionari e dei militari, sono problemi che hanno inciso fortemente sull'instabilità, sulla guerriglia e sulla mattanza registrate fino ad oggi. Sono queste le priorità che devono essere affrontate dai vari attori interessati. Il grande appello che occorre rivolgere alle autorità e alla classe dirigente del nuovo Stato, in una fase così travagliata è quello per la democrazia, la tolleranza e il rispetto dei diritti umani. Su questi punti, anche a causa della situazione di violenza e di guerriglia, siamo ancora molto indietro. L'auspicio è che si possa arrivare ad una chiarificazione anche su questi temi, prima che l'ultimo soldato della comunità internazionale lasci quel territorio. Proprio domenica è giunta la notizia di una ragazza lapidata per una fuga d'amore sotto gli occhi della polizia, che è rimasta inerte e che ha rinunciato ad intervenire, lasciando


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che questa barbarie - non la chiamo neanche giustizia - si perpetrasse spontaneamente.
Se sono questi i risultati per i quali ci siamo mossi per riportare la civiltà in quel Paese, la situazione è emblematicamente avvilente.

PRESIDENTE. Do la parola al viceministro Intini per la replica.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Mi sembra di aver colto dagli interventi della maggioranza e dell'opposizione una grande unità di intenti sulle crisi del Medio Oriente. Mi limito ad esporre qualche riflessione e a fornirvi qualche ulteriore informazione.
I paesi del Golfo, a cominciare dall'Arabia saudita, da qualche tempo evidenziano un attivismo straordinario, poiché si rendono conto del grande pericolo cui sono sottoposti. Un tempo la Germania era considerata allo stesso tempo un gigante economico e un nano politico. Fino a poco tempo fa, si utilizzava la medesima espressione per i paesi del Golfo, che invece oggi stanno diventando politicamente assertivi, in particolare Riad.
È naturale che vi sia uno stretto rapporto tra noi e i paesi del Golfo, dal momento che abbiamo interessi comuni. Sul piano economico, ad esempio, abbiamo molto da avvantaggiarci a vicenda, nonché un interesse e un approccio comune alla stabilità del Medio Oriente. Da un canto, sia l'Europa che i paesi del Golfo sono alleati degli Stati Uniti; dall'altro hanno a cuore le ragioni della Palestina e del mondo arabo.
Mi rivolgo in questi termini in quanto ieri a Riad è stato compiuto un passo conclusivo per un accordo di Free Trade Agreement tra Europa e paesi del Golfo, il che significa che si pongono le basi per una sorta di partnership, con grandi implicazioni non solo economiche, ma anche politiche. Nel corso della riunione di ieri si è parlato molto della Palestina. A tal proposito, bisogna sottolineare che questi paesi sono veramente esasperati per la situazione di stallo e apprezzano molto la posizione italiana. Tutti hanno notato l'esistenza dello spartiacque posto di fronte a noi: da una parte, si può scivolare verso un percorso virtuoso, ossia il negoziato, e dell'altro si può declinare verso l'acuirsi delle tensioni, del terrorismo e, persino, verso i prodromi di una nuova guerra. Quest'area non può rimanere a lungo in tale situazione.
Il percorso virtuoso si potrebbe concretizzare nel momento in cui i rappresentanti di Giordania ed Egitto verificassero una minima disponibilità israeliana, in modo da avviare un negoziato con la Lega araba. La disponibilità che gli arabi vorrebbero cogliere consiste sostanzialmente nell'arresto della costruzione del muro e nella fine degli insediamenti. In caso contrario, vi sarebbero pochi punti su cui discutere. È mia intenzione informarvi di questo sviluppo, in quanto è a mio parere strategicamente importante riuscire a stabilire la partnership tra Europa e paesi del Golfo.
Da qualche settimana, noi italiani ci siamo tolti qualche soddisfazione; infatti, la posizione che abbiamo tenuto negli ultimi tempi si è dimostrata vincente. Abbiamo sempre affermato che è necessario un approccio multilaterale e non unilaterale. Sharm El Sheik rappresenta la concreta dimostrazione che, finalmente, l'approccio multilaterale è stato tentato. Non si possono sperare grandi risultati da una conferenza siffatta; tuttavia essa resta un passo importante.
Tra l'altro, avevamo proposto a suo tempo una conferenza internazionale tra i paesi confinanti per l'Afghanistan. Infatti, se si è operato in tal senso per l'Iraq, per quale motivo non si dovrebbe prendere in considerazione anche l'Afghanistan? La logica è sempre la stessa. Avevamo sempre affermato che la Siria e l'Iran sono parte del problema, ma che possono essere parte della soluzione e che comunque discutere non fa mai male. Alla fine, Condoleezza Rice si è seduta allo stesso tavolo con Siria e Iran, fino a poco tempo considerati paesi appartenenti all'asse del male. Dunque, ci


