COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di marted́ 13 novembre 2007


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE UMBERTO RANIERI

La seduta comincia alle 12.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Gianni Vernetti, sulla situazione in Pakistan.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento, l'audizione del sottosegretario per gli affari esteri Gianni Vernetti, sulla situazione in Pakistan.
Do la parola al sottosegretario per un intervento introduttivo, cui seguirà uno scambio di idee su questa centrale questione.

GIANNI VERNETTI, Sottosegretario per gli affari esteri. Signor presidente, desidero innanzitutto ringraziarla per l'opportunità che mi viene offerta.
Immagino che avrete avuto occasione di leggere sui quotidiani di questa mattina le notizie delle ultime ore, di cui avrete avuto conferma dalle ultime agenzie; tali notizie attestano che la situazione in Pakistan è estremamente confusa e non tende ad un miglioramento. La stessa conferma del provvedimento di arresti domiciliari ai quali è stata posta l'ex Primo ministro Benazir Bhutto, uno dei leader dell'opposizione pachistana, contribuisce ovviamente a creare un clima di tensione, di incertezza e di grande preoccupazione.
Vi comunico un'ulteriore notizia, sempre di queste ultime ore: il Ministro degli affari esteri britannico, David Miliband, insieme ai colleghi del Commonwealth ha rivolto un appello particolarmente energico nei confronti del Presidente Musharraf per la fine dello stato di emergenza, per il rilascio dei prigionieri - politici, ma anche di altra natura, come esponenti della società civile e del movimento degli avvocati - ed ha reiterato la richiesta di indire immediatamente elezioni democratiche.
Ho preferito iniziare il mio intervento fornendovi alcuni elementi di aggiornamento relativi a questa mattina. Per rendere il più possibile esaustiva l'audizione odierna, articolerò il mio intervento su tre punti che considero rilevanti. Inizierò con una breve premessa sull'importanza strategica del Pakistan e sugli eventi che hanno determinato l'attuale situazione; in secondo luogo, farò una breve analisi sulle reazioni e sulle posizioni italiane, europee e della comunità internazionale, soprattutto in seguito alla proclamazione dello stato di emergenza; infine, farò un esame dei possibili scenari futuri.
Innanzitutto, eccovi alcuni dati: il Pakistan è la settima nazione più popolata al mondo ed è il secondo Paese islamico, dopo l'Indonesia. Negli anni, si è rivelato sempre più un Paese di cruciale importanza. Il pensiero ovvio e immediato corre all'Afghanistan, Paese con il quale il Pakistan condivide una lunga e porosa frontiera, relazioni tribali, affinità etniche con una parte rilevante di quella popolazione e decenni di reciproche interferenze.


