COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di marted́ 19 giugno 2007


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE UMBERTO RANIERI

La seduta comincia alle 14,05.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del viceministro degli affari esteri, Ugo Intini, sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del viceministro degli affari esteri, Ugo Intini, sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente.
Ringrazio il viceministro Intini di aver garantito la sua presenza all'audizione odierna per discutere degli sviluppi della situazione in Medio Oriente, questione particolarmente delicata che forse meriterebbe maggiore impegno da parte dei deputati.
Do la parola al viceministro Intini per la sua relazione.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Signor presidente, innanzitutto è opportuno riassumere la cronaca dei fatti, sebbene sia ben conosciuta.
La situazione nella Striscia di Gaza sembra essersi consolidata con l'assunzione da parte di Hamas del controllo del territorio. Gli scontri intorno alla sede del palazzo presidenziale, dove erano asserragliate le ultime forze fedeli al presidente Abbas, si sono conclusi nella notte del 14 giugno con la vittoria finale delle milizie islamiche. La calma sembra essere tornata in tutta la Striscia dopo cinque giorni di violenti combattimenti, che hanno provocato oltre cento morti. Contemporaneamente alla resa delle sue forze, il Presidente Abbas ha sciolto il Governo di unità nazionale e ha dichiarato lo stato di emergenza, che gli ha consentito nella giornata del 15 giugno di nominare un nuovo Governo, diretto da Salam Fayyad, già Ministro delle finanze nel Governo di unità nazionale.
Fayyad è l'architrave del nuovo Governo. Suoi, infatti, oltre all'incarico di Primo Ministro, sono anche i portafogli degli esteri e delle finanze. Il Ministro dell'interno è Abd Al-Razzaq Alyehya, militare navigato (77 anni), con una lunga esperienza nell'OLP e nell'ANP.
Da Gaza, Haniyeh ha dichiarato illegale lo scioglimento del Governo di unità nazionale, di cui era a capo, affermando che esso continuerà comunque a svolgere il suo ruolo e ad espletare le sue funzioni. In questa sua veste ha dunque immediatamente emesso una serie di decreti mirati al settore della sicurezza, dando ordine alla forza esecutiva - tornata operativa insieme alla polizia civile - di impedire la circolazione di miliziani a volto coperto e creando l'Higher Council for the Police sotto il comando di Tawfiq Jabr e Maher Al Ramli (Brigate Al Qassam). Israele, intanto, ha chiuso tutti i valichi con la Striscia.
La sconfitta militare di Fatah a Gaza, pur prevedibile per lo squilibrio in termini di dotazione, di addestramento e di motivazioni, si deve attribuire principalmente


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alla mancanza di coerenti direttive militari e di una salda direzione. Tale impreparazione è sembrata gravemente contrastare con la struttura ben ragionata ed efficace di Hamas, che ha invece dimostrato coesione lungo tutta la filiera di comando.
Fatah sembra comunque aver avviato la resa dei conti per la sconfitta bruciante. Abbas avrebbe formato una commissione di inchiesta interna al partito, probabilmente con l'intento di riesaminare la condotta di Mohammed Dahlan, che aveva l'incarico di gestire e formare l'apparato di sicurezza di Fatah nella Striscia. Ora se ne invoca da più parti il processo, non solo per la sconfitta militare, ma per la sua rapidità e per la pessima figura fatta dalla guardia presidenziale, che si è praticamente «liquefatta» al primo scontro con gli avversari. Dahlan è tornato l'altro ieri dall'Egitto, dove si trovava per un'operazione chirurgica.
In un quadro così gravemente deteriorato, mancano completamente i presupposti politici minimi per riavviare il dialogo tra le due forze politiche. A Nablus e in altre città della Cisgiordania ai militanti di Hamas è stato intimato di lasciare il Paese. A Ramallah solo l'intervento di un alto dirigente di Fatah ha dissuaso un gruppo di uomini delle milizie «Brigate dei martiri di al-Aqsa» dal rapire il vicepresidente dell'Assemblea legislativa, Hassan Khreisheh, membro di Hamas.
Le condizioni poste da Hamas per avviare un negoziato sono al momento estremamente restrittive ed è pregiudiziale che Dahlan non partecipi più ai negoziati tra le due parti. Si esige, inoltre, l'attuazione della riforma dell'OLP con l'accettazione di Hamas, la condivisione fra Fatah e Hamas dell'esercizio del potere nelle istituzioni palestinesi, nonché il riconoscimento della Forza esecutiva (così si chiama), con il suo inquadramento nell'ambito del Ministero dell'interno e il suo coinvolgimento nel National Security Plan. Una secca dichiarazione di Nabil Amro, portavoce di Abbas, ha immediatamente rigettato tali condizioni.
Il rischio è che ora la crisi si estenda anche in Cisgiordania, dove però i rapporti di forza tra Fatah e Hamas sono invertiti e la presenza delle forze israeliane costituisce un forte elemento di dissuasione. Le milizie di Fatah da Nablus hanno già risposto all'ultimatum di Hamas nella Striscia con un altro analogo, minacciando i suoi membri in loco. Non fermare tempestivamente le violenze significherebbe separare con le armi - seppur forse temporaneamente - le sorti dei due tronconi dei Territori palestinesi in uno scenario di profonda lacerazione.
Il crollo del Governo di unità nazionale costituisce dunque indubbiamente uno sviluppo estremamente allarmante e negativo, le cui conseguenze sul processo di pace arabo-israeliano si rivelano potenzialmente distruttive. Gli eventi di questi giorni non devono però rappresentare una ragione per abbandonare il cammino della pace o la soluzione dei due Stati, bensì devono costituire uno sprone per promuovere ancora più attivamente il dialogo.
Il successo militare di Hamas nella Striscia di Gaza complica le prospettive di soluzione della questione palestinese. Un punto fermo, in uno scenario di crisi caratterizzato da grande volatilità e precarietà, è costituito dalla leadership del Presidente dell'ANP, Abbas. Riteniamo necessario e urgente adoperarsi a rafforzarla con ogni mezzo. È stato dunque opportuno che la Comunità internazionale - e in particolar modo l'Unione europea, in occasione della riunione di ieri dei Ministri degli affari esteri - abbia ribadito il pieno sostegno al Presidente Abbas ed in particolare alla sua decisione, presa conformemente alle sue attribuzioni, di dichiarare lo stato di emergenza e di formare un Governo per i Territori palestinesi, guidato da Salam Fayyad, sottolineando l'importanza della Legge fondamentale palestinese. Tutti i partiti palestinesi devono adesso conformarsi a tali decisioni, tenendo conto del fatto che la riconciliazione e l'unità nazionale, invocate nel programma di pace articolato dal Presidente Abbas, rappresentano l'unica strada per realizzare gli obiettivi nazionali palestinesi.