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siamo tolti qualche soddisfazione e possiamo trovare qualche motivo di conforto negli sviluppi degli ultimi mesi.
La situazione in Iraq presenta sempre maggiori motivi di preoccupazione. Tra l'altro, aggiunge preoccupazione a preoccupazione la situazione che ho riscontrato a Riad, dove mi sono recato un mese fa dopo il vertice della Mecca per capire il pensiero dei Sauditi, diventati uno dei motori della diplomazia della zona. È motivo di preoccupazione il fatto che i paesi arabi, a cominciare dell'Arabia saudita, non nutrano alcuna fiducia nel governo iracheno. Infatti, dalle loro battute si comprende che sono contrarissimi al governo Al Maliki, che considerano sbilanciato a favore dell'Iran e, comunque, non rispettoso della minoranza sunnita. Naturalmente tale situazione non autorizza alcun ottimismo.
L'idea di una tripartizione, onorevole Mantovani, ci vede assolutamente contrari. Con la guerra in Iraq è stato già scoperchiato il vaso di Pandora; con la tripartizione se ne aprirebbero altri tre, poiché si creerebbe un punto di riferimento curdo, uno sciita e uno sunnita alla disgregazione dell'intera regione. Infatti, se è possibile ritenere che l'Iraq sia uno Stato artificioso, bisogna considerare che ve ne sono anche altri. Se cominciamo a smantellare gli Stati, chissà dove finiremo!
Bisognerebbe preoccuparsi anche della prospettiva di un intervento turco. Le elezioni sono vicine e questo non favorisce la moderazione. L'esercito turco si trova in una condizione di grande irritazione, per i motivi che conosciamo. Non si parla di invasione, ma di intervento mirato a liquidare le basi dei guerriglieri - o terroristi, ciascuno li chiama come vuole - curdi che combattono la Turchia. Insomma, tale prospettiva pericolosa esiste, anche perché sullo sfondo è presente il problema dello statuto di Kirkuk, del referendum e la questione dei turcomanni di Kirkuk, che vantano una grande tradizione. Vi è chi sostiene che la città sia stata in qualche modo fondata dai turcomanni, che rappresentano la borghesia, la classe dirigente e che successivamente sono stati travolti da un'ondata di immigrati dovuta all'industria petrolifera. In altre parole, siamo in presenza di un problema molto delicato.
A proposito di problemi delicati e angosciosi che riguardano l'Iraq, è necessario ricordare quello dei rifugiati. Se ne parla poco, ma esistono due milioni di rifugiati iracheni, di cui più di 1 milione in Siria e 700-800 mila in Giordania. Si tratta di una situazione catastrofica, di cui si è parlato a Ginevra una decina di giorni fa, in una conferenza convocata da Gutierrez, l'alto commissario per i rifugiati. In proposito l'Italia ha promesso che farà qualcosa di più.
Questo problema non è così visibile nella sua drammaticità poiché non esistono grandi tendopoli da filmare e trasmettere in televisione. Gli esuli hanno trovato posto in case, appartamenti e presso famiglie. Ad ogni modo, si tratta di un problema veramente drammatico che, tra l'altro, sottopone la Siria, in particolare, ma anche la Giordania ad uno stress tremendo. Facendo le debite proporzioni, sarebbe come se in Italia improvvisamente arrivassero sei milioni di albanesi. Ricordo che i paesi che ospitano gli esuli sono piccoli.
Per quanto riguarda la Palestina, voglio precisare che l'Italia fa parte dell'Europa ed è difficile che possa assumere una posizione formale diversa da quella dell'Unione europea. La Norvegia e la Svizzera, ad esempio, si muovono più liberamente poiché non fanno parte dell'Unione. Ho incontrato a Roma il sottosegretario norvegese, che si occupa di tali questioni. In quell'occasione mi ha informato dei passi realizzati - anche molto utili -, uno dei quali consente alla Norvegia di muoversi con maggiore cognizione di causa sul terreno palestinese. Insomma, l'Italia è vincolata al resto dell'Europa. Tuttavia, un approccio pragmatico è sufficiente a gestire la situazione. Infatti, sul piano pratico, incontriamo Abu Mazen, il ministro degli esteri e il ministro delle finanze (indipendente) e discutiamo di tutte le questioni principali.