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Penso anche al tema, più generale, della stabilità del subcontinente indiano e dell'Asia meridionale e dunque alle relazioni con l'India. Lo stato di tensione con la Repubblica Indiana, il processo di riarmo, la dotazione di armamenti nucleari da parte di entrambi i Paesi e il conflitto in Kashmir rendono ancor di più il Pakistan un soggetto di grandissima importanza per la stabilità regionale e internazionale.
Il Pakistan è indubbiamente un Paese che, in questi anni, ha goduto di un forte sostegno internazionale, non solo dopo gli eventi dell'11 settembre, ma anche prima di tale data. Inoltre, ha prodotto sforzi per riformare e modernizzare il proprio sistema economico e politico.
In particolare, dopo l'11 settembre l'intera comunità internazionale ha cercato di incoraggiare il cammino del Pakistan verso la trasformazione in un Paese musulmano moderato e ha tentato con numerosissime azioni di aumentare l'engagement, l'inclusione, il coinvolgimento di Islamabad sui temi del contrasto al terrorismo, del traffico di droga e della proliferazione nucleare.
Non c'è dubbio che in questi anni il presidente Musharraf ha svolto un ruolo cruciale in Pakistan. Musharraf è un generale golpista che nel 1999 ha preso il potere in un Paese isolato dalle sanzioni internazionali, imposte dopo i test nucleari dell'anno precedente. quando il Pakistan era sostanzialmente sull'orlo della crisi, del crack, della bancarotta economica. Si trattò, quindi, di un golpe, che fu ovviamente fortemente criticato dalla comunità internazionale; tuttavia Musharraf con le elezioni del 2002 tentò di avviare un graduale processo di democratizzazione, accompagnato da alcune riforme economiche e sociali sostenute dalla comunità internazionale.
Tra il 2002 e oggi questo Paese ha visto consolidarsi forme di organizzazione della società civile, inedite fino agli anni precedenti; lo stesso movimento degli avvocati in questo senso è un segnale interessante. C'è stato un graduale miglioramento delle libertà fondamentali, a cominciare dallo sviluppo tumultuoso dei mezzi televisivi degli ultimi cinque o sei anni. Mentre, infatti, alla fine degli anni Novanta esistevano soltanto un paio di quotidiani e una tv di Stato, recentemente ha preso piede una forte stagione di libertà di stampa, oggi nuovamente e duramente repressa dopo le dichiarazioni dello stato di emergenza. In ogni caso, si tratta di una fase positiva, con una società civile attiva grazie alla quale sono nati movimenti per i diritti delle donne, delle minoranze etniche e della popolazione rurale. Il Pakistan è un Paese che, all'interno del quadro fortemente contraddittorio che prima disegnavo, è stato caratterizzato da fatti estremamente positivi di cui va tenuto conto, ovvero la nascita di una società civile consolidata.
Questo cammino è costantemente messo in crisi dall'instabilità strutturale di questo Paese. Penso al tema dell'integralismo islamico, come nel caso del Waziristan del nord e del sud, due regioni autonome che oggi hanno raggiunto un livello di quasi statualità. Il Governo di Musharraf tentò a più riprese di giungere ad una forma di accordo con queste aree, ancora fortemente governate da sistemi tribali in forma di clan, chiedendo alle tribù una collaborazione nel contrasto al terrorismo in cambio di una cessione di sovranità, non totale ovviamente, ma rilevante. Si tratta di esperimenti che non giudichiamo positivamente e che consideriamo sostanzialmente falliti.
La collaborazione con il Pakistan è sempre stata molto positiva, soprattutto in questi ultimi due anni. Abbiamo svolto alcune visite di alto livello con il Ministro D'Alema e anche con altri esponenti del Governo. In questi recenti incontri abbiamo, in quasi tutti i casi, consolidato il rapporto con questo Paese attraverso una politica e un approccio di inclusione per tutti i motivi prima detti. Stando alla valutazione di questi anni, sarebbe stato un grave errore lasciare solo questo Paese nella lotta contro l'integralismo, abbandonandolo alla deriva nazionalista antiindiana. Sarebbe stato un gravissimo errore.
Vi faccio alcuni esempi: durante la mia missione abbiamo firmato un significativo


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accordo di conversione del debito bilaterale, liberando risorse per lo sviluppo delle aree tribali più povere del Pakistan, in particolare al confine con l'Afghanistan. Inoltre, abbiamo promosso un importante accordo di cooperazione scientifica, universitaria e di ricerca tra un consorzio di università italiane e il Ministero dell'educazione pachistana, per aprire nei prossimi anni, con un fortissimo investimento del Governo pachistano, un grande campus italo-pachistano a Karachi, capace di ospitare 40 mila studenti.
Desidero fare alcune altre brevi considerazioni. In Pakistan c'è il problema rilevante delle minoranze etniche; penso alle aree tribali del Baluchistan nelle quali, accanto alle attività di Al Qaeda e dell'estremismo islamico - in particolare alla frontiera afghano-pachistana - si muovono rivendicazioni e spinte autonomistiche, spesso sostenute dalla lotta armata.
Con l'avvicinarsi della scadenza elettorale di fine anno è aumentata la critica, da parte della Corte suprema e di rilevanti settori dell'opinione pubblica, circa la possibilità per Musharraf di mantenere il doppio incarico di Capo dello Stato e comandante delle forze armate. Questo è un altro tema che suscita preoccupazione nella comunità internazionale. Anziché tentare di risolvere positivamente questa situazione, il Presidente Musharraf ha sostanzialmente tentato la rimozione del presidente della Corte suprema, Iftikhar Muhammad Chaudhry, causando lo sdegno e le reazioni che hanno portato alla mobilitazione popolare e all'apertura di una forte crisi istituzionale. La crisi si è aperta con la sospensione di Chaudhry ed ha dominato per diverse settimane il dibattito politico; ad un certo momento è sembrata passare in secondo piano a causa dell'emergere della vicenda della Moschea rossa di Islamabad - luogo simbolo delle componenti più radicali pachistane -, risolta peraltro con una sanguinosa repressione.
Allo stesso tempo forti pressioni internazionali chiedevano a Musharraf di eliminare l'utilizzo del doppio standard nei confronti degli oppositori: da un lato, ricorreva a maniere forti contro i partiti tradizionali e la società civile; dall'altro, in alcuni casi, mostrava eccessiva indulgenza nei confronti delle madrasse e dei fondamentalisti. Si tratta di un altro tema su cui è utile e necessaria una riflessione. Molti contestano al presidente Musharraf questo doppio comportamento: da un lato, la durissima repressione nei confronti di Benazir Bhutto - da poco rientrata nel Paese - dei movimenti della società civile, dei movimenti degli avvocati, e dei movimenti laici; dall'altro, la ricerca costante di intesa e di appeasement nei confronti dei movimenti integralisti. Se pensiamo anche alla sorte tributata all'ex Primo ministro Nawaz Sharif, che il 20 luglio scorso è stato arrestato mentre tentava di rientrare in Pakistan e successivamente deportato in Arabia Saudita, il quadro si completa.
Vi ho illustrato, quindi, la situazione che ha preceduto i fatti delle ultime settimane. Per tutta l'estate si sono susseguiti i contatti tra Musharraf e Benazir Bhutto. Lo stesso approssimarsi della scadenza dell'incarico presidenziale ha indotto il Presidente a tentare ad ottobre una sua ricandidatura, contraddicendo pesantemente il dettato costituzionale. Mentre da un lato, quindi, ha messo in cantiere questa iniziativa fortemente anticostituzionale, dall'altro ha varato la cosiddetta national reconciliation ordinance, con la quale venivano sostanzialmente amnistiati tutti i reati contestati a Benazir Bhutto, con un gesto considerato di apertura. I reati contestati alla Bhutto risalivano a vari capi di imputazione aperti nei suoi confronti dalla magistratura pachistana negli anni Novanta; sostanzialmente si trattava di reati amministrativi - contestati anche dalla comunità internazionale - equiparabili, per fare un esempio, al nostro finanziamento illecito ai partiti. Tale contesto favorevole lasciava presagire l'apertura di una fase positiva che avrebbe portato al rientro di Benazir Bhutto, come poi avvenuto immediatamente dopo l'estate.
Contemporaneamente, sempre nel mese di settembre, ci sono state alcune sconfitte