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La soluzione del conflitto israelo-palestinese deve essere certo raggiunta di comune accordo fra le parti, ma occorrono un approccio più assertivo del Quartetto e della comunità internazionale, un'indicazione chiara dei parametri generali di una soluzione finale di pace e la convinzione che nessuno dei problemi di status finale sia insormontabile e che molte possibili soluzioni siano già state individuate nel corso dei precedenti negoziati.
Fino a quando i due popoli, israeliano e palestinese, non avranno una precisa prospettiva di pace su cui appuntare speranze e su cui esprimersi, prevarrà la sfiducia e in tempi di sfiducia le voci più estremistiche sovrastano le altre.
Questo è dunque il momento opportuno per riaffermare con ancora più intensa fermezza la necessità di un orizzonte politico di pace attraverso una soluzione bi-statuale. Il piano di pace arabo è ancora sul tavolo negoziale e l'Italia lo considera una base seria per rilanciare i negoziati, non appena la situazione si sarà nuovamente stabilizzata.
In questo quadro, si sta iniziando a discutere l'idea di inviare una missione internazionale nella Striscia. Il 12 giugno il Primo Ministro israeliano Olmert, in occasione del suo incontro con il Ministro degli affari esteri olandese, ha invitato l'Occidente a prendere «seriamente» in considerazione l'invio di una forza multinazionale al confine tra la Striscia di Gaza e l'Egitto, sul modello dell'UNIFIL in Libano, con l'obiettivo di arrestare il rafforzamento delle forze radicali di Hamas.
La proposta è stata rilanciata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite anche dal Segretario generale Ban Ki Moon, dopo aver ricevuto una richiesta di segno analogo dal Presidente Abbas, che sollecitava l'invio di una «presenza internazionale» nella Striscia.
L'eventualità è stata presa in considerazione dai membri del Consiglio di sicurezza, che riconoscono tuttavia le difficoltà di una missione internazionale a Gaza, soprattutto in considerazione delle immediate prese di posizione di alcuni leader di Hamas, secondo i quali un contingente internazionale verrebbe considerato in pratica come una «forza di occupazione».
In realtà, l'idea lanciata dal Primo Ministro israeliano ha una valenza essenzialmente di politica interna. L'obiettivo della forza internazionale proposta da Olmert comporterebbe infatti il controllo del confine tra Egitto e Striscia di Gaza per impedire i rifornimenti di armi e munizioni ad Hamas e assumerebbe quasi la forma di un cordone di sicurezza in grado di accentuare l'isolamento della Striscia.
L'ipotesi di una missione internazionale va comunque studiata seriamente, definendo accuratamente la sua portata e le sue finalità. Essa non dovrà costituire un forza militare da schierare semplicemente al confine tra Gaza ed Egitto per controllarlo e sigillarlo. La missione sarebbe forse in grado di contribuire alla stabilizzazione dell'area solo nel caso in cui una tregua stabile e concordata tra le due forze in conflitto fosse propedeutica ad una seria ripresa del dialogo tra l'Autorità nazionale palestinese e Israele, con una presenza politica della comunità internazionale più assertiva di quella finora prodotta dal Quartetto. Dovrà inoltre essere integrata da un piano di assistenza umanitaria, inteso ad alleviare concretamente le condizioni di vita della popolazione palestinese, che a Gaza sono particolarmente drammatiche. Dovrà essere imperniata su una partecipazione sostanziale di Paesi arabi e accompagnata da immediate misure di fiducia e sicurezza, concordate fra le parti.
La situazione è certamente difficile, ma gli israeliani non possono rinunciare ad una esistenza sicura e i palestinesi al diritto di un loro Stato indipendente, condizioni irrinunciabili, ora più che mai. Anzi, si tratta di due facce della stessa medaglia. Non è il momento infatti di porre in discussione la soluzione bi-statuale, bensì quello di affermarla con maggiore fermezza e maggiore urgenza.
Passiamo brevemente all'aggiornamento sulla situazione in Libano, d'altronde strettamente interconnessa. La tensione fra i due schieramenti e quella nel Paese restano alte, specialmente dopo l'ennesimo