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Naturalmente, quando i colleghi e gli amici dei paesi arabi pongono la questione, si può loro rispondere che un tempo - l'esperienza ci insegna - Arafat era definito terrorista e raffigurato come una persona con la quale non si poteva dialogare, perché non riconosceva lo Stato di Israele, mentre in seguito la situazione è cambiata. In altre parole, non bisogna mai essere pessimisti sulle prospettive di evoluzione. In proposito, ho ben presente l'appello di un gruppo di parlamentari europei molto influenti.
Sulla questione del Libano, concordo con l'osservazione dell'onorevole De Zulueta, secondo cui sarebbe un errore far percepire l'Occidente o l'Italia come una parte schierata all'interno del conflitto politico libanese. Noi affermiamo sempre che Siniora è un punto di riferimento importante per la sua credibilità internazionale. Ad ogni modo, non sarebbe nemmeno nell'interesse di Siniora manifestare un appoggio troppo palese nei suoi confronti, in quanto verrebbe dipinto come un fantoccio straniero e per questo motivo non affidabile. Dobbiamo essere molto prudenti per dare una doverosa impressione di neutralità rispetto al conflitto politico interno al Libano. Naturalmente, dobbiamo cercare di fornire un aiuto, nei limiti del possibile, per superare questo conflitto politico e arrivare a una soluzione condivisa, anche per ciò che riguarda il Tribunale internazionale.
Mi convincono le osservazioni degli onorevoli Forlani e Cioffi, rivolte all'esigenza di muoversi con prudenza nonché di coinvolgere in qualche modo la Siria in tutta la crisi dell'area. Come è possibile coinvolgere la Siria, se nello stesso tempo si favorisce l'impressione che il suo Presidente della Repubblica possa finire in galera o, comunque, essere accusato dell'assassinio di Hariri? È necessario assumere una posizione ragionevole e prudente.
A proposito dei campi profughi di palestinesi in Libano, la Cioffi solleva una questione annosa, ma non per questo considerata, a priori, irrisolvibile. Il senatore Andreotti, che ha esperienza in materia, in Commissione al Senato spesso dichiara che la grande vergogna, assolutamente intollerabile, è che vi siano palestinesi nei campi profughi in Libano che da decenni non hanno diritti civili, cittadinanza, passaporto né possibilità di lavorare regolarmente, diventando - mi permetto di aggiungere - in questo modo un possibile punto di infiltrazione per terroristi ed estremisti di ogni tipo. Difatti, quello è il terreno sul quale l'estremismo prospera.
Sulla questione dell'Iran è necessaria, probabilmente, molta fantasia e un po' di creatività per superare l'empasse nella quale ci si trova. Può anche darsi che impostare il problema come si fa adesso, avviando la trattativa solo dopo la sospensione dell'arricchimento, sia un modo per infilarci in una strada senza uscita. Probabilmente, gli iraniani hanno bisogno anche di salvare le apparenze, motivo per cui risulta necessaria qualche proposta creativa e innovativa, che tuttavia non manca. Vi è chi parla, ad esempio, della possibilità che un consorzio internazionale gestisca l'attività nucleare civile, dando in questo modo garanzia alla comunità internazionale che l'attività non passi dall'ambito civile a quello militare. Insomma, non ci si può rassegnare all'idea che sia partito un treno destinato a sbattere dritto contro il muro. Il treno è quello delle sanzioni, che avranno una escalation se nulla accadrà nel frattempo. Di sanzione in sanzione, si arriverà al top delle sanzioni stesse e, infine, ad un intervento militare, considerato da tutti catastrofico. Dunque, bisognerà pur fermare questo treno lanciato contro il muro.
Nella giornata di ieri, al vertice di Riad tra Europa e paesi del Golfo - «iperinteressati», com'è evidente, alla questione del nucleare iraniano - è stato diramato un comunicato finale congiunto, che contiene in sé tutte le contraddizioni presenti davanti ai nostri occhi. Da un lato, si afferma che bisogna continuare a dialogare con l'Iran, lasciando aperta la strada alla trattativa; da un altro, che non si possono escludere nuove sanzioni; da un altro lato ancora, che un'azione militare


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deve essere assolutamente esclusa e, infine, che deve essere altresì escluso che l'Iran possa acquisire una capacità nucleare militare.
Sono tutte posizioni giuste, se prese singolarmente. Il problema, difficile da risolvere resta quello di trovare il modo per farle coincidere e soddisfarle tutte. Il punto chiaro è che i paesi del Golfo, che ne sanno e che sono interessati più di noi, considerano quasi ovvio che, qualora l'Iran acquisisse una capacità nucleare militare, subito dopo si avvantaggerebbero di tale tecnologia anche l'Arabia saudita e l'Egitto, per cui vi sarebbe una micidiale proliferazione nucleare in una zona «esplosiva». Su tale sfondo, inoltre, tutti i paesi arabi pongono sempre la questione del nucleare militare israeliano, che esiste da alcuni decenni.
Penso che la situazione del Medio Oriente sia in fase di attesa e potrebbe scivolare da una parte o dall'altra. A giudicare dalle osservazioni sollevate, noi faremo il possibile, con l'appoggio della maggioranza e dell'opposizione, per farla scivolare dalla parte positiva, per quel poco che la diplomazia italiana può fare.

PRESIDENTE. Ringrazio il viceministro Intini. Avremo modo di prendere nuovamente in considerazione tali questioni, dal momento che gli avvenimenti, come lei ha detto, sono incalzanti.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,10.