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delle forze armate pachistane ad opera di militanti islamisti nelle aree tribali e nordoccidentali del Paese. Il Governo pachistano ha quindi subìto una serie di sconfitte militari, con la perdita del controllo su fasce rilevanti di territorio. Questo è avvenuto sia nell'area dello Swat che nella North-West Frontier Province (NWFP), zona a ridosso del Khyber Pass, nelle zone più a sud, sempre al confine con l'Afghanistan. Sono ripresi inoltre gli attentati terroristici in diverse parti del Paese, connessi sostanzialmente all'insorgenza talebana e di Al Qaeda.
In questo contesto è avvenuto il rientro di Benazir Bhutto, negoziato col Governo pachistano, il quale aveva offerto piene garanzie sulla riapertura di un processo di dialogo e di riconciliazione nazionale. La stessa Benazir Bhutto, nelle settimane precedenti al suo rientro, ha dato conto di un dialogo molto stretto che, purtroppo, non è avvenuto secondo le aspettative previste. La strage del 18 ottobre, nella quale più di 150 sostenitori del partito di Benazir Bhutto sono stati uccisi in un attentato suicida nelle strade di Karachi, è stata forse il caso più eclatante della rottura degli equilibri.
In data 3 novembre il Presidente Musharraf ha proclamato lo stato di emergenza, motivandolo sostanzialmente come una risposta necessaria all'instabilità, agli attentati e alla crisi nel Paese. Questo stato di emergenza è stato interpretato da alcuni osservatori internazionali come una sorta di golpe e, oggettivamente, si è trattato di qualcosa di più che una semplice dichiarazione di stato di emergenza. Sono state sospese, infatti, alcune garanzie costituzionali, quali la libertà di movimento, di associazione e di stampa; inoltre, sono stati rimossi e sostituiti tutti i vertici della Corte suprema. A differenza di quanto accadde nel 1999, non sono stati sciolti Governo e Parlamento; tuttavia, se dovessimo definire la durezza di questo provvedimento, quello che sta succedendo è quanto di più simile ad un colpo di Stato, con una sostanziale sospensione delle libertà fondamentali e la proclamazione dello stato di emergenza. Il mancato scioglimento di Governo e Parlamento ha fatto sì che il Primo ministro, Shaukat Aziz, abbia svolto un ruolo ancora in queste settimane.
A mio giudizio sono molto gravi i provvedimenti restrittivi contro la stampa e gli arresti di numerosissimi - circa un centinaio - esponenti dell'opposizione, di giudici, di avvocati, di giornalisti e di attivisti impegnati in organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Lo stesso alternarsi degli arresti domiciliari cui Benazir Bhutto viene sottoposta è indicativo del clima estremamente grave che oggi connota ancora l'intero Paese.
La situazione, dunque, a quindici giorni dalla proclamazione dello stato di emergenza, rimane sostanzialmente fluida e ritengo che le relazioni internazionali messe in atto dalla comunità internazionale siano corrette.
Vorrei solo ricordare che, per quanto riguarda l'Italia, il Ministro degli affari esteri, Massimo D'Alema, il giorno dopo la proclamazione dello stato di emergenza ha espresso profonda preoccupazione con nota formale, chiedendo a nome del Governo italiano il ripristino delle condizioni per l'esercizio dei diritti civili e politici, la libertà dei detenuti arrestati durante le manifestazioni e l'indizione di elezioni democratiche. Abbiamo dato indicazione al nostro ambasciatore di Islamabad di stabilire immediati contatti non solo con le autorità di Governo, ma anche con i partiti di opposizione e così è avvenuto. Oggi teniamo un costante contatto, ovviamente col Governo ma anche con i principali esponenti dell'opposizione, a cominciare dalla leader del Partito popolare pachistano, Benazir Bhutto. La posizione italiana è sostanzialmente simile a quella assunta dall'Unione europea, che ha peraltro rinviato una missione della trójka e ribadito le stesse posizioni.
Gli sviluppi nelle prossime settimane saranno ovviamente decisivi. Il Governo italiano rimane impegnato e segue quotidianamente con attenzione la situazione in Pakistan insieme ai partner europei. Vi confermo il nostro duplice obiettivo: da un lato, essere fermi e intransigenti nella