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episodio di terrorismo che ha causato l'uccisione di una decina di persone, tra cui il presidente della Commissione difesa del Parlamento, Walid Eido, e del suo figlio primogenito. Il parlamentare era un eminente membro della «Corrente del futuro» di Saad Hariri, tenace avversario dell'influenza della Siria nel Paese e tra i più convinti sostenitori delle posizioni del Premier Siniora. Nel suo assassinio molti hanno individuato la mano di chi mira a decimare i ranghi dell'attuale maggioranza parlamentare per farla scendere dal numero originario di 71 sotto la fatidica soglia di 65, al di sotto della quale essa cesserebbe di essere tale. Quella di Walid Eido segue con triste cadenza l'uccisione del Ministro dell'industria e parlamentare, Pierre Gemayel, avvenuta il 21 novembre dello scorso anno.
L'Esecutivo riesce comunque a governare, anche se l'opposizione ne contesta la legittimità asserendo che il Governo Siniora non rappresenti tutto il Paese e chiedendo quindi la formazione di un Governo di unità nazionale, ipotesi sulla quale alcuni componenti della maggioranza (Siniora, Hariri) sembrano ora disponibili ad aprire un negoziato.
L'istituzione del Tribunale internazionale, sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, con la risoluzione del Consiglio di sicurezza 1757, adottata il 30 maggio scorso ed entrata in vigore il 10 giugno, dovrebbe consentire di eliminare dall'agenda politica libanese uno degli elementi di dissidio tra gli opposti schieramenti. La costituzione del Tribunale è stata infatti osteggiata dall'opposizione, che vi scorge la longa manus di Francia e Stati Uniti negli affari interni libanesi, mentre è fortemente voluta dall'Esecutivo Siniora, che ha peraltro già avviato gli adempimenti tecnici necessari per la costituzione del Tribunale.
Il prossimo complicato nodo politico da sciogliere resta l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Il mandato del Presidente Lahoud si concluderà infatti il prossimo 24 novembre e occorrerà individuare un candidato in grado di coagulare il consenso di maggioranza e opposizione.
In questo processo, il Patriarca Sfeir, quale massimo referente della comunità cristiana in Libano, avrà un ruolo decisivo giacché la Costituzione - o comunque la prassi - da sempre prevede che il Capo dello Stato sia di fede cristiano-maronita, così come il Presidente del Parlamento deve essere sciita e il Primo Ministro sunnita.
Sul fronte della sicurezza interna, invece, si registra un progressivo deterioramento della situazione, in seguito agli scontri scoppiati tra l'esercito libanese e i miliziani di Fatah al-Islam nel campo profughi palestinese di Nahr al-Bared a Tripoli, scontri che potrebbero diffondersi all'interno di altri campi, come sta accadendo in quello di Ain el Helweh a Saida e anche al di fuori di essi.
Questa mattina, però, ho avuto un incontro con l'ambasciatore libanese, che ha dichiarato di ritenere come l'esercito libanese possa risolvere questa questione nelle prossime ore o al massimo entro la giornata.
Siniora ha affermato con decisione che il confronto in atto a Nahr el Bared non deve essere interpretato come uno scontro tra il Libano e i palestinesi che vi risiedono, ma come un conflitto tra le democratiche e legittime istituzioni del Paese e un movimento estremista di ispirazione qaedista che, arrecando grave pregiudizio alla stabilità del Libano e alla stessa causa palestinese, dovrà essere sradicato. In effetti, è proprio così.
Sebbene il Governo abbia compiuto molti sforzi per evitare una soluzione traumatica della crisi che colpirebbe la popolazione civile, il progressivo dispiegamento di postazioni di artiglieria pesante intorno al campo di Nahr el Bared fa ritenere ormai imminente un attacco di vasta portata che però eviti di provocare vittime tra i civili.
Dal 28 maggio è presente in Libano una missione dell'UNSG di valutazione del monitoraggio della frontiera libanese (LIBAT) che entro questo mese presenterà un rapporto