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denuncia e nella richiesta di ripristino dei diritti e di condizioni di agibilità politica per l'opposizione democratica; dall'altro, continuiamo a ritenere che il Pakistan sia un Paese chiave, un attore cruciale per la stabilità regionale, sia sul fronte della lotta al terrorismo, sia per la stabilizzazione dell'Afghanistan, sia per la riduzione della tensione con l'India. Riteniamo, quindi, che si possa ancora tentare una forte politica di engagement, includendo il Pakistan nella comunità internazionale, ovviamente senza rinunciare alla forte, dura e costante critica per favorire un dialogo fra Governo e opposizione democratica.
L'Italia, insieme all'UE, è disponibile anche a ragionare e qualche ipotesi è stata messa in cantiere a proposito di eventuali e più concrete misure di pressione politica ed economica su Islamabad. Non siamo ancora, oggi, a quello stadio, ma non mi sento di escludere che non vi si arrivi nel corso delle prossime settimane. Come dicevo, abbiamo tenuto un atteggiamento di forte critica da un lato, mentre dall'altro abbiamo voluto tenere aperto un canale di dialogo proprio perché consideriamo quel Paese un attore veramente cruciale.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

DARIO RIVOLTA. Desidero ringraziarla, signor sottosegretario, per la relazione svolta e rivolgerle alcune domande.
Lei ha fatto cenno al rientro dell'ex Premier, signora Bhutto. Questa notizia era sembrata, a lettori forse non sufficientemente documentati, un rafforzamento del potere di Musharraf a seguito di un possibile accordo fra lui e la Bhutto - che sembrava sicuro nel momento in cui era stato consentito il rientro della ex Premier - per combattere l'integralismo islamico e le contestazioni, anche di piazza, che stavano montando in misura crescente nel Paese. Lettori forse superficiali, come il sottoscritto, avevano supposto che alle spalle vi fosse un accordo con gli Stati Uniti - sponsor, almeno apparenti, della Bhutto e contemporaneamente di Musharraf - e che il Paese non sarebbe ulteriormente scivolato verso i disordini. Questo non è evidentemente avvenuto e le chiedo se ne abbia notizia.
Secondo questa valutazione - e non ero l'unico a farla! - qualcuno ha sbagliato. Le chiedo: ho sbagliato io? Hanno sbagliato altri osservatori internazionali? C'è stata superficialità da parte dei servizi di informazione dei vari Paesi coinvolti, che avevano previsto fatti che non si sono poi verificati? Ci sono sospetti su chi possa aver organizzato l'attentato alla Bhutto, appena tornata nel Paese? Abbiamo notizie di accordi bilaterali tra i due leader, presi prima che la Bhutto arrivasse?
In secondo luogo, nella sua prolusione lei ha detto che, a conclusione del suo intervento, avrebbe parlato degli scenari possibili. In realtà non li ho sentiti. È in grado di farci una descrizione delle possibili evoluzioni alternative?
Infine, le segnalo che in Italia risiede una persona, ex figura istituzionale, che ha da molti anni familiari rapporti di amicizia con il Presidente Musharraf. Mi riservo di fare il nome di questa persona, qualora potesse servire al nostro Ministero degli affari esteri e si ritenesse utile per intraprendere rapporti o contatti informali con il Presidente Musharraf, nell'ambito di qualunque azione ipotizzata dall'Italia o dall'Unione europea.