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sulle misure per accrescere l'efficacia del controllo sul traffico di armi provenienti dalla Siria, segnalato anche da Ban Ki-Moon nel suo rapporto di aprile sull'applicazione della risoluzione 1701.
Merita infine di essere ricordato il rinnovato attivismo della Presidenza Sarkozy sullo scenario libanese, con una politica di maggiore apertura alle forze dell'opposizione per ricollocare la Francia - rispetto alla precedente linea di Chirac - su una posizione di maggiore equidistanza tra i due schieramenti.
In questa chiave deve essere interpretata la prossima conferenza di La Celle Saint-Cloud, nei pressi di Parigi, sulla ripresa del dialogo interlibanese, che si svolgerà dal 29 giugno al 1o luglio prossimi, alla quale parteciperanno quattordici personalità che hanno già preso parte al «Dialogo nazionale» interrotto nel giugno 2006, e i «numeri due» di tutti i partiti politici libanesi. Accolta a Beirut con favore da tutti gli schieramenti, l'iniziativa potrà essere utile per favorire un disgelo tra le parti, ma difficilmente aiuterà a trovare una soluzione definitiva dell'attuale situazione di blocco della crisi libanese.
È importante piuttosto che tutti i Paesi della regione, in particolare la Siria, si adoperino per promuovere una soluzione pacifica della crisi che stringe il Paese. La recente visita del Ministro D'Alema a Damasco aveva proprio l'obiettivo di coinvolgere la Siria in un processo virtuoso, in cui siano garantite l'indipendenza e l'integrità territoriale del Libano attraverso la piena attuazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza 1701 e 1584.
In occasione degli incontri tenutisi in Siria, il Ministro D'Alema ha in particolare prospettato al Presidente Assad la disponibilità dell'Italia a coinvolgere la Siria in un esercizio comune di stabilizzazione e di sviluppo della regione, unicamente qualora essa dimostri con i fatti di voler agire in buona fede e nell'interesse della pace, della stabilità e della sicurezza degli altri attori regionali, rinunciando ad ogni indebita ingerenza negli affari interni libanesi.

PRESIDENTE. La ringrazio, viceministro Intini. Abbiamo tempo per una rapida e stringente discussione.
Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

MARCO ZACCHERA. Signor viceministro, parto dall'ultima battuta. Oggi ho infatti depositato una interrogazione rivolta al Ministro D'Alema per avere qualche informazione in più sulle voci diffuse in Israele sui suoi colloqui con il Presidente e con gli altri leader siriani, in merito al coinvolgimento della Siria in un piano di pace o, comunque, in un processo di stabilizzazione della regione. L'intento sarebbe infatti condivisibile in linea teorica, ma anche lei ricordava un attimo fa come la Siria sia accusata di traffico d'armi. Pertanto, appare complesso chiedere alla Siria stessa di essere più seria e di inserirsi in un circuito virtuoso se contestualmente affermiamo il suo coinvolgimento nel traffico di armi.
Forse gli israeliani esagerano nel distillare appositamente veleno, sostenendo che l'Italia commerci con la Siria (come dire: «noi chiudiamo un occhio, ma voi non sparate sui nostri soldati») però in questo modo ci esponiamo a facili critiche.
Vorrei chiedere dunque di conoscere la questione più in dettaglio. Gli auspici sono sempre utili e la Siria è una pedina importante dello scacchiere, tuttavia è indubbio che «faccia un po' la furba». La visita del Ministro D'Alema ha coinciso tra l'altro con il noto attentato che ha ulteriormente aumentato la tensione in Libano, da ricollegarsi anche in questo caso ai servizi segreti siriani. Vorremmo insomma qualche dettaglio in più.

ALÌ RASHID KHALIL. Signor presidente, intervengo per esprimere profondo apprezzamento per l'illustrazione del viceministro.
Ritengo però che la situazione in Medio Oriente abbia raggiunto livelli di straordinaria drammaticità, e che di conseguenza anche lo sforzo richiesto dovrebbe essere straordinario. Il tempo in Medio Oriente si è dimostrato «non galantuomo», e si constata


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un rapido deterioramento della situazione generale, che si accompagna ad un deterioramento culturale, umano, politico ed economico che colpisce tutta la regione.
Le guerre civili in Medio Oriente sembrano collocarsi entro questa strategia della guerra permanente, che prosegue in Medio Oriente, tanto che negli ultimi giorni le truppe americane hanno fornito armi anche alle tribù sunnite per difendersi in chiave antisciita. Sicuramente gli scontri intestini tra Fatah e Hamas hanno origini di politica interna ricollegabili al modo con cui le forze dell'ordine hanno gestito l'ideologia politica radicale di Hamas, tuttavia sembra anche che esistano elementi esterni alla realtà palestinese, che spingono le parti ad uno scontro da cui la situazione risulterà ulteriormente deteriorata.
Questo vale anche per la situazione in Libano. Il Paese è diviso in due blocchi e pronto ad esplodere in qualsiasi momento, così come accade al rapporto tra Iran e Paesi arabi e a quello tra sunniti e sciiti. Si stanno quindi cercando gli elementi di divisione nella regione, per compensare con risorse locali il mancato appoggio della società americana alla guerra permanente e il defilarsi delle nazioni «volenterose», non più disposte ad inviare eserciti in quelle zone. Tutte le iniziative assunte dal Governo italiano per la pacificazione sono utili, importanti e devono essere rafforzate. Tuttavia, in mancanza di un approccio più complessivo che indichi l'obiettivo del riavvio del processo di pace basato su due Stati e due popoli e sulla normalizzazione dello Stato di Israele in Medio Oriente, in cambio di un completo ritiro dai territori occupati nel 1967, temo che anche lo sforzo che stiamo compiendo non possa raggiungere gli obiettivi sperati.

TANA DE ZULUETA. Signor presidente, esprimo la mia profonda preoccupazione e l'esigenza di conoscere la posizione italiana sul Governo di emergenza palestinese.
Quanto sta prendendo forma non mi rassicura. Il direttore generale del Ministero, nella sua audizione di questa mattina, ha sottolineato come gli eventi dovrebbero spingere tutti a fare un profondo esame di coscienza, coinvolgendo quindi l'Unione europea, gli Stati Uniti, i componenti del Quartetto e i Paesi dell'area, e come debba essere individuato un percorso per uscire dall'attuale situazione disastrosa, in particolare a Gaza, dovuta al collasso di quanto restava di un processo di pace.
Ciò che è avvenuto deve essere attribuito a chi ha commesso una serie di errori e di atti di omissione. Ritengo che sia stato infatti un grave errore disporre un embargo granitico nei confronti del Governo eletto da Hamas, che avrebbe potuto, con un incoraggiamento e una guida diversi, essere indotto ad un percorso di moderazione. So che tale moderazione sarebbe comunque stata relativa, tuttavia ha rappresentato un errore la decisione di non dialogare a nessuna condizione con questo Governo (mentre abbiamo consentito che le Nazioni Unite parlassero con Hezbollah, partito altrettanto problematico), sapendo che nessuna soluzione per il Libano può prescindere da un coinvolgimento di Hezbollah e nessuna soluzione per la Palestina da un coinvolgimento di Hamas. La strada seguita è stata dunque diversa e ha portato al collasso di tutte le istituzioni statuali della Palestina.
Ora si parla di aiuto umanitario e confido che uno strumento adeguato sia individuato attraverso le Nazioni Unite, ma solo poco tempo fa per Gaza si dibatteva di economia, di sviluppo e di esportazione dei prodotti, mentre ora si cerca solo di rendere la vita meno insopportabile a persone rinchiuse in una sorta di carcere a cielo aperto.
Non credo al sostegno incondizionato ad un Governo di emergenza, che nasce mentre sono in atto sul proprio territorio, in Cisgiordania, comportamenti comparabili a quelli efferati verificatisi a Gaza, quali le rappresaglie contro gli antagonisti politici con venticinque uffici di Hamas distrutti. Le brigate di Alaxa hanno il volto


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coperto e, sebbene lei sottolinei l'attuale divieto, così commettono violenze nelle città della Cisgiordania.
Mi chiedo dunque se seguire l'amministrazione americana, prima sostenitrice di quella politica di ostracismo draconiano imposto anche alle Nazioni Unite, sia una mossa prudente e se non sia possibile ottenere, invece di un sostegno incondizionato, un impegno per la pacificazione e per una ripresa del negoziato sotto l'auspicio dei Paesi confinanti, senza affidarlo ad attori i cui interessi non si limitano alla regione, ma la travalicano.
Il piano di Beirut, in fondo, non era che la riedizione di un piano del 2002 ancora valido, che rappresenta tuttora l'unica strada percorribile; tuttavia, nessuno chiede al Governo israeliano di misurarsi con quanto di implicito è in esso contenuto. Se la costituzione di uno Stato palestinese si basa sulle risoluzioni dell'ONU, che prevedono un ritorno israeliano ai confini del 1967, si deve chiedere - come in questo anno nessuna delle quattro dichiarazioni del Quartetto ha fatto - pieno rispetto anche da parte israeliana degli impegni presi nella Road map. La confisca del gettito fiscale dei palestinesi rappresenta dunque una violazione degli accordi di Oslo. Quei soldi appartenevano ai palestinesi; adesso vengono restituiti troppo tardi, quando lo Stato palestinese non esiste più.
Non solo, perché nella Road map vi era l'impegno scritto di non continuare con gli insediamenti, con la sottrazione di terreni e con la costruzione di quella che pudicamente viene chiamata barriera di separazione. Si è invece continuato senza che si levasse alcun richiamo. Questo è il cosiddetto «facts on the ground»: si sta precostituendo una situazione per cui parlare di Stato palestinese diventa quasi una presa in giro, laddove uno Stato è costituito da cittadini e da un territorio e il territorio sta venendo a mancare.
Mi chiedo se in questa fase non sia possibile agire con maggiore autonomia e prudenza perché «galoppare» verso il pieno riconoscimento di un Governo provvisorio, che non nasce da elezioni e non fornisce garanzie su un ritorno alla piena legalità, potrebbe rappresentare una risposta sbagliata o incompleta ad una situazione estremamente preoccupante.