TANA DE ZULUETA. Ringrazio il rappresentante del Governo, sottosegretario Vernetti, per questo tempestivo aggiornamento. Condivido la preoccupazione da lui espressa; ho avuto occasione di visitare il Pakistan un anno fa - proprio la North-West Frontier Province - e di parlare con il governatore di Peshawar a proposito di quell'accordo con le tribù. Egli stesso era estremamente cauto circa una soluzione ottimale. Ho avuto l'occasione di incontrare alcuni politici a Islamabad e credo che il Pakistan, al di là della volontà dei propri dirigenti, sia il Paese più pericoloso del mondo, per se stesso e per gli altri. L'aspetto più preoccupante, anche ascoltando il Governo, è che ci troviamo in una


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situazione in cui le opzioni che si aprono all'Europa, all'Italia e al resto del mondo sono tutte piuttosto negative. Non esiste un'opzione positiva, o almeno questo è quello che lei, signor sottosegretario, ci ha lasciato intravedere.
Il contesto da lei descritto è tale che le stesse forze armate pachistane non riescono più a controllare non solo i territori che da sempre sono stati lasciati all'autogoverno, ovvero le tribal agencies, ma anche le province dello stesso Paese, come Swat, che era una zona turistica. Proprio in queste settimane - lei ha utilizzato la parola corretta - ci sono state delle sconfitte militari: soldati presi come prigionieri, scambi di prigionieri, rilascio di combattenti talebani a fronte del rilascio di soldati. La situazione, dunque, è gravemente compromessa.
Giudico come un errore la scelta, degli Stati Uniti in primo luogo ma anche dell'Europa, di acconsentire alla gestione Musharraf che, come lei ha detto, era basata su una certa doppiezza. Musharraf gode di un finanziamento statunitense senza precedenti: 11 miliardi di dollari - di cui la metà per spese militari - elargiti senza alcun controllo, alcuna accountability, alcuna transparency sulla correttezza e l'efficacia di tale spesa. Noi stessi non siamo in grado di controllare, ad esempio, la qualità della spesa dei progetti di sviluppo nella zona North-West Frontier Province, in cui operiamo. Inoltre, in questi anni, nonostante questi colossali finanziamenti non è migliorata la situazione dell'offerta scolastica, ma è stato permesso il moltiplicarsi e il consolidarsi della rete delle madrasse. Sono stati appeased - ha detto bene - i partiti fondamentalisti, perché erano alleati del Presidente Musharraf contro i due grandi partiti di massa, relativamente democratici, esistenti, i cui due leader sono stati cacciati dal Paese.
Personalmente condivido la definizione della stampa, secondo la quale questo è il secondo colpo di stato del generale Musharraf, il cosiddetto second coup. Lei ha detto che non siamo ancora a questo punto, ma quale potrebbe essere l'opzione politica più severa che potrebbe rivelarsi necessaria? Forse durante la sua esposizione mi sono distratta un attimo.
L'amministrazione statunitense ha rivolto un forte richiamo e la minaccia di tagliare i fondi se il generale Musharraf non darà seguito alla promessa di porre fine allo stato di emergenza, di ripristinare le libertà fondamentali prima esistenti, con una stampa libera, e soprattutto di rilasciare i prigionieri politici, arrestati recentemente.
Ritengo che con grande coerenza, insieme all'Europa, al Commonwealth e agli Stati Uniti dobbiamo insistere su un percorso che porti allo svolgimento di elezioni e ad un cambio di Governo. Il generale Musharraf ha fatto quel colpo di Stato non per salvare il Paese, ma se stesso, e il prezzo per la stabilità dell'area è troppo alto. Dobbiamo imboccare una strada che con forza ripristini qualcosa di più somigliante ad uno Stato di diritto.

GIANNI FARINA. Condivido fortemente le espressioni usate dal sottosegretario Vernetti in riferimento all'attuale situazione in Pakistan e vorrei, se ho ben capito, esprimere tale situazione con una sintesi: fermezza e apertura. Fermezza nel difendere le conquiste democratiche, seppur limitate alla situazione reale di quel Paese, e, allo stesso tempo, consapevolezza della drammaticità della situazione: metà del Paese sfugge al controllo dall'autorità centrale. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che Afghanistan e Pakistan rappresentano due facce della stessa medaglia: non si risolve la questione afghana se non si consolida un potere civile e sufficientemente democratico in Pakistan, se non si ricostruisce un minimo di sicurezza e di controllo del territorio.
Sono estremamente preoccupato - in questo senso condivido l'espressione utilizzata dall'onorevole De Zulueta - dalla pericolosità di quel Paese; proprio perché si tratta di un Paese pericoloso, bisogna stare attenti. La principale e più drammatica questione è quella del nucleare, che non può che preoccupare tutti noi. Colgo, anzi, l'occasione per chiedere al sottosegretario


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Vernetti se sia a conoscenza di qualche notizia che ci rassicuri sul controllo delle armi nucleari in quel Paese. L'eventualità di un loro utilizzo mi preoccupa profondamente.
Sebbene ritenga che l'Italia stia operando molto bene, ancora una volta riscontro un'azione insufficiente a livello di Unione europea. Manca anche in questo frangente il ruolo dell'Europa in quanto tale, in quanto potenza economica e politica - stavo per dire anche militare, ma questo è un altro discorso - e, quindi, potenza di pace che può svolgere nella regione un'azione estremamente importante. Anche su questo tema, mi appello al sottosegretario affinché, anche in sede europea, si prenda coscienza di questo.
Personalmente ritengo che il ritorno di Benazir Bhutto, indipendentemente dagli avvenimenti di questi giorni, sia ad ogni modo un evento positivo. Il fatto che venga difesa nel suo stesso Paese - pur nell'ambito di limitazioni per noi sicuramente inaccettabili - può aprire la strada ad una speranza per il ristabilimento e il consolidamento delle norme civili e politiche. A mio avviso la questione del Pakistan è strettamente e direttamente legata a quella afghana; se, pur nei limiti della situazione reale, non si risolve positivamente la questione del Pakistan, non si risolverà nemmeno quella afghana, che versa in condizioni di estrema criticità e che desta tutta la nostra preoccupazione.

ALÌ RASHID KHALIL. Anch'io condivido la preoccupazione del sottosegretario, espressa anche dal nostro Governo e dal Ministro degli esteri, rispetto all'involuzione della situazione in Pakistan e, soprattutto, alla dichiarazione dello stato di emergenza da parte del presidente Musharraf.
È difficile capire quel che sta avvenendo oggi in Pakistan, se non lo si collega con la scelta dell'amministrazione americana di usare la guerra come unico strumento di dialogo con una larga parte del mondo. In modo particolare tale atteggiamento assume spesso un carattere razzista nei confronti dell'Islam e dei popoli che praticano questa religione. Temo che il mondo e la comunità internazionale saranno sempre costretti a correggere gli sbagli di una guerra con un'altra guerra, all'infinito.
In Pakistan, sin dalla scissione dall'India la religione rappresentava l'unico elemento che cementava la popolazione e dava un'identità allo Stato. L'alleanza strategica tra Arabia Saudita, Stati Uniti d'America e Pakistan, alla base della guerra contro l'occupazione sovietica, ha dato risultati oggi veramente difficili da correggere, anche rispetto alle preoccupazioni di rivolta e alle loro possibili conseguenze.
Personalmente ho una sola chiave di lettura dell'odierno comportamento del Presidente pachistano: Musharraf sente di essere usato e strumentalizzato dagli americani, anche nella guerra contro le organizzazioni islamiche a carattere talebano in Pakistan, e teme di essere «scaricato» a favore di Benazir Bhutto; per questo motivo vuole mantenere la presidenza della repubblica e la guida dell'esercito. Tutti i cambiamenti in Pakistan sono avvenuti attraverso un colpo di Stato; non conosco alcuna legislatura, anche eletta democraticamente, che non abbia terminato il suo mandato attraverso un colpo di Stato. Pertanto, condivido le preoccupazioni del nostro Governo e chiedo altresì di prendere le distanze dalla politica degli Stati Uniti d'America, che stanno pensando ad altre guerre.
Quali possono essere le conseguenze? Cito un'altro esempio della storia di quella parte del mondo, ovvero l'Iran, utilizzato per molti anni, nel corso della guerra fredda, come argine per impedire l'espansionismo comunista, mettendo fuorilegge tutti gli spazi di associazione libera, di partiti, uccidendo la politica e la democrazia. Il risultato è stata la rivoluzione khomeinista e temo che in Pakistan accadrà la stessa cosa: l'Islam di matrice sunnita è veramente fondamentalista, mentre lo sciismo non può essere così definito in quanto molto più articolato.