PIETRO MARCENARO. Anch'io apprezzo la relazione del viceministro Intini, che mi pare si collochi su una linea di continuità con la politica che il Governo italiano da tempo persegue in Medio Oriente in rapporto al conflitto israelo-palestinese. La situazione è notoriamente molto deteriorata e mi permetto di aggiungere solo alcune brevi considerazioni.
La situazione è sempre più complicata e articolata di quanto si pensi e allora il fallimento del Governo di unità nazionale segna anche il fallimento di una dialettica apertasi all'interno della stessa Hamas, nonché il prevalere di forze che hanno contrastato e fatto saltare l'evoluzione della stessa Hamas verso il dialogo e la convivenza.
Se si considera la situazione di Fatah, non emerge solo la sua debolezza militare e organizzativa, ma un'annosa mancanza di coesione che esiste da troppo tempo per non costituire l'indebolimento di un elemento morale, che aveva rappresentato un suo punto di forza in un'altra fase.
La verità è che Fatah non esiste più come forza autonoma, bensì solo quando circostanze, condizioni e soggetti internazionali ne reputino necessaria l'esistenza. Sebbene non per questo sottovalutabile o inutile, Fatah è diventata quasi una variabile esterna alla realtà palestinese, parte di un gioco politico e diplomatico in cui si sono smarriti la rappresentanza e gli elementi che costituiscono per una forza politica, soprattutto qualora intenda fondare uno Stato, le garanzie di un'autonomia necessaria a offrire prospettive. Oggi è questa la situazione di Fatah.
Si rileva inoltre una crisi israeliana profonda come forse mai prima, che emerge non solo come crisi politica, ma anche come difficoltà nell'individuare una soluzione ad una caduta di autorevolezza che mina profondamente la fiducia di Israele in se stessa, condizione necessaria invece per le trattative. In esse infatti è


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fondamentale dimostrare fiducia non solo negli altri, ma anche in se stessi. Anche Israele è un Paese attraversato da una seria crisi morale, come dimostra il numero settimanalmente crescente delle persone che decidono di abbandonarlo. Si è aperto un processo che segnala aspetti di fondo.
In questa situazione non si ravvisano più le condizioni per soluzioni transitorie, come in un certo senso diceva il viceministro, giacché, pur essendo paradossale, l'unico rimedio ad una simile crisi è una soluzione di pace complessiva, che punti ad affrontare e a risolvere tutti i nodi. L'idea che sia possibile traccheggiare con soluzioni transitorie, rinviando i nodi di fondo che devono essere affrontati in un negoziato, si dimostra sempre più illusoria e causa il peggioramento della situazione. Emerge dunque chiaramente l'impossibilità di auspicare una soluzione esclusivamente affidata ad un rapporto diretto tra israeliani e palestinesi, sia pure con la sovrintendenza sostanziale degli Stati Uniti e formale del Quartetto e l'esigenza di individuare una soluzione che veda il dialogo diretto tra le forze in campo ed il coinvolgimento degli Stati della regione, non solo la Siria, ma anche l'Iran.
Ritengo che il Governo italiano abbia adottato una politica avveduta cercando di mantenere rapporti utili (mi dispiace, onorevole Zacchera) non solo a garantire maggiore sicurezza ai contingenti italiani, ma anche a mantenere le condizioni necessarie per giungere alla soluzione di una vicenda così difficile e drammatica attraverso la cooperazione, la trattativa e la partecipazione di diversi soggetti. Anche in questo caso vale infatti il principio secondo cui la pace, fino a prova contraria, deve essere siglata con i nemici.

PRESIDENTE. Vorrei aggiungere alcune considerazioni, sperando che il viceministro Intini possa approfondire questo punto, che considero cruciale. Lei ha effettuato una convincente ricostruzione degli eventi, ma ritengo necessario dire le cose come stanno e chiedersi perché si sia giunti a questo.
È accaduto qualcosa di particolarmente grave, probabilmente non previsto dalla comunità internazionale e dalla stessa Unione europea. Mi riferisco all'esito di una guerra tra le due organizzazioni politiche fondamentali dell'autonomia palestinese, per cui si è giunti addirittura al possesso e al controllo da parte di Hamas della Striscia di Gaza, attraverso efferate violenze paragonabili alle pagine più feroci del Novecento. Sono episodi limitati a quell'area, che però suscitano inquietudine. Si era aperto uno spiraglio per affrontare le questioni di fondo con l'iniziativa dell'Arabia saudita, mentre la piattaforma rilanciata a Riad riprendeva i temi di quella di Beirut, verso la quale, nonostante la nota e antica indisponibilità verso il ritorno dei profughi, anche Israele con Olmert si era dimostrato disponibile a contatti formali con i Paesi arabi promotori.
Cerco di individuare una spiegazione alla scelta di Hamas di giungere alla stretta finale ricorrendo alla violenza. In fondo, infatti, lì si apriva una prospettiva che in buona sostanza riproponeva un terreno di negoziato sui punti pregiudizialmente e settariamente esclusi da Hamas, chiesti per dare vita ad un Governo di unità nazionale, questione poi risolta nell'incontro a Riad.
La situazione evolveva faticosamente verso la ripresa di un negoziato su quella piattaforma che, implicitamente, riconosce Israele nei confini precedenti alla guerra del 1967 e che delinea un assetto di reciproco riconoscimento. La forza della piattaforma di Riad risiedeva infatti nella disponibilità dei Paesi arabi che non l'hanno ancora fatto a riconoscere Israele a condizione che si tratti su tale base.
Ho dunque l'impressione che qualcuno abbia voluto forzare la mano per evitare che si potesse procedere nell'unica direzione ragionevole, su cui la stessa Israele deve muoversi con maggiore disponibilità. Può essere questa la chiave per capire la condotta di Hamas e i motivi per cui la situazione è precipitata così drammaticamente.


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Anche questa mattina, discutendo con il ministro Ragaglini presso le Commissioni riunite esteri e difesa, sono state citate forze esterne interessate a mantenere alti la tensione, le pressioni e gli interessi. Forse si devono individuare le forze esterne interessate a mantenere alta la tensione a Gaza e nella vicenda israelo-palestinese e formulare un giudizio su Iran e Siria.
Ritengo giusta la linea che punta ad un coinvolgimento nella stabilizzazione dell'Iraq, dell'Afghanistan, della Palestina e di altri Paesi. In proposito la nostra pressione è sacrosanta ma qual è esattamente la situazione?
Il drammatico problema attuale del Libano consiste nel recuperare la piena sovranità. A partire dal 1982, dall'invasione di Israele fino ad oggi, il problema irrisolto del Libano è sempre il rapporto con la Siria. Quando si parla della sovranità del Libano, si ripropone questo interrogativo. Dobbiamo quindi considerare tale aspetto, non per rinunciare al coinvolgimento della Siria o ad un suo atteggiamento positivo, bensì per capire le reali motivazioni che hanno indotto Hamas a muoversi così disperatamente. Ignoriamo infatti quale prospettiva possa avere la costruzione di uno Stato islamico a Gaza.
Considero giusto sostenere Abu Mazen, sebbene sia necessario affrontare i problemi umanitari che si porranno a Gaza, giacché un milione e mezzo di persone vive disastrosamente. È tuttavia necessario garantire il sostegno politico ad Abu Mazen, per dimostrare come in Cisgiordania un Governo ispirato alla sua politica possa, con l'aiuto della comunità internazionale e dell'Europa, migliorare le condizioni di vita dei palestinesi, raggiungere obiettivi e combattere la corruzione penetrata in Fatah. È questo a mio avviso il banco di prova per Abu Mazen con cui si deve discutere della costruzione dello Stato palestinese in Cisgiordania, dimostrando come la scelta di una linea equilibrata, moderata e ragionevole porti a risultati per l'obiettivo di fondo di costruire lo Stato palestinese. Israele se ne deve rendere conto.
Resta comunque aperta la ferita di Gaza e ne valuteremo gli sviluppi. Anche la popolazione di Gaza, tuttavia, se in Cisgiordania migliorano le condizioni di vita, potrà rivedere il giudizio espresso su Fatah, critico per tante ragioni, non solo politiche.
Do la parola al viceministro Intini per la replica.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Aggiungerò solo qualche riflessione alla quale mi stimolano gli interventi svolti, largamente condivisibili.
L'onorevole Zacchera giustamente chiede di approfondire la riflessione sui rapporti con la Siria. Ritengo che l'Occidente e l'Europa abbiano molto da offrire e molto da chiedere alla Siria. Infatti, si deve essere disponibili ad offrire un ruolo internazionale, nella consapevolezza che, alla fine di un processo di pace, il Golan appartiene pur sempre alla Siria e ad essa deve essere restituito.
La Siria ha perso il suo vecchio sponsor, l'Unione sovietica, ed evidentemente ne soffre. Gode di appoggio da parte dell'Iran, che però non è in grado di garantire un forte supporto economico in questo momento. Ha un milione di profughi iracheni che costituiscono un enorme problema economico e di ordine pubblico. La sua assenza in Libano ha provocato la perdita di una grande fonte di reddito, perché un milione di siriani, ben pagati, lì lavoravano e da lì inviavano i soldi in patria. È un Paese che tenta di modernizzarsi sul piano dell'economia e di introdurre elementi di mercato, nonché un Paese laico.
Abbiamo dunque molto da offrire alla Siria e allo stesso tempo abbiamo da chiederle due cose molto semplici. Intanto, le si deve chiedere di non intromettersi nelle vicende interne libanesi e considerare il Libano un Paese sovrano. Sappiamo che Siria e Libano facevano parte della stessa provincia ottomana, ma anche l'Austria e l'Italia, pur facendo parte della stessa provincia, sono diventati due Stati assolutamente indipendenti. Inoltre, la Siria deve essere coinvolta lealmente nel