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Forse, diversificando il ruolo dell'Italia rispetto agli Stati Uniti, riusciamo a svolgere un ruolo più attivo e proficuo.

PATRIZIA PAOLETTI TANGHERONI. Il sottosegretario ha parlato di una forte, dura e costante critica. Mi chiedo come questo si coniughi con l'esito della sua missione, che ha portato cooperazione, riduzioni di debito e cooperazione universitaria. Forse sarebbe stato meglio soprassedere o, meglio, procedere ma con un minimo di condizionalità.

CLAUDIO AZZOLINI. La mia osservazione si coniuga con quella dell'onorevole Paoletti Tangheroni. Infatti, il comportamento dei Paesi Bassi va nella direzione sottolineata dalla collega e costituisce decisamente un intervento più pregnante rispetto a quello degli Stati Uniti che, in concreto, rivolgono minacce senza tuttavia assumere comportamenti conseguenti.

PRESIDENTE. Do la parola al sottosegretario Vernetti per la replica.

GIANNI VERNETTI, Sottosegretario per gli affari esteri. Giustamente l'onorevole De Zulueta ha sottolineato che si tratta del secondo colpo di Stato di Musharraf. Ciascuno può graduare la gravità di provvedimenti, ma sostanzialmente si tratta di quella cosa lì. Tuttavia, la sola fermezza in questo caso non è assolutamente adeguata.
Potremmo anche pensare all'atteggiamento tenuto nei confronti di altri due Paesi, Birmania e Corea del nord, dove abbiamo adottato e stiamo adottando - in Birmania, attualmente - misure molto dure che perseguono l'obiettivo del loro isolamento. Il caso del Pakistan è, da questo punto di vista, profondamente differente; la fermezza e la spinta all'isolamento, infatti, lo trasformerebbero in un pericolo tale da produrre effetti non desiderati. Le motivazioni le ho ricordate: si tratta del settimo Paese del mondo, il secondo Paese musulmano, una potenza dotata di un efficiente sistema nucleare militare, strettamente controllato, per quanto ci risulta dalle informazioni in nostro possesso, da chi detiene il potere. Questo stretto controllo costituisce in un certo di senso un elemento di «garanzia». Il rischio, da questo punto di vista, è infatti la proliferazione nucleare e quindi ritengo che questo atteggiamento sia corretto.
Per rispondere alle ultime considerazioni degli onorevoli Paoletti Tangheroni e Azzolini, in primo luogo occorre collocare nel proprio contesto la nostra azione di un anno fa. Mi riferisco all'iniziativa diplomatica del novembre 2006, quando siamo andati in Pakistan con una seconda tranche di aiuti umanitari per la ricostruzione delle zone colpite dal terremoto nel nord del Paese - se ricordate, fu inviata anche una missione NATO con soldati italiani per la gestione dell'emergenza -, la riconversione del debito, il debt swap, ovvero la riconversione verso progetti localizzati nelle aree più povere, in quelle tribali e di frontiera, esattamente secondo la stessa logica.
L'accordo di cooperazione interuniversitaria è stato fatto con quello spirito. Peraltro, quell'accordo non prevede solo la costruzione di un grande campus a Karachi per 40 mila studenti - nel quale l'Italia avrà rettore, vicerettore e 20 per cento del corpo docente per vent'anni - ma anche l'accoglimento in Italia di 500 studenti pachistani all'anno, da formare presso le facoltà tecniche e, soprattutto, una quota molto importante di PhD, cioè di educazione post-universitaria. Si tratta di provvedimenti che difendo in blocco. Non c'è dubbio che oggi non faremmo quella missione e non firmeremmo quegli accordi; tuttavia, nel novembre 2006 erano provvedimenti giusti, che avevano, peraltro, un certo impatto economico.
Noi dobbiamo continuare a monitorare la situazione. La parte di intervento che forse l'onorevole De Zulueta non ha sentito era riferita a possibili sanzioni economiche. A questa ipotesi hanno accennato anche i britannici, ma non siamo ancora arrivati a quel punto; siamo ancora in una fase che, per quanto grave, giudichiamo interlocutoria e molto instabile, ma comunque ancora capace di produrre un certo processo. Ci attendiamo che vengano