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processo di pace. Questo è il grande negoziato che prima o dopo bisogna tentare, senza alimentare dubbi sulla nostra lealtà nei confronti dell'indipendenza libanese.
L'onorevole Khalil Alì Rashid in modo efficace osserva che il tempo non è galantuomo, per cui emerge l'urgenza, che tutti hanno espresso, di un'azione internazionale per rispondere alla straordinaria drammaticità della situazione.
L'onorevole De Zulueta ci ricorda che forse la comunità internazionale e anche l'Europa potevano impegnarsi maggiormente per cogliere l'occasione costituita dal Governo di unità nazionale. Abbiamo sempre consigliato tale Governo, raccomandando ai nostri amici palestinesi di non cercare una prova di forza e abbiamo plaudito all'accordo della Mecca, che in qualche modo ne consentiva la costituzione. È vero che l'Unione europea ha assunto l'atteggiamento a noi noto, ma è anche vero che aveva al suo interno posizioni diverse, di cui doveva tener conto. Nei giorni del disastro di Gaza, il commissario Benita Ferrero-Waldner mi ha ricordato come l'Unione europea si sia adoperata in favore del Governo di unità nazionale, perché ha trattato con il Ministro degli esteri, con il Ministro dell'economia, con il Ministro della cooperazione, con il Ministro della sanità garantendo un imponente appoggio. L'appoggio in pratica c'è stato. Adesso, a disastro avvenuto, è necessario raccomandare la moderazione, l'unità e il coinvolgimento dei Paesi confinanti.
L'onorevole Marcenaro individua parte della crisi nella situazione interna di Israele. Forse, negli ultimi giorni, è emerso qualche positivo elemento di novità, perché Peres è un Presidente della Repubblica con un certo peso e Barak è pur sempre colui che a Camp David era arrivato ad un passo dalla soluzione. Condivido naturalmente l'esigenza di perseguire accordi non transitori, bensì definitivi, perché la strada dei piccoli passi non porta da nessuna parte; anzi, quando si fa un piccolo passo in avanti, se ne fa subito dopo uno enorme indietro. La questione palestinese è la «madre di tutte le crisi», ma tutte sono strettamente interconnesse l'una con l'altra: le crisi libanese, irachena, palestinese, quella dei rapporti con la Siria, quella del nucleare iraniano e anche in qualche modo quella dell'Afghanistan. Desidero a tale proposito comunicarvi la liberazione di Anefi a Kabul.
Queste crisi, dunque, sono tutte legate, e bisognerà trovare la capacità politica di «prenderle per le corna» insieme, per evitare che la situazione peggiori di giorno in giorno.
Ho poco da osservare sulle considerazioni del presidente Ranieri, perché le condivido pienamente. È infatti necessario interrogarsi sulle motivazioni che hanno portato ad una svolta negativa che ha colto alcuni di sorpresa, anche se non tutti. Infatti, ricordo che il mese scorso, al vertice tra Europa del sud e Paesi mediorientali, il Ministro degli esteri Gheit mi aveva sorpreso, dichiarando apertamente di considerare inevitabile la guerra civile in Palestina, se non si fosse giunti rapidamente ad una ripresa del processo di pace. Purtroppo aveva più che ragione.
Le caratteristiche disperanti di questa crisi mediorientale sono sostanzialmente due. In primo luogo, spesso si arriva a un passo dalla soluzione, come a Camp David o a Riad - che in qualche modo offriva qualche prospettiva di soluzione - per poi tornare indietro, finendo «a carte quarantotto», proprio quando si cominciava ad intravedere la luce. In secondo luogo - tuttavia si tratta di un parere personale e non voglio insistere - da decenni ho sempre avuto l'impressione che tutti i protagonisti della crisi mediorientale sappiano esattamente quale debba essere la soluzione. Lo sanno gli israeliani, i palestinesi e lo sappiamo anche noi, ma manca ancora il coraggio da parte delle leadership di proporre alle proprie opinioni pubbliche un sacrificio per giungere ad un punto di mediazione. È infatti chiaro che per arrivare ad una soluzione e ad un punto di equilibrio qualcuno deve fare qualche sacrificio. Manca il coraggio e quindi, anche se tutti sanno quello che bisogna fare, non lo si fa.


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In un giallo i sospettati di assassinio sono sempre tanti e così accade anche in questa circostanza. È certo che chi mette tradizionalmente in discussione la sovranità del Libano è la Siria, così come gli interessati al precipitare della situazione in Palestina sono coloro che vedono con ostilità la riapertura di un processo di pace, che sino a ieri sembrava a portata di mano.
In conclusione, concordo con il presidente Ranieri sull'esigenza che la comunità internazionale si dimostri generosa sul piano umanitario verso il milione e mezzo di persone che soffrono a Gaza, ma anche politicamente lungimirante nel dimostrare come in Cisgiordania con il Governo di Abu Mazen si apra la possibilità di risolvere i problemi palestinesi alla base, testimoniando come un atteggiamento responsabile sia ricompensato dalla comunità internazionale in termini economici e soprattutto politici, ovvero in termini di pressione su Israele affinché garantisca il proprio contributo per raggiungere un accordo ragionevole.

PRESIDENTE. Ringrazio sentitamente il viceministro Intini.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15.