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ripristinate le garanzie costituzionali, che venga definitivamente garantita agibilità politica a Benazir Bhutto e agli oppositori democratici e che vengano indette nuove elezioni, ad horas; ci attendiamo l'indizione di nuove elezioni nei prossimi giorni o nelle prossime settimane. La verifica sulla bontà della strategia italiana, europea e internazionale arriverà in seguito.
Come ho già detto, stando alle informazioni in possesso della comunità e dell'intelligence, il nucleare è saldamente nelle mani dell'esercito e del Presidente Musharraf; non si corre, dunque, alcun rischio.
Si parlava anche della diversificazione dell'Italia dagli USA. Innanzitutto dobbiamo fare le debite proporzioni fra il nostro rapporto con il Pakistan e la cooperazione economica, politica e militare tra Stati Uniti d'America e Pakistan. L'onorevole De Zulueta ha citato in proposito alcuni dati; se non erro, tale cifra rientra nell'ordine di un miliardo di dollari all'anno, con una somma totale di trasferimenti che negli ultimi anni credo abbia superato i 10-12 miliardi di dollari. Per quanto ci riguarda, non ho a disposizione i dati precisi in questo momento, ma si stanno trasferendo 600 milioni di euro l'anno; il pacchetto di cui vi ho parlato, che per noi era una tantum, ha raggiunto i 60 milioni di euro. Per l'Italia si tratta certo di una somma rilevante, ma il contesto propone cifre ben diverse. In ogni caso, la cooperazione interuniversitaria produrrà di certo qualcosa di positivo in futuro.
Vorrei rispondere ad alcune brevi considerazioni sugli Stati Uniti d'America. In particolare l'onorevole Rivolta chiedeva quale sia il giudizio dell'Italia e se non abbiamo colto anche noi una sorta di consenso. Ovviamente ho rapporti con il mio omologo americano, l'assistant secretary of State for southern and central Asia, Richard Boucher; pertanto, posso dire che gli Stati Uniti d'America sostengono, come noi, il processo democratico. Hanno pubblicamente sostenuto le azioni di dialogo tra Benazir Bhutto, all'epoca in esilio tra Dubai e Londra, e il Governo pachistano. Anzi, in tal senso si sono pubblicamente pronunciati per un rientro della Bhutto, come ha fatto l'Unione europea.
È evidente che la situazione, così come l'abbiamo descritta, presenta numerosi fattori imprevedibili. Ovviamente non posso parlare a nome del Governo degli Stati Uniti, ma stiamo comunque parlando di un Paese normale, con normali capacità di previsione e di intelligence e quindi anche per loro l'azione politica è condizionata da una componente aleatoria. D'altronde, sia il Governo italiano che l'Unione europea hanno chiesto il rientro di Benazir Bhutto e non potevano prevedere il pauroso attentato, avvenuto durante la sua prima manifestazione pubblica e costato la vita a 150 persone; non eravamo in grado di prevedere una tale crescita dell'insorgenza talebana né la morte di decine di soldati pachistani. Peraltro, questo è stato uno degli argomenti usati da Musharraf in modo strumentale per dichiarare lo stato di emergenza. Non era prevedibile un tale grado di insorgenza integralista.
Credo che gli Stati Uniti d'America, come Paese democratico, possano avere margini di errore nelle proprie valutazioni. Ritengo che lo scenario possibile sia quello di monitorare la situazione nell'ambito di un atteggiamento fermo, ma aperto al dialogo. Con il lavoro di tutti i nostri canali diplomatici in sede bilaterale - e multilaterale, insieme all'Unione europea - auspichiamo di far concludere il più rapidamente possibile lo stato di emergenza e di far indire nuove elezioni. Siamo ovviamente disponibili ad ogni forma di monitoraggio, di supporto e di sostegno ad un processo democratico e ad elezioni democratiche e intensificheremo la nostra azione diplomatica.
Abbiamo parlato pochissimo dei rapporti con l'India, ancora lungi dall'essere stabilizzati. Ad esempio, riteniamo che, anche in questo momento di difficoltà, l'India potrebbe svolgere un ruolo positivo per l'apertura di un processo di stabilizzazione della propria frontiera. È evidente che il Pakistan non può gestire contemporaneamente


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ampie aree senza controllo e in mano ai talebani, l'instabilità ai confini con l'Afghanistan, l'instabilità interna per le minoranze etniche in Baluchistan e per il conflitto con l'opposizione democratica laica, il conflitto non risolto con l'India. Considerati questi fattori, non è da escludere la possibilità che il Paese imploda, eventualità da evitare assolutamente. La sua implosione, a causa delle dimensioni e della collocazione geopolitica, sarebbe un fatto di enorme gravità e la comunità internazionale non può correre questo rischio.

PRESIDENTE. Ringrazio il sottosegretario Vernetti. Torneremo su questa complessa e drammatica situazione, sperando che la capacità di previsione dell'intelligence occidentale migliori; altrimenti saremo davvero nei pasticci.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 12,